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Avrei preferito essere un gabbiano, Rodolfo Siviero nell’universo narrante del Teatro dell’Elce

MATTEO BRIGHENTI | Una caccia al tesoro, in cui il tesoro è la costruzione di una storia. Una storia che funzioni. Ovvero, che sappia tenere insieme realtà e finzione, verità e bugia. O meglio, che faccia uso della menzogna come sortilegio per rivelare una verità profonda, imprendibile altrimenti.
È l’approccio al palcoscenico del Teatro dell’Elce: interpretarlo come un universo narrante. Piegarne con l’immaginazione confini e latitudini, per trovare uno sguardo prismatico che abbracci la complessità umana, rendendola racconto, senza, per questo, semplificarla. Marco Di Costanzo ha restituito così, tra gli altrɜ, Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima, e il filosofo Günther Anders, in Little Boy. Adesso fa lo stesso con Rodolfo Siviero nel suo nuovo Avrei preferito essere un gabbiano, con Stefano Parigi e Annamaria Moro, aprendo, per la prima volta, lo spettacolo anche al suo farsi, oltre che al suo dirsi, ispirato agli scritti di e su lo “007 dell’arte”.
Ecco spiegata, allora, la sua scelta di tornare, dopo tanti anni, a calcare la scena. Di Costanzo tiene per sé la voce narrante, perché il lavoro in prima assoluta al Teatro Cantiere Florida di Firenze fonda il passo in una sorta di autofiction, dentro una lezione di storytelling e un thriller sulle tracce del “monument man” che ha salvato centinaia di opere durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Già solo con la presenza, la postura e il rapido movimento delle mani, restituisce il processo di indagine e studio, la difficile e avvincente costruzione del progetto. È senza leggìo: improvvisa. A partire dalla propria memoria.

Avrei preferito essere un gabbiano. Foto di Monia Pavoni

Stefano Parigi, invece, legge. È la voce recitante di Rodolfo Siviero, che è stato una spia, un amante dell’arte, un funzionario statale, un dongiovanni e un influencer ante litteram. E nessuna di queste cose fino in fondo. Parigi comincia a parlare da quasi immobile, per sciogliersi via via sempre di più. È un fantasma che anela in modo continuo, estenuante, a una pace-morte, cioè, la liberazione da tutti quei ruoli dietro cui si è nascosto per una vita intera. Vuole testimoniare chi è veramente. Comunque, è la maschera che dà corpo al personaggio, come il buio fa con la luce.
Terzo elemento di questo complesso, di questa agile “band teatrale”, è Annamaria Moro. Con il suo violoncello elettrico restituisce la casa di Siviero, oggi Museo sul Lungarno Serristori, a Firenze. Lì, tra quelle note, respira la scenografia di Avrei preferito essere un gabbiano. Il commento musicale traccia un panorama esteriore e interiore, piccolo e immenso, storico e pure contemporaneo, proprio come lo strumento che lo suona.
Il palco, infatti, è vuoto. Non c’è niente che provenga o rimandi a Casa Siviero, teatro nel 2016 de
Il sogno di Rodolfo Siviero, la visita guidata ed esperienziale che è testo, contesto e pretesto dello spettacolo di oggi. Su questo palco la casa non sono tanto le cose che lui ha accumulato, sono i pensieri, le sensazioni, le emozioni. Sono i casi della sua vita, più che le cose.

Foto di Monia Pavoni

L’ossessione guida Avrei preferito essere un gabbiano. L’ossessione della ricerca. A volte, in altri spettacoli della Compagnia, è diventata fine a sé stessa. In questo caso, la via dell’autofiction, raccontare quindi il cosa dentro il come, ha aiutato Di Costanzo a smarcarsi dal ricercare per ricercare, incontrando, piuttosto, il ricercare per trovare. Ossia, che Siviero è stato contemporaneamente buono e cattivo. Come tuttɜ, del resto. Solo che non l’hanno voluto riconoscere, e allora hanno fatto sì che lui e la sua complessità di natura mutassero in fantasma. E Siviero spettro lo è stato già in vita. Adattando il Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello, a proposito delle sue tante e contraddittorie verità, potrebbe ben aver detto: “Per me, io sono colui che mi si crede!”.
Ma c’è di più. Quell’«avrei preferito essere un gabbiano» fa pensare anche a un altro testo: Il gabbiano di Anton Čechov. La giovane Nina a un certo punto sospira: «Io sono un gabbiano». Vuole fare l’attrice, distendere le sue fragili ali, spiccare il volo e innalzarsi al di sopra deglɜ altrɜ, al di sopra di tutto. In fondo, Rodolfo Siviero ha rincorso sempre questo: fare l’attore, interpretare la parte di sé stesso, per librarsi sulle cose del mondo. Così facendo, però, il suo sé è diventato un se che gli ha condizionato l’esistenza.

Foto di Monia Pavoni

Il Teatro dell’Elce, dunque, ci invita a partecipare a un’incredibile vicenda privata e pubblica. E siamo noi che diamo a Siviero la possibilità non solo di riviverla, ma anche di rivelarsi, di fargli essere chi vuole. Nel teatro di Marco Di Costanzo succede questo: il personaggio dice la sua a noi che siamo lì davanti a lui per permettergli di dirla, di tirarla fuori. Gli permettiamo di essere, accettandolo per come si mostra. Questo suo essere si svela poi nel fare, tra scoperte e inciampi, cadute e risalite. Per strade che possono anche essere buie, ma non sono mai cieche.


AVREI PREFERITO ESSERE UN GABBIANO

di Marco Di Costanzo
liberamente ispirato agli scritti di e su Rodolfo Siviero
voce recitante Stefano Parigi
violoncello elettrico e voce Annamaria Moro
voce narrante Marco Di Costanzo
produzione Teatro dell’Elce
con il sostegno di Regione Toscana, Fondazione CR Firenze
residenza artistica Murate Art District

Teatro Cantiere Florida, Firenze | 30 ottobre 2024

Settimana delle Residenze Digitali: gli anni Settanta in onda su Radio Pentothal di Ruggero Franceschini

EUGENIO MIRONE | Se si dovesse trattare in termini drammatici degli anni Settanta della storia del nostro Paese, sorgerebbero pochi dubbi sulla scelta del genere della tragedia come loro modello rappresentativo. T
utto inizia, come si legge in C’era una volta in Italia. Gli anni Settanta, saggio recentemente pubblicato da Enrico Deaglio per Feltrinelli, da una notte di sogni e speranze: era il 17 giugno 1970 quando gli azzurri batterono in semifinale ai Mondiali del Messico gli acerrimi rivali della Germania dell’Ovest in quel 4 a 3 passato alla storia come la “partita del secolo”. La gioia, però, si trasformò ben presto in una grande delusione in seguito alla sconfitta in finale con il Brasile di sua maestà ‘o rei’ Pelè. Fu una nota amara a conclusione di un primo atto in qualche modo anticipatore dei toni cupi dell’avvenire.
Il secondo tempo del decennio, infatti, è stato segnato dalla violenza e dalla paura, dagli scontri nelle piazze e dal movimento della controcultura. La decade si aprì nel segno della violenza con la madre di tutte le stragi, Piazza Fontana, e  si concluse sotto la stessa costellazione con l’attentato alla stazione di Bologna. Nel suo ultimo atto ebbe luogo un’altra delle pagine più buie della storia del nostro Paese, una vera e propria tragedia nella tragedia ben più lunga dei canonici tre giorni descritti da Aristotele; furono i cinquantacinque giorni del sequestro Moro – dal 16 marzo al 9 maggio 1978 – conclusosi con l’assassinio del Presidente della Democrazia Cristiana.
Si dovettero attendere nuovi Mondiali, quelli giocati in Spagna nel 1982 e dai quali questa volta uscimmo vittoriosi, per liberarsi nell’urlo di Tardelli (che è stato il grido di tutta una Nazione), della paura e delle sofferenze che fino ad allora avevano attanagliato il cuore degli italiani.

Eppure, questo decennio resta in gran parte oscuro alla maggioranza delle giovani generazioni, principalmente a causa di quei celeberrimi programmi scolastici che di rado osano spingersi oltre l’insegnamento dei fatti relativi alla Seconda guerra mondiale.
E pensare che ci sono stati anni in cui si aveva paura a uscire di casa perché la violenza era all’ordine del giorno. Un’epoca in cui l’ordine delle cose non era accettato e la stessa idea di Stato era continuamente messa in discussione; tuttavia, milioni di giovani italiani oggi non ne sono minimamente consapevoli; oggi che quasi quotidianamente si punta il dito contro il loro smarrimento di coscienza, senza che la compagine degli adulti sia in grado di indicare soluzioni concrete al problema.
Sembra un paradosso perché invece negli anni Settanta erano soprattutto i giovani a lottare per diventare i protagonisti della Storia. Un anno su tutti fu il più caratteristico: il 1977, quando la voce di protesta dalla sede di una delle più note radio libere del Paese, Radio Alice, in via Pratello 41 a Bologna, raggiungeva i cortei studenteschi nelle piazze delle principali città oppure veniva convogliata in forma artistica nei personaggi iconici delle graphic novel di Andrea Pazienza.

