GIULIA MURONI | Schegge 2015. Siamo in sala per gli ultimi due spettacoli della rassegna, ospitata negli spazi di Cubo Teatro. In scena “Critica della ragion giusta” di Carullo-Minasi e “Malevolevabene” di Compagnia Polonio era malato. Procediamo con ordine.
In “Critica della ragion giusta” la materia filosofica, il dialogo platonico Eutifrone, spesso fraintesa e corrotta in sede teatrale, diviene tra i due personaggi un incalzante scioglilingua, in grado di attorcigliarsi e dirimersi nel continuo botta e risposta intorno ai concetti di sacro e di empio. È da questa dinamica di diastole e sistole, dai solleciti interrogativi a cui seguono repliche curiose, che si condensa un efficacissimo coagulo di surrealtà. Le figure strampalate di Carullo e Minasi, le loro fisicità irregolari e i loro timbri vocali, sono gli elementi di un quadro stralunato, rarefatto. La cornice drammaturgica viene infatti dilatata e perforata da momenti metateatrali, piuttosto simpatici, e rimodellata attraverso l’incedere socratico: un puntuale interrogare che conduce al disvelamento della vacuità degli assodati concetti di conoscenza, verità e linguaggio. Portano al collo delle cravatte: un punto interrogativo e uno esclamativo, didascalici della suddivisione dei ruoli nel dialogo; dall’alto cala sulla scena l’infisso di una porta, capeggiato dalla scritta “Torno subito”. Sul fondo un cartonato in bianco e nero sagoma i contorni stilizzati dell’architettura di una città.
Questa strana coppia dà vita ad uno spettacolo curioso e acuto che, benché sembri risentire di qualche incertezza drammaturgica sul finale, riesce a mantenere un originale carattere di assurdità intelligente, ricavando dal dialogo filosofico una sostanza fertile non soltanto di acuminate indagini conoscitive ma anche di esilaranti paradossi kafkiani.
La rassegna “Schegge” si chiude con “Malevolevabene” della compagnia Comunque Polonio era malato. Monica Bonetti tra una poltrona, una sagoma al suolo e un tappetino verde, anima tre personaggi. Tre storie, all’apparenza sconnesse che, nella tessitura della narrazione, finiscono per intrecciarsi e non importa se la tangente è una corrispondenza di senso o un effettiva collisione degli eventi, quello che deve emergere è la perversa e multiforme dinamica di violenza di genere, subdola e intestina, celata nei più banali dettagli del quotidiano. La canzone del Quartetto Cetra, “Però mi voleva bene”, scandisce alcuni momenti dello spettacolo, aiuta a sottolineare il lato grottesco e insensato di un certo modo femminile di amare che si lascia frustrare, silenziare, opprimere, in cambio di una parvenza di affetto e attenzione. Forse, suggerisce l’attrice mentre si rivolge con fermezza al pubblico, tutto questo ha inizio quando si deprime la curiosità, l’intraprendenza, l’energia delle bambine. Quando le donne, a partire dall’infanzia ma poi per tutta la vita, vengono indirizzate verso ruoli mansueti, di supporto, quando vengono stigmatizzate nei tentativi di autonomia e frustrate negli impeti esuberanti. Questo modo, fintamente innocuo, apparentemente premuroso, ha le sue responsabilità rispetto alla questione della violenza sulle donne e sulla loro bistrattata autostima. Questo spettacolo si fa carico con coraggio di un tema agli onori della cronaca e ne parla in modo non superficiale e accessibile. Dato l’intento esplicitamente civile del lavoro si potrebbe ampliare ulteriormente il bagaglio concettuale di riferimento, alla ricerca di un ritratto del fenomeno sempre più articolato. Ad esempio ad ora lo spettacolo potrebbe far pensare che le dinamiche violente di genere si verifichino soltanto in contesti di ceti medio bassi, con scarso accesso alla cultura. Questo non è vero, la cultura – o almeno questa cultura – non è l’antidoto. Comunque una buona prova attorale e drammaturgica.
Silvia Limone e Girolamo Lucania, gli organizzatori della rassegna, in conclusione di ogni spettacolo – un po’ Gianni e Pinotto, un po’ preti all’oratorio – hanno preso ogni volta qualche minuto per ringraziare il pubblico, talvolta non numeroso ma sempre coinvolto e partecipe, e invitarlo a moltiplicarsi – sempre come pubblico. Si dicono contenti di questo cartellone e fanno bene, la rassegna ha mantenuto uno standard di buona qualità, con un esplicito impegno a restituire qualche urgenza del reale e riuscendo comunque a riprodurre una varietà stilistica eterogenea.
Abbiamo assistito all’ottimo spettacolo di Ortika a proposito dei Cie, costruito a partire da una drammaturgia composita e con un uso sapiente dell’impianto scenico, reso vibrante dall’intensità magnetica di Alice Conti. Il cartellone ha inoltre mostrato le peripezie degli scalatori di Atir Teatro Ringhiera, le sofferenze materne di TeatRing e il disagio infantile, portato in scena da Eliana Cantoni. Tutto questo per un quadro ricco e sincero sulla realtà che, dice Silvia Limone, non fa ridere anzi, spesso un po’ piangere. Ma forse è in quel riso sardonico e nella commozione scandalizzata che si risveglia una buona spinta per combattere le nostre esistenze.