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giovedì, Novembre 21, 2024
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De/Frammentazione di Fabio Pisano: la linea emotivo-temporale della manipolazione

FEDERICA D’AURIA / PAC LAB*| Ci sono persone che, per altre persone, esercitano solo una funzione. Devono essere persone che hanno gambe, braccia, occhi; ma devono essere monche di tutto il resto. Devono essere persone incarnate in fogli di calcolo, senza nessun diritto di pensare, di agire, se non dietro un disegno manipolatorio, se non dentro una cella algebrica. È una tendenza, quella di tirare i fili e muovere le pedine del proprio gioco, che solo chi non sa cosa significhi essere libero può compiere con destrezza: conosce le regole della propria censura e le esercita sugli altri. Questo gioco di manipolazione (e molto altro) è De/Frammentazione – Dramma Assoluto con Incursioni a Latere di Io Epico, Ovvero una Storia di Impossibilità di Fabio Pisano, un componimento lineare e insieme contorto con momenti tanto dissacranti quanto profondi, che racconta una storia di impossibilità temporale, di impossibilità emotiva, di impossibilità fisica.

La storia è un dialogo d’amore e d’amicizia tra Uno, Zero e Moglie, che interpretano a turno anche il ruolo del Didascalista, una figura che sembra il mediano tra l’inconscio e Dio, fondamentale per conoscere i frammenti dei loro pensieri e che manovra le loro azioni. La scena, nei ritmi, nei toni e nell’intensità è arricchita da un personaggio (Irene Latronico, anche assistente alla regia, con due ruoli di responsabilità che gestisce con maestria) seduto in disparte, che con dei fogli su cui sono apposte delle didascalie e un proiettore, scandisce i frammenti temporali e le emozioni, aiutando il pubblico nella comprensione del sottotesto del dialogo tra i tre.
L’azione si svolge al centro del palco, quattro interpreti, una proiezione destinata a cambiare didascalia e frammento temporale di volta in volta. I personaggi sono seduti lungo un rettangolare e imponente tavolo che segna la distanza fisica (ed emotiva) tra loro. Le luci (Martino Minzoni) e i costumi (Alessandra Faienza) raccontano scene di vita quotidiana, rotte ora da un ricordo, ora da una sorta di interrogatorio.

Il dialogo, che non ha propriamente al centro l’amore e l’amicizia, ma tutto quanto di utile può derivarne, segue un flusso temporale frammentato e sparpagliato con una lucidità disarmante che trascina e coinvolge il pubblico. L’utile di cui sopra, di cui in mezzo e di cui tutto, è l’unico elemento che interessa a Uno (Michele Magni, tanto bravo da trasmettere ogni singola emozione, ogni micro espressione di raggiro, tra il subdolo e la scarsità, che lo avvicinano però al pubblico), amico di Zero (un ottimo Roberto Marinelli, con cui si entra subito in empatia, con il suo io non ho ambizioni e la sua eleganza sempre morbida) e marito di Moglie (una intensa, magnetica, bravissima Francesca Borriero che alterna momenti di profonda inquietudine con delicatezza e fasi ironicamente pungenti con una professionalità alta e scevra da meccanicismi).

Uno è sterile. Lo sa prima di sposare Moglie, ma Moglie non lo sa. Zero è l’amico di Uno ed è anche l’amico di Moglie, quello che si invita a cena e che resta ancora un po’ mentre gli altri se ne vanno. Uno vuole un figlio e chiede a Zero di svolgere la funzione matematica insieme a Moglie, che invece compie la funzione sociale, prima ancora di chiederlo a Moglie. I due, Moglie e Zero, asseconderanno Uno, per amore, e concepiranno un bambino.

Ma si sa che tutto quello che si “moltiplica per zero” è destinato a partorire un finale amaro.

Lo spettacolo è di una bellezza travolgente perché restituisce la sensazione di stare con i piedi sul palco, seduti a tavola con i personaggi, e con i pensieri nei flussi temporali ed emotivi degli attori. Viene voglia di parlarci, di chiedere, di capire le motivazioni, le scelte, di carpirne i sentimenti e di seguire il “filo del discorso” che invece è una matassa frammentata e non lineare ma chiara, vivace, immediata. Il merito del lavoro, emerso con una precisa, trainante e ottimale riuscita è la fusione di professionisti brillanti, delle due compagnie servomutoTeatro e Liberaimago.

Fabio Pisano, che ha curato la drammaturgia, ha sviscerato parole già legate a pensieri, un testo già denso di sottotesto, colore, forma. Ogni didascalia, tutti i dialoghi e i monologhi, sono proiezioni di un tempo presente che contiene tempi passati. Quando si ascoltano, queste parole, arrivano dritte al punto e rimbalzano nella scena; sono parole emotivamente intelligenti. È uno stile drammaturgico molto presente, che si fa sentire, che è arricchente da ascoltare.
L’elemento che colpisce di più è la forza motrice che lega tutto e che spalleggia la regia di Michele Segreto. Una regia pulita, centellinata e indispensabile, che ha esaltato i punti di forza dei protagonisti e che ha avuto cura esemplare del testo, riuscendo a farlo diventare corpo, parola in grassetto, forma, nonostante la fissità della scena, cosa non affatto semplice.

Un quadro fermo con un movimento interiore emotivo e continuo, è questa l’immagine che la fusione tra le due compagnie è riuscita a far affiorare. Lo spettacolo, con il suo debutto napoletano al Piccolo Bellini dal 12 al 17 novembre, dopo l’anteprima al Festival Genera Azione di Brescia ed il debutto al Kilowatt Festival 2024 di Sansepolcro, è prodotto dalle giovani compagnie indipendenti Liberaimago e servomutoTeatro, in collaborazione con il Teatro Bellini di Napoli, con il sostegno di AMAT – Associazione Marchigiana Attività Teatrali e di RAM – Residenze Artistiche Marchigiane, progetto promosso da MiC e Regione Marche e con il sostegno di Nest – Napoli Est Teatro. Già vincitore nel 2019 del Premio Fersen per la Drammaturgia, De/Frammentazione è nato grazie alle suggestioni di Fabio Pisano nate e attraversate da Szondi con “Teoria del Dramma Moderno” e da Lehman con “il Teatro postdrammatico”.

L’incontro tra tanti talenti genera in maniera quasi automatica un successo di pubblico (che infatti ha risposto positivamente a ogni replica) ed è il risultato meritato di un lavoro che ha avuto davvero qualcosa da dire e lo ha ben detto.
De/Frammentazione è un Dramma senza tempo, perché anche se il tempo prima del nostro tempo finisce”in realtà non finisce mai, in nessun momento, di sorprendere e di regalare al pubblico in 70 minuti, tempi di riflessione che non si inabissano e non si curvano perché sono leggeri, ironici ed intelligenti.

DE/FRAMMENTAZIONE
Dramma Assoluto con Incursioni a Latere di Io Epico, ovvero una Storia di Impossibilità

drammaturgia Fabio Pisano
regia Michele Segreto
con Francesca BorrieroMichele MagniRoberto Marinelli
assistente alla regia Irene Latronico
costumi Alessandra Faienza
light design Martino Minzoni
produzione servomutoTeatro e Liberaimago
con il sostegno di AMAT – Associazione Marchigiana Attività Teatrali
in collaborazione con RAM – Residenze Artistiche Marchigiane
progetto promosso da MiC e Regione Marche
con il supporto del progetto di residenza artistica Teatro Le Forche – Futuro Prossimo Venturo 2024
con il sostegno di Circuito CLAPS/IntercettAzioni
si ringrazia NEST Napoli Est Teatro

 Piccolo Bellini, Napoli | 15 novembre 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Heliopolis: nasce l’archivio digitale sulle arti performative di Teatro Akropolis

RENZO FRANCABANDERA | L’Archivio Digitale Heliopolis, creato da Teatro Akropolis, è una piattaforma online dedicata alla documentazione, allo studio e alla diffusione delle arti performative, con un focus particolare sul teatro contemporaneo, la danza e le arti sceniche. Presentato a Genova alla comunità cittadina e teatrale nella giornata di sabato 16 novembre da Luca Donatiello e il ricercatore Simone Dragone, che ha coadiuvato l’aspetto archivistico e il dossier su Grotowski, all’interno dell’edizione 2024 della XV edizione del festival Testimonianze Ricerca Azioni, l’archivio raccoglie un’ampia varietà di materiali multimediali, come video di spettacoli, prove, interviste e laboratori, oltre a studi, ricerche e rari materiali documentali.
L’obiettivo principale di Heliopolis è quello di creare uno spazio di condivisione e ricerca, accessibile sia a professionisti del settore che al pubblico generale, offrendo una risorsa unica per approfondire i linguaggi del teatro contemporaneo e il pensiero critico che li accompagna. Teatro Akropolis ha voluto fare di questo archivio un luogo in cui il processo creativo degli artisti e il loro percorso di ricerca siano resi visibili e consultabili, favorendo la riflessione e lo scambio culturale.

Una determinazione che nasce come naturale derivazione dell’attività svolta da Akropolis in questi anni, caratterizzata da un lavoro di ricerca interdisciplinare e sperimentale sulle e nelle arti performative, con particolare attenzione a temi fondamentali del teatro e della danza contemporanea. I principali ambiti della loro ricerca sono connessi in primis alle origini della performance, allo studio dei rituali arcaici e delle radici del teatro.
Il direttore artistico della compagnia e del Festival, il regista e studioso Clemente Tafuri, da decenni, con il suo lavoro esplora le connessioni tra le pratiche sceniche contemporanee e la storia del teatro, indagando le modalità con cui il gesto, il corpo e la voce si sono evoluti dal contesto rituale a quello performativo. L’interesse personale e trasmesso poi al gruppo di ricerca condensatosi intorno ad Akropolis negli anni, si focalizza sul significato antropologico e simbolico delle azioni sceniche, recuperando elementi ancestrali che risuonano nelle pratiche artistiche di oggi. In questa prospettiva, il corpo è inteso come principale veicolo di comunicazione ed espressione artistica.
La ricerca di Teatro Akropolis esplora quindi il movimento come linguaggio autonomo, oltre il testo o la parola. Particolare attenzione è rivolta alle dinamiche fisiche estreme, alla qualità del gesto e al modo in cui il corpo crea significato in scena, con un un approccio interdisciplinare che combina teatro, danza, musica, filosofia e arti visive. L’obiettivo è trasformare il processo creativo in una forma di ricerca che non si limiti alla produzione di spettacoli, ma che esplori anche nuovi linguaggi.

