EDGARDO BELLINI | Quando penso ai fenomeni teatrali del nostro tempo ho quasi sempre la tentazione di ripartirli in due grandi categorie funzionali: quella di un teatro ricreativo, pulito, generalmente “grande” e spesso imprenditoriale; e quella di un teatro imprevedibile, sporco, di solito “piccolo” ed economicamente poco vantaggioso. Naturalmente mi rendo conto che una simile classificazione è troppo rigida e astratta, e che buona parte del teatro reale può legittimamente oscillare fra le due possibilità.
Eppure il modellino non è del tutto campato in aria, se tornando da certe esperienze teatrali resta la sensazione di aver assistito a un paio d’ore di televisione dal vivo, mentre in altre occasioni la presenza in carne dell’attore suscita l’inatteso, o la parola squilibrata fa combaciare il piacere e il disagio. In quest’ultimo senso l’esperienza teatrale chiede allo spettatore una presenza attiva e reattiva; e solo in questo caso il teatro resta un fenomeno a sé stante, che resiste alla dimensione individuale e passiva della televisione, delle serie sui canali a pagamento, del cinema.
Il teatro di prossimità è quello in cui, almeno simbolicamente, attore e spettatore respirano la stessa aria; e il fenomeno teatrale si fa esperienza collettiva, rituale, incarnata nell’attimo.
Il Festival dei Tacchi, in una Sardegna lontana dal turismo di massa, si fonda senza dubbio su un teatro di prossimità, in cui la relazione e l’incontro contano almeno quanto i lavori che vanno in scena. Ho allora chiesto a tre dei protagonisti dell’edizione 2024 – Ascanio Celestini, Arianna Scommegna, Domenico Iannacone – di ragionare assieme sul ruolo attuale del teatro, e su quest’esperienza appartata e forte che si svolge all’ombra delle dolomiti sarde.
Com’è stata la tua esperienza al Festival dei Tacchi?
AC: Non mi ricordo la prima volta che sono stato chiamato al Festival e nemmeno quella che ho incontrato la compagnia Cada Die. Almeno una quindicina di anni fa sono stato alla Vetreria, il loro spazio a Cagliari, con La pecora nera, ma ci conoscevamo sicuramente da prima. Dopo tanto tempo non mi sembra più di venire per presentare uno spettacolo, ma per aggiungere un capitolo a un racconto che fa parte di una storia più articolata. E forse un po’ tutto il mio teatro è così. Solo che in posti come questi si vede più chiaramente.
Ci sono teatri e festival che chiamano gli artisti perché sono interessati alla loro scrittura. Non conta che portino l’ultimo spettacolo, il più conosciuto o quello che si incastra con qualche anniversario. Dovrebbe sempre succedere. Lo spettatore partecipa a una qualità della scrittura (e qualità umana) che prescinde dallo spettacolo. E quest’anno ho partecipato con un testo scritto un quarto di secolo fa che, però, è comunque un pezzo di una scrittura che attraversa tutto il mio lavoro. Gli spettatori di questo festival sono abituati. Non cercano l’etichetta della novità come l’ultimo modello di iPhone.
AS: Mi sono sentita ‘a casa’, sono stata accolta con una cura che mi ha commossa. La passione, l’attenzione e il talento che Cada Die Teatro mette in ogni aspetto di questa manifestazione sono unici; con la semplicità di chi ama quello che fa, che lo fa con estrema vitalità, che accoglie a braccia aperte pubblico e artisti, svolgendo una funzione preziosissima per il teatro e il territorio.
DI: Una rivelazione. Mi ha dimostrato quanto il teatro possa prosperare al di fuori dei circuiti convenzionali e come la magia del palcoscenico possa essere amplificata dalla semplicità e dalla bellezza di un contesto inaspettato, vero, primitivo. Questo festival rappresenta una forma di resistenza culturale, un atto di ribellione contro la standardizzazione del teatro. Aver partecipato è stato come riscoprire il senso profondo del narrare.
Un festival che porta il teatro in un luogo lontano dal turismo di massa e dalle folle urbane. Che idea ti sei fatto di quest’iniziativa?
AC: Penso che tutto il teatro in Italia dovrebbe funzionare così. E un po’ succede. In Italia c’è una risorsa che è strutturale. Ci sono i teatri fatti di legno e mattoni, quinte e fondali, palchi e graticce, platee e gallerie. E poi tanti altri posti con situazioni alternative alla sala classica. L’Italia è lunga e stretta. La geografia complica gli spostamenti. Gli spettatori non ce la fanno a spostarsi facilmente da Caserta a Ferrara, figuriamoci da Piangipane a Jerzu. Allora ogni piccolo territorio si è dotato di uno spazio e sono i teatranti che girano. Così è nato il teatro moderno cinque secoli fa e da allora sono cambiati un po’ i tempi di spostamento, ma la differenza è minima. La tecnologia che ha rivoluzionato gli spostamenti è la ruota. Ma dal carro trainato dal somaro alla Ferrari il cambiamento è solo un dettaglio. Abbiamo comunque bisogno di spostarci. Così i teatri diventano luoghi per il territorio. Contenitori che devono essere aperti, abitati in fretta. Dove gli artisti arrivano e ripartono. Comunicano col territorio attraverso gli spettatori che lo abitano. Comunicano col mondo grazie agli artisti che lo attraversano.
