RENZO FRANCABANDERA | Il Milano Off Fringe Festival rappresenta un’importante vetrina per il teatro indipendente e le arti performative a Milano, inserendosi nella tradizione dei Fringe Festivals che, a partire da quello di Edimburgo dal 1947, hanno rivoluzionato il panorama teatrale internazionale. La sua natura itinerante e partecipativa è un elemento distintivo che valorizza non solo le compagnie provenienti dall’Italia ma anche il rapporto con il territorio e la comunità milanese. Quest’anno, dal 26 settembre al 6 ottobre, il festival offre una programmazione variegata con 44 compagnie partecipanti che si esibiscono in spazi non convenzionali sparsi per la città. L’intento è creare una mappa culturale vivente, che coinvolga attivamente diversi quartieri di Milano e proponga un’esperienza inclusiva e accessibile a tutti, grazie anche a iniziative come il biglietto sospeso che consente alle fasce più svantaggiate di accedere gratuitamente agli spettacoli.
Il Milano Off è parte di un vasto network internazionale di festival Fringe, collabora con realtà come l’Avignon Off, il Fringe di Stoccolma e lo Hollywood Fringe, tra gli altri. Questa rete nazionale e internazionale che il festival ha costruito negli anni, offre agli artisti l’opportunità di espandere i propri orizzonti e di esibirsi in festival di tutto il mondo, contribuendo alla crescita e allo scambio culturale a livello globale.
La connessione con il territorio è anche rafforzata dall’iniziativa “Ospita un artista”, che invita i cittadini milanesi ad accogliere artisti da fuori città, creando un legame diretto tra artisti e comunità locale. Questo non solo facilita l’inclusione ma promuove un dialogo culturale che arricchisce tanto i residenti quanto gli artisti, confermando Milano come un polo importante per le arti indipendenti e sperimentali.
Raccontiamo qui di alcuni spettacoli in scena a Milano e che saranno in alcuni casi anche nel Catania Off, il fringe che, come quello milanese, vede alla direzione artistica Francesca Romana Vitale e Renato Lombardo.
Iniziamo dallo spettacolo Futti, Futtitinni, ma non ti fari futtiri della Morfeo Company, giovane compagnia teatrale under 30 nata a Roma nel 2020, un quasi monologo/recital che intreccia ironia e dramma. La compagnia, formata da Valerio Castriziani, Melania Maria Codella e Tommaso D’Alia, tutti diplomati all’Accademia STAP Brancaccio, affronta con sensibilità la complessità della Sicilia, mescolando una tranquilla vicenda familiare con il tragico racconto della realtà contaminata dalla presenza mafiosa. Con riferimenti a eventi reali lo spettacolo esplora la dualità della Sicilia, terra ricca di bellezze e contraddizioni, con un forte impatto emotivo. Dopo lo spettacolo Mezzasala, questo Futti, Futtitinni rappresenta il secondo progetto della compagnia. La pièce, vincitrice del festival “Strade diverse” nel 2023, getta uno sguardo sugli ultimi cinquant’anni di storia siciliana, con particolare attenzione alle vicende criminali che ne hanno segnato il recente passato, sfogliando epoche e memorie e oscillando in senso stretto (quindi anche scenicamente) fra memorie familiari e memorie criminali.
La visione del cibo, come nell’analogia dell’arancino che nello spettacolo diventa emblema della struttura piramidale delle associazioni criminali, diventa una metafora per raccontare la complessità della terra siciliana, un luogo dove convivono bellezza e violenza. In scena ci sono il polistrumentista e attore Valerio Castriziani e il vero e proprio interprete del monologo Tommaso D’Alia: recitano un testo scritto da entrambi insieme a Giovanna Malaponti. Il gioco fra i due è quello del musicista un po’ autistico e dell’attore dalla cifra popolare che si accinge al cunto. Fra momenti ironici e drammatici, lo spettacolo ondeggia in modo giusto sul delicato equilibrio tra denuncia sociale e teatralità finto-cabarettistica, facendo della cifra ironica il contraltare della narrazione di alcuni momenti drammatici. I punti di forza della creazione sono proprio nella verve scenica dei due, capaci di coinvolgere gli spettatori e di creare pathos nella narrazione. Possono far crescere la parte della mimica gestuale, depurandola di alcune didascalie, così come pure introdurre un’idea per un finale meno circolare e da narrazione, per cercare un’uscita più esplosiva, come si addice allo spettacolo, giusto per restare in tema.
La creazione è stata vista e apprezzata sia dal pubblico che dagli operatori, una delle migliori proposte del Fringe in questo segmento artistico del teatro di narrazione con musica, e ha buone prospettive di circuitazione e programmazione. Lo segnaliamo.