Proprio attraverso l’Archivio Digitale Heliopolis, Akropolis si è occupato e continuerà ad occuparsi di raccogliere e diffondere materiali che documentano processi creativi e teorici, dando spazio anche a scritti critici e filosofici che riflettono sulla pratica teatrale. La documentazione non è solo un archivio di memoria, ma un’opportunità per interrogare il presente e il futuro delle arti performative.
A questo fine è stato instaurato un processo di collaborazione con artisti, ricercatori e studiosi per alimentare un dialogo tra pratica e teoria. Questo approccio si concretizza in laboratori e incontri, festival come Testimonianze, Ricerca, Azioni, appena conclusosi a Genova, dove la pratica performativa si intreccia con momenti di riflessione teorica. Viene qui esplorata, d’altro canto, anche l’idea del teatro come spazio comunitario, dove la relazione tra attore e spettatore diventa elemento cruciale del linguaggio scenico.
Il teatro non è solo luogo di rappresentazione, ma anche uno spazio di trasformazione e di condivisione di esperienze. Il festival organizzato annualmente è un perfetto esempio di questo approccio. Riunisce artisti e studiosi per condividere pratiche e pensieri sul teatro contemporaneo, mettendo in evidenza il legame tra tradizione, sperimentazione e ricerca accademica.

L’Archivio ospita una vasta gamma di contenuti documentali, organizzati per approfondire le arti performative e la loro evoluzione. Fra i materiali disponibili:

  • Spettacoli teatrali: Documentazione video di performance realizzate da Teatro Akropolis e da artisti ospiti. Ad esempio, spettacoli presentati durante il festival Testimonianze ricerca azioni.
  • Prove e processi creativi: Riprese di sessioni di prova che mostrano l’evoluzione del lavoro scenico, mettendo in luce il rapporto tra ideazione e realizzazione.
  • Dialoghi con performer, registi, coreografi e studiosi del teatro contemporaneo. Questi contenuti approfondiscono le visioni artistiche, le tecniche e i temi centrali del loro lavoro.
  • Ad esempio, interviste a figure di rilievo come Eugenio Barba o altri esponenti dell’Odin Teatret, con cui Teatro Akropolis ha spesso dialogato.
  • Scritti originali di artisti e studiosi che riflettono sulle pratiche teatrali.
  • Testi di approfondimento sulle origini del teatro, sulla funzione del rito nella performance e sul ruolo del corpo nell’arte scenica.
  • Fotografie di scena e immagini ad alta qualità che documentano spettacoli, laboratori e momenti di backstage, catturando l’estetica e la poetica del lavoro di Teatro Akropolis e degli artisti coinvolti.
  • Documentazione dettagliata delle edizioni del festival Testimonianze ricerca azioni, con programmi, video, e materiali critici sui partecipanti e i temi trattati.
  • Risorse dedicate ai progetti di ricerca avviati da Teatro Akropolis, come quelli sulle radici antropologiche del teatro.
  • Articoli e saggi scritti da studiosi e critici teatrali, molti dei quali inediti, che analizzano il lavoro di Teatro Akropolis e dei loro collaboratori.
  • Registrazioni di workshop e laboratori tenuti da Teatro Akropolis o da artisti ospiti, utili per chi è interessato a pratiche sceniche innovative.
  • Questi contenuti includono spiegazioni di tecniche corporee, esercizi vocali e metodologie performative.

L’archivio è pensato sia per professionisti del settore che per appassionati, offrendo un patrimonio culturale che per la prima volta trova una sistemazione organica, utile per indagare le dinamiche creative e teoriche che caratterizzano le arti performative in una prospettiva storica dalle origini a oggi.

Essere o apparire? Il gioco di Teatringestazione al festival Danae di Milano

MARIA FRANCESCA SACCO / PAC LAB* | Mονάς (monàs) in greco vuol dire uno: per i pitagorici è l’arché, principio costitutivo dell’essere, per Giordano Bruno è una piccola particella che costituisce la realtà, mentre Leibniz ne parla come di un atomo spirituale indivisibile e unico che solo Dio può creare e distruggere. In generale, tutti i filosofi che abbiano dato un’interpretazione a μονάς, lo hanno fatto per comprendere l’essenza della realtà e, di conseguenza, la propria.
E oggi potremmo definirci altrettanto esploratori dell’essere?
L’esperimento portato in scena da Teatringestazione all’interno del festival Danae, alla Fabbrica del Vapore di Milano, nella performance partecipativa Mονάς (monàs), la reale sostanza delle cose, si confronta con lo scomodo binomio essere-apparire. Lo fa attraverso la filosofia del francese Guy Debord e la presenza della tecnologia.
La XXVI edizione del festival ha come tema il giardino: ultimo luogo di spiritualità e poesia, dove risiede il proprio Io e cioè l’essenza.
La performance di Teatringestazione, compagnia napoletana che nasce nel 2006 grazie a Anna Gesualdi e Giovanni Trono, emerge da un progetto di ricerca nato con l’idea di “smarginare”, di uscire dall’ordinario, ponendo in crisi le credenze precedenti e i luoghi convenzionali del fare teatro. DERIVA è il nome del gruppo di studio che si è incontrato periodicamente discutendo sulla Società dello spettacolo di Debord, il cui esito è stato proprio Mονάς (monàs), la reale sostanza delle cose, «gioco» in cui lo spettatore sembra essere protagonista attivo, co-creatore della performance.
La premessa che Gesualdi fa prima di lasciar entrare in sala il pubblico è una sorta di vademecum, l’elenco delle regole del gioco, come se stessimo per entrare in Matrix: uno schermo divide in due lo spazio, un playground e un luogo di contemplazione. Chiunque può passare da una parte all’altra liberamente purché, per andare nel campo da gioco, si indossino le cuffie che sono su un tavolo. «Toglietevi i cappotti che ingombrano». E via, in scena.

ph. Sara Meliti

Il playground, accessibile con indosso le cuffie che trasmettono musica techno, è un luogo di azione dove lo spettatore diventa attore e regista, un demiurgo in realtà. Infatti, sullo schermo egli vede se stesso riprodotto grazie a una telecamera e ogni suo movimento, restituito istantaneamente, domina la scena, essendo in effetti tutto quello che accade. Tuttavia ogni gesto è alterato: frammentato, rallentato, sfocato. Al centro c’è il performer Trono, che si muove continuamente dando spunti anche agli altri.

ph. Sara Meliti

Lo spazio della contemplazione è complementare al primo: da qui è possibile vedere, stavolta da osservatori passivi, ciò che avviene dall’altra parte ma sempre sullo schermo. Non si sente la musica, bensì un’intervista in lingua originale a Debord la cui voce, non in sincrono con le scritte tradotte in italiano, sembra più un’intervista con se stesso, un flusso di coscienza. Da questo momento qualcosa inizia a cambiare nello sguardo di chi assiste, come se il gioco fatto fino ad adesso, divertente per giunta, ci stesse crollando sotto gli occhi: le riflessioni di Debord su una società basata sullo spettacolo, il cui unico bisogno è sentirsi vista e apparire, si confondono con i movimenti sullo schermo di coloro che si dimenano dall’altro lato. Si ottiene un effetto straniante che fa mettere in discussione ciò che si è creduto fino ad ora: se si era pensato di essere creatori di partiture di movimento irripetibili, si realizza d’un tratto che ciò che appare di noi sono solo frammenti, immagini bloccate, deformate, rallentate. Non c’è l’essenza di nessuno, tutti sono ugualmente irriconoscibili e snaturati. Tutti sostituibili, svuotati e partecipi di una «micro società provvisoria», fittizia e labile.
Pare che il vero protagonista sia però lo schermo, feticcio, oggetto di continue attenzioni, l’unico in grado di sancire la presenza di ogni essere vivente, giustificandone, così, l’esistenza. Se si pensa alla realtà nella quale si vive, niente potrebbe suonare più realistico: il nostro essere si perde tra foto e video sui social, immolato in favore dell’apparire. La maschera pirandelliana oggi è diventata così lo schermo (come aveva predetto Debord negli anni ’70) e una società del genere è destinata a divenire massa, priva di identità, incapace di cogliere la differenza tra quello che è reale e quello che non lo è e, di conseguenza, diventa manipolabile, soggetta a ogni tipo di potere. Viene subito in mente Hannah Arendt che scrive «il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto oppure il comunista convinto, ma le persone per le quali non c’è più differenza tra realtà e finzione, tra il vero e il falso» (Le origini del totalitarismo, 1951)

ph. Sara Meliti

Ciò che fa di questa performance, tra istallazione e happening, una trappola che funziona, come la definisce Gesualdi, sta proprio nello smascherare l’incapacità dello spettatore di abbandonare il campo da gioco e smettere di dimenarsi davanti alla camera: addirittura qualcuno deve essere invitato esplicitamente a lasciare il playground perché la performance possa andare avanti. Il pubblico che continua a muoversi in scena, forse fa emergere il proprio desiderio inconscio (o indotto?) di apparire, per non cadere nell’oblio. Questa sarebbe l’alternativa, del resto: una volta che Trono rimane solo in scena e senza schermo (fatto calare come un sipario), infatti, pur ricreando le stesse mosse fatte precedentemente, i suoi movimenti diventano vuoti, inesistenti e inconsistenti, e la luce si fa sempre più piccola fino a farlo sparire nell’oscurità. Senza schermo non si è.
E «grazie per aver giocato», chiosa amara Gesualdi.