Proprio dalla prima creazione del rivoluzionario fumettista marchigiano, Pentothal, prende il nome il nuovo progetto di Ruggero Franceschini presentato in occasione della quinta edizione della Settimana delle Residenze Digitali da poco conclusa. L’idea del progetto si sviluppa a partire dal 2023 intorno al tema della post-verità, ovvero sul grado di verità presente nell’informazione dell’era del capitalismo che sorveglia.
È una domanda che traccia un solco tra Novecento e nuovo millennio e che ha portato Franceschini a ricercarne i sintomi in quell’Italia della controcultura – culla della controinformazione – che passava attraverso le radio libere e la diffusione di una postura critica nei confronti del magma inaccessibile della notizia. Erano gli anni Settanta e in Italia Bologna rappresentava forse il luogo dove con maggiore forza tale esemplare atteggiamento si andava manifestando, sostenuto da un movimento universitario radicale e da una magnifica vitalità artistica di cui il padre stesso di Franceschini, Frank Precotto, fece parte.

Pentothal, il protagonista dei fumetti di Andrea Pazienza

Partendo da questa libreria di famiglia Franceschini ha lavorato alla creazione di un dataset per l’addestramento di un’intelligenza artificiale testuale, un ‘Large Language Model’ (LLM), a cui affidare la diretta radiofonica in cui consiste la performance. Radio Pentothal, infatti, è una stazione radio interattiva alimentata da un’intelligenza artificiale testuale in grado di creare contenuti visionari e onirici ispirati agli anni ‘70 italiani.
Ma Pentothal, oltre a un personaggio inventato da Pazienza per l’autore, è anche il “siero delle verità”, per questo motivo a ogni ascoltatore è consegnato un foglietto illustrativo contenente le avvertenze di cui è necessario essere a conoscenza prima di connettersi alla diretta. Alcuni dei sintomi per cui è consigliato l’utilizzo di Radio Pentothal sono: «sfiducia totale nei mass media e social media, sensazione di fallimento della democrazia, ecoansietà dovuta al collasso climatico, rabbia per la senescenza psicotica genocida della civiltà occidentale». Si invita a connettersi quando si è raggiunta la consapevolezza che la formazione delle opinioni, compresa la propria, è solo un prodotto della macchina mediatica su cui si regge il capitalismo della sorveglianza.

Il programma si apre con la registrazione in presa diretta del corteo funebre che segue la salma di Francesco Lorusso, studente di medicina presso l’ateneo bolognese e militante di Lotta Continua che nel pomeriggio dell’11 marzo 1977 venne colpito da un colpo di calibro 9 sparato da un carabiniere nel tentativo di dissolvere il corteo di protesta del movimento studentesco bolognese al quale Lorusso si era unito.
La notizia del suo omicidio diffusa da Radio Alice esaspera un clima già teso e sconvolge per tre giorni Bologna, tra scontri e barricate. Il 12 marzo, come scrisse Lucia Annunziata nel suo libro, «rimane ancora oggi il singolo giorno di maggiore violenza della storia d’Italia». Fu anche l’ultimo giorno di trasmissione di Radio Alice prima del suo sgombero da parte delle forze dell’ordine, nonché simbolicamente lo sfondo temporale della diretta radiofonica di Radio Pentothal.

Come da programma radiofonico, in studio si alternano interviste agli ospiti, musica e interventi degli ascoltatori, il tutto gestito da tre performer, Ruggero Franceschini, Paula Carrara e Angelo Callegarin, in dialogo costante con l’intelligenza artificiale che alimenta la diretta. Gli ospiti in studio sono personaggi appartenenti al quadro degli anni Settanta ricostruito dall’IA ai quali i performer donano voce e corpo. Il lavoro è svolto in primis da ChatGPT al quale vengono rivolte le domande degli intervistatori in forma di prompt; lo stesso meccanismo si applica per le domande rivolte dal pubblico al quale è garantita la possibilità di intervenire sia in chat sia chiedendo la parola.
Un’ora di diretta densa di spunti e riflessioni: si ragiona intorno al tema della futurabilità postulato da Franco Berardi detto Bifo, il leggendario leader settantasettino, ci si interroga su cosa sia il comunismo 4.0 (e se esistano il 2.0 e il 3.0) e sull’urgenza di una rivoluzione; ma si ascolta anche musica e poesia direttamente prodotta dall’IA, come questo haiku: l’amore è un virus / ricorda, siamo il virus / virus è amore.
Una delle ultime riflessioni riguarda proprio la radio e la sua funzione creatrice di un legame sociale. Dopodiché, come in un copione già scritto, la polizia irrompe in studio e la diretta s’interrompe. In quest’epoca ciò che unisce le persone e le coscienze è un pericolo, quantomai necessario, ma che pochi hanno il coraggio di correre.

Radio Pentothal è un progetto ambizioso che si serve delle immense capacità dell’intelligenza artificiale per costruire un archivio spaziotemporale interattivo. È possibile trasmettere la storia, quella fatta da donne e uomini in prima persona, specialmente quella di un decennio così focoso e vivo come furono gli anni Settanta, attraverso l’IA? Se l’operazione sommersa di ricerca brilla per accuratezza, ancora un po’ meccanica risulta la partecipazione dell’IA durante la diretta radiofonica vera e propria. In questo senso influisce il tempo fisiologico di composizione dei prompt. Già da ora, però, le funzioni di interazione vocale previste dai principali chatbot potrebbero rendere più snella e fluente la performance.
Resta comunque saldo il valore di un progetto che vive nel confine tra arte e storia e che apre anche il lavoro di studiosi, ricercatori e storici verso nuove frontiere da esplorare, si spera, anche in campo didattico. Si dice che il mondo oggigiorno cambi in maniera repentina, eppure basta varcare la soglia di una tipica scuola italiana per accedere a una dimensione sospesa nel tempo: chi può dire se i vecchi programmi ministeriali sopravviveranno anche all’avvento dell’intelligenza artificiale?

 

RADIO PENTOTHAL

concept e regia Ruggero Franceschini
drammaturgia Ruggero Franceschini e Sonia Antinori
con le voci di Alberto BaraghiniAngelo CallegarinPaula CarraraClaudia Gambino, Samantha Silvestri
sound design I Fidanzati della Morte
set design Kinga Kolaczko
foto Tommaso Girardi
creative developer Michele Cremaschi
tutor Marcello Cualbu e Anna Maria Monteverdi
con il supporto di MALTESineglossa
un ringraziamento speciale a Bifo e Frank Precotto

Cappuccetto Rosso di Campanale: quel sottobosco in cui tutti ci smarriamo

ESTER FORMATO | Per la programmazione di Piccoli Parenti, rassegna teatrale che il Franco Parenti dedica ai più piccoli, è andato in scena nel weekend di Sant’Ambrogio, lo spettacolo Cappuccetto Rosso ideato da Michelangelo Campanale e messo in scena dalla compagnia La luna nel letto.
Intercettato subito e accuratamente raccontato da PAC nel lontano 2019, questo gioiellino di teatro per ragazzi ritorna sulle scene con inedita freschezza, lasciando addirittura spazio a nuove suggestioni e riletture che vale la pena cogliere e conservare.
Eh sì, perché la visione di Michelangelo Campanale, supportata dall’eccellente bravura espressiva, coreografica e acrobatica degli interpreti – Claudia Cavalli, Erica Di Carlo, Francesco Lacatena, Marco Curci, Roberto Vitelli – tutti danzatori della Compagnia Eleina D., è complessa e apre un varco alle nostre inquietudini che qui si colorano delle mille sfumature che la scenografia dello stesso autore è in grado di proporci.

La storia di Charles Perrault di fine ‘600, poi ripresa nell’800 dai fratelli Grimm che le hanno attribuito il lieto fine che tutti conosciamo, si presta, come tutte le favole, a una complessa gamma di interpretazioni che vanno da quella funzionale o strutturale, come assunto nella celebre opera del linguista russo Propp, a quella psicoanalitica, approfondita da diversi studiosi nel XX secolo, in cui gli elementi ricorrenti del testo fiabesco o favolistico diventano chiare metafore delle pulsioni e paure, quali caratteristicbe archetipiche del nostro inconscio.
È quindi impensabile rappresentare in teatro una storia come quella di Cappuccetto Rosso, senza tenere conto dell’immenso bagaglio multidisciplinare che accompagna la comprensione di un universo che si cela sotto la candida coltre di semplicità e immediatezza stilistica e narrativa del genere della favola.

Dunque, lo spettacolo coprodotto da Teatri di Bari e Cooperativa Crest, è un’esperienza, ancor prima che una visione, perché la sala grande del teatro meneghino pullula fortunatamente di famiglie e bambini anche molto piccoli, i quali conoscendo la favola ne identificano subito i personaggi, mentre la natura clownistica che pervade tutta la messa in scena li diverte e li coinvolge, comportando quel processo di identificazione e partecipazione attiva così necessario e insito nei bambini. Questi ultimi non lo possono sapere, ma allo stesso tempo i più grandi sono in grado di recepire una storia differente, interpretando segni e movimenti scenici che danno vita a una narrazione più sottile e irrequieta, una sorta di plot nascosto.

All’interno di una scena caratterizzata da un gioco sfumato di luci, prendono vita tutti i personaggi della favola: Cappuccetto Rosso con manto e trecce, i cacciatori armati con fucile, bardati con lunghi cappotti e colbacchi in pelliccia, il lupo vestito interamente di nero, una pecorella che nel corso della vicenda in qualche modo sembra anticipare o rappresentare la stessa Cappuccetto Rosso, in quanto futura preda del lupo, la mamma, la nonna.

