MATTEO BRIGHENTI | Il sogno è uno specchio. L’altro sei tu. Chiunque sia, uomo o donna, alto o basso, magro o grasso, l’altro sei sempre tu. Il sogno è uno specchio dove tutto è stranamente familiare, come a teatro. E non ha bisogno di parole per dirlo. Quanto di allegorie trasformative, situazioni metamorfiche. Fascinazioni e speculazioni da “lavoro onirico” freudiano, con cui Jakop Ahlbom monta, smonta e rimonta il suo rocambolesco Strangely Familiar, per rappresentare temi come la pressione sociale e l’autostima. Quindi, trasfigurarli da contenuto latente a contenuto manifesto.
Non hai scampo, non hai vie di fuga: devi affrontarti. Se vuoi ritrovarti e, dunque risvegliarti, devi aprire gli occhi. Guardarti. Accettarti per come sei. Un incontro con l’altro sé, comunque, è da lasciarci il fiato. Allora, lo spettacolo che ha aperto in prima nazionale la stagione del Teatro Metastasio di Prato, produttore con l’olandese Jakop Ahlbom Company, è senza parole. Restano solamente i gesti ripetitivi della quotidianità di un impiegato qualunque in un mondo di impiegatɜ qualunque, che abitano una sorta di fantascienza arrugginita, grigia, pre-caduta del Muro di Berlino. L’uomo si muove dall’ufficio, alla camera da letto, al giardino e all’ascensore, un mondo fatto a blocchi che, come nei sogni, si sposta con lui. È come portato dagli eventi.
Il tempo passa e così fanno gli ambienti: la scena di Marlies Schot e Douwe Hibma vive un gioco a incastro in un dedalo di percorsi e di sconvolgimenti. Le diverse stanze ruotano e si trasformano continuamente in un surreale piano sequenza di cambi millimetrici, tutti a vista. È una scansione di quadri studiati ed eseguiti con assoluta precisione daglɜ straordinarɜ attorɜ-performer Erwin Boschmans, Yannick Greweldinger, Silke Hundertmark/Inez Almeida, Fabio Maniglio, Luca Maniglio, Daphne Masé, anche ballerinɜ, cantantɜ, mimɜ. Alle luci di Yuri Schreuders, alla musica e al suono di Leonard Lucieer, Jaïm Sahuleka e Teun Beumer, spetta il compito di guidarci nella lettura emotiva di un simile “teatro di posa” mutevole e mutante.
L’ispirazione dichiarata è alla realtà distopica di Scissione, la serie-tv creata da Dan Erickson e diretta da Ben Stiller e Aoife McArdle, ai film assurdi di Roy Andersson, e anche al romanzo Il sosia di Fëdor Dostoevskij.
Siamo di fronte alla deriva del desiderio insoddisfatto del personaggio principale di essere visto daɜ suoɜ colleghɜ. Una condizione di esclusione sociale che si acuisce, peraltro, quando arriva in ufficio un nuovo dipendente. Non un altro qualunque. È il suo sosia, il suo doppio. Di più: è il lui che ottiene il riconoscimento che il primo non ha mai avuto. Ne nasce, così, uno scontro con tutte le parti di sé che l’altro non è, o non osa essere, o forse non si ritiene nemmeno in grado di essere.
Si tratta di una sfida che accrescerebbe le possibilità di introspezione e immedesimazione. Strangely Familiar preferisce, però, continuare a puntare tutto sull’azione. Il disegno drammaturgico di Judith Wendel quanto quello registico è stringente, imbrigliante. Tanto che la rappresentazione sembra quasi la lunga preparazione di qualcosa, di una risoluzione finale, per così dire, che arriva troppo tardi. Ossia, quando il meccanismo narrativo ha ormai diluito la sorpresa, lo stupore dell’inizio, nella continua ripetizione del processo scenico.
Jakop Ahlbom, dunque, smarrisce o, meglio, congela, di quadro in quadro, la libertà creatrice, caotica e irrazionale propria del sogno con l’incanto di descrivere alla perfezione i movimenti della superficie delle cose. La Compagnia, lo spettacolo, sono maschere di efficienza che non calano praticamente mai. Non si affonda lo sguardo nella sostanza abissale di condizionamenti e smarrimenti interiori. Non c’è tempo per la riflessione: tutto deve accadere per accadere e basta.
Eppure, Strangely Familiar si rivela – colpo di scena – un sogno lucido, a occhi aperti. Addirittura, una premonizione che, in fondo, la vita non la cambia: la salva proprio. L’attimo prima della fine, l’attimo prima di perdere tutto, e che, infatti, fa trattenere il fiato alla creazione. Chi non si trattiene, a onor del vero, è la sala. I calorosi applausi finali testimoniano che la scelta della perfezione esteriore ha convinto oltremodo il pubblico.
STRANGELY FAMILIAR
Di un uomo che incontra sé stesso
regia Jakop Ahlbom
drammaturgia Judith Wendel
assistente alla regia Marit Schimmel (stagista)
con Erwin Boschmans, Yannick Greweldinger, Silke Hundertmark/Inez Almeida, Fabio Maniglio, Luca Maniglio, Daphne Masé
scenografia Marlies Schot, Douwe Hibma
luci Yuri Schreuders
musica e suono Leonard Lucieer, Jaïm Sahuleka e Teun Beumer
costumi Esmée Thomassen, Eva Wegman (assistente)
produzione Jakop Ahlbom Company e Teatro Metastasio di Prato
con il sostegno di Fonds Podiumkunsten, Amsterdams Fonds voor de Kunst, Fonds 21
Prima nazionale
spettacolo internazionale in collaborazione con Gruppo Colle
Teatro Metastasio, Prato | 19 ottobre 2024