MONAS, LA REALE SOSTANZA DELLE COSE

una creazione di Teatringestazione
ideazione, regia e attuazione Anna Gesualdi, Giovanni Trono
drammaturgia Loretta Mesiti
con il sostegno delle residenze IntercettAzioni – Centro di Residenza Artistica della Lombardia, Artists in ResidenSì/Ateliersì – Bologna, Prima Onda Festival/Genìa – Palermo.
Fabbrica del Vapore, Milano | 1 novembre 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Notte Morricone: Marcos Morau fa danzare le note di Ennio

CRISTINA SQUARTECCHIA l Come può essere la notte di un genio creativo? Quali  i tormenti notturni di un uomo che nel corso della sua esistenza ha composto musica di respiro planetario? Di questo ha raccontato il coreografo spagnolo Marcos Morau in Notte Morricone, la sua nuova creazione prodotta per la Fondazione Nazionale della danza Aterballetto, in anteprima questa estate allo Sferisterio di Macerata nell’ambito del Macerata Opera Festival per Civitanova danza e poi al Teatro Argentina in scena dal 24 ottobre al 10 novembre – giorno del compleanno del grande maestro – per il Roma Europa Festival.

ph Christope Bernard

Il lavoro di Marcos Morau si presenta come un omaggio, una dedica d’amore al compositore  che ha segnato la sua infanzia, come afferma in molte interviste che si possono trovare tra le pagine web della Fondazione Nazionale della danza Aterballetto. Ma oltre al tributo c’è di più: Morau prova a scavare nell’universo sonoro e mentale di un uomo che viveva tra e con le note, in continua risonanza con le immagini, le tonalità e le melodie. Nel farlo progetta una scena-laboratorio, un sorta  di sala di registrazione dalle tinte grigie e scure con luci al neon, un pianoforte al centro e tutto intorno fili, microfoni dentro una specie di box smontabile e versatile.

ph Christophe Bernard

Notte Morricone prende vita dalla platea, con le luci in sala che iniziano a lampeggiare a intermittenza, mentre alcuni danzatori entrano con lampade a luce fredda. Indossano camicie bianche e pantaloni grigi sorretti da bretelle, ricalcando lo stile sobrio del grande Ennio, mentre la scena si riempie di altri danzatori, vestiti tutti come il maestro. Nel definitivo buio, a un lato del palco il maestro Morricone sperimenta suoni, seduto davanti a un mixer mentre entrano le melodie di Mission.
Poco alla volta spuntano altri danzatori, come tante note, in una qualità di movimento poco fluida, in distonia con il lirismo melodico di Morricone, quasi a richiamare il frastuono interiore. Il danzatore che interpreta Ennio viene inondato prima da due, poi da tre, cinque e più danzatori vestiti alla “Ennio”, duplicati, clonati, come tante estensioni figurali di un creativo capace di dialogare contemporaneamente in polifonie sonore. Spostano oggetti, montano e smontano il box centrale, creando una  dinamica sulla scena che arriva a scomporre il grande pianoforte.
Il maestro sembra quasi un burattino, come in balìa degli eventi, si lascia traghettare da un punto all’altro, posandosi fugacemente e premendo i tasti del pianoforte, scivolando altrove, in un limbo melodico in via di definizione. Nel mentre, come se la scena fosse una scatola magica da ribaltare a piacimento, i danzatori  giocano con il pianoforte girandolo e smontandone i tasti, ne fanno uscire tutte le corde, come fossero fili di una memoria da sciogliere tra ricordi, storie, momenti intimi e celebri della vita del maestro.
Sono questi i passaggi che fanno da servizio alla danza, dai quali prendono forma in maniera corale e strutturata coreografie, disegni definiti che incalzano in un gioco di intrecci circolari  a raggiera, che si sfilano dal cuore pulsante del pianoforte.

ph Christophe Bernard

Come tutti i nostri ricordi che affiorano spesso in modi non uniformi nella nostra mente, così anche i brani delle celebri colonne sonore tornano per frammenti,  intermittenze, interruzioni, sovrapposizioni con altri suoni, creando in alcuni momenti un caos sonoro di tonalità e armonie. Una via drammaturgica che il coreografo spagnolo percorre per saturare il palco e far fluire la lunga vita di un genio che ha attraversato e dominato la scena musicale nella seconda metà del Novecento.
Storia individuale e storia collettiva si sovrappongono anche nei ricordi dello spettatore all’arrivo di Abbronzatissima, come un’eco in lontananza che in crescendo si avvicina fino a dominare per qualche minuto per poi sparire di nuovo. Dalla fase giovanile dei memorabili arrangiamenti della canzone italiana, Marcos Morau individua passaggi e soluzioni efficaci nel tenere lo spettatore partecipe e dentro questa narrazione collettiva. Il sussurro iniziale di Se telefonando da parte dei danzatori, prolungato nel suo ritornello nell’attesa di incontrare le voci del pubblico ne è un esempio.

ph Christophe Bernard

Non c’è mai stasi in scena, né vuoti o indecisioni. La scrittura drammaturgica di questo lavoro è concepita come un ingranaggio in un tempo ben scandito dal ritmo del metronomo, più volte citato e presente in scena, come oggetto simbolo di musicisti e danzatori, ma che ricorda anche quel ticchettio nelle prime sequenze della pellicola di Tonino Valerii Il mio nome è nessuno.

Da una sala proiezioni a una da concerto, lo spazio scenico è debordante di oggetti, leggii, strumenti musicali, agiti e spostati in passaggi danzati che esplodono poi nella coralità de Il buono il brutto e il cattivo, dove i corpi si uniscono in un movimento semplice e fluido  sul memorabile urlo del coyote che lega a sua volta gli incastri dei gruppi.
Nessuna incertezza, nessuna nota stonata da parte di tutto l’ensemble dell’Aterballetto che non mostra sbavature nell’interpretare il linguaggio di Morau, così ben interiorizzato e assorbito, abile nel far risuonare anche attraverso certe posture e dinamiche disarticolate l’immaginario sonoro e visivo di ogni essere umano.

ph Christophe Bernard

Ed è quell’umano che Morau alla fine ci restituisce, la dimensione poetica e sensibile del compositore che culmina in quel grande muro sul quale vengono proiettati i volti dei personaggi celebri dei film, indissolubilmente legati a quelle melodie. Irrompe così quel lirismo sdolcinato e toccante di Nuovo cinema paradiso, che infatti domina con un effetto al contrario: come i tanti baci del film tagliati e poi re-incollati che scorrono nella scena finale del film, qui, nello stesso piano sequenza vengono proiettati sul muro i volti degli attori.
La voce registrata di Ennio ci entra nelle ossa quando sentiamo: “sono stato Noodles, Totò, Olmo, Stravinsky. Ho cercato di comporre la musica dei perdenti e dei vincitori. Ho cercato il suono anche per le cose più terribili. Per la gioia e la disperazione. E infine volevo vedere il suono di un uomo quando nessuno lo guarda”.
Lo vediamo lì, sul boccascena, questo piccolo grande uomo, in forma di pupazzo, mentre il cuore inevitabilmente si allarga per fare posto a un immaginario nuovo che questo spettacolo ci lascia scoprire, uno stato di commozione e confusione insieme che va oltre il ritratto di un genio, un uomo che non ha conosciuto confini di genere, che ha unito il sacro con il profano, l’impegno e il disimpegno della infinta e monumentale musica del mondo.

 

NOTTE MORRICONE

regia e coreografia Marcos Morau
musica Ennio Morricone
direzione e adattamento musicale a cura di Maurizio Billi
Sound design Alex Röser vatic, Ben Meerwein
Testi Carmina S. Belda
Set e luci Marc Salicrù
Costumi Silvia Delagneau
Assistenti alla coreografia Shay Partush, Marina Rodriguez
Commissione, coproduzione, prima rappresentazione outdoor Macerata Opera Festival
Coproduzione, prima rappresentazione indoor Fondazione Teatro di Roma
Coproduzioni Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Centro Servizi Culturali Santa Chiara Trento, Centro Teatrale Bresciano
Coproduzione Ravenna Festival | Orchestra Giovanile Luigi Cherubini

Teatro Argentina, Roma | Roma Europa Festival | 26 ottobre 2024

Il respiro del Pubblico Festival: siamo ciò che facciamo, per dirla filosoficamente. Intervista a Cantiere Obraz

RENZO FRANCABANDERA | La quarta edizione de Il Respiro del Pubblico Festival torna a Firenze dal 9 al 25 novembre 2024, articolandosi tra il Teatro di Cestello e vari spazi dell’Oltrarno. Con la guida di Alessandra Comanducci, Michela Cioni e Paolo Ciotti, Cantiere Obraz si è connotata in questi anni come una realtà dedicata a creare una profonda connessione tra tradizione e innovazione teatrale, con un’apertura verso la cittadinanza e un dialogo con i giovani. La loro missione si fonda sull’approccio formativo della pedagogia teatrale russa, che ispira anche la loro attività di produzione teatrale. Grazie a una programmazione che va oltre la semplice fruizione, l’azione posta in essere da Obraz sul territorio si specifica come la volontà di riscoprire il teatro come luogo di partecipazione e riflessione collettiva, capace di esprimere la complessità e le potenzialità creative della vita cittadina.

Il tema guida di quest’anno è infatti proprio “la città” come luogo simbolico per la ricerca della felicità, filo conduttore a una serie di eventi curati dall’associazione culturale fiorentina Cantiere Obraz, con il contributo della Fondazione CR Firenze e la collaborazione del Teatro di Cestello. Il Festival, come ogni anno, include anche la Scuola di Critica Teatrale per adolescenti “Ciuchi Mannari”, un progetto formativo che incoraggia giovani critici a osservare e interpretare il teatro dal vivo. Il cartellone di questa edizione esplora la città come luogo di incontro, isolamento e trasformazione. Tra i protagonisti ci sono figure di rilievo come Saverio La Ruina e Michele Santeramo, accanto a compagnie emergenti e locali come Teatro dell’Elce e Mammut Teatro.

