MICHELE PECORINO / Pac Lab* | Moby Dick di e con Angelo Tronca è un monologo tratto dall’omonimo e celebre romanzo del 1851 di Herman Melville, ridotto per la scena dallo stesso Tronca con il supporto drammaturgico di Maddalena Sighinolfi che lo ha affiancato nella regia. Per questo spettacolo, contrariamente ad altri ospitati nell’ex chiesa di San Pietro in Vincoli a Torino, attraversando una stretta scalinata dalle pareti bianche, il pubblico accede alle cripte, un tempo ricettacolo di resti ossei dei giustiziati della capitale sabauda, dove raramente vengono messi in scena eventi spettacolari.
Una volta accolti, gli spettatori vengono accompagnati in una piccola saletta semicircolare con mattoni a vista e tracce di affreschi scrostati. La stanza dispone di sole quattro panche disposte su due file, ciascuna corredata di cuscini su cui sono adagiate le cuffie che il pubblico indossa una volta accomodatosi. Nella parete di fondo, sormontata da un affresco raffigurante una mitra vescovile, si trova un’ulteriore porta che si apre su uno spazio oscuro, imperscrutabile.
Appena indossate le cuffie, si percepiscono rumori simili a quelli di un cantiere che, appena le luci si spengono, si trasformano in lontani scricchiolii. Improvvisamente, accompagnati dai suoni ondosi, ci si ritrova nel ventre della Pequod, la baleniera con la quale Achab parte per la sua impresa di caccia, e che presto si tramuta in un viaggio logorante, metafora di vita e di morte.
Lentamente, dall’apertura in fondo alla sala, un’ombra, quella del capitano Achab (Angelo Tronca), avanza trascinandosi verso il pubblico raccolto; una volta conquistata una posizione centrale, accende uno zippo e, ondeggiando nello spazio, inizia il suo monologo. Ripetutamente, spegne e riaccende l’accendino, pronunciando le sue parole con un tono profondo e graffiato e una intonazione cangiante. Ogni rumore, anche il più impercettibile, viene catturato da un microfono nascosto tra i capelli dell’attore e trasmesso alle cuffie che gli spettatori indossano. Si percepiscono distintamente la rotella dell’accendisigari logorare la piccola pietra focaia, le scintille che scoppiettano generando la fiamma, i passi dell’interprete e financo il suo respiro soffocato.
Tronca si muove in scena con impazienza, come catturato da una frenesia febbrile, attraverso un flusso di coscienza che sembra seguire un moto ondoso impetuoso. Le sue parole, quelle del capitano Achab ossessionato dal cetaceo bianco, si rivelano come il racconto forsennato di un’epopea schizofrenica. In rapida sequenza, Achab continua ad accendere e spegnere l’accendino, fino a utilizzare un pacchetto di fiammiferi per innescare la fiamma in una lampada a petrolio posta vicino al varco da cui è entrato.
Assistiamo a un continuo svelarsi di elementi profondamente personali, intrisi di un’epicità spasmodica. D’emblée, nel mezzo del narrare di Achab, irrompe in scena una corda, alla quale il capitano si aggrappa, la tira, la attorciglia al suo braccio per non lasciarsi sfuggire la presa. Inizia così il racconto avvincente della scena di caccia al cetaceo, dove emerge tutto l’anelito all’infinito che permea le pagine di Melville. Achab tira la cima furiosamente, affaticato; in cuffia, le sue urla roche sono accompagnate da una musica disco anni Ottanta, dal ritmo travolgente in quattro quarti, che cessa soltanto quando il comandante stramazza al suolo. Questa scena rappresenta l’apice del lavoro, rivelando la riflessione di Melville sulla lotta contro i demoni personali, la lotta non di un singolo personaggio ma dell’uomo.
A chiusura del monologo, Achab trascina in scena un grosso cuore, presumibilmente di resina, al cui interno una luce rossa simula il pulsare dell’organo che Tronca spegne dopo aver pronunciato le ultime parole.
L’intero lavoro appare coeso nella struttura drammaturgica, nonostante dalla riscrittura fatta da Angelo Tronca emergano elementi appartenenti a un registro linguistico lontano dalle traduzioni de testo di Melville a opera di Cesare Pavese, Cesarina Minoli o più recentemente di Ottavio Fatica. Appaiono anche espressioni quali: […] un cuore grande come un’utilitaria che risultano poco consone alla costruzione di una realtà altra, immersa nei mari abitati dal cetaceo bianco. Una sorta di “diamesia” forzata – ovvero le variazioni che il sistema di una lingua subisce da fattori fisico-ambientali attraverso i quali si svolge l’atto comunicativo – che non giunge mai a un completo e congruo compimento di senso.
Altro elemento poco convincente sono le musiche scelte per l’intero lavoro e il loro utilizzo: sebbene il pezzo disco funzioni nella scena della caccia donandole quella ulteriore patina frenetica di cui necessita, altrove, i pezzi scelti, creano nel pubblico un trasporto affettato, in disaccordo con il resto della messa in scena. Anche la scelta di rendere visibile il cuore appare forzata rispetto agli altri elementi scenografici. La metonimia della scena viene interrotta dalla comparsa di questo elemento così definito, che rivela esplicitamente allo spettatore che si tratta del cuore di Moby Dick, privandolo del piacere intellettuale della scoperta e dell’immaginazione, indispensabile in teatro.
MOBY DICK
tratto da “Moby Dick” di Herman Melville
di Angelo Tronca
dramaturg e assistente alla regia Maddalena Sighinolfi
con Angelo Tronca e Maddalena Sighinolfi
progetto sonoro Massimiliano Bressan
consulenza artistica Il Mulino di Amleto
produzione A.M.A. Factory
si ringrazia TPE
San Pietro in Vincoli, Torino | 6 dicembre 2024
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.