GIULIA RANDONE | Non c’è un addetto alla distribuzione, funziona il passaparola. Per il terzo anno consecutivo la compagnia palermitana Quartiatri torna in Piemonte con lo spettacolo …dove le stesse mani, scritto e diretto da Dario Muratore e Dario Mangiaracina, liberamente ispirato alla Cantata per la festa dei bambini morti di mafia di Luciano Violante.
Ho avuto modo di vederlo l’anno scorso, seduta a terra in prima fila in una sala della Casa del Quartiere (popolare luogo di ritrovo nel quartiere di San Salvario), e in occasione delle repliche dell’11 e 12 febbraio di quest’anno ho fatto anche io la mia parte, invitando amici e conoscenti al cineteatro Baretti. L’ho fatto perché ero stata testimone di una piccola e meravigliosa trasformazione, e volevo condividere con altri questa esperienza.
Stavolta le condizioni erano meno favorevoli, perché il monologo onirico e domestico di Muratore sollecita un contatto ravvicinato con il pubblico, una dimensione intima che la lontananza e l’elevazione del palcoscenico sembrano negare. Inizialmente, lo spettacolo fatica a raggiungere lo spettatore. La narrazione che si dispiega attraverso le parole di Muratore e gli inserti musicali e sonori di Mangiaracina sembra da principio indurci a catalogarla come “un’altra storia di mafia”. In questo caso, però, la vittima è un uomo semplice, che la mafia ha ammazzato per sbaglio. Pino non è un eroe, non è morto combattendo la criminalità organizzata. E noi non siamo in sala per tributargli l’onore che, in quel caso, meriterebbe.
Ma proprio questa morte assurda offre a Pino, un uomo povero e non istruito, che ammette di non avere nulla da insegnare, la possibilità di far sentire la propria voce. Appare in sogno al cugino Tanino e, come nella tradizione delle fiabe, ha tre messaggi da consegnargli. Il contenuto di questi messaggi non è di per sé importante. Ciò che colpisce davvero è il suo modo di riportarli. Pino ama la vita, perfino dopo aver sperimentato la miseria e l’ingiustizia, ama anche quell’aldilà senza Dio da cui ci parla, e più di tutto ama i picciriddi. E in questo suo amore non c’è nulla di sentimentale né stucchevole. La sua è una dolcezza prorompente, sconcertante, una qualità rara e difficile da incarnare senza affettazioni, in teatro come nella vita.
Dario Muratore, invece, ci riesce. Il suo sguardo francescano abbraccia le persone, gli animali, i fiori, i marmi di S. Nicola a Bari e i quartieri spagnoli di Napoli con la stessa mitezza e determinazione. Il volto di questo giovane attore si trasfigura, diviene il volto di qualcuno che ha vissuto a lungo e intensamente, senza cedere al cinismo o alla stanchezza. È seduto su una sedia, immersa nel buio, ma le mani e le gambe irradiano storie, disegnano dettagli nell’aria, sospese sul crinale che separa le sottolineature dilettantesche dalla gesticolazione entusiastica. E alla fine ci accorgiamo che Muratore riesce nell’impresa di non scadere mai nella rappresentazione bozzettistica: al contrario, fa risaltare la singolarità di Pino e rende tangibile la forza della sua umanità.
Lo sguardo d’amore di Pino/Muratore ci interroga direttamente, ci agguanta e trascina dentro a una sarabanda di bambini, in volo su questo nostro paese intriso di mentalità mafiose. La Sicilia smette di essere lontana, il dialetto incomprensibile, la mafia una calamità contro la quale non si può nulla. Qualcosa nello spettatore si smuove, ci si commuove.