La programmazione è variegata, propone sia opere legate alla grande tradizione teatrale (con rimandi a Kafka, Shakespeare, e alla Napoli di Jovine) sia spettacoli incentrati su temi contemporanei, come il lavoro precario e la marginalità urbana. Lo spettacolo Smart Work di Mammut Teatro, per esempio, si addentra nelle difficoltà di un rider, offrendo una riflessione sulle tensioni moderne della città. Anche House we Left del Centro Teatrale MaMiMò, incentrato sulla vita in carcere, evidenzia le fratture sociali invisibili della vita cittadina.

Gli spettacoli invitano lo spettatore non solo a osservare ma a partecipare attivamente, un tratto distintivo delle scelte artistiche di Cantiere Obraz. William Shakespeare’s Half Time Job di Teatro dell’Elce, ad esempio, porta il pubblico in uno spazio intimo per una performance dedicata a uno spettatore alla volta. Con un ventaglio che include anche il teatro-circo di Circo Pacco e la suggestiva rappresentazione Ballata delle Falene di Gay/Tintinelli, il festival mira a esplorare le molteplici facce della vita urbana, attraverso storie, umori e atmosfere diverse.
L’attenzione del Festival alla formazione è evidente anche nel progetto “Ciuchi Mannari”, che consente a giovani aspiranti critici di affinare il proprio sguardo teatrale sotto la guida di critici affermati. Con un percorso che si sviluppa da settembre a novembre, i ragazzi sono accompagnati in un’esperienza immersiva che culmina nella pubblicazione delle loro recensioni su riviste dedicate ai linguaggi della critica teatrale, offrendo un’occasione unica di apprendimento.

Abbiamo incontrato, in uno spiraglio dell’affannoso da fare di questi giorni, Paolo Ciotti e Alessandra Comanducci.

Torna il respiro del pubblico. La direzione che Cantiere Obraz in questi anni ha preso pare aver messo radicalmente al centro il rapporto con lo spettatore. È così?

Ce lo chiedevamo in questi giorni e ci siamo risposti di sì. Nasce da una forte urgenza artistica di fare comunità, di fare della partecipazione culturale il collante per un teatro che riscopra la sua funzione più sociale e civica. C’è bisogno di un teatro che faccia la sua parte nella società. È però vero che in questi anni la modalità con cui decliniamo la centralità del pubblico sta subendo delle trasformazioni, passando dalla scelta di spettacoli più apertamente interattivi a spettacoli in cui, in maniera più poetica e filosofica, proponiamo una compresenza attiva. Non si tratta solo di chiamare lo spettatore a partecipare con interventi e battute ma di rendere il suo corpo il luogo attivo dell’incarnazione di un’immagine proposta. Detto in altre parole si tratta di creare condizioni per cui gli artisti facciano apparire li teatro fra il pubblico.

Cosa ha guidato allora le scelte della vostra direzione artistica per questa edizione? Che tipo di spettacoli avete scelto?

Ormai da un anno abbiamo attivato una ricerca sulla città come luogo privilegiato dell’uomo contemporaneo. Entro il 2050, i 2/3 dalla popolazione vivranno in città e la città è delizia e croce dell’essere umano. È il luogo dove gli uomini vivono insieme per affrontare le avversità e in cui fiorisce la creatività umana ma è anche il luogo in cui proliferano isolamento e disuguaglianza. C’è una definizione di città di G. Botero che ci ha colpito molto: la città è il luogo in cui le persone si riuniscono alla ricerca della felicità. Da qui è partito il filo rosso che collega gli spettacoli da Via del Popolo di Saverio La Ruina a Marcovaldo di Arca Azzurra, dalla vita del rider di Smart Work di Mammut alla città kafkiana degli Uomini Storti di GogMagog.

In cosa, rispetto agli anni scorsi, c’è continuità e in cosa discontinuità? O è tutto un filo che si sviluppa e che richiede anche diversità? 

La costruzione del festival è un processo analogo a quello della replica di uno spettacolo: la struttura è quella, ma ogni volta devi rivivificarlo, farlo accadere di nuovo, da capo. La continuità sta nelle azioni proposte, nella centralità dello spettatore, e nell’integrare proposte che dialoghino con realtà teatrali del territorio e con proposte nazionali. La novità è la necessità di allargare il festival alla scena fringe italiana per farci portavoce del fermento creativo che c’è nel teatro off. Una porzione del programma che abbiamo intenzione di ampliare nella prossima edizione. 

In tutto questo non avete rinunciato a uno spazio di formazione e di programmazione per le giovani generazioni.

È irrinunciabile per noi, anzi è il vero motore del nostro progetto artistico. È necessario sviluppare un costante patto fra le generazioni. Il nostro paese ha un atteggiamento cieco verso i ragazzi. Nei loro confronti siamo aggressivi e, direi, ottusi. Come non pensare ai decreti legge che disattivano e demonizzano le azioni dei giovani o al disinteresse nei confronti della pubblica istruzione o banalmente al fatto che li spingiamo a emigrare. Altro che l’immigrazione!
Ma la cosa che mi sembra più grave è che noi, come generazione adulta, abbiamo un problema quasi “psicologico” con il tema dell’ eredità: non siamo attraversati minimamente dal pensiero di come elaborare strategie di formazione per passare il testimone. E così muoiono i progetti, i teatri, le conoscenze: non stiamo dando gli strumenti a chi dovrà prendere il nostro posto di amare e, magari un domani, trasformare, la nostra ricerca e quello in cui abbiamo creduto. Bisogna tramandare il teatro per poter insegnare l’amore che ne deriva. Il progetto Ciuchi Mannari, un percorso di allenamento alla visione coordinati da di critici teatrali osservatori di professione, nasce in risposta a questa esigenza.

Obraz sta iniziando a diventare una realtà presente con la sua proposta artistica praticamente tutto l’anno, e da Il respiro del pubblico fino a Naturesimo, offre agli appassionati di teatro la possibilità di mettersi in gioco in molte forme.

La frontalità classicamente intesa, per noi, è morta. Lo è nelle lezioni e anche nel teatro. In un mondo veloce in cui idee e virus si propagano a macchie, in cui, mentre leggo un testo, posso aprire molteplici finestre su altri mondi, anche le forme del teatro non possono essere rigide, separate.
Fin dal 2019 siamo alla ricerca di una definizione per la nostra attività artistica. Abbiamo, negli anni, usato molti termini: indagine teatrale (Metropolis), azione artistica (per spettatore solo, in presenza d’albero), passeggiata urbana/urban walking (Fiorentini Fantastici), performance (Naturesimo), lezione-spettacolo, conferenza-spettacolo,  fino all’ abusata formula ‘teatro partecipativ’o per i nostri due festival (Il respiro del pubblico e Urbano Fantastico). Da un lato questa molteplicità di formule potrebbe sembrare una ricchezza, ma, onestamente, non siamo ancora riusciti a trovare una definizione soddisfacente per raccontare la nostra proposta. Forse è un problema di vuoto di linguaggio; però, nonostante la molteplicità di forme, tutte le nostre proposte sono accomunate dal principio del giocare insieme: attivare un approccio ludico nell’ambito dell’azione che avviene fra chi guarda e chi agisce. Probabilmente in altre lingue sarebbe più facile da definire.

Oltre che essere lavoro, cosa è per voi questa pratica artistica? Cosa significa, quali turbamenti dà alla vostra vita, quali soddisfazioni?

L’attività teatrale insiste così tanto nelle nostre vite da sfuggire ai paradigmi del lavoro comunemente intesi. Tanto che alla fine resta difficile anche intenderla come lavoro. E da questo misunderstanding, scaturiscono problematiche che riguardano il rapporto tra artisti e società.
Siamo ciò che facciamo, per dirla filosoficamente. E questa identificazione nella attività porta il nostro “lavoro” a crescere assieme a noi con tutto il carico di positivo e negativo che una crescita comporta, turbamenti e soddisfazioni inclusi. Cantiere Obraz è un organismo che si evolve e si manifesta nelle forme che la sua crescita rende opportune. Non c’è distinzione né confine all’interno del gruppo di lavoro tra le persone e quello che fanno. Non è per niente semplice. Ma senza dubbio è naturale.

Pippo Delbono, Il risveglio

Compagnia Pippo Delbono, Il Risveglio, Ph Luca Del Pia

GIANNA VALENTI | Luci aperte, una sedia portata in proscenio, un corpo, il suo corpo, che procede incerto per affermare le azioni che codificano l’intero lavoro: chiacchierare, dialogare, raccontare, lasciarsi guardare, guardare e poi danzare, con una danza fatta di gesti come segni distillati di una presenza, segni performativi che declinano pensieri consapevoli e inconsapevoli e che hanno il potere di solidificarsi come tracce di memoria oltre il tempo della scena.
Pippo Delbono si offre agli sguardi degli spettatori e cerca i loro sguardi, schermando con la mano la luce proiettata dall’alto. Il suo corpo al centro della scena sceglie di abitare pienamente la relazione con l’altro, condividendo la fisicità e la verità del suo presente. Dopo the dark night of the soul, direbbero gli anglosassoni, con Il risveglio il regista abbraccia la sua intera esistenza, facendo viaggiare lo sguardo, il suo e il nostro, tra la giovinezza e il tempo presente, attraverso le correnti che lo trasportano, e ci trasportano, tra la luce e il buio, tra la leggerezza di un incontro giovanile e la profondità dolorosa di un testo rock dei Jefferson Airplane, tra parole di sensualità e carnalità cantate dagli Who e il discorrere ironico sulla vecchiaia.
Raccontare per farsi attraversare ancora una volta e per concedersi la possibilità di un domani diverso, cantare come atto di fiducia nella vita che il regista affida alla presenza iconica, proiettata a fondo scena, di una giovanissima Ornella Vanoni, e danzare affidandosi a un finale che non si fa chiusura ma festa, momento di gioia e di apertura, perché chiudere e andarsene è un po’ come morire, ci racconta.