Insieme, quali creature oniriche, danno avvio all’azione scenica che si esprime in accurati movimenti coreutici collettivi, a conferma dell’assoluta complementarità di cui godono tutti i personaggi fra loro. Tutto è inscindibile, tutto è unità, soprattutto non vi è Cappuccetto senza lupo e viceversa. Questo è il punto focale, che Campanale trasfigura in un breve valzer al chiaro di luna, mentre il fondale, caratterizzato da scenari di boschi e da frequenti voli di uccelli, dà profondità all’ambiente scenico, conducendo lo spettatore in una dimensione semplice e al contempo simbolica, con ispirazioni alla pittura romantica europea e seicentesca.
Sul lato destro dell’assito, inoltre, una poltrona e un giradischi costituiscono un microambiente in cui il lupo destreggia una sfera luminosa, una luna surrogata, segno della sua elicantropia. È un lupo complesso quello di Francesco Lacatena, un antropomorfo che attinge dalla componente umana una serie di abilità seduttive, ma soprattutto la capacità di guardar se stesso dal di fuori non più solo come singolo lupo di una favola, bensì come archetipo di paura, buio e tenebre che le fucilate congiunte e ripetute dei buffi e imbacuccati cacciatori non possono annientare. In verità, facendosi beffa della morte con un foulard rosso che estrapola dal suo petto, ci riconferma la sua irremovibile persistenza nel cammino di tutti noi, conscio della sua eterna capacità evocativa.

Tea Primiterra

Nella versione dei fratelli Grimm, Cappuccetto, sviata dal lupo, si perde nel raccogliere fiori da portare alla nonna, mentre il suo antagonista le ruba il cestino e con destrezza avanza rapidamente verso la casa della vecchina. Nell’allestimento di Campanale compare persistentemente una rosa, anche in questo caso un simbolo, una figura allegorica dello stesso Cappuccetto Rosso e dell’imprescindibile legame della stessa con il lupo.
Rinforzata dall’accurata colonna sonora di Dance me to the end of love di Leonard Cohen che estrania la platea dalla tradizionale ricezione della storia e la spinge a guardare con maggior attenzione il controverso rapporto fra i due personaggi, la simbologia della rosa rossa emerge da crepe sotterranee del mondo dell’inconscio, riportandoci a contatto con una dimensione seduttiva e ambigua che già era presente nella versione di Perrault in cui la protagonista si spoglia, entra nel letto con la presunta nonna e finisce divorata in un sol boccone, senza alcun cacciatore che la salvi.

Riscopriamo così, grazie ai movimenti scenici che convergono verso il ben più positivo finale dei Grimm, che lupo e Cappuccetto sono legati da un filo perturbante, sottilmente morboso e ossessivo che nutre la natura complessa di questa figura maschile dalle fattezze umane.
Se Perrault terminava la sua Cappuccetto Rosso con un monito a giovinetti e giovinette che facilmente potevano essere insidiati da sconosciuti, ad occhi contemporanei il pericolo che vi si può leggere fra le simboliche maglie di questo modello archetipico della nostra cultura occidentale, è quello dell’amore molesto che compromette la serenità della crescita individuale e della relazione fra uomo e donna, sebbene in scena sia assente qualsiasi implicazione realistica. Il lupo è come un corto circuito che si innesca nell’intimo evolversi dell’animo femminile, un addensarsi di ombre in cui si resta presto inermi, prigioniere.

L’allestimento si fa prezioso proprio perché gli spunti di rilettura della celeberrima favola non scadono mai in riferimenti estranei al magico mondo ricreatosi. Tutto permane in un microcosmo onirico che l’arte coreutica impreziosisce e al quale dona coerenza stilistica e spessore narrativo, qui rinforzato da un sotterraneo fil rouge di presagi, di azioni anticipatorie e simboliche che poi trovano una propria determinazione nellla rappresentazione del lieto fine, quando dall’enorme pancia del lupo scivolano letteralmente nonna e nipote, quest’ultima col suo immancabile mantello rosso e dei bellissimi capelli sciolti che rappresentano inevitabilmente il passaggio dall’infanzia a una fase successiva della vita, segnato in modo inesorabile dalla conoscenza del pericolo, della paura e dello smarrimento.

Tea Primiterra

Parlavamo di rappresentazione del lieto fine; infatti, nella visione di Campanale l’epilogo non coincide affatto con quello della favola (nel lieto fine dei Grimm, Cappuccetto Rosso e la nonna si vendicano del lupo, dimostrando di aver imparato la lezione), ma in un eterno ritorno dei personaggi a comporre quel quadro collettivo dell’inizio. Questa ciclicità formale nella quale tutti, Lupo compreso, ritornano insieme alla ribalta, nella loro danza cadenzata a suon di fanfare, si erge a dimostrazione del fatto che, al di là dell’apparenza meramente moralistica ed educativa della favola, permanente e vivo resta quel sottobosco di inquietudini, paure, tenebre, fatto di relazioni o di presenze che deviano i nostri percorsi verso la luce ed entro i quali continuiamo, all’infinito, a smarrirci.

CAPPUCCETTO ROSSO

drammaturgia, regia, scene e luci Michelangelo Campanale
con i danzatori della Compagnia Eleina D.
Claudia Cavalli, Erica Di Carlo, Francesco Lacatena, Marco Curci, Roberto Vitelli
coreografie Vito Cassano
assistente alla regia Annarita De Michele
costumi Maria Pascale
video Leandro Summo                                                                                                foto Tea Primiterra
si ringraziano Filomena De Leo, Rina Aruanno, Maria De Astis, Licia Leuci
produzione Compagnia La Luna nel letto / Associazione Culturale Tra il dire e il fare
In coproduzione con Teatri di Bari e Cooperativa Crest
con il sostegno di Scuola di danza Artinscena

Spettacolo Vincitore Festebà 2018
Premio Infogiovani young&kids FIT Festival Internazionale del teatro e della scena contemporanea – Lugano
Eolo Award 2019

Teatro Franco Parenti, Milano | 7 dicembre 2024

Le maschere di Pirandello al Pacta: Il gioco delle parti di Bignamini

ph Emma Terenzio

MARIA FRANCESCA SACCO / Pac lab* | Se si avesse la possibilità di sbirciare le vite altrui, non si faticherebbe a riconoscere, nelle dinamiche che regolano i rapporti, quel gioco delle parti di cui parla Pirandello e in cui ogni personaggio si guarda vivere nascondendosi dietro maschere.
La sensazione che si ha entrando nella sala del PACTA Salone per la rappresentazione de Il gioco delle parti di Pirandello con la regia di Paolo Bignamini è infatti di essere calati nella condizione di voyeur, sbirciando dal buco della serratura la vita altrui. 

ph Emma Terenzio

Quando si entra in sala gli attori già sono in scena e la canzone di Joe Dassin Et si tu n’existais pas suona a ripetizione, dapprima dando una sensazione di languida nostalgia ma poi lasciando spazio a un estraniamento che rende quella melodia lontana. Questa impressione è alimentata dal fatto che, a separare pubblico e scena, c’è una grata che rimanda all’occhio contorni rarefatti, oltre a definire una cesura fisica tra sala e scena. Qui campeggia un tavolo rosso che scandisce, con la sua massiccia presenza, gli avvenimenti e intorno al quale si costruisce l’azione. In realtà, a ben riflettere, di agito c’è poco: lo sforzo di un esasperato dialogo che sembra talvolta ripiegarsi su se stesso. Si nota subito anche la cornice di uno specchio, rimando alla finzione della vita, perno della commedia.
L’intreccio tratta di un triangolo amoroso: i coniugi Leone Gala e Silia, la quale ha un amante, Guido, con il quale trama l’omicidio del marito. Egli, conoscendo il ménage, utilizza questa situazione a suo vantaggio quando, sfidato a duello per difendere l’onore della moglie, manderà a combattere l’amante, cioè colui che ha il dovere reale di farlo.
La prima rappresentazione di questa commedia risale al 1918 con la regia di Ruggero Ruggeri. Bignamini, nel 2024, sembra voler restituire lo spessore psicologico dei personaggi delineato da Pirandello, definendoli tramite temperamenti e prossemica.
Silia, interpretata da Annig Raimondi, è capricciosa ed eccentrica con il suo sbattere i tacchi in scena, vanitosa e implacabile nel torturare la mantella che indossa, in un continuo metti e togli (stilosissimi i costumi di Nir Lagziel). Se in Pirandello viene dipinta come una bambina e Gramsci, in un suo articolo, la descrive scomposta come un quadro cubista, qui se ne evidenzia invece una certa consapevolezza. La frase che pronuncia «Resterebbe da vedere quanto in que­sto poi c’entri anche il mio piacere, d’esser donna, quando non vorrei» rimane impressa al pubblico: come se finalmente si mostrasse oltre le sue smanie. Infatti non ha gusto nel ruolo che la società le ha assegnato, quello di donna, e nel dover seguire convenzioni che la imprigionano nella maschera con la quale lei, in effetti, non è nata.
Una Simone de Beuvoir ante litteram: «donne non si nasce, si diventa». Pirandello aveva pensato questa frase come un capriccio della protagonista, un’insoddisfazione di un ruolo come di un altro, senza sfumature femministe, tuttavia oggi tale sentenza freme in scena: se Silia portasse in fondo tale riflessione, sarebbe lei a cambiare il gioco delle parti.
La peculiarità dei personaggi pirandelliani sta proprio nell’incapacità di sfuggire a quel ruolo assegnato, benché consci della forzatura della finzione.

