GILDA TENTORIO | Prendi una serata pre-natalizia, quando la febbre dello shopping milanese non è ancora al suo apice. Prendi la sala del Teatro Parenti gremita di molti liceali elettrizzati. Rifletto sulle vibrazioni che emana questo pubblico giovane, ingenuo, senza troppi appigli o pastoie culturali. Molti scherzano sul titolo, a cui non avevano prestato troppa attenzione: “Guarda, accanto alla parola Amleto c’è un due, come fosse l’esponente di una potenza! Non sarà mica una lezione di matematica? Noi siamo qui per la tragedia del William”.
Eh no, miei cari, siete qui per Amleto2, un Amleto appunto “al quadrato”, amplificato, barocco, riscritto e divertentissimo. Il testo del Bardo è il pre-testo per uno spettacolo cult di Filippo Timi andato in scena ormai una quindicina di anni fa e ora proposto in una versione rinnovata. Forse non capiranno tutto, e lo senti quando le risate sono tiepide se si parla di Puffi, mentre J’adore Dior acchiappa subito e il gioco incalzante dell’istrionico Timi conquista.
Un tappeto, un trono di legno, drappi, palloncini sono lo sfondo colorato e festoso di questa storia che si dipana dietro una cancellata: una “gabbia dei leoni”, ha spiegato Timi, quasi a volerci proteggere dal serraglio feroce e scatenato dei teatranti, ma anche – aggiungiamo noi – una quarta parete fatta di pieni e vuoti, esposta e permeabile al dialogo con il pubblico. Là dietro, infatti, si muove un mondo a tratti circense, grottesco, surreale, che esonda verso di noi e ci travolge. I piani però sono pronti a rovesciarsi: e se fossimo noi in gabbia e loro la realtà?
Sì, perché dietro la veste scanzonata e sovversiva, Timi (un Amleto irresistibile e in gran forma) riflette sulle varie componenti che costituiscono il rito teatrale: da una parte, i personaggi-burattini sottomessi a un ruolo; dall’altra parte, il “buio” che respira e osserva (cioè noi, il pubblico), ma anche il male, l’errore, la follia, che cingono d’assedio le nostre esistenze. La «materia» che ci circonda, dice nel suggestivo monologo iniziale in voce off, è «probabile prima di essere reale»: sembra un misterioso inno alla potenzialità assoluta del linguaggio teatrale, che ci prepara allo spiazzamento, all’anarchia della riscrittura di una tragedia fatta a pezzi e riassemblata, perforata dal comico e dagli anacronismi. Nella centrifuga di Timi trovi il pop, il grottesco, il surreale lirico, il kitsch, il melò, un andirivieni metateatrale dentro e fuori i personaggi, ma il tutto ben orchestrato.
In un disordine solo apparente, che accosta Beethoven alla Cuccarini, Nothing Compares 2 U a Day-O/Banana boat song, comicità sguaiata e momenti toccanti, citazioni fedeli e commenti dissacranti, si dipana la storia di un Amleto annoiato e soffocato dai privilegi del potere, che vorrebbe liberarsi del suo ruolo: la follia si scatena allora a ridisegnare la propria storia, aprendo nicchie di potenzialità esplosive, come quando Amleto-Timi propone a Laerte (Gabriele Brunelli) di fuggire insieme a Honolulu invece di duellare…
Durante lo spettacolo resti invischiato nel ritmo vertiginoso delle invenzioni esilaranti, ma quando lasci depositare lo stupore per scavare sotto il livello più superficiale, trovi tanti spunti (forse troppi?) e una delle chiavi di lettura è la riflessione, leggera e dolceamara, intonata su voci e livelli diversi, sul senso del teatro.
Anzitutto c’è Amleto, e quando ad esempio si arriva al celeberrimo Essere o non essere, ecco che Timi, fingendo con autoironia un attacco di balbuzie, fa una pausa su quella disgiuntiva. L’aut aut, sintomo da sempre dell’irruenza giovanile, ha lasciato il posto alla maturità dell’et et, la consapevolezza della luce che convive con le tenebre, la vita con la morte, il teatro con la realtà, l’attore con il pubblico, il dentro con il fuori.
E le voci femminili. Ofelia (una delicata Elena Lietti) continua a interpretare il suo ruolo vecchio di quattrocento anni, e nonostante gli avvertimenti dell’Amleto consapevole (ma per lei folle) finirà per morire annegata. Ma in un monologo toccante ci descrive lo strazio della sua morte in presa diretta (forse un riferimento ai tanti naufraghi del Mediterraneo).
La scena dei teatranti, che in Shakespeare attraverso la finzione svelano la verità del delitto, viene qui ridotta al monologo di un’Attrice (Lucia Mascino, che è anche una fantastica e sgangherata Gertrude): il suo essere o non essere è la ricerca di identità, la scelta del teatro e le difficoltà della carriera, il corpo femminile-oggetto, l’aleatoria consistenza della felicità.
Ma soprattutto, ecco comparire a più riprese Marilyn Monroe (una strepitosa Marina Rocco), anche lei figura di quell’amletico “essere o non essere” che l’ha divorata. Risatine nervose, il candore quasi caricaturale da oca svampita: Norma o Marilyn, realtà o feticcio, vita o ruolo, oro di star o buio del nulla? Anche in questo caso tragedia e commedia sono registri in continua osmosi.
Ad esempio nel finale, quando Marilyn si impegna a provare varie possibilità di suicidio (di spada, rasoio, perfino alla Cleopatra), il parossismo comico mette i brividi, e quando infine la “barbie” trova i “barbi-turici” e crolla stringendo in mano la statuetta dell’Oscar, sai che le vie dell’aut aut si sono conciliate nella compresenza di lustrini e oscurità, fuori e dentro, dolore e gioia, amore e morte. «E il resto è silenzio» dice lapidaria e ironica. Un vuoto delicato, subito riempito dal boato dei meritati applausi.
AMLETO2
testo e regia di Filippo Timi
con Filippo Timi, Lucia Mascino, Marina Rocco, Elena Lietti, Gabriele Brunelli
luci Oscar Frosio
produzione Teatro Franco Parenti / Fondazione Teatro della Toscana
20 dicembre 2024 | Teatro Franco Parenti, Milano