Compagnia Pippo Delbono, Il Risveglio, Ph Luca Del Pia

Il Risveglio ha debuttato al Teatro Astra di Torino e aperto la Stagione 2024-2025 Fantasmi e fa parte della monografia d’artista che il Festival delle Colline Torinesi ha dedicato quest’anno a Pippo Delbono e che ha visto l’artista anche alla Fondazione Merz con La Notte da La notte poco prima della foresta di Bernard-Maria Koltès. Sempre come parte della monografica la proiezione dei suoi lungometraggi al Cinema Massimo: Guerra (2003), Grido (2006), Amore Carne (2011) e Vangelo (2016).

Le luci rimangono aperte, Delbono, sulla sedia e a scena vuota, chiacchiera, racconta e cerca un dialogo con i corpi e gli sguardi che gli stanno di fronte e che riesce a intercettare. I suoi racconti parlano di un percorso artistico che è da sempre percorso umano, di un guardare e riguardare la vita per farne teatro, di una costante ricerca di senso incrociando volti, parole, storie, ricordi e sguardi.
Siamo lontani dal testo onnipresente che ci arrivava dal buio della regia come voce fuoricampo in Amore, dove la sua presenza fisica — a parte la camminata di spalle e lo sdraiarsi finale — era completamente negata. Qui il suo corpo e la sua voce incarnano l’urgenza per la presenza dell’altro e un desiderio rinato di condividere la scena con gli attori/danzatori della sua compagnia; corpi ed esistenze che abbiamo imparato a riconoscere negli anni ma che il regista sente la necessità di ripresentarci uno alla volta, chiamandoli per nome. Nelle loro singolarità insostituibili, ecco allora Dolly Albertin, Margherita Clemente, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella che il pubblico applaude con affetto.
Corpi chiamati a sostenere le sue azioni e le sue narrazioni, corpi che danzeranno insieme a lui, o per lui, corpi pronti ad aiutarlo, perché dialogare con il proprio presente non è certo semplice e immaginare un futuro diventa possibile solo quando ad accompagnarti è qualcuno che ti conosce e che ha condiviso la tua storia, qualcuno che ti sa abbracciare e amare.

Compagnia Pippo Delbono, Il Risveglio, Ph Luca Del Pia

E tra i corpi e i ricordi presenti sulla scena per il suo teatro della vita non poteva non esserci Bobò, l’attore mancato nel 2019 con cui Delbono ha condiviso la scena e l’esistenza per 23 anni, il protagonista di tutti i suoi spettacoli a partire da Barboni nel 1997 sino a La Gioia nel 2018. Bobò “padre, fratello, maestro” che “aveva trovato un modo di sedurre Pina” — Pina Bausch, che ci ha lasciati nel 2009, maestra riconosciuta e amata dal regista. A loro, a queste presenze ancora così vive nella sua esistenza e nel suo lavoro, Delbono dedica lo spettacolo, facendo del racconto sulla loro relazione la linea narrativa centrale e delle loro presenze la chiave di comprensione della sua visione teatrale e coreografica.
Bausch adorava Bobò e non potrebbe certo essere altrimenti guardando le immagini finali di questo Risveglio. Le proiezioni interminabili, a fondo scena, di Bobò in bianco e nero, con piani di ripresa ravvicinati mentre danza su musica di Bob Marley, restituiscono con pienezza la lezione di Bausch sul gesto come segno compresso di un’esperienza. Il gesto come presenza performativa di ciò che il corpo ha attraversato e la danza come partitura e concatenazione di segni che per Delbono sono chiamati a mantenere in scena la qualità dell’estemporaneità con cui si sono manifestati una prima volta.
Bobò che qui, nel 2024 sulla scena del Teatro Astra, incarna una presenza performativa più forte di ogni altro corpo in presenza fisica.
Delbono che si aggancia alla gestualità di Bobò, rispecchiandola e riducendola, ma mantenendone l’intensità della presenza e che danza modulando una gestualità che colpisce per leggerezza, velocità e intensità del segno espressivo. E sempre lui che condivide domande e paure ancora senza una risposta, appoggiando movimenti e voce sulle musiche suonate in scena al violoncello da Giovanni Ricciardi. 
E poi i suoi attori/danzatori capaci di abitare la presenza semplice di una corsa, di un girotondo, di uno stare, di un abbraccio, di uno sguardo, di un gesto o di un accenno di gesto — identità singole capaci di farsi coro nella diversità, capaci di presentarsi e di stare davanti al pubblico come fosse sempre la prima e ultima volta.
Un mondo, quello de Il Risveglio, in cui ancora abita la paura e la sofferenza, ma chi di noi non le attraversa, anche se a tratti, nella propria esistenza? Un mondo in cui però abita anche la possibilità di guardarle per comprenderle e trasformarle. “Luce che sei in me, fammi risalire come le aquile” sono le parole che Delbono rilascia nello spazio e che poi danza per superare quella paura “della vita, dell’amore, di restare senza amore” che ci ha fatto attraversare, per poi riconoscersi infine luce, amarsi e lasciarsi amare.

 

IL RISVEGLIO

uno spettacolo di Pippo Delbono
con la Compagnia Pippo Delbono: Dolly Albertin, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Pepe Robledo, Grazia Spinella
e con Giovanni Ricciardi (violoncello e arrangiamenti)
luci Orlando Bolognesi
costumi Elena Giampaoli
suono Pietro Tirella
capo macchinista Enrico Zucchelli
organizzazione Davide Martini
assistente di produzione Riccardo Porfido
direttore tecnico Orlando Bolognesi
personale tecnico in tournée Manuela Alabastro (suono), Carola Tesolin (costumi), Corrado Mura (luci), Enrico Zucchelli (scena)
produttore esecutivo Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale (Italia)
co-produzione Teatro Stabile di Bolzano (Italia), Teatro Metastasio di Prato (Italia), Théâtre de Liège (Belgio), Sibiu International Theatre Festival/Teatrul Național “Radu Stanca” Sibiu (Romania), Teatrul Național “Mihai Eminescu” Timisoara (Romania), Istituto Italiano di Cultura di Bucarest (Romania), TPE – Teatro Piemonte Europa/Festival delle Colline Torinesi (Italia), Théâtre Gymnase-Bernardines Marseille (Francia)
in collaborazione con Centro Servizi Culturali Santa Chiara di Trento (Italia), Le Manège Maubeuge – Scène Nationale (Francia)

Carrozzeria Orfeo: aspettando la maggior età Sul Confine a Sala Maddalena – intervista a Luisa Supino

RENZO FRANCABANDERA | Nel 2027 saranno vent’anni. Ma anche i famosi diciott’anni non sono male! E nel 2025 che sta per iniziare ne saranno passati proprio tanti da quel 2007 in cui il gruppo di giovani diplomatisi alla Nico Pepe di Udine decise di fondare la compagnia. Pare ieri.
Con gli 11 spettacoli all’attivo, le oltre 1.000 repliche, un testo (e spettacolo) diventato anche un film – Thanks! (programmato su Netflix nel 2020/2021) -, la Compagnia Carrozzeria Orfeo, diretta da Gabriele Di Luca Massimiliano Setti, prosegue nel suo teatro pop, fatto di drammaturgie originali che trovano ispirazione nell’osservazione del nostro tempo, sostenuti negli anni da un grande successo di pubblico e critica.
Negli ultimi anni in particolare, superando qualsivoglia possibile dimensione autoriferita del successo, la compagnia ha deciso sempre più di aprire le porte della propria attività, allargando e donando esperienza, esperienze e possibilità. Nel periodo del lockdown, ad esempio, ha dato vita a due progetti: Prove generali di solitudine, un Concorso di scrittura teatrale aperto a tutti i cittadini, che ha coinvolto più di 2.000 partecipanti, realizzato con il patrocinio di Fondazione Cariplo, con il sostegno di Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Bellini di Napoli, Teatro Nazionale di Genova e che abbiamo testimoniato qui, sulle pagine di PAC; il secondo è stato Periferie Interiori, ciclo di incontri, in diretta Instagram, con personalità della cultura e dello spettacolo (tra i quali Franco Arminio, Giobbe Covatta, Brunori Sas, Lino Guanciale, Lodo Guenzi), con l’obiettivo di proporre nuovi strumenti di lettura e indagine del presente. Itinerari tra teatro, poesia, musica, impegno sociale per parlare anche di amore, futuro, società, cultura e riscatto. Ma Carrozzeria Orfeo è partner del progetto Mantua Farm school, una scuola per adolescenti che coltiva l’apprendimento esperienziale, sostenuta da Fondazione Cariplo (Emblematici Maggiori 2018) e da gennaio 2023 la compagnia gestisce uno spazio da 100 posti a Mantova, Sala Maddalena.

Si tratta di un’ex-palestra, oggi ristrutturata dalla Soc. Coop. Ippogrifo e adeguata a sala polivalente grazie al contributo di Fondazione Cariplo “Bando Emblematico maggiore 2018” per il Progetto Mantua Farm School e grazie al contributo di Regione Lombardia Bando PSR. In questi spazi viene anche ospitata una rassegna, in corso in queste settimane, emblematicamente intitolata Sul Confine.
Abbiamo voluto confrontarci con la compagnia sull’attività recente e in corso, per farci raccontare di questi tempi che, sebbene incerti, rimangono comunque fecondi per un processo creativo come il loro, fondato proprio sull’osservazione e sull’incontro con la realtà.
Ha risposto alle nostre domande Luisa Supino, organizzatrice teatrale, cofondatrice di Carrozzeria Orfeo.

È arrivato quindi il momento in cui i Carrozzieri hanno finalmente una officina (per le arti) vera e propria! Com’è nata l’idea di questa nuova sede?