AS: Il teatro è rimasto ormai forse uno dei pochi luoghi pubblici dove un gruppo più o meno numeroso di persone, insieme, spegne finalmente il cellulare e si abbandona all’immaginazione. Il Festival dei Tacchi ha compreso benissimo questa unicità, ben prima che questo fenomeno di dipendenza telematica diventasse così prepotente nelle nostre vite. Cada Die ha costruito negli anni un pubblico che desidera immergersi in un’esperienza teatrale dove l’incontro umano è al centro del suo interesse; un pubblico che sente necessaria questa esperienza, che si fida con curiosità delle proposte artistiche di Giancarlo Biffi e di tutto lo staff della compagnia. Cada Die ha avuto la lungimiranza di proporsi da anni come alternativa culturale al turismo di massa occupandosi di crescere il pubblico fin dalla giovane età attraverso laboratori teatrali di altissima qualità. Credo sia proprio questo il tratto vincente. Avere riconosciuto l’unicità del teatro e averle dato spazio facendolo durare nel tempo con pazienza e tenacia. Il contatto umano è il vero ingrediente che da sapore ad ogni momento della manifestazione, prima, durante e dopo lo spettacolo, è la linfa che attrae spettatori e artisti al Festival dei Tacchi. Tutto questo non è per nulla scontato nè tantomeno così diffuso nei teatri; l’armonia che circonda le serate tra Jerzu e Ulassai è frutto di un lavoro costante che attraversa tutti gli aspetti della manifestazione, dalla direzione tecnica alla biglietteria, dall’allestimento dei camerini in luoghi non teatrali al ristoro per gli spettatori. Bisogna imparare da un festival come i Tacchi, credo sia proprio la strategia vincente per la vita futura dei teatri.
DI: È un atto di coraggio, di ribellione! Un’ode a tutti quelli che non vogliono solo essere spettatori, ma partecipanti di un’esperienza che scava, che tocca, che scuote. Portare il teatro lontano dalle masse urbane è una immersione profonda : all’improvviso il palco non è più un luogo, ma una promessa. È la celebrazione di un teatro che non ha bisogno di lusso né di applausi facili, ma si nutre del silenzio, del battito del cuore che pulsa e ascolta.
Nell’epoca del cinema, della tv e dei social network che ruolo ha il teatro? Può incidere ancora sulla società?
AC: Il teatro incide sulla società se i teatranti hanno volontà e coraggio di incidere. Soprattutto se riescono a non confondere la realtà con il loro ambiente. Il teatro in particolare rischia di diventare un ecosistema autosufficiente, tipo quel giardino in bottiglia che vendono nei vivai. Quando lo compri ci stanno le istruzioni e c’è scritto che il kit “include tutti gli strumenti, istruzioni e i materiali necessari per creare un terrario”. Devi solo scegliere la pianta, poi il commesso ti mette nella scatola “muschio e altri elementi decorativi” cosicché “l’utente possa creare un design unico e personalizzato”. Se porti la bottiglia in una stanza di Roma, Parigi o New York funziona alla stessa maniera. Ma non comunica col prezzemolo sul balcone del vicino. Prova a scorrere l’home page di un quotidiano alla ricerca del teatro.
Oggi c’è Taylor Swift che si fotografa col gatto per l’endorsement a Kamala Harris. Poi c’è l’economia, le guerre, pettegolezzi sul ministro della cultura, l’alzheimer e un po’ di omicidi vari. In fondo c’è il posto per gli sport con tutto il suo spazio, soprattutto per il calcio. Si parla persino di cinema e letteratura. Un paio di quadrotti sono dedicati agli animali. Gunther è il gatto di Abigail. Capisce quando la sua padroncina si toglie l’apparecchio acustico. Allora smette di miagolare perché è consapevole che deve attirare l’attenzione in un’altra maniera. Se cerco la parola “teatro” semplicemente non c’è. I gatti battono il teatro due a zero.
AS: Incidere nella società oggi significa inevitabilmente confrontarsi con economie e sistemi comunicativi per i quali il teatro non può, per sua natura, essere competitivo. Non si può paragonare il riscontro mediatico ed economico che potrebbe avere un video pubblicato in rete rispetto al numero limitato di partecipanti per uno spettacolo teatrale, sarebbe un paragone impari così come l’esperienza dell’incontro dal vivo non è paragonabile a qualsiasi video o immagine bidimensionale. Il teatro è sicuramente più povero ma quando riesce a proteggere la sua unicità del qui e ora contemporaneamente può diventare molto potente. A differenza di qualsiasi altro mezzo più o meno artificialmente intelligente o stupefacente, la povertà del teatro, che esplora fragilità, imperfezioni e contraddizioni dell’umanità mettendole a nudo in un rito collettivo, diventa un’esperienza stra-ordinaria. Non sono i numeri che rendono il teatro incisivo per la società ma la qualità di questo incontro umano e nessun video potrà mai sostituirla, proprio perché è dal “vivo”. Il teatro può incidere profondamente nel cuore dello spettatore, ricordare al singolo individuo una condizione spesso annebbiata dai “troppi fumi di irrealtà” di altri sistemi comunicativi. Sono convinta che questa funzione sia assolutamente necessaria per la società, in particolare quella di oggi cosi schiacciata dalla comunicazione telematica, aldilà di qualsiasi numero.