Sempre negli spazi dell’hub Imbonati11 che da anni è partner del Fringe nell’ospitalità degli spettacoli, abbiamo assistito anche alla nuova creazione della Piccola Compagnia Impertinente (PCI) realtà teatrale nata a Foggia e conosciuta per il suo impegno in produzioni innovative e provocatorie e impegnata non solo nel portare avanti il proprio repertorio artistico ma anche nel creare uno spazio formativo per giovani artisti e attori, offrendo corsi e laboratori nel capoluogo dauno.
Avevamo commentato il precedente lavoro, Frichigno, che era stato ospite del Fringe l’anno scorso, creazione che ha giustamente continuato a circuitare. La compagnia si caratterizza per il desiderio di affrontare temi difficili, spesso attraverso un linguaggio teatrale irriverente e non convenzionale. Uno dei principi cardine della compagnia è non evitare le domande scomode e l’esplorazione delle ferite sociali.
Al Fringe 2024 propongono La Milite Ignota, monologo interpretato da Ramona Genna, scritto da Enrico Cibelli. Lo spettacolo esplora il percorso interiore di una donna che affronta il provino più importante della sua vita, mettendo in luce (come fa in scena accendendo e spegnendo i fari per gli shooting fotografici) insicurezze e traumi. Al centro della narrazione c’è una vicenda dolorosa, ispirata a un fatto di cronaca reale: la vicenda cui il testo di Cibelli si ispira avviene il 26 luglio 2008, alla Fortezza da Basso, a Firenze, una violenza di gruppo ai danni una ragazza poco più che ventenne. A un primo verdetto nel 2013 di colpevolezza a carico degli imputati, diversi dei quali noti alla ragazza, ne era seguito un altro, di due anni successivo, in cui la Corte ha ribaltato completamente la condanna: secondo i giudici, la ragazza, bisessuale dichiarata, voleva con la sua denuncia “rimuovere” quello che considerava un suo «discutibile momento di debolezza e fragilità» ma “l’iniziativa di gruppo” non venne da lei “ostacolata”. Scaduti i termini per il ricorso in Cassazione, la sentenza è diventata definitiva.
La scena ricorda un set fotografico, ma è anche la stanza della ragazza, che racconta la sua vita da attrice provinante fra ambizioni e frustrazioni. Lo spettacolo mescola elementi onirici e narrazione, rappresentando la lotta della protagonista per riconciliare se stessa con il suo talento, in un contesto dove il confine tra realtà e sogno è piuttosto sfumato. Entriamo nel suo spazio intimo, fatto di bevande depurative e fissazioni. Una prima parte, di tono quasi post-drammatico, vede l’interprete raccontare il suo quotidiano, non realizzato ma popolato di sogni e ambizioni, che si scontreranno con la tragedia nella seconda parte, di tono ovviamente drammatico, in cui la violenza si consuma.
Il testo mette assieme molte cose, forse troppe, e la regia di Pierluigi Bevilacqua sceglie un registro di recitazione frontale per quasi tutto il tempo, con l’interprete seduta pressoché continuamente al centro della scena, in dialogo con un interlocutore immaginario che è poi il pubblico, cui di tanto in tanto si rivolge, quasi a rompere la quarta parete. Genna appare più a suo agio con la cifra della seconda parte, ma il lavoro abbisogna di un compattamento su diversi fronti, sia drammaturgico che registico-attorale, cui si può utilmente lavorare nel prossimo futuro.
Ci spostiamo a Isolacasateatro, uno degli esperimenti milanesi di spazio domestico che diventa luogo per la scena, e che attualmente vede la direzione artistica di Tiziana Bergamaschi, per Creaturamia… di e con Marianna Esposito. Lo spettacolo è un monologo, caratterizzato da un tono poetico e drammatico. Il tema centrale è la lotta di una madre per salvare il figlio tossicodipendente, che ha “perso l’amore per la vita”.
La vicenda è quella di una famiglia che subisce due traumi ravvicinati, ovvero la perdita del padre/marito e l’inizio del percorso di tossicodipendenza del ragazzo. Attraverso un susseguirsi di emozioni inizialmente grottesche e comiche con cui la madre prova a reagire all’evolvere dei fatti, Esposito incarna il personaggio vibrante e determinato di una madre che vuole raccontarsi attraverso la sofferenza e la forza di chi ama profondamente. Lo spazio scenico è connotato da un tavolo e due sedie e una serie di piccoli oggetti che diventeranno poi funzionali alla narrazione. Gli elementi sono ridotti al minimo lasciando quindi agio alla parola e all’interpretazione di dipanarsi: un minimalismo che vuole rafforzare il senso di solitudine della protagonista ma allo stesso tempo esaltare la forza di una performance attoriale dalla cifra espressionista e performativa, centrata sulla voce e sul corpo dell’interprete.
Lo spettacolo, dunque, diventa una sorta di confessione intima, con la donna che finisce imprigionata dentro la rete del dolore da cui non riesce più a liberarsi: il pubblico non può fare a meno di sentirsi partecipe del dramma e delle speranze quasi irrazionali che animano la madre protagonista.