Sala Maddalena non è nata da un’idea ma è un luogo con cui abbiamo una relazione da diversi anni. Già nel 2016, quando l’attuale sala polivalente era ancora una palestra sgarrupata collocata nella tranquillità della campagna mantovana, realizzavamo lì i nostri laboratori residenziali per attori, ormai divenuti un must dell’estate. Nascendo come compagnia di produzione e di giro, da qualche anno iniziavamo a sentire l’esigenza di avere uno spazio nostro dove tornare dopo le lunghe tournée, un luogo dove promuovere iniziative di formazione e provare a creare un senso di comunità con la nostra visione pop del teatro, intercettando anche a livello territoriale chi a teatro non è solito andare.
È grazie alla progettualità di «Corte Distanze. Progetto di prossimità culturale», realizzato con i contributidi Regione Lombardia nell’ambito del bando «Avviso Unico Cultura 2024» e di Fondazione Cariplo nell’ambito del bando «Per la Cultura 2022», che abbiamo avuto l’opportunità di far nascere e crescere Sala Maddalena, uno spazio polivalente aperto al territorio, posto in una corte agricola circondata da 12 ettari di terreno ai confini della città di Mantova, nel Comune di Curtatone. Un luogo, come dice il titolo del progetto, di prossimità culturale, in cui accorciare le distanze fra il teatro e le altre discipline artistiche, tra attività culturali e luoghi rurali, tra la nostra compagnia e le giovani formazioni emergenti, tra attività nazionale e comunità territoriale.

Di solito le nuove case sono sempre abbinate a tragicomiche aneddotiche su inciampi burocratici, traversie nei lavori. La vostra fa eccezione o conferma la regola?

Siamo fortunati perché di questo luogo siamo i gestori, ma è grazie alla Cooperativa Ippogrifo, con cui collaboriamo insieme alla Mantua Farm School, scuola esperienziale per adolescenti, che è nata l’opportunità, con il Bando «Emblematici Maggiori» 2018 di Fondazione Cariplo, di ristrutturare due degli immobili della corte di campagna di proprietà della mia famiglia. Tra ristrutturazionipermessi abbiamo atteso molto ma in quell’attesa abbiamo maturato e coltivato le progettualità messe oggi in campo. Per quanto lo spazio possieda già caratteristiche funzionali alle nostre attività, rimane l’esigenza di reperire nuovi fondi per proseguire con le nostre iniziative. Tra i desideri c’è migliorarne l’allestimento per renderlo sempre più accogliente per il pubblico e gli artisti e chissà, magari un giorno sarebbe bello avere anche una nostra foresteria!

Come pensate di abitarla? Con quali prospettive e quali eventi? Qualcosa è in corso proprio in queste settimane…

Feste sull’aia con musica, teatro e cibo, rassegne, cinema all’aperto, fino ad arrivare all’attuale rassegna Sul Confine, sono solo alcune delle attività che fino ad oggi abbiamo promosso nella fase di avviamento dello spazio: iniziative culturali popolari a carattere multidisciplinare, rivolte a tutti i pubblici, pensate per avvicinare la comunità locale al luogo e al teatro. Oltre alle residenze artistiche e agli affitti dello spazio, Sala Maddalena ospita anche laboratori di formazione, ai quali da sempre Carrozzeria Orfeo rivolge un’attenzione particolare.

Parliamo dunque della rassegna Sul Confine: come sta andando e che seguito state avendo?

Da ottobre, dopo le iniziative estive, abbiamo dato il via alla nostra prima rassegna di drammaturgia contemporanea, Sul Confine, titolo preso in prestito da una delle prime produzioni di Carrozzeria Orfeo. Una full-immersion di spettacoli per travalicare i confini e sconfinare in altri mondi, linguaggi, dimensioni, dall’esplorazione delle intelligenze artificiali al teatro come esperienza condivisa attorno a un tavolo, tra cibo e autobiografia.
Ospiti sono alcune realtà della scena teatrale nazionale come
Teatro delle Ariette, Compagnia Rodisio, Poveri Comuni Mortali, Les Moustaches, Fartagnan Teatro, quest’ultimi vincitori tra più di 100 compagnie del Bando Giving Back, progetto di tutoring a una giovane formazione, ideato e promosso da Carrozzeria Orfeo.
Quando si pensa al confine, si pensa a quel limite che sta tra noi e voi, tra il conosciuto e lo sconosciuto. Spingersi
sul confine significa un atto di coraggio e di fiducia per uscire dalla propria zona di comfort, il primo passo per attivare un cambiamento. Il teatro in questo rappresenta un buon esercizio per renderci più consapevoli, per stare in relazione e in ascolto della società. Ogni spettacolo ha un suo target preciso di pubblico che riconosce nella rassegna e nel lavoro di Carrozzeria Orfeo una qualità artistica alta, che nasce dall’attività che la compagnia svolge a livello nazionale e che permette di portare a Sala Maddalena ospiti prestigiosi.

Ed è fra queste mura che nascerà il vostro nuovo lavoro o il tour fra spazi di residenza e teatri pre-debutto resta poi imprescindibile, anche quando si ha un proprio spazio?

Abbiamo sempre avuto una casa in ogni luogo di allestimento dei nostri spettacoli e presso le sedi dei nostri coproduttori come ad Ancona con Marche Teatro, a Milano al Teatro dell’Elfo e, andando più indietro nel tempo, al Teatro Era a Pontedera o ancora prima al Teatro dell’Acquario di Cosenza. È proprio a Sala Maddalena, per quanto sarà possibile, che abbiamo intenzione di provare il prossimo spettacolo che debutterà nell’estate 2025, certi che questo non ci precluderà di continuare comunque a collaborare e allestire in altri teatri d’Italia.

Insomma per venirvi a trovare quali sono le prossime occasioni interessanti?

Dopo l’anteprima nazionale di MAMMUT vita e morte di un’intelligenza artificiale” di Fartagnan Teatro e La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza di Les Moustaches, la rassegna riprende il 15 novembre con Caino e Abele della Compagnia Rodisio e prosegue il 30 novembre con Due Schiaccianoci di Poveri Comuni Mortali e il 14 e 15 dicembre con Teatro da Mangiare? del Teatro delle Ariette.
Siamo in Via Pilla 53 a Curtatone (Mantova), veniteci a trovare e seguiteci sui social!
FB @Sala Maddalena Ig @sala_maddalena

Borghesi e Fettarappa: Uno spettacolo italiano, avvolto in un tricolore amaro

ELENA SCOLARI | Donald Trump è il vecchio nuovo Presidente degli Stati Uniti, in Italia un professore (Christian Raimo) viene sospeso dall’insegnamento per tre mesi per aver offeso – fuori dal contesto scolastico – il Ministro dell’Istruzione, a Bologna si scontrano in piazza militanti di CasaPound e gruppi antifascisti. Questa è l’aria che tira.
Nelle pubblicità l’aggettivo ‘italiano’ viene cosparso dappertutto: i valori italiani, il latte italiano, il design italiano, la moda italiana… poco importa che il “made in Italy” sia effettivamente prodotto in Italy. Comunque “prima gli italiani”. Che non necessariamente sono le persone nate in Italia, per inciso.
E così Niccolò Fettarappa e Nicola Borghesi, due tra le intelligenze più brillanti del panorama teatrale odierno, si sono uniti per realizzare Uno spettacolo italiano, e cioè uno spettacolo di destra: è ciò che i due dichiarano. Eh sì, perché per domare l’onda bisogna cavalcarla, non ci sono santi. Per capire bisogna sporcarsi le mani.

Borghesi è fondatore del gruppo Kepler 452 con Enrico Baraldi e Paola Aiello, tra i loro spettacoli più noti c’è Il capitale, profonda riflessione sul lavoro e sulla fabbrica, prodotto dopo una “residenza” con gli operai della GKN di Campi Bisenzio; Fettarappa si è fatto conoscere per Apocalisse tascabile, realizzato con Lorenzo Guerrieri, una sferzante, travolgente e caustica critica della società contemporanea e della malconcia situazione in cui molti giovani si trovano.

Qui tutto comincia con l’inno di Mameli cantato in proscenio: per non saper né leggere né scrivere, con quello non si sbaglia. Come per le partite della nazionale. Del resto è una lettera del Ministro in persona a raccomandarlo.

ph. Michele Lapini

Lo spazio scenico è delimitato da un perimetro di linee tratteggiate, ci mettiamo anche il modellino di una nave che ne difenderà i confini. Italiani. E il crocifisso veglierà sulla serata.
I due attori e drammaturghi indossano i panni di tutti i giorni ma provano – teatralmente parlando – a mettersi nei panni di ciò che non sono. Con qualche richiamo allo spettacolo Gli altri di Kepler 452, scoprono con raccapriccio che alcune pulsioni considerate loro possono essere bipartisan: come disse Giorgio Gaber, “Non ho paura del Berlusconi fuori di me, ho paura del Berlusconi in me”. Fettarappa e Borghesi attraversano allora gli stilemi nazionalisti, oggi così ben risfoderati, evidenziandone le contraddizioni, deridendo se stessi in un crescendo che pare ridanciano ma diventa sempre meno rassicurante man mano che le scene si affastellano.
Nicola e Niccolò si chiamano per nome, si chiamano in causa per introdurre la scena successiva, si raccontano l’un l’altro sogni e incubi. Non sempre i collegamenti sono ferrei ma l’impressione è che il loro pensiero si sviluppi davanti ai nostri occhi, che esempi e circostanze si presentino, in maniera anche slegata, proprio come certe idee guizzano in testa senza che se ne abbia piena coscienza. Così Fettarappa si ritrova in un rave (il primo divieto del governo ora in carica: la missione è sconfiggere il reggae) ad Anguillara, inadeguato e fuori posto, poi Borghesi, in un sogno, accetta l’offerta di un posto fisso e ben retribuito alla Rai, sale sul carrozzone abbandonando i suoi “spettacolini di sinistra”.

ph. Michele Lapini

I due protagonisti non sono soli, in scena. Una presenza – non ancora del tutto risolta – incombe su di loro: il busto di un immaginario sottosegretario alla Cultura in gesso bianco viene svelato sotto una copertura di pluriball e interagisce con i personaggi, a turno uno degli attori lo impersona da dietro il piedistallo modificando la voce con effetti. Un elemento non facile da inserire nella dinamica drammaturgica e ancora estraneo alla disinvoltura che caratterizza la naturalezza dello stare in scena di Borghesi e Fettarappa. Non è il Gesù di Guareschi, non è il Ministro della Paura di Albanese, è un’idea statuaria e un po’ ovvia del burocrate di potere.
A un certo punto viene citata la nota (e abusata) affermazione tratta da L’idiota di Dostoevskij “La bellezza salverà il mondo”; per la precisione è una domanda che viene posta al principe Myskin, protagonista del romanzo, cui il giovane Lev Nikolàevič risponde affermativamente ma intendendo dire che per raggiungere la bellezza salvifica, quella dell’amore, bisogna prima attraversare l’inferno. Del dolore, della disillusione, della vita. Ed è quello che, mutatis mutandis, ci dicono i due autori con il loro percorso a ostacoli che tocca piccoli abissi dai quali dovremmo riemergere meno sicuri e più consapevoli.
Certo c’è il rischio che Uno spettacolo italiano parli alla consueta famiglia culturale allargata che queste preoccupazioni già le ha, un bel successo sarebbe sarebbe arrivare ai turisti dell’Egitto sicuro, per esempio, per giocare questa partita teatrale fuori casa e vedere l’effetto che fa.

