RITA CIRRINCIONE | Prodotto dal Teatro Ditirammu e dall’Associazione Babel, dal 7 al 10 novembre alla Bottega 5 dei Cantieri culturali alla Zisa è tornato in scena Radio Belice non trasmette di Giacomo Guarneri nel nuovo allestimento affidato all’interpretazione di Dario Muratore (nel precedente di dieci anni fa era in scena insieme all’autore), che ne firma anche la regia insieme a Marcella Vaccarino.
Vincitore del Premio Etica in Atto 2013 e selezionato per Scenario 2013, oltre a basarsi su testimonianze e fatti raccolti da Guarneri in quattro mesi di residenza in loco, Radio Belice non trasmette è liberamente ispirato a I ministri dal cielo – i contadini del Belice raccontano di Lorenzo Barbera, un documento in forma di narrazione in cui il sociologo e fondatore del CRESM-Centro di Ricerche Economie e Sociali per il Meridione, racconta, come recita il sottotitolo, la stagione di lotte di uomini e donne della Valle del Belice dopo il devastante terremoto del 1968, mentre i ministri del titolo sono i vari Moro e Colombo – e persino il Presidente della Repubblica Saragat – che arrivano in elicottero, fanno la loro parata promettendo aiuti che spesso non arrivano, per poi sparire nel nulla.
Il testo drammaturgico di Giacomo Guarneri – una forma di teatro di narrazione che può a pieno titolo essere annoverato tra i migliori esempi di teatro civile italiano – tra ricordi e flashback, racconta circa vent’anni di storia del territorio del Belice e si sviluppa tra un prima e un dopo, in cui a far da crinale è il terremoto del 1968, un evento catastrofico che è rimasto inciso nella memoria collettiva dei suoi abitanti.
A partire dagli anni ’50, grazie all’impulso di Danilo Dolci, quella parte della Sicilia Occidentale, da sempre sotto il giogo mafioso e in un’endemica mancanza di lavoro e di strutture sociali e abitative, inaugura un “conflitto amoroso” con l’autorità costituita, divenendo teatro di una stagione di attivismo politico “dal basso” fatto di azioni di disobbedienza civile e di lotte non violente sotto il segno della compartecipazione come l’“autoanalisi popolare” o “la scrittura condivisa” di progetti per il territorio. Nascono iniziative creative e paradossali come il digiuno collettivo di chi mangia “a mezza pancia” e in qualche modo il digiuno lo fa già, o lo sciopero “alla rovescia” inventato da un popolo di disoccupati che protesta lavorando, iniziative che quasi sempre sono seguite dalla risposta repressiva dello Stato.
Eppure per la gente del Belice è un momento epico: finalmente incomincia a superare rassegnazione e passività, a non aspettare le soluzioni dall’alto ma, abbassando lo sguardo, incrocia quello di chi si trova nelle stesse condizioni. “Come un’epifania” si fa strada l’idea che uscire dalla solitudine, unire le forze e costruire insieme, è possibile.
È in questo clima fattivo di progettualità e di partecipazione che nasce il “Piano di sviluppo per la Valle del Belice”. Ma a spezzare sogni e progetti di cambiamento arriva il terremoto che, da un popolo che ha appena alzato la testa, viene percepito come il giusto contrappasso per la colpa di avere protestato e avere immaginato una vita diversa.
Adesso non c’è solo da costruire ma da ricostruire quel poco che c’era. In un’Italia in fase di espansione economica, le differenze tra Nord e Sud si fanno più marcate e l’interfaccia tra una classe politica che pensa solamente a incrementare il proprio potere e i propri privilegi, e la massa dei “poveri cristi” che ha perso tutto e vive ancora nelle baracche, diventa scontro sempre più duro. Le lotte prendono una nuova piega. È l’epoca delle marce di protesta come quella che porta a Palazzo Montecitorio una moltitudine di contadini e braccianti che chiede ai “signori di Roma” semplicemente una casa e un lavoro; del “giudizio popolare” di Roccamena durante il quale i rappresentanti del governo vengono processati in pubblica piazza e dichiarati colpevoli, e dello “sciopero delle cartelle” che ne seguì, “perché non si pagano le tasse a uno Stato fuorilegge”. Nasce anche la prima radio libera italiana (un’emittente clandestina in un’epoca in cui vige ancora il monopolio di Stato sulle trasmissioni via etere) per denunciare il potere mafioso e clientelare che si era in buona parte appropriato dei soldi della ricostruzione della Valle del Belice, e che riesce a trasmettere solo per 27 ore prima di essere chiusa da un imponente operazione di polizia.