DI: Il teatro è vivo, è carne, è sudore. In un mondo dove tutto è filtrato, montato, manipolato, il teatro rimane l’ultimo baluardo di onestà intellettuale, l’incontro nudo tra chi crea e chi guarda. È un atto di presenza in un’epoca di assenza. Può ancora incidere? Sì, perché non offre risposte, ma domande; non mostra, ma svela. È il luogo dove possiamo ancora ritrovarci veri, disarmati, senza la maschera del quotidiano.
Un personaggio, una compagnia, un lavoro teatrale che ti ha impressionato negli ultimi dieci anni.
AC: Io non penso che sia indispensabile trovare qualcosa di speciale tra le cose che ci succedono attorno. Non è triste constatare che per anni può non succedere niente di nuovo. Che ci accostiamo a una qualità dell’uso cosciente di un linguaggio e ci lavoriamo artigianalmente senza rivoluzionarlo.
Marco Paolini col suo racconto del Vajont ha portato in teatro (e in televisione è riuscito a trasferirlo benissimo) una scrittura che era contemporaneamente fruibile da molti, ma anche innovativa: la scomparsa della catena di montaggio ottocentesca fatta di scrittore-drammaturgo-regista-musicista-coreografo-scenografo-costumista-luciàro-ecc… C’era solo lui, ma c’era già tutto. Questo teatro senza fronzoli ha una ricerca profonda che passa da Eduardo e Fo, ma che io ho visto anche in Leo de Berardinis del Ritorno di Scaramouche. E che in Giuliana Musso è chiaramente visibile. Niente fronzoli, niente catena di montaggio, capacità di scrittura e recitazione che sono nella stessa voce, nello stesso gesto.
Giovanna Marini con una storia politica più militante e una ricerca più dichiarata passa attraverso la stessa qualità e volontà. Apparentemente sono lingue diverse, ma io credo che si tratti di dialetti di una stessa lingua. Per rinnovare una scrittura non serve sporcarsi la faccia di bianco, parlare strano e tirare vernice contro lo spettatore. Sono fronzoli che, dopo le avanguardie del ’900, somigliano a chincaglieria vintage. L’arte è un fenomeno umano che fa parte della storia e si mostra nella storia. Per il teatro dovrebbe essere tutto più facile perché se ne va in giro per luoghi concreti: i teatri. E incontra persone vere: gli spettatori.
AS: Il Teatro Sociale di Gualtieri è una realtà che mi affascina e mi incuriosisce molto, dalla ristrutturazione architettonica del Teatro al gruppo di persone che lo gestiscono, a come lo gestiscono, agli artisti che ospitano, la qualità degli spettacoli in stagione (con un’attenzione particolare alla nuova drammaturgia) il coinvolgimento del pubblico e il prezioso lavoro che fanno sul territorio.
DI: Come non pensare a La gioia di Pippo Delbono, di qualche anno fa. Uno spettacolo che non è solo teatro, ma un’esplosione di vita, un abbraccio al caos e alla meraviglia dell’essere umani. Sul palco, la danza dei folli, dei perduti, dei ritrovati. È un viaggio nelle viscere dell’anima, dove ridi, piangi, e poi ridi di nuovo, come in una festa infinita. È il trionfo dell’imperfezione, della bellezza che nasce dal dolore e dalla tenerezza, un grido che è insieme disperazione e festa. Pippo Delbono riesce a ricordarci che, malgrado tutto, c’è sempre una scintilla di gioia da accendere.
Che lavoro faresti, se non fosse quello che fai?
AC: Non mi sono fatto questa domanda nemmeno trent’anni fa. Figuriamoci adesso.
AS: In teatro ci sono talmente tante cose da fare, sono così varie e diverse le esperienze, le occasioni e gli incontri che si possono vivere, che è sempre una scoperta; ci sono tantissimi progetti creativi che possono coinvolgere tutte le età, dal bambino all’anziano, che mi sento accompagnata giorno dopo giorno nella vita e non ho desiderio di interrompere questo viaggio.
DI: Vorrei essere un falegname! Ma non per costruire cose che servono, no. Creerei trappole per il pensiero, oggetti impossibili che sfidano la logica e invitano a perdersi. Porte che non si aprono, scale verso il nulla,. Perché il mondo ha bisogno di meno funzionalità e più meraviglia, di cose che non servono a niente ma che ti fanno fermare e riflettere. Creerei il superfluo, perché è nel superfluo che abita la vera libertà.