RENZO FRANCABANDERA | Sentiamo odore di incenso appena messo il naso nella sala grande dell’Arena del Sole. La mente si proietta subito in chiesa, in una dimensione sacra e spirituale. È già presente in scena, mentre il pubblico prende posto in sala, un angelo dark, ali nere e anfibi, che potrebbe essere una sirena o la sfinge del mito edipico, e si apposta sull’alto sgabello con il quale occupa sola tutta la scena. La sua postura è esattamente quella che ha la sfinge nella kylix attica a figure rosse attribuita a un artista che non a caso fu chiamato, per eponimia, Pittore di Edipo e datato fra il 480 e il 470 a.C. (in questo caso la Sfinge è appostata su una colonna). L’opera oggi si trova ai Musei Vaticani e fu trovata nella etrusca Vulci, al confine fra Toscana e Lazio dove, a quanto pare,con la sfinge erano abbastanza fissati, visto che addirittura in una tomba principesca sempre di epoca etrusca è stata rinvenuta anche una splendida riproduzione del soggetto in pietra.
L’opera in ceramica risale addirittura a cinquant’anni prima della “prima” dell’Edipo Re di Sofocle, tragedia andata in scena fra il 430 e il 420 a.C., che racconta solo una prima parte di un mito antichissimo e complesso, ovvero l’episodio della autoagnizione, cioè del momento in cui Edipo arriva a scoprire, tramite un’indagine quasi poliziesca condotta da lui in persona, di essere l’omicida di suo padre e il figlio della donna che aveva sposato, la regina Giocasta, da cui aveva avuto pure figli. Un disastro, che peraltro gli era stato predetto dall’oracolo. Ma Edipo vuole conoscere la verità, e scava fino a trovarla. A quel punto si cava gli occhi per non vedere oltre e va via da Tebe. Una tragedia.
Sofocle, che era nato a Colono nel 496 a.C., morirà novantenne ad Atene nel 406 a.C.
La sua ultima opera, di tono quasi profetico sul tema della morte, delle divinazioni e dei suoi misteri, tornerà proprio sul mito di Edipo. E si intitola Edipo a Colono, guarda caso. Un ritorno, nell’approssimarsi della morte, di nuovo alla saga dei Labdacidi, ossia le vicende di Edipo, dei suoi genitori e dei suoi figli che all’epoca era raccontata dai poemi epici del ciclo Tebano, purtroppo non giunti fino a noi se non per riassunti e piccoli frammenti. In Edipo a Colono, il disgraziato protagonista di questa vicenda umana, che mescola premonizione e autodeterminazione, arriva stanco e moribondo, trova ospitalità proprio a Colono, sobborgo di Atene, accolto da esule dal re Teseo, cui la presenza del vecchio e malandato ex re di Tebe frutterà comunque la vittoria poi nel conflitto proprio contro Tebe, che intanto era finita sotto il governo di Creonte, fratello di Giocasta.
La saga tebana e la vicenda di Edipo, dei suoi figli Eteocle, Polinice, Antigone e Ismene (protagonisti di altri capolavori sofoclei) restano affascinanti dopo oltre duemila e quattrocento anni (contando che la saga di Tebe era assai precedente alle scritture sofoclee, visto che di Tebe si parla già nell’Odissea, il cui nucleo testuale è di almeno 3-4 secoli prima). Insomma parliamo di cose su cui l’umanità mastica e rimugina per mezzo dell’arte e della letteratura da qualcosa come tremila anni. A pensarci, vengono i brividi.
Davanti a questa immensità, uno specifico atto creativo di rimando a questo corpus, pur rimarchevole, non può che assumere una connotazione necessariamente pulviscolare, come quando si guardano le stelle della via Lattea.
Ma visto che viviamo il presente, commentiamo quello che nasce sotto i nostri occhi, dando evidenza e rilievo per prossimità a noi. Testimoniamo quindi del grande interesse e della calorosissima accoglienza da parte del pubblico per il debutto del nuovo lavoro di Alessandro Serra, intitolato Tragùdia, a Bologna all’Arena del Sole nell’ambito della rassegna Opening – showcase Italia.
Il regista, che ha guadagnato un importante seguito sia nazionale che internazionale nell’ultimo decennio dopo il successo di Macbettu, versione in lingua sarda del classico shakespeariano (Premio Ubu come miglior spettacolo nel 2017, cui si unirono le candidature di Serra come miglior regista e Capuano come miglior attore), è andato con questa nuova creazione a esplorare dimensioni ancestrali del patrimonio culturale dell’Occidente mediterraneo, rivisitandole, come allora, con un incrocio linguistico e sonoro che rimanda ad una territorialità specifica. La lingua infatti scelta da Serra per ripercorrere la vicenda di Edipo, Tragedia per antonomasia, è il grecanico.
Cosa è il grecanico?