“SOS: la comunità del Belice non vuole morire!”. Inizia così Radio Belice non trasmette: le sedie ammassate insieme ad un’asta con microfono e a una cassa, che abbiamo visto entrando al centro della scena, sono state appena sistemate a comporre un cerchio aperto, la cassa riposizionata, il microfono riattivato: Radio Belice trasmette! Il luogo abbandonato riprende a vivere e la comunità dispersa torna a ricomporsi attorno a quel recinto potente e trasformativo che è il cerchio di parola nel quale è riconoscibile la lezione di Danilo Dolci.
Sotto forma di radiocronaca, comincia la narrazione di quegli avvenimenti, trasfigurati dalla vivida scrittura drammaturgica di Giacomo Guarneri e interpretati da un cronista solo in scena che, con l’urgenza e l’esaltazione di chi sa che sta parlando da una radio clandestina che da un momento all’altro può essere spenta (come di fatto avverrà alla fine), dà voce e corpo ai diversi “personaggi” che compongono quella comunità – tanti quante sono le sedie che occupa di volta in volta per incarnarli – ma anche a entità collettive o mediatiche come la TV o la radio.
C’è “Cola Vuccagranni”, che non intende stare più zitto e pensa che sia arrivato il momento di dire basta; c’è “Sandokan” che dietro la sua pragmatica diffidenza nasconde la paura del cambiamento favorendo di fatto lo statu quo; c’è “Tina Manulonga”, indomita e intraprendente, che osa dare un ceffone alla massima autorità dello Stato durante una delle passerelle post terremoto e che, durante il viaggio a Roma, superando l’impasse che impediva agli uomini di entrare a Montecitorio senza cravatta, ne procura per tutti svuotando una bancarella; c’è una sorta di coro greco che rappresenta la voce dell’uomo della strada, di chi è incapace di comprendere i grandi processi della storia ma non si lascia ingannare dai sottili giochi di potere e rivendica a gran voce i propri diritti più elementari. E c’è la voce della TV di Stato che delle vicende del Belice presenta la versione “ufficiale”, colpevolizzando le proteste e minimizzando la tragica situazione, sullo sfondo di un’Italia catturata dai primi eroi televisivi e che sembra avere solo un sogno: possedere l’automobile.
È un narrazione corale che disegna il profilo storico e antropologico di una comunità, di un territorio, di un’epoca, raccontata da una sola voce, quella di Dario Muratore che, con una notevole prova attoriale, interpreta una galleria di tipi umani e di soggetti, cogliendone postura, gestualità e parlata senza alcun artificio scenico se non attraverso il proprio corpo, la propria voce e una recitazione di grande fisicità, vivace e trascinante, che più volte fa dimenticare di assistere a un monologo.
Fatte salve le specificità territoriali e storiche, il grande affresco sociale e politico che si compone, rivela ancora oggi tutta la sua attualità e la sua universalità: quella storia periferica che si svolge tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso, racconta allo spettatore contemporaneo la solita spirale in cui nuovi SOS seguono nuovi terremoti, nuove repressioni rispondono a nuove lotte, in un eterno gioco tra chi detiene il potere e chi no, in un’alternanza tra rivoluzione e repressione (o normalizzazione) in cui la ribellione è un solo lampo quasi miracoloso destinato presto a spegnersi, lasciando forse una favilla per altri sogni e per future speranze. E se durante lo spettacolo tutto questo sembra solo aleggiare, con le parole di Franco Battiato che a fine spettacolo arrivano tra gli applausi, deflagra.
Povera patria
Schiacciata dagli abusi del potere
Di gente infame, che non sa cos’è il pudore
Si credono potenti e gli va bene quello che fanno
E tutto gli appartiene.
Non cambierà, non cambierà
Sì che cambierà, vedrai che cambierà.
RADIO BELICE NON TRASMETTE
liberamente ispirato a I ministri dal cielo di Lorenzo Barbera
di Giacomo Guarneri
con Dario Muratore
regia di Dario Muratore e Marcella Vaccarino
una produzione Teatro Ditirammu e Babel
Palermo, Cantieri Culturali alla Zisa – Bottega 5
10 novembre 2024