ph Emma Terenzio

A fare da contrappeso a Silia è Leone Gala, il marito, interpretato da Riccardo Magherini, saldo e consapevole, ammantato di discorsi di levatura intellettuale, trapunto di cinismo: l’unico che comprende il gioco delle parti e si difende con l’indifferenza alla vita. Al contrario della moglie che vaga nevrotica, in scena lui occupa uno spazio preciso: si sposta con misura, si dedica alla cucina, mantenendo la lucidità di un giocatore di scacchi. Del resto, è l’unico ad aver capito la finzione della vita e quando la maschera si svela, bisogna continuare a portarla lo stesso, sostiene Pirandello.
La calma di Leone Gala è dunque rassegnazione: nel tragico finale, quando sta per avvenire il duello, lui prepara la colazione come niente fosse, tanto alla vita non c’è scampo. Questo io ragionante, che gli permette di fare scacco matto, racchiude il pensiero pirandelliano, ma anche il taglio che il regista vuole dare alla performance: domare i sentimenti è in effetti l’unica soluzione.
Ma veri vincitori non ce ne sono: Guido, l’amante, interpretato da Alessandro Pazzi, muore ed è colui che vive il destino più beffardo. Un personaggio acquiescente, passivo fino al momento in cui perde la vita nel duello: capisce il gioco ma troppo tardi e sta nella parte. Pazzi restituisce molto bene queste venature: l’urgenza a non sottrarsi al proprio ruolo carico di rassegnazione e insoddisfazione dove nessun tipo di azione diversa è contemplata.

ph Emma Terenzio

La musica che accompagna lo spettacolo è tutta francese: si inserisce discreta nei silenzi con note di amore e nostalgia. In questa amara commedia, in realtà, c’è sopravvivenza: l’amore è una battaglia, come nel testo La chanson des vieux amants di Jacques Brel, che risuona infatti sul finale.
Questo progetto ben orchestrato e interpretato da tre attori capaci di inserirsi nelle pieghe della psiche dei personaggi restituendoli tridimensionali, andrà in scena anche lunedì 3 marzo 2025 al PACTA Salone e in collegamento streaming ad Avignone e Berlino. Fa infatti parte del Festival teatrale biennale transnazionale Clashing Classics. Multilingualism on Stage che vede PACTA collaborare con l’Université e Archipel Théâtre di Avignone, Multiculturalcity e V. di Berlino e IULM di Milano, rappresentando la commedia italiana.
E la vita, si potrebbe aggiungere, dove, per uscirne vivi è meglio muovere le pedine consapevolmente, senza mai gettare la maschera.

 

IL GIOCO DELLE PARTI

da Luigi Pirandello
drammaturgia e regia Paolo Bignamini
con Riccardo Magherini, Annig Raimondi, Alessandro Pazzi
costumi Nir Lagziel
disegno luci Fulvio Michelazzi (AILD)
costruzione scene Eliel Ferreira de Sousa
assistente alla regia Anna Germani
produzione PACTA . dei Teatri
in collaborazione con il progetto vincitore del bando UE CREA-CULT-2023-COOP TraNET – (Trans)National European Theatre: audiovisual tools and simultaneous interpreting for the internationalisation of theatre production and consumption I Festival Biennale Europeo CLASHING CLASSICS. Multilingualism on Stage

Pacta. dei Teatri, Milano | 1 dicembre 2024

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

Il Lògos è morto, viva il Lògos: il nuovo spettacolo di Rafael Spregelburd

ph. Andrea Morgillo

OLINDO RAMPIN | Nel racconto Il nuovo avvocato, con cui Kafka apre Un medico di campagna, il cavallo di Alessandro Magno ha subìto una metamorfosi ed è diventato un avvocato, il Dr. Bucephalus, che passa il tempo a studiare il passato e le sue scritture, non più comprensibili. La modernità non contempla l’azione come la intendevano gli antichi, l’inerzia ha rammollito il grande condottiero e il suo cavallo per sopravvivere deve trasformarsi in un topo di biblioteca, in uno sparuto Azzeccagarbugli.

La mirabile invenzione di Kafka ci è tornata in mente, in modo imprevedibile, di fronte a una metamorfosi, certo molto meno misteriosa e molto più pop di quella elaborata dal poeta praghese. In Diciassette cavallini, il nuovo spettacolo di Rafael Spregelburd che ha debuttato al Teatro Due di Parma, il cavallo di Troia con cui Ulisse, macchinatore di crimini come lo chiama Virgilio, inganna i Troiani, si trasforma nel Balloon dog, il cane fatto con i palloncini gonfiabili da Jeff Koons. Lo scultore americano è del resto meritevole, come e più dell’Ulisse virgiliano, dell’appellativo di scelerum inventor. Riprodotto in grandi dimensioni, il cane gonfiabile domina la scena dello spettacolo.

ph. Andrea Morgillo

La degradazione a seriale feticcio pseudo-artistico dell’ingegnosa invenzione di Ulisse è un possibile emblema della morte del Lògos, di quella parola che per i Greci era anche pensiero, ragione. Se quindi oggi siamo nel regno incontrastato dell’A-Lògos, dell’Anti-Lògos, allora l’ingegnoso organismo narrativo creato da Spregelburd può trovare una sua parziale collocazione genealogica. Possiamo vedervi, più ancora che un’operazione di anti-teatro o di post-teatro, di iper-teatro: una sorta di inesausto rompicapo o di teatro-enciclopedia che parodizza se stesso, frutto di una voracità culturale abnorme, di una libido teatrandi che accumula, connette e smitizza storie, miti, idee, nozioni, saperi, concetti.

Psicoanalisi, letteratura, filosofia, mitologia, epica, etnologia, antropologia, fisica, astronomia: un mostruoso, in senso etimologico, artefatto, un nuovo “crimine, una “orazion” che da “picciola”, com’era nella versione dantesca di un Ulisse fraudolento motivatore, è divenuta ora smisurata, e per questo divora e risputa parossisticamente la mole plurisecolare delle acquisizioni delle scienze dell’uomo e delle scienze della natura, dall’umanesimo greco-romano allo scientismo neo-positivista.

ph. Andrea Morgillo

Trattato di fisica e chimica e contemporaneamente parodia delle soap, della tragedia greca e del teatro cechoviano, pastiche maccheronico di letteratura alta e letteratura bassa, fusione della psicanalisi lacaniana con la palloncino-terapia proposta dal figlio inetto di una madre arcigna, mentre un idraulico con mezzo sedere scoperto cerca di calmare un poliziotto disturbato pluriomicida.
In questo iper-teatro carnevalesco nulla è vero e nulla è falso, la mitologia greca convive con la sua immagine dimidiata, con I miti greci che avevamo smesso di aprire dagli anni del liceo e che ora riappaiono, con vena surreale e grottesca, nella persona stessa del loro autore, quel Robert Graves che ci sembra un po’ una versione pop e disillusa di Bouvard e Pécuchet, i due copisti afflitti da un patologico enciclopedismo, a cui Flaubert aveva attribuito il compito di ripercorrere comicamente lo scibile umano. Quel Flaubert che è forse il primo ad avere avuto l’intuizione che l’ardore conoscitivo è anche un aspetto di quel modello di “cretino” che per lui è il borghese.

Non ci sembra casuale che lo spazio di questa libido teatrandi sia una scena che accatasta con opprimente disordine decine di objets trouvés come in un triste mercatino dell’usato: abiti smessi, biciclette, sedie, canestri da basket, grammofoni, fornelli vintage, manichini, ciarpame di ogni tipo. Disordine antiestetico che forse è anche un controcanto parodico a certe algide ed eleganti scene prive di oggetti e opifici in abbandono, proprie di un’estetica teatrale figlia di altre genealogie artistiche.

ph. Andrea Morgillo

Se è una sorta di libido teatrandi che sembra reggere la “macchinazione” di cui Spregelburd è l’inventor, è allora una libido recitandi quella che necessariamente alimenta l’ardua prestazione psico-fisica richiesta alle attrici e agli attori del Teatro Due. La loro recitazione, continuamente esposta a sorprese, rivelazioni, agnizioni, digressioni, colpi di scena, epifanie che nella seconda parte dello spettacolo assumono finalmente la forma di una allegoria di marionette, ricorda il modo con cui il dottor Bucephalus, in un frammento che nel manoscritto kafkiano precedeva il testo della prosa, doveva difendere il fratello: con “un processo che sarebbe durato giorno e notte senza interruzioni per diversi giorni”.  Che, pur nella durata reale di tre ore e mezza, è la percezione che si riceve dalla ammirevole performance della troupe parmigiana.

ph. Andrea Morgillo

Non stupisce che nell’universo dell’Anti-Logos la parola cerchi disperatamente un riscatto attraverso una dispendiosa prova interpretativa. Né che Cassandra, motore dell’operazione drammaturgica, si sia trasformata, coerentemente con il cavallo di Alessandro e con quello di Ulisse, prima nella paziente borghese e nevrotica di uno psicanalista e poi, ancora peggio, nella psicanalista del suo stesso psicanalista, affetto da turbe della sfera sessuale.