La presa in giro degli spettacoli intellettualoidi di sinistra che risultano incomprensibili ai più non è forse il pungolo più nuovo e più ficcante; Fettarappa che scopre (nel cassetto del sottosegretario) che la sua vera realizzazione è diventare un carabiniere di Latina è surreale ed è oscuramente grottesco vederlo in scena in divisa. Il Fettarappa dell’Arma rievoca la canzoncina per bambini di Bruno Lauzi Johnny Bassotto, il cane poliziotto che «con le manette arresta la tua fantasia» ed esce di scena con una delle battute migliori e più amare: “e se arriva l’uomo nero, noi lo rimpatriamo”.
L’idea però più robusta e angosciante che arriva davvero a insinuarsi e a rimanere in testa, è Borghesi posseduto dallo spirito di un piastrellista emiliano di destra che prorompe dal suo inconscio.
Se la sinistra non va più in fabbrica e non incontra più gli operai e i piastrellisti allora è il piastrellista che va alla montagna. Ed entra, di prepotenza, nel subconscio di chi si è allontanato dal cosiddetto ‘paese reale’ per buttargli in faccia cosa pensa. Questa è la sequenza più riuscita e dove il nucleo delle riflessioni diventa incandescente: dire certe cose, pronunciarle, le fa sentire meno distanti e costringe a ragionarci sopra. Borghesi dialoga con il se stesso piastrellista, cerca di metterlo a tacere, cambia sedia e postura quando “l’ospite” sguscia fuori incontrollabile, è come sopraffatto da una schizofrenia interiore che non lo lascia in pace.
Il finale tragicomicamente patriottico adombra un atto velleitario ma lo spirito di Uno spettacolo italiano è condividere uno smarrimento, dare respiro a una ricerca sincera dentro al buio sociale e politico che stiamo vivendo. Fettarappa e Borghesi sono due autori che ragionano, cercano di capire, si interrogano, guardano fuori dalla finestra.
Ed è quello che bisogna fare, soprattutto quando il clima è pesante.

Il lavoro è stato appena presentato in prima assoluta al Teatro delle Passioni di Modena il 7 novembre scorso, produzione Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale, Agidi, Sardegna Teatro e sarà all’Arena del Sole di Bologna dal 18 al 30 marzo 2025.

UNO SPETTACOLO ITALIANO
prima
assoluta

un progetto di e con Niccolò Fettarappa e Nicola Borghesi
drammaturgia e regia Niccolò Fettarappa e Nicola Borghesi
produzione Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale, Agidi, Sardegna Teatro

Teatro delle Passioni, Modena | 7 novembre 2024

Hystrio Festival #5: vivere al centro del teatro che non c’è

Afànisi. Foto di Lorenzo Benelli

MATTEO BRIGHENTI | Sono come noi. Ma non sono noi. Sono i nostri interpreti. Le attrici, gli attori, riproducono la nostra immagine nello “spazio vuoto” del palcoscenico, prendendoci le misure tra le righe di un testo. Sono come specchi. Esistono perché e finché qualcunǝ sta di fronte a loro e li guarda. E così si ri-guarda. Loro, intanto, rappresentano qualcosa che non vedono perché non possono, ma fingono comunque di vederlo. Quindi, simulano. Afànisi di Ctrl+Alt+Canc, continuando nella dirompenza di voler resettare e riavviare questo sistema di segni e di relazioni già dal precedente Opera didascalica, professa la rivelazione e, di conseguenza, la dissoluzione di questo “gioco delle parti”.
Il simulacro è nudo. Non c’è il gioco, perché non ci sono le parti. Ce n’è soltanto una: lǝ spettatorǝ. La scomparsa di cui parla il titolo, mutuato da Jacques Lacan, è legata al ruolo delle attrici e degli attori. Non impersonano: sono solo tramite, funzioni. Specchi della vita che succede in sala. Di cui non sanno nulla, e non vogliono, né pretendono di sapere nulla. Perché il teatro siamo noi che guardiamo. E inizia prima e continua dopo. È un fare attraverso il dire che, nell’ultimo appuntamento di Hystrio Festival 2024 al Teatro Elfo Puccini di Milano, ritroviamo anche in Tre liriche di Eat The Catfish / Ac Xenia (qui, qui, qui e qui i resoconti dal Festival di Elena Scolari, Chiara Amato, Francesca Pozzo).

Afànisi. Foto di Carlo Valtellina

A sipario ancora chiuso Raimonda Maraviglia e Alessandro Paschitto (anche autore del testo e regista) sono già sul palco della Sala Shakespeare. Le braccia incrociate, o dietro la schiena, sembrano commentare chi entra, come se presenziassero allo spettacolo, non come se lo fossero. Una volta entrato tutto il pubblico, dopo la canonica richiesta di spegnere i cellulari, arrivano le regole di ingaggio per viversi Afànisi. Il teatro non c’è, è il cielo che manda la luce di stelle già morte, il qui e ora non esiste, perché ognunǝ è diversǝ, e non può parlare che con sé stessǝ. Glɜ attorɜ sono condizione necessaria ma non sufficiente.
Il palco, vuoto, svela il terzo componente del gruppo: Francesco Roccasecca. È il terzo lato del triangolo di questo “teatro partecipato da fermo”. La scena, infatti, si fa nella testa deglɜ spettatorɜ. E comincia sempre da una parola: «Immaginate…». Le luci sono tutte accese. Non c’è rappresentazione, non c’è distanza tra noi e loro. La differenza è solamente questa: loro parlano, noi restiamo in silenzio. E proiettiamo su di loro le fantasticherie che ci immaginiamo dentro di noi.

Foto di Elisa Nocentini

Ctrl+Alt+Canc non ci accompagna, piuttosto ci accoglie nelle pause fissate nel testo, nei buchi stabiliti dalla drammaturgia. Lo spettacolo è la scusa per ritrovarsi in un dato luogo e attorno a un dato copione. Così, Afànisi diventa, paradossalmente, un teatro di narrazione in cui la narrazione procede per sollecitazioni immaginative e risposte mancanti, perché ognunǝ dà la sua, e la dà per sé.
È un lavoro che ti espande lo sguardo, che ti porta a vedere quello che non vedresti: è un esercizio riabilitativo dell’attenzione e dell’ascolto personali. Infatti, Maraviglia, Paschitto, Roccasecca non dialogano tanto con il pubblico quanto proprio con te, con me. Non te la raccontano: sei tu, semmai, che lo fai. La verità, come la bugia, è sempre tua.

Tre liriche. Foto di Lorenzo Benelli

Non è successo niente, abbiamo ascoltato e ci siamo messi in gioco. Il gioco del punto di vista. Quello che Chiara Ferrara (Premio Mariangela Melato 2024), Dario Caccuri, Jacopo Neri (anche autore e regista), si scambiano continuamente durante le Tre liriche nella Sala Bausch. Attraversano un incontro, una coppia che vuol restare tra sé, lasciando il mondo allo scuro, in quell’ombra che dà sostanza alla luce, come fa il vuoto di risposte con il pieno di intenzioni in Afànisi.
Parte di una trilogia iniziata nel 2020, quando il contatto umano era tenuto in scacco dal Covid-19, questo dialogo a distanza di monologhi al microfono esplora la concatenazione tra amore e paura: la paura del coinvolgimento, quando la relazione nasce, la paura dell’abbandono, mentre la relazione cresce, e la paura dell’oblio, appena la relazione muore. Sono immagini mentali, parole su come un sentimento, impresso in frasi che uniscono e allontanano, ti cambia, ti migliora, ti distorce, e infine ti perde.

Foto di Lorenzo Benelli

Ferrara, Caccuri, Neri, ci dicono quanto non riusciamo a godere di quello che abbiamo, mentre ce l’abbiamo, quanto non ritroviamo noi stessɜ in chi abbiamo di fronte. Eppure, amare è rispecchiarsi, è scorgere e imparare sé stessɜ nell’altrǝ, attraverso l’altrǝ. Dovremmo aprire gli occhi, e invece li teniamo chiusi. O fissi sul cellulare, che è poi la stessa cosa. In scena, quando non si rubano la parola, si riscaldano al lume di questi specchi che non riflettono altro che le nostre allucinazioni del mondo, del nostro sprofondare dentro noi stessɜ.
Così, quando l’amore passa, e finisce – forse, è questo il suo destino – viene a mancare anche la forza del microfono: la voce è nuda, spogliata dalla relazione che non c’è più, un’assenza a cui è sempre difficile e doloroso dare una vera spiegazione. Dialogano ma è come se parlassero a sé stessɜ e le altre voci fossero dentro la loro testa.
E dopo? Si può amare ancora, dopo? Tra l’incontro e l’affanno, la scoperta e l’inganno, Tre liriche dice tutto il bene e il male che c’è dall’inizio alla fine di una storia. Che è la nostra, la tua, e anche la mia. In due bastava essere una metà della stessa vita. Adesso, ricominciare è tornare in possesso della propria. Dall’altra parte della solitudine.