È una lingua in via di desertificazione con riferimento al panorama dei parlanti, diffusa in area calabrese, precisamente in un gruppo di 3-4 comuni nella Bovesìa, area geografica della città metropolitana di Reggio Calabria, ellenofona appunto, per via dalle antiche dominazioni e di altri successivi flussi migratori di età alto medievale-bizantina: qui ancora qualche anziano parla questa lingua, i cartelli sono bilingue, e c’è un movimento di matrice intellettuale locale che mira a preservare questo patrimonio. Giusto per capire, parliamo di una popolazione che, fra i vari centri, raggiunge a fatica i 1500 abitanti oggi. E non tutti parlano più la lingua.
Esiste anche in Salento un’area con analoghe caratteristiche, la Grecìa, un nucleo territoriale di paesi assai ristretto, e dove è presente un’eredità linguistica molto specifica.
Ormai queste lingue, che hanno aiutato nei secoli le comunità a rimanere molto connotate, a proteggerle dagli “estranei” e quindi a difenderle, stanno sparendo sotto i colpi della globalizzazione massmediale e socialmediale, e di quel generico fenomeno di abbandono delle tradizione da parte delle generazioni dal dopoguerra in avanti.
Torniamo allo spettacolo: Serra resta accovacciato come la sua sfinge nelle penombre sceniche rembrandtiane, per quell’intensità che lascia appena emergere le masse corporee dalla semioscurità e che già aveva caratterizzato il Macbettu, dove però arrivavano, a squarciare la narrazione con più frequenza, improvvisi bagliori. Qui accade meno, anzi. Progressivamente, e volutamente, si va verso un buio, che poi ad un certo punto, in concomitanza con l’accecamento del protagonista, diventa assoluto per un tempo abbastanza lungo.
L’approccio visuale e fisico di Serra, ad ogni buon modo, ha cifra riconoscibile: è un codice scenico incentrato sulla figura dell’attore e sulla magia della scatola teatrale, spazio di proiezione della dimensione vera e profonda dell’umano, quasi inconscia.
Dopo le luminosità piene de La Tempesta, con alcuni momenti in cui la macchina scenica rivelava il marchingegno e la dimensione della spettacolarità totale –come nella grande visione subacquea iniziale, che esponeva alla vista la maestria con cui Serra tratta da sempre una delle materie più complesse della macchina scenica, le luci – in Tragùdia piombiamo nella penombra per quasi tutto il tempo.
Fa eccezione un cammeo di memoria in cui dal buio del presente emerge la luce di un ricordo del passato, stilisticamente unica parentesi narrativa giocata sul tono della commedia e che rimanda, dal punto di vista del segno scenico, agli identici momenti de La Tempesta.
Ma qui sono necessariamente pochi istanti, per non “guastare” il ritmo liturgico, il grande rito sacro in cui l’allestimento intende condensarsi. La scenografia è composta da tre pareti di legno, capaci di inclinazione in avanti per quella a fondale, e per rotazione anche assiale per quelle laterali. Porte e struttura di quella al fondo rimandano all’iconostasi che, nell’architettura ecclesiastica di rito ortodosso, è la struttura divisoria che separa la zona presbiteriale, misterica, da quella riservata ai fedeli. È di solito, come dice la parola stessa, ricoperta da icone, un muro di quadri dorati con tre porte di cui quella centrale più ampia. E così è anche qui, ma le pareti sono spoglie, e dietro non c’è alcun luogo del rito, se non la casa di Edipo, che è appunto da intendere in questa accezione sacra, inviolabile e violata dal destino, che la rovescerà. Il famoso incensiere, che fin dall’inizio ci aveva riempito le narici, ondeggia ad un certo punto come quello della cattedrale di Santiago de Compostela durante la messa della domenica, avanti e indietro per tutta la navata, avvolgendo con dense volute tutto lo spazio scenico. Insomma, aleggia una evidente aura mistica, accentuata dalla presenza dei cori e delle partiture musicali vocali che, nell’intenzione registica ammantano questo mito, incentrato sul rapporto fra destino, conoscenza, predestinazione e autodeterminazione.
Se Prometeo ruba la luce agli dei per consegnarla agli umani, Edipo se la toglie per un destino del quale non ha colpe, se non, unica, quella di voler sapere fino in fondo. Entrambi i miti hanno a che fare con lo sforzo e la lotta umana per rubare terreno all’inconoscibile o al non ancora conosciuto. Ma Sofocle, di cui Serra rimastica i testi per trarre questo atto unico sulla vicenda edipica, nel secondo atto, quello che accompagna l’esule fino alla morte, effettivamente abbandona le crudezze dell’Edipo re. A Colono il clima è più incentrato sui temi dell’accogliere, del tramandare per illuminazione, del chiedersi del senso della vita: domande di un novantenne che guarda indietro e che si condensano nell’iniziazione finale con cui l’anziano cieco tramanda le sue conoscenze al re Teseo che lo ha ospitato.