La vera Cassandra conosceva il futuro senza essere creduta dalla comunità, per l’atroce, abituale malvagità degli dèi, in questo caso del suo aspirante predatore sessuale Apollo, che a tal fine le sputò in bocca. Quella capacità divinatoria si degrada ora nella cura che la psicoanalisi non sa offrire, perché il suo statuto epistemologico fornisce al paziente una difficile e sofferta crescita di conoscenza, non già la guarigione. Sicché anche Cassandra, come i guaritori di Molière e quelli di oggi, qualsiasi veste assumano, siano ciarlatani occulti o rappresentati da agenti e osannati in tournée nei teatri o sugli schermi di smartphone e tv, si tramuta anch’essa in una scelerum inventor, una inventrice di inganni.
Tale è la metamorfosi a cui è condannato l’uomo moderno dalla dicotomia tra la persona e la sua immagine riprodotta.

DICIASSETTE CAVALLINI

di Rafael Spregelburd
traduzione di Manuela Cherubini
con Alberto Astorri, Valentina Banci, Laura Cleri, Davide Gagliardini, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi, Pavel Zelinskiy
musiche Alessandro Nidi
scene Alberto Favretto
costumi Giada Masi
luci Luca Bronzo
assistente alla regia Francesco Lanfranchi
regia Rafael Spregelburd
Nuova produzione Fondazione Teatro Due

Teatro Due, Parma | 26 novembre 2024

Caroline Nguyen tesse uno spettacolo con stoffa bagnata di Lacrima

ELENA SCOLARI | L’abito non fa il monaco, ma fa la principessa. Una casa di alta moda parigina è selezionata e incaricata di confezionare l’abito da sposa per la prossima principessa d’Inghilterra, nel 2025. Il velo sarà realizzato dalle merlettaie di Alençon e i ricami dai migliori ricamatori del mondo: gli indiani di Mumbai. Tra queste tre città si tesse la trama di Lacrima di Caroline Guiela Nguyen, autrice e regista nata in Francia da madre vietnamita e padre pied-noir sefardita algerino, e ora direttrice del Théâtre national de Strasbourg; lo spettacolo è andato in scena per due sole repliche al Piccolo Teatro Strehler di Milano, la terza è saltata per lo sciopero nazionale dello scorso 29 novembre. La qual cosa ha un’assonanza fortuita con ciò che Nguyen racconta.

La scena rappresenta l’atelier della maison di haute couture: manichini che indossano modelli di prova, relle con abiti appesi (finalmente questi arredi hanno un motivo stringente!), un paravento, alcune scrivanie e computer, qualche specchio, un grande tavolo centrale dove si ritaglia, si misura, si controllano i tessuti, uno schermo che pende dall’alto. Tutto è illuminato da tubi al neon bianchi sospesi sopra l’intero spazio scenico. Dieci attori popolano il palco, molti in camice bianco come medici che curano il proprio lavoro e le proprie stoffe; non sembra, ma sono perlopiù attori non professionisti.

LACRIMA – ph. Jean Louis Fernandez

Lo schermo è un altro spazio di presenza, lì compaiono personaggi che si trovano altrove: lo stilista genio capriccioso, che sta ora a Londra, ora chissà, e impartisce ordini alla capa della casa di moda, la figlia di una delle merlettaie che vive in Australia e ha un problema con la misteriosa malattia di sua figlia, il direttore della ditta di ricamatori in India. I fili che intrecciano i tre tronconi geografici sono molteplici e molto ben orditi lungo le tre rocambolesche ore che lo spettacolo occupa.
In questo tempo lungo vediamo dipanarsi e sdoppiarsi i tre gomitoli delle storie: il lavoro di manifattura dell’abito si annoda con il rapporto malato tra la responsabile della maison e il marito, suo sottoposto in azienda: morbosamente geloso le controlla quante volte fa pipì, perché la cistite può essere sintomo di sesso eccessivo, non con lui; Alençon e chi lavora al pizzo si collega con l’indagine della nonna ricamatrice sulla malattia della nipote: “la malattia della genziana”, nome floreale per un brutto male all’apparato nervoso; il principale della ditta di Mumbai incarica il suo miglior ricamatore per cucire centinaia di migliaia di perle sul velo dell’abito, e lui finirà per perderci – letteralmente – la vista, unendo il dramma personale alle rivendicazioni sindacali contro l’occidente ipocrita, che costringe l’India a firmare patti di correttezza verso i dipendenti, pretendendo lavori di mesi in poche settimane.
L’intrico c’è, ma è ben gestito, il ritmo altissimo della regia non annoia mai, la precisione di tempi e movimenti dei dieci attori e una scrittura credibile, realistica, molto scorrevole, costruiscono una mini-saga appassionante, profondamente umana, perché mostra entusiasmi, paure, debolezze, meschinità, dedizione, rabbia, delusione, affetto, sacrificio. E poesia. Tutto in uno spettacolo solo.


Non sappiamo quanto siano vere alcune delle tante cose raccontate, per esempio: il protocollo di assoluta segretezza che deve essere sottoscritto da tutte le persone che lavorano alla manifattura dell’abito principesco e tenuto sigillato per cento anni (!) è abbastanza assurdo ma quando c’è di mezzo la corona gli inglesi perdono la testa, si sa.
La romanzesca storia delle merlettaie sorde è altrettanto affascinante: si racconta che all’inizio del secolo scorso, le donne, mentre cucivano, non potevano parlare, il filo da usare era talmente sottile, meno di un capello, che per la tensione si dimenticavano anche di respirare. Ogni lavoratrice doveva curare l’altra mettendole delicatamente una mano sulla spalla, per ricordarle di non stare in apnea. Poi, si scoprì che vicino al ricamificio c’era un convento che dava rifugio a ragazze sorde: le merlettaie perfette! Queste donne si passavano il sapere artigiano a gesti e oggi sono rimaste in sei a detenere il metodo.
Non sarà vero (speriamo), ma è molto ben inventato.
Ci sono rimandi minuti, ma tenaci tra tutte le storie: scavare nel passato per conservare un mestiere e tramandarlo, ma anche trovarvi la soluzione per non ripetere gli errori; la meraviglia della vista per un manto regale che tutto il mondo vedrà e la cecità di chi, a quel manto, ha dato la luce; una donna che comanda con decisione un’intera squadra di lavoro ma subisce le angherie di un uomo insicuro e perciò aggressivo, rendendo la vita impossibile alla figlia adolescente.
Ci sono anche alcune esagerazioni, non ci sono sfuggite. Per esempio, si consuma una ‘tragedia’ intorno alla costruzione dell’abito: il velo soccombe sotto il peso delle migliaia di perle che vi sono cucite – l’indiano l’aveva detto: mettiamole di plastica… – e il disegno del ricamo va a farsi benedire. Segue scena drammatica di tentativo di salvataggio con la vaporella. Fallito. Diciamo che perdere quel po’ po’ di fiori rosa su una gonnona a quadruplici strati non era così grave e tutta questa gente che, per mesi, non pensa ad altro che al vestito per sua maestà, perde il sonno, perde la vista se non la vita, è anche un po’ ridicola.
La figliola della coppia di sarti d’alto bordo che va a fare lo stage proprio nella ditta di maman in modo da poter assistere a tutte le peggio liti tra lei e il padre, è una contingenza che produce un certo sovrappiù di sofferenza, evitabile. Ammettiamo, quindi, che si deve addormentare un po’ il senso critico per godersi appieno lo spettacolo. Prevalgono, però, la sapienza registica e la credibilità degli interpreti: sanno farci preoccupare con loro, gioire con loro, arrabbiare, intristire, commuovere. Sanno farci capire.

Un punto di analisi formale importante scaturisce, poi, dalla frequente presenza dei personaggi in video, che distolgono l’attenzione dal lavorìo continuo di chi rimane in scena. Ci sono tanti lunghi collegamenti on line per conversazioni via skype o simili tra i personaggi sul palco e quelli che si trovano altrove. Tutto sommato queste ‘differite’ non sono sempre necessarie e la significativa porzione di tempo che lo spettacolo passa lì, sullo schermo, dà l’impressione di perdere la fisicità e il senso diretto del teatro.

Molti sono i temi, dunque, se ne disegnano i contorni punto per punto sulla grande stoffa drammaturgica di Lacrima, con fili sottili, ma resistenti. Ogni filo si bagna di pianto, ma come dicono in India: non si deve mai disfare un ricamo fatto di seta, perché in ogni nodo ci sono le lacrime dell’epoca in cui è stato cucito.