AFÀNISI

testo e regia Alessandro Paschitto
con Raimonda Maraviglia, Alessandro Paschitto, Francesco Roccasecca
feat. Manuel Severino
produzione Campania Teatro Festival, Ctrl+Alt+Canc
si ringraziano Giulia Sangiorgio, Chiara Virgilio, Chiara Cucca, l’Asilo – Ex Asilo Filangieri

Vincitore In-Box Generation 2024
Premio della Giuria Critica a Direction Under 30 2023
Vincitore L’Italia dei Visionari – Kilowatt Festival 2023
Vincitore bando UP TO YOU 2023
Vincitore Odiolestate 2022 – Carrozzerie n.o.t
Vincitore Bando Intercettazioni 2022 – Circuito CLAPS Lombardia
Finalista In-Box 2024
Finalista Intransito Genova 2023
Finalista Bando Verso Sud 2022

TRE LIRICHE

drammaturgia e regia Jacopo Neri
musiche Enrico Truffi
con Chiara Ferrara, Dario Caccuri, Jacopo Neri
produzione Eat The Catfish /Ac Xenia 

Vincitore Direction Under 30 2023
Vincitore Intransito 2023
Vincitore Pillole 2023
Finalista In-Box 2024 

Teatro Elfo Puccini – Milano | 21 settembre 2024

Succede di Gabriella Salvaterra: le vie invisibili e sotterranee della violenza di genere

VALENTINA SORTE | Dopo il successo di Dopo, nel 2021, e di Un nodo in gola, l’estate scorsa, nell’ambito del festival Da vicino nessuno è normale, il TeatroLaCucina ha ospitato dal 27 ottobre al 09 novembre un altro lavoro di Gabriella Salvaterra, Succede, che affronta con delicatezza e in maniera inedita il tema della violenza sulle donne, indagando le forme più svariate e sottili in cui questa si manifesta. 

Salvaterra opera da sempre a livello internazionale (America Latina, Stati Uniti, Asia, Australia, Italia) ed è uno dei membri del Teatro de los Sentidos di Enrique Vargas, dove si è formata artisticamente, ma negli ultimi anni ha affermato un percorso di ricerca personale all’interno del teatro sensoriale che l’ha portata alla creazione di esperienze immersive sia all’aperto, nella natura, che al chiuso, nell’oscurità. Attraverso delle installazioni abitate, l’artista mira a creare esperienze poetiche capaci di provocare risonanze interiori e di scatenare trasformazioni individuali e collettive.   

Nello specifico, questo progetto è stato commissionato nel 2021 dall’Assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Modena, e per le repliche milanese ha ricevuto il sostegno della Delegata del Sindaco alle Pari Opportunità del Comune di Milano. Si tratta di un’installazione sensoriale e immersiva per uno spettatore alla volta che non mira a denunciare la violenza di genere a squarciagola, come istintivamente verrebbe da fare, quanto a esplorare per vie sotterranee ed intime le forme di violenza che moltissime donne continuano a vivere. La violenza viene affrontata come fosse una componente intrinseca e invisibile di alcune relazioni, come impulso talvolta così sottile e impercettibile da risultare “culturalmente accettabile”, all’interno di un contesto sociale ancora oggi regolato da una forte tendenza al patriarcato. Da questa chiave di lettura nascono l’intelligenza e l’incisività del lavoro della Salvaterra. 

Gabriella Salvaterra SUCCEDE ph Ilaria Costanzo
Gabriella Salvaterra SUCCEDE ph Ilaria Costanzo

L’installazione si configura come un percorso a stazioni, da abitare ed esplorare, lasciandosi avvolgere, nell’oscurità, da un paesaggio visivo, sonoro (a cura di Pancho Garcia) e olfattivo (a cura di Giovanna Pezzullo) molto suggestivo. Un labirinto che si muove fra narrazione, performance partecipata e installazione, un viaggio interiore da praticare in solitudine e al buio. Un viaggio che in realtà inizia prima dell’inizio. Nella sala d’attesa, lo spettatore attende infatti il suo turno avvolto in un’atmosfera ovattata, fatta di esili e incessanti bisbigli che creano come un sottofondo sonoro ed emotivo. La cultura del patriarcato è questo sottofondo, opera attraverso dinamiche spesso invisibili, è una sorta di dimensione latente ma pervasiva, parte del nostro sistema culturale e familiare. Una seconda pelle. Lì da sempre, e per questo più difficile da riconoscere come tale.  

Gabriella Salvaterra, insieme ad Arianna Marano e Giovanna Pezzullo accoglie e guida i “visitatori” con molta cautela. Piano piano, con grande rispetto delle storie e delle memorie altrui. È sempre molto delicato l’accesso nella vita degli altri, bisogna procedere in punta di piedi, senza brusche intromissioni, senza alcuna sovrascrittura. La drammaturgia è per metà un puro atto di ascolto. Da una parte c’è lo spazio installativo abitato dalle performer secondo un canovaccio narrativo e un’estrema cura estetica, dall’altra c’è la relazione profonda con l’altro. 

Gabriella Salvaterra SUCCEDE ph Ilaria Costanzo

Il percorso inizia con la perdita delle proprie coordinate spazio-temporali, immersi nel buio. Come falene ci si muove verso deboli riverberi di luce, lungo dei corridoi. A volte si accede a stanze-museo, vere e proprie Wunderkammer, curate nel minimo dettaglio, affascinanti ma dall’atmosfera macabra e a tratti opprimente. Una di queste, ad esempio, sembra una stanza della “memoria”. Accumulati su numerosi scaffali, troviamo teche illuminate e barattoli di vetro in cui affogano, come immersi nella formaldeide, vecchi ricordi e cimeli d’amore, quasi reliquie. Ci saranno altre stanze simili a queste lungo il percorso, seppur diverse nel loro specifico allestimento. Ciò che le accomuna è una particolare poetica dell’oggettoGli oggetti sembrano essere depositari di una narrazione intima (oggetti-evento) quasi medium emotivi, ma il loro allestimento per serialità e accumulazione li riporta allo stesso tempo alla loro mera oggettualità (oggetti-cosa).  

Altre volte, invece, si passa accanto a stanze-quadri da osservare dall’esterno come spazi di memoria cristallizzati, dalla grande pulizia formale. Altre volte ancora si entra in spazi installativi performati, in cui si prende parte insieme agli artisti a intense sequenze narrative. In Succede ce ne sono quattro. Per non privare i “futuri” visitatori della relazione diretta con l’opera, non mi soffermerò tanto sui dettagli delle installazioni abitate, quanto sulla loro funzione drammaturgica, anche perché Salvaterra non parte mai dal racconto del reale in quanto tale, ma lo trasla in una rappresentazione simbolica, ancora più forte dell’originale. Grumi poetici di reale.  

In ognuna di queste stazioni è sempre presente una figura femminile che accoglie il visitatore e lo guida durante l’esperienza. La prima installazione esplora la perdita dei propri riferimenti identitari, con un’operazione di scomposizione e ricomposizione dell’immagine. Insieme all’acqua, la fotografia è qui di nuovo protagonista, sebbene come cancellazione di sé. La seconda installazione ha un impatto visivo ancora più forte: una serie di sottovesti femminili, sospese all’altezza dello spettatore e cucite una dopo l’altra, formano una specie di spirale che il visitatore inizia a seguire. Quanto può pesare una sottoveste? La loro leggerezza nella vita reale contrasta con la loro rappresentazione nello spazio scenico. Sembrano di piombo per tutto il peso che hanno sopportato. Piombo su piombo. Con questo peso addosso arriviamo al centro della spirale dove siamo chiamati a confrontarci con il processo di negazione a se stessi della violenza subita. 

Gabriella Salvaterra SUCCEDE ph Ilaria Costanzo

Il terzo spazio performativo assume invece la forma di un ring. Oltrepassiamo le corde e la prospettiva si ribalta. Una pugile ascolta le nostre ferite. La nostra pelle, il nostro corpo è in questo momento un atlante, con morfologie emotive in rilievo, tra altitudini e depressioni. La nostra storia trasuda dalla nostra pelle. Finiamo a terra, è buio pesto. Le nostre paure, i nostri dubbi iniziano allora a salire in superficie, risvegliate da questo percorso sensoriale e interiore.  

Non è un attraversamento facile. Né per le performer, né per il pubblico. Per questo alla fine del percorso, c’è un’ultima stazione performativa, una sorta di sala della decompressione, uno spazio di recupero prima di poter tornare fuori. Una frase ci viene sussurrata in questa stanza: “Tutto passa, tutto resta”. Le piccole sopraffazioni, i piccoli soprusi quotidiani, le microviolenze passano spesso inosservate ma restano su di noi e a volte vengono a galla. Le microviolenze ci parlano di quelle macro. 

Che il visitatore sia donna o uomo poco importa, il percorso è stato concepito per generare consapevolezza e produrre domande. Succede non intende infatti offrire risposte, fallirebbe il suo scopo. Al contrario, attraverso un solido impianto drammaturgico e una cifra stilistica molto riconoscibile e personale Gabriella Salvaterra costruisce un racconto sincero e profondo che invita davvero a una riflessione intima e mai rassegnata sulle forme sottili e invisibili in cui la cultura della violenza e del patriarcato si manifesta. Succede anche a me?

SUCCEDE

di Gabriella SalvaterraSST Sense Specific Theatre 
collaborazione drammaturgica Miguel Jofré Sarmiento, Arianna Marano, Giovanna Pezzullo 
con Arianna Marano/Giuliana Pavarotti, Giovanna Pezzullo, Gabriella Salvaterra, Angela Sparvieri/Antonella Carrara 
paesaggio olfattivo Giovanna Pezzullo 
musiche Pancho Garcia 
costumi Giuliana Pavarotti 
direzione tecnica Davide Sorlini 
organizzazione Claudio Ponzana 
assistente scenografo Ross Molla 
produzione SST – Sense Specific Theatre/Artisti Drama 

Visto a TeatroLaCucina, nell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini (Milano), dal 27 ottobre al 09 novembre