Tutto ha un canto, una cantilena, che è quella della lingua. La traduzione in lingua grecanica del testo di Serra è di Salvino Nucera mentre voci e canti portano la firma di Bruno de Franceschi, realizzati proprio in relazione alla pratica della rappresentazione e quindi come scrittura di scena, secondo quanto ha dichiarato Serra in un incontro con il pubblico a margine del debutto.
Abbiamo i sovratitoli, certo. A volte li si segue, a volte ci si perde nel puro suono, senza pretendere di capire tutto, battuta per battuta. Ovviamente l’effetto straniante della lingua straniera non permette appieno di attribuire una coloritura totale al rapporto dell’attore con la parola, peraltro appoggiato su un impegno diaframmatico e non al microfono (che pure per altri versi è presente, nella sonorizzazione amplificata della scenografia, che diventa anche macchina sonora). Non possiamo sapere in che modo sono realmente offerte le parole, con che enfasi, essendo questa una coloritura specifica di ogni lingua.
Il tema della parola rileva peraltro anche per la scelta di far parlare Teseo con il linguaggio dei segni, coperto al volto da una maschera orientale e con indosso un kimono, simbolo di una cultura altra, diversa da quella di origine (qui affiora anche il tema dell’esule come immigrato, nella lettura di Serra) unico segno distinto e distante dal resto delle vicende rappresentate, e che come tutti i segni non organici può creare affascinazione o distanza, rispetto alla coerenza complessiva. Ma non è di preponderanza tale da spostare l’equilibrio generale della messa in scena e dei suoi postulati formali.
In generale il sentimento che si ricava, anche dai costumi di sapore antico, è quello di una forte attenzione agli attori, all’essenzialità scenica e alla potenza simbolica delle immagini costruite attorno a gesti e pratiche rituali, sviluppando un linguaggio estetico di grande impatto visivo, che si conclude con la morte dell’eroe nella penombra, con il suo corpo in un controluce che prelude al buio finale in cui Edipo va incontro alla morte, nel testo sofocleo alla presenza di Teseo, unico testimone del trapasso, mentre qui il re di Atene lascia la scena pochi istanti prima della morte di Edipo, diversamente da quanto dice l’araldo ai versi 1656 e 57.
“Μόρῳ δ’ ὁποίῳ κεῖνος ὤλετ’ οὐδ’ ἂν εἷς θνητῶν φράσειε, πλὴν τὸ Θησέως κάρα”
Con quale sorte, dunque, egli perì, non lo potrebbe dire neanche uno dei mortali, tranne Teseo.
Secondo Sofocle quindi Teseo assiste alla morte di Edipo.
Ovviamente sono diverse le libertà sceniche e linguistiche che la sintesi e il riadattamento dei due testi fatta da Serra porta con sè, ma il complesso delle vicende è rispettato. La compagine attorale (Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini, Felice Montervino), pur con le specifiche prove singole, mantiene una forte struttura di coro, enfatizzata anche dal pregevole lavoro sui movimenti di scena cui ha collaborato Chiara Michelini. Ne viene fuori un’operazione non semplicistica o esile, anzi. L’impegno e la ricerca risultano in modo chiaro e riguardano tutti gli ambiti della rappresentazione. Traspare una cura e un’attenzione ai dettagli, che fa effetto sullo spettatore.
Come sensazione personale, in questa nota redatta a una settimana dalla visione, posso dire che il gusto più deciso avuto a caldo dopo lo spettacolo, ha mantenuto una persistenza meno intensa di quanto avrei pensato, affievolendosi un po’ nei giorni, a differenza di come era stato per Macbettu. Non saprei attribuire la causa a questo o quell’elemento nello specifico, ma solo parlare di un’umanissima sensazione soggettiva e personale di evaporazione. Magari è solo vecchiaia. L’Edipo di Colono può capirmi. Chi meglio di lui…
ΟΙ. Ἆρ’ ἐγγὺς ἁνήρ; ἆρ’ ἔτ’ ἐμψύχου, τέκνα, κιχήσεταί μου καὶ κατορθοῦντος φρένα;
Dunque, vicino è il re (Teseo, ndr)? Mi troverà vivo, o figliuole, e sano ancor di mente?
Edipo a Colono vv 1486-87
Arena del Sole, Bologna | 17 ottobre 2024
TRAGÚDIA
collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini
collaborazione al suono Gup Alcaro
collaborazione alle luci Stefano Bardelli
collaborazione ai costumi Serena Trevisi Marceddu
direzione tecnica Francesco Peruzzi
tecnico del suono Alessandro Orrù
direzione di scena Luca Berettoni
costruzione scena Daniele Lepori, Serena Trevisi Marceddu, Loic Francois Hamelin
produzione Sardegna Teatro, Teatro Bellini, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Due Parma
in collaborazione con Compagnia Teatropersona, Fondazione I Teatri – Reggio Emilia
nell’ambito di Opening – showcase Italia