LACRIMA

testo e regia Caroline Guiela Nguyen 
traduzione linguaggio dei segni, inglese, tamil Nadia Bourgeois, Carl Holland, Rajarajeswari Parisot 
con Dan Artus, Dinah Bellity, Natasha Cashman, Michèle Goddet – in alternanza con Liliane Lipau , Charles Vinoth Irudhayaraj, Anaele Jan Kerguistel, Maud Le Grevellec, Nanii, Rajarajeswari Parisot, Vasanth Selvam 
in video Nadia Bourgeois, Charles Schera, Fleur Sulmont 
voci Louise Marcia Blévins, Béatrice Dedieu, David Geselson, Kathy Packianathan, Jessica Savage-Hanford 
collaborazione artistica Paola Secret 
scenografia Alice Duchange
costumi e capi d’alta moda Benjamin Moreau 
luci Mathilde Chamoux, Jérémie Papin
suono Antoine Richard in collaborazione con Thibaut Farineau 
musiche originali Jean-Baptiste Cognet, Teddy Gauliat-Pitois, Antoine Richard 
video Jérémie Scheidler
motion design Marina Masquelier 
acconciature, parrucche e trucco Émile Vuez 
casting Lola Diane
assistente alla drammaturgia Hugo Soubise, consulenza artistica Juliette Alexandre, Noémie de Lapparent
musiche registrate Quatuor Adastra – quartetto d’archi
sovratitoli Panthéa, coordinamento generale Stéphane Descombes, Xavier Lazarini
decorazioni, costumi e ricami realizzati dagli ateliers del TnS – Théâtre national de Strasbourg
équipe tecnica della tournée: coordinamento generale Stéphane Descombes, suono Julien Feryn, video Marina Masquelie, luci Thibault d’Aubert, Valérie Marti, vestiarista Edwin Nussbaumer-Krencker, sovratitoli Manon Bertrand (Panthéa), produzione Dorine Blaise, Isabelle Nougier, Emma Perez
produzione Théâtre national de Strasbourg 
coproduzione Festival TransAmériques, La Comédie – Centre national dramatique de Reims, Points communs – Nouvelle scène nationale de Cergy-Pontoise, Théâtres de la Ville du Luxembourg, Centro Dramático Nacional de Madrid, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Wiener Festwochen | Freie Republik Wien, Théâtre de Liège, Théâtre national de Bretagne, Centre dramatique national, Festival d’Avignon, Les Hommes Approximatifs
con il contributo di Odéon – Théâtre de l’Europe, Théâtre Ouvert – Centre national des dramaturgies contemporaines (CNDC), Maison Jacques Copeau, Musée des Beaux-arts et de la Dentelle d’Alençon, l’Atelier-Conservatoire National du Point d’Alençon, l’Institut Français de New Delhi e l’Alliance française de Mumbai
LACRIMA di Caroline Guiela Nguyen è pubblicato dalle edizioni Actes Sud 

Piccolo Teatro Strehler, Milano | 30 novembre 2024

Da Zimmermann a Isabelle Faust, al Ponchielli la musica è in Crescendo

OLINDO RAMPIN | Al Teatro Ponchielli di Cremona tradizione vuole che quattro siano i mesi, da gennaio ad aprile, e otto siano gli appuntamenti che compongono il programma della stagione musicale. Così sarà per la stagione 2025: Crescendo è il titolo, esemplare e polisenso. Che conferma anche la buona prassi, inaugurata dopo l’anno del Covid, con cui la maggior istituzionale teatrale cremonese dedica un’attenzione trasversale e ampia a generi, epoche, scritture musicali.
Due grandi affluenti, uno sinfonico e l’altro cameristico, alimentano il programma, ciascuno composto da quattro appuntamenti. Tante le variabili, attentamente dosate: la dimensione dell’orchestra, l’ampio spettro dei periodi musicali, la presenza o meno di solisti, la rarità o la popolarità del repertorio.

I CONCERTI SINFONICI

Scriveva Gustav Mahler che la sua Sesta sinfonia «racchiude in sé tutta la forza dell’uomo in lotta contro il suo destino». Non per caso è detta la Tragica. Con questa che è una delle pietre miliari del sinfonismo mahleriano si apre il calendario della stagione musicale, il 19 gennaio, quando saliranno sul palcoscenico cremonese più di cento orchestrali della Filarmonica della Scala, l’istituzione musicale fondata da Claudio Abbado sul modello dei Wiener Philharmoniker. A dirigere l’imponente architettura mahleriana il 34enne Lorenzo Viotti, nuovo direttore musicale della Tokyo Symphony Orchestra, dopo l’esperienza come direttore musicale della Netherlands Philharmonic Orchestra e della Dutch National Opera.

Lorenzo Viotti. Alla giovane bacchetta, tra le più apprezzate di oggi, il compito di dirigere la Sesta di Mahler, il 19 gennaio.

Il secondo appuntamento sinfonico, il 28 marzo, saluta il ritorno, dopo nove anni di assenza dal palcoscenico del Ponchielli, dell’Orchestra della Svizzera Italiana. Attesa la presenza come solista di Raphaela Gromes, giovane violoncellista tedesca già affermata a livello internazionale. Sul podio la bacchetta sapiente di Michele Mariotti, direttore Musicale dell’Opera di Roma, per un programma stimolante che unisce la curiosità del raramente eseguito Poème op. 25 per violoncello e orchestra di Henriëtte Bosmans con la godibile ascoltabilità del Camille Saint-Saëns del Concerto n. 1 in LA minore per violoncello e orchestra, op. 33. La perla sinfonica della serata è un classico del romanticismo felice di Felix Mendelssohn Bartholdy, la n. 3 in LA minore per orchestra “Scozzese” .

Da qualche anno il Teatro Ponchielli ospita all’interno della stagione musicale un’orchestra giovanile internazionale. Il 4 aprile approda a Cremona la Jugendsinfonieorchester, la più importante istituzione concertistico-sinfonica giovanile di Berlino. Fondata nel 1969, l’orchestra è composta da musicisti giovanissimi, dai 14 ai 19 anni, che suonano già nelle migliori orchestre tedesche, come la Staatskapelle Berlin, l’Orchestra della Deutsche Oper Berlin, la Rundfunk-Sinfonie-Orchester Berlin. Il programma, in via di definizione, annuncia mentre scriviamo due creazioni musicali imponenti come il Concerto n. 1 in MI bemolle maggiore per corno e orchestra, op. 11 di Richard Strauss, e la Sinfonia n. 4 in SOL maggiore di Gustav Mahler.

Isabelle Faust. Il 29 aprile la celebre violinista tedesca sarà protagonista di un concerto dedicato a Vivaldi. Foto di Felix Broed.

Il quarto appuntamento sinfonico è segnato da un altro importante ritorno al Ponchielli dopo molti anni d’assenza. Parliamo di Isabelle Faust, forse la violinista più versatile dei nostri giorni. L’artista tedesca chiuderà la stagione musicale il 29 aprile con un programma tutto dedicato all’Estro armonico op. 3 di Antonio Vivaldi. Ad accompagnarla ci sarà Il Giardino Armonico, complesso filologico che si esibirà con strumenti originali, guidato da Giovanni Antonini, direttore tra i più apprezzati interpreti del repertorio barocco e classico.

I CONCERTI DA CAMERA

La sezione cameristica della stagione apre il 14 febbraio con Frank Peter Zimmermann, tra i maggiori violinisti viventi, apprezzato per la sua musicalità, la sua brillantezza e richiesto dalle principali orchestre del mondo. Per la prima volta sul palcoscenico del Teatro Ponchielli, il violinista tedesco si esibirà accompagnato dal pianista ucraino Dmytro Choni. Brahms, Schubert, Bartók, Szymanovsky: il programma attraversa quattro grandi autori tra Ottocento e primo Novecento.

Frank Peter Zimmermann. E’ la prima volta al Ponchielli per il grande violinista tedesco (14 aprile). Foto Irene Zandel / Hanssler Classic

Il secondo concerto cameristico riunisce il 7 marzo intorno a Pietro De Maria, pianista di raffinata duttilità e di consapevolezza stilistica esemplare, l’oboista Francesco Di Rosa, il clarinettista Alessandro Carbonare, il fagottista Andrea Zucco, il cornista Guglielmo Pellarin, già tutte prime parti dell’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, per l’esecuzione dei Quintetti di Mozart e Beethoven, programma di raro ascolto, ma di grande impatto emotivo, grazie all’affascinate accostamento timbrico del particolare organico coniato dal genio salisburghese.

Lucas e Arthur Jussen sono oggi sulla cresta dell’onda in tutta Europa. A un campionario di doti pianistiche ragguardevoli i due fratelli olandesi aggiungono verve e simpatia. Protagonisti del terzo appuntamento cameristico giovedì 10 aprile, si cimenteranno con due autori classici come Mendelssohn e Schubert, per poi dare spazio alla Parigi rutilante di inizio Novecento, con due capolavori come La valse di Ravel e Le sacre du printemps, quest’ultima nella versione a quattro mani che Stravinskij suonò privatamente con Debussy.

Lucas e Arthur Jussen. Duo pianistico tra i più richiesti del momento, i fratelli olandesi sono protagonisti del concerto del 10 aprile. Foto Jesaja Hizkia.

Mercoledì 16 aprile ironia e leggerezza sconfinano tra musica colta e musica leggera nell’ultimo concerto della sezione cameristica in un programma che spazia da J. S. Bach ai Queen, da Elvis Presley a Ennio Morricone ed Enzo Jannacci. Considerati dalla critica “gli eredi dei Cetra”, gli Alti & Bassi sono un talentuoso e apprezzato quintetto vocale “a cappella”. Con le voci e 5 microfoni Paolo Bellodi, Andrea Thomas Gambetti, Diego Saltarella, Alberto Schirò e Filippo Tuccimei costruiscono le loro armonie senza far uso di strumenti, ma imitandone all’occorrenza alcuni come batteria, basso, fiati, chitarre.