Meno interessanti ed emendabili sono una certa didascalia testuale che schiaccia il racconto su un immaginario piuttosto standardizzato e anche un po’ datato (il cattivo con i tatuaggi, i locali della periferia malfamata, che più che alle droghe sintetiche e alle discoteche di oggi, rimandano a un contesto di qualche decennio fa) e una recitazione di tono sempre piuttosto spinto, anche quando ironico. Con meno, si potrebbe raggiungere anche un pathos più alto, lasciando più spazio al vuoto.
Poco utili alla profondità narrativa il ricorso episodico ai muppet e il fatto che la drammaturgia evolva in maniera piuttosto prevedibile fin dall’inizio, con una serie di battute che di fatto anticipano l’esito tragico.
Lo spettacolo potrebbe stare in piedi anche con meno azione fisica, ma pur considerando queste osservazioni che pertengono allo sguardo di chi scrive, va registrato che il pubblico accoglie con favore la recita e la sua onesta generosità.
Concludiamo questo primo racconto del weekend del 27-29 settembre con un altro lavoro per interprete solista, visto ancora negli spazi di Isolacasateatro: The Sensemaker, di e con Elsa Couvreur, che vuole affrontare in modo provocatorio e ironico la relazione tra esseri umani e tecnologia. In scena, quasi in proscenio, una piccola etager con un telefono anni Settanta, a fondo scena una sedia. L’interprete belga sembra entrare in un ambiente come chi deve visitare una casa per acquistarla, spaesata, fuori posto.
Elegante e ben truccata, la performer dapprima gioca a mimare con i gesti che sembrano provenire dal linguaggio dei segni una serie di tracce sonore di tono piuttosto vario, per entrare poi in dialogo con un risponditore automatico che darà il via alla vera e propria vicenda narrata nello spettacolo e che vuole concentrarsi sulla crescente disumanizzazione che emerge nel contesto di un mondo sempre più dominato dalla burocrazia digitale e dalle intelligenze artificiali, in cui le persone si ritrovano inesorabilmente intrappolate in processi alienanti e frustranti.
La donna, dicevamo, si confronta per tutta la seconda parte della creazione con una voce automatizzata, una sorta di “assistente virtuale” che le detta una serie di istruzioni, come se la protagonista stesse partecipando a una sorta di selezione del personale. La protagonista tenta di soddisfare le richieste burocratiche della voce robotica, eseguendo compiti apparentemente semplici ma che diventano via via più complessi e assurdi.
Quello che all’inizio sembra un normale processo di interazione con un sistema automatizzato – come quelli che usiamo per prenotare appuntamenti o ricevere assistenza tecnica – si trasforma lentamente in un incubo kafkiano, affidato alla gestione mimica (invero notevolissima) dell’attrice, che fa diventare il personaggio, via via, emblema dell’individuo contemporaneo, costretto a sottomettersi a un mondo in cui la tecnologia assume un ruolo opprimente e orwelliano.
Ogni tentativo di eseguire i compiti diventa una sfida impossibile: la tecnologia diventa una trappola e per inseguirla l’essere umano perde il controllo sulla propria vita. Ben si apprezzano, nella recitazione, le radici di Couvreur nel teatro fisico e nella performance, che le permettono di costruire lo spettacolo attraverso un linguaggio corporeo estremamente ricco, preciso e disciplinato.
Una delle caratteristiche distintive di The Sensemaker è infatti l’assenza di dialoghi umani. Tutta la comunicazione avviene tra la protagonista, che non parla, e la voce automatizzata. Il silenzio della protagonista è compensato da una grande abilità nei movimenti, nei gesti e nelle espressioni facciali, che raccontano e coinvolgono più di qualsiasi testo possibile, fino a un culmine drammatico che mette la donna di fronte al conflitto con la propria morale. The Sensemaker è senza dubbio uno spettacolo accessibile a un pubblico internazionale, ed è già stato applaudito in molti festival, per l’uso appropriato di linguaggi diversi, che spaziano dal teatro fisico alla danza, dalla mimica quasi clownesca alla performance drammatica, coinvolgendo pubblico e critica, come è accaduto anche in queste repliche milanesi.
Pur allungandosi in una sorta di doppio finale che invero nulla aggiunge a quanto detto (ed è quindi superfluo ai fini della resa scenica), lo spettacolo resta comunque una delle visioni più interessanti del Milano Off Fringe 24 e ci sentiamo di consigliarne la visione (ed eventualmente anche la programmazione).
FUTTITI FUTTITINNI MA NON TI FARI FUTTERE
Di Enrico Cibelli
Regia Pierluigi Bevilacqua
Interpreti Ramona Genna
Luci Arturo Severo
Musiche Edita
Costumi Monica Raponi
Produzione Piccola Compagnia Impertinente
CREATURAMIA…
Di e con Elsa Couvreur
Produzione Woman’s Move