Orario concerti: ore 20:30. Informazioni: www.teatroponchielli.it

Sempre uguale, sempre diversa: La ultima vez, Gabriella Salvaterra e la cena clandestina

RENZO FRANCABANDERA | C’è una caratteristica che ci appare assai evidente della poetica di Gabriella Salvaterra, artista da sempre organica all’esperienza del teatro sensoriale, ed è la costante presenza di una geografia molto nitida e frequente delle sue installazioni performative negli spazi chiusi, fatta di luoghi e immagini che tendono a ritornare.
E mentre eravamo immersi nel buio de La ultima vez (Cena clandestina) ospitata all’interno della rassegna Misma Onda presso l’Oratorio San Filippo Neri a Bologna, riflettevamo su come l’artista riuscisse a essere sempre uguale e sempre diversa. Performer, artista e regista di origine italo-brasiliana, Salvaterra ha affermato negli anni il suo percorso esplorando i confini tra performance teatrale e installazione, creando esperienze immersive che marcano la differenza rispetto alle convenzioni fruitive del teatro tradizionale.

Come noto, il suo percorso artistico è profondamente legato al Teatro de los Sentidos, una compagnia fondata da Enrique Vargas che si è concentrata, nel suo evolvere creativo, sull’esplorazione dei sensi e sull’immersione esperienziale come strumento teatrale. All’interno di questa realtà, Salvaterra ha affinato per anni una pratica che combina la ricerca antropologica e rituale con una drammaturgia non lineare, basata sull’interazione sensoriale con il pubblico. Questo approccio consente agli spettatori di vivere il teatro in modo intimo e personale, trasformando le performance in un dialogo tra esperienza individuale e collettiva.
Per il Teatro de los Sentidos, Salvaterra ha svolto ruoli cruciali sia come attrice che come creatrice di esperienze. Questo le ha permesso di sviluppare una sensibilità particolarissima verso l’importanza del rituale e della memoria, che rimangono centrali anche oggi nel suo percorso artistico. Dopo aver lasciato la compagnia, infatti, Salvaterra ha intrapreso un progetto indipendente, mantenendo vivo l’approccio sensoriale ma esplorando nuovi territori espressivi, tra cui le performance partecipative e i progetti installativi.

La ultima vez (Cena clandestina) unisce l’intimità di una cena rituale con una narrazione teatrale stratificata. In questo lavoro Salvaterra ripropone in modo accessibile e accogliente il suo stile distintivo, in cui oggetti quotidiani e ricordi personali si trasformano in elementi simbolici, creando un dialogo tra passato e presente. La transizione dalla dimensione collettiva del Teatro de los Sentidos a un’espressione più personale riflette una maturazione artistica che pone Salvaterra dentro una non ampia comunità di artistə che lavorano sul dialogo tra arte, ritualità e comunità. Il suo lavoro attuale continua a sfidare le convenzioni teatrali, proponendo esperienze che coinvolgono attivamente il pubblico e che si concentrano sul potenziale trasformativo dell’arte.

La performance si sviluppa attorno all’idea di una cena rituale, un momento condiviso che intreccia elementi narrativi, simbolici e interattivi. All’ingresso, come in diverse sue creazioni per spazi chiusi, lo spettatore viene accolto da un’installazione a pavimento, un’accumulazione di oggetti (in questo caso scatole, in altri fotografie, valigie, chiavi, lettere) che si intonano e diventeranno poi oggetto totemico della rappresentazione.

Il pubblico, come sempre nei suoi dispositivi, non è semplice spettatore, ma diventa parte integrante della narrazione, attraversando un percorso emotivo e sensoriale che mescola buio, luce e gesti simbolici. In generale qui l’esplorazione di ciò che è nascosto o non più visibile, o dimenticato, diventa il cuore del lavoro.
La tavola imbandita attorno alla quale si raccontano e si vivono unioni e fratture, il buio, la casa come oggetto simbolico, il ballo come momento di avvicinamento dei corpi nella sfera intima: sono elementi che ricorrono in molti dei dispositivi performativi di Salvaterra, ma che di volta in volta, e qui sta la diversità specifica, vengono ampliati, magnificati singolarmente. Salvaterra utilizza il simbolismo degli oggetti quotidiani – tavole imbandite, fotografie e piccoli oggetti accumulati – per creare un sistema poetico che parla di memoria, perdita e riconciliazione.
Questa performance amplifica il momento simbolico del desco; pare l’idea sia nata e si sia sviluppata in Cile, dalle difficoltà universalmente identiche di proporre lavori nei festival di arti performative. Ecco allora che l’artista ha iniziato a proporre presso la sua abitazione cene di matrice performativa, che hanno costituito la base di ispirazione per questa creazione, che ora può accogliere una ventina di persone circa.

Anche qui la ritualità, la memoria e l’intimità emergono come elementi centrali, intessuti intorno al tema dell’ultima e della prima volta. L’artista utilizza il linguaggio performativo per evocare la memoria e riflettere sul rapporto con il passato. Ne La ultima vez, ad esempio, il pubblico è invitato a condividere il momento del ricordo attraverso una ritualità condivisa, legata ai gesti del mangiare e dell’incontrarsi, in un’atmosfera che invita alla sospensione del tempo ordinario, proprio perché immersi in una condizione di parziale privazione sensoriale, che amplifica una serie di sensazioni accessorie, a cui difficilmente siamo attenti, continuando a tessere il suo dialogo costante con le fragilità e le potenzialità della condizione umana.
La capacità di coinvolgere gli spettatori in modo intimo e partecipativo resta una risposta critica alla distanza e alla frammentazione che caratterizzano la società contemporanea. In questa prospettiva, lo spazio performativo diventa spazio di trasformazione personale e collettiva, in cui la memoria e il presente dialogano per creare un nuovo senso del possibile. La scelta dell’Oratorio San Filippo Neri come spazio performativo non è casuale: la sacralità dell’ambiente amplifica, pur se non visibile nella sua bellezza barocca, il senso di ritualità e di raccoglimento. Lo spettatore, seduto attorno a una tavola imbandita, è invitato a riflettere su temi come la precarietà delle relazioni e la trasformazione degli oggetti e dei gesti del quotidiano in veicoli di significati più ampi. Questa intimità fisica e simbolica pone il pubblico in una posizione di apertura, invitandolo a interrogarsi sul proprio rapporto con il passato e con le narrazioni personali.

Dal punto di vista critico, La ultima vez può essere letta come una riflessione sull’arte stessa e sulla sua capacità di costruire ponti tra dimensioni apparentemente distanti: il pubblico e l’attore, il passato e il presente, la realtà e il simbolo. Salvaterra dimostra una rara capacità di utilizzare gli strumenti teatrali per andare oltre la rappresentazione, creando esperienze che restano sospese nella memoria dello spettatore come frammenti di un sogno collettivo.

Per chi ha seguito il percorso di Salvaterra, questo lavoro rappresenta un consolidamento della sua poetica, un passaggio più delicato su un’esperienza sensoriale più basica e accessibile, non costruita per indagare dolori e fratture ma per esplorare il rito della memoria rievocata dalla nutrizione, da quello sgranocchiare un pezzo di pane fresco che qui diventa un suono stereofonico incredibile. Sembra suggerire che il teatro non è soltanto un luogo fisico ma uno spazio mentale ed emotivo in cui ogni spettatore è invitato a partecipare, a interpretare e, infine, a creare.
Sì, torna il bigliettino con la singola memoria che siamo come sempre chiamati a lasciare, ma a differenza delle altre volte mi concentro sul mio spazio, sulla mia dimensione di prossimità. Temo di non saper portare il cucchiaio alla bocca. Di non trovare la via per il bicchier d’acqua, per tornare alla luce. Questo spettacolo è in fondo un invito a ripensare il modo in cui viviamo e condividiamo il nostro presente e il nostro passato.


È un invito a non enfatizzare solo le prime volte, ma a dar valore al presente e alla vita. Perché, e sono le parole con cui finisce il brindisi finale dello spettacolo, che avviene fra sconosciuti, potrebbe essere la prima ma anche l’ultima volta che ci si vede. Ecco, quindi, l’invito a magnificare ogni istante. Perché unico e irripetibile.
Delicato e soave.

LA ULTIMA VEZ (Cena clandestina)

di Gabriella Salvaterra
con Giovanna Pezzullo, Gabriella Salvaterra, Angela Sparvieri e altri attori
paesaggio olfattivo Giovanna Pezzullo
organizzazione Claudio Ponzana
produzione SST – Sense Specific Theatre / Artisti Drama

Oratorio San Filippo Neri, Bologna | 6 dicembre

Susan Leigh Foster, dancing with the dance

Susan Leigh Foster: me late twenties dancing (courtesy of the author)

GIANNA VALENTI | Susan Leigh Foster — one of the founders of contemporary Dance Studies, whose books have changed the way we look at dance, the way we think of and write about dance (not only at an academic level) and who has nourished generations of choreographers by providing them with historical perspectives and critical thinking models to define and develop their practices — shares with us her personal process into the making of a dance and of her working on a group choreography.

Foster — dancer, choreographer, scholar at the University of California Los Angeles, internationally renowned writer, founder of the first PhD Program in Dance Studies in the United States, the first invited Professor to give a Research Lecture on Dance in the century-long history of the University of California Academic Senate, honorary member at Laban Center in London, and with a recently awarded Honorary Doctorate from Stockholm University — responded to my invitation by filling her Time Capsule with a narrative that is a flowing example of the function of words in preserving the memory of a creative process and of a choreographic action. A text, at times personal and vulnerable, that offers not only a historical and critical perspective on dance, but also a practical and theoretical opportunity for our contemporary making, as the conscious comprehension of a choreographic process has the power to transform into an artistic dialogue for the definition of choreographic practices in our present.

Susan Leigh Foster: me late twenties dancing (courtesy of the author)

With deep gratitude, I share with you her words:

At the start of almost every rehearsal in which I am by myself, I crouch head in hands, plastered against the wall, staring out into the space, my body riddled with anxiety. I stay still like this, tense and panic-filled, for many minutes. Eventually, some kind of prompt comes to the surface that seems, if not inspiring, at least viable as a reason to stand and move into the room. Improvising a phrase of movement, I become immediately annoyed by how hard it is to replicate and how dead it appears on repetition. Sometimes I return to crouch at the wall. Sometimes I force myself to stay on my feet and try again differently.

What happens after that?  Slowly, and mostly without realizing it, I become immersed in the process of thinking through the next and the next. The beginning of a phrase has potential and the moves start to fall into place. Some dilemmas are solved, at least temporarily, and others get ignored. Prompts build up, turning into sequences; a through-line begins to emerge. I can pause and reflect on it and know which way to go. When this process is at its best, the dance is telling me how to make it. Yes. It takes on beinghood and imprints its future onto me.  And it is delightful.  «Why not» – I say. «What a good idea». The dance takes some twists and turns, but it knows where it is going.  And then it departs.  I make some notes and leave the studio for the day.

It almost always returns at some point when I enter the studio the following day. Ideas about the dance that I have when I’m not rehearsing are usually my own, and I bring them to the studio, but the dance always has an opinion. Not only that, the dance is the one who always reveals the ending. There it is, right in front of my eyes.

To be clear, in this process of the dance making itself I am not a vessel or vehicle but instead a collaborator. The dance and I are partnering in its production. But it is also an ego-less collaboration in which there is no sense of a division between will and action. Grammarians have identified this state as that of the middle-voice in which there is no subject or object. A good example of the middle voice can be found in the sentence «Shit happens».

For some pieces what is needed is a sequence of prompts that structure action wherein movement responses remain partially improvised. For other pieces the steps build count by count, building phrases of movement that can be repeated, corrected, and perfected. Each dance requires something different, and often, some different combination of improvised and set material, but the dance making itself remains the same.

Still image from Foster’s Choreographies of Writing, a performed lecture, 2011

I also experience this same sense of collaboration with the dance in performance when I am improvising the choreography. «What does the dance want?  What does it need?» – I ask. And it answers. Time shifts out of the metrics attributed to it. It becomes possible to access what has passed and be in the present all at once. Rather than a line, time becomes a volume in which one can move in any direction. I am dancing with and in contrast to what I did earlier in the dance. Some people want to preserve for improvisation the possibility of dwelling only in the moment, only in the present. I prefer to locate the present within a continuity that connects it to all that came before and all that might follow.

Psychologists, including Mihaly Csikszentmihalyi, have identified this state as one of special absorption in the act of accomplishing whatever it is – climbing a rock wall, running a race, playing a game of chess or basketball. Calling it a flow state, Csikszentmihalyi argues that it focuses on the merging of action and attention in a way that is non-ordinary and totally absorbing because of its melding of intention and result. Although this merging of person and action is often reported as a loss of self, as Csikszentmihalyi observes, what is lost in flow is not self- awareness, which in fact is often heightened, but instead «the self construct» which «one learns to interpose between stimulus and response».* Thus climbers report a strong increase in their awareness of kinesthetic sensations, just as chess players track the way their minds are reckoning with the game.  

While a lot of this sounds similar to what I experience when creating (with) the dance, there’s one difference that may only be quantitative but may also be qualitative. The dance has the capacity to do something really unpredictable and quite outside any ideas I had about it. Are such “crazy but just right” next moves possible in rock-climbing or chess playing or are those activities more circumscribed in terms of the options available? I don’t know the answer to this question, but it may elucidate something about the distinctiveness of art-making… or not.

When I’m rehearsing with a group of dancers, the process is utterly different. I stride into the room, intending to appear confident. I come full of ideas, many more than we will have time to explore in the two or three hour rehearsal period. These proposals for investigations are jotted down on pages I occasionally consult over the course of the rehearsal to make sure I’m not forgetting a crucial piece of what I imagine might be needed for the next phase of developing a dance. I have mapped out a trajectory for the piece, and the purpose of the rehearsal is to move the dancers along that route. Of course, detours occur: the dancers discover a rich vein of movement material that deserves extensive exploration; the dancers scratch their heads in a complete inability to understand what I am asking for; the results of what has been developed signal that the piece is not about what I had been planning.

I go home and draw floor patterns of the scenes developed thus far.  Are the dancers moving repeatedly on the same diagonal?  Is every scene lasting the same amount of time? Are they all developing at the same pace? Fix that next week!

The drawings of dancers’ trajectories help me rewatch the dance when I’m home sitting on the floor thinking about what follows what. I have in mind a subject matter or rather, an argument, for the dance to develop, and the question becomes how best to develop that argument so that viewers can follow and absorb it. I am not interested in showing only a process of creating action, but rather in communicating a hypothetical world in which people move and relate to one another in specific ways. For this reason I have always believed that choreographing is an act of theorizing. The process explores a set of “what ifs” and then delivers to viewers the provisional answers to those questions. Of course, what viewers see and how they interpret it is an open field of possibilities. But I try over the course of the making of the dance to construct its propositions as clearly as possible. Perhaps the test of this is the number of viewers who arrive at an interpretation of the dance similar to my intentions.

Still image from Foster’s Kinesthetic Empathies & the Politics of Compassion, a performed lecture, 2011

It’s not easy, and often not a good idea, to put oneself in the dance. It’s impossible to see the dance as it is seen by viewers when dancing in it. But often, it is an economic necessity – one dancer I don’t have to pay. So, when I’m building the piece, I identify sections in which I will appear, but seldom rehearse along with the dancers until the performance is about to happen. Then I have to shift gears radically and learn the dance in a whole new way – from within it. This means paying attention to who’s nearby and when, to keeping spatial formations clear, to learning the pacing and its aerobic demands, and projecting my focus out into the space. These are such different skills, although some of the feeling of the dance performing me remains. The dance is delighting in showing itself to an audience, but it is a group effort in which I feel as connected to the other dancers as to the dance.

Are the other dancers also dancing with the dance? Is it dancing them the way it is me? I don’t know. It probably differs for each run-through. I have tried to convey to them what I’m intending (what the dance is hoping to say). But perhaps they (and I?) are more immersed in the ecstasy of our group motion. The now and the next take over the focus of attention.

One other thing happens towards the end of the rehearsals – I get an idea for a new dance. Just as it is finishing up with making itself, the dance presents a new idea for a new iteration of itself. The dance is very clever in keeping itself in action and also considerate of me so that I don’t feel abandoned or uninspired.

All the while that the dance and I are creating it, I am completely entangled in adjacent tasks whose completion is vital to the project: arranging and getting a key for the rehearsal space; renting a space in which to perform; traveling by train into NYC and then to Hoboken where I have rented a bedroom so that I can rehearse twice or three times over a long weekend, all while grading papers and prepping for courses; finding and working with a composer, a lighting designer, and, eventually, a stage manager; designing and printing postcards and posters; writing press releases; scheduling a photographer to take photos of the dance; making or finding costumes and devising props; designing, writing, and printing the program; looking around at what other choreographers were doing and comparing myself with them. Who’s to say that all of this isn’t part of the choreography? Not me.

The choreography continues to unfold: Moving in to the performance space, for tech rehearsals and dress rehearsal, working with all these other people who have such a partial idea of what the piece is about, but cajoling them into understanding and making the right decisions based on their technical knowledge of sound and light boards. They have to bring in and focus the lights; set up the speakers and connect them to however the music is being produced. Someone, usually me, has to set up the chairs and sweep the floor.  And when we run the piece, I’m performing in it but need repeatedly to step out to see how it looks and sounds.

And then after three nights of performances, it all needs to be dismantled. Equipment returned, chairs stored away, costumes collected and laundered, props taken home, notes and drawings of the dance filed away along with the photos, advertising materials, and program.

Maybe I take a few weeks off, but the dance has left me with an idea, so I’m eager to start exploring it. I return to the wall in the studio, hunched, baffled… but slowly something emerges.

*****

Mind you, what I have written about the process of making a dance is highly questionable.  It’s been many years since I was actively making dances on a regular basis. For sure I remember the crouch at the wall (and I remember smiling ironically at what a necessity it was). I still have the drawings of the floor patterns, so I know I made those. I know very well the feeling of collaborating with the dance and the fantastic surprises it would give me. But this narrative I’ve given makes it seem so clear and contained when I’m quite sure it wasn’t.  

Also, what I’ve written describes a nine-year period of time in which, while teaching at Wesleyan University, I was also self-producing in New York City and performing regionally. According to my income tax returns, I was spending half of my annual $34,000 salary on these performances while receiving modest recognition in the form of reviews in the «New York Times» and «Village Voice» and two small grants from the National Endowment for the Arts. This was also a period (the mid 1980s) in which the entire system that presented experimental dance was being overhauled, primarily through the introduction of artistic directors – curators who took over the running of spaces that collectives of artists had previously supervised. These directors claimed for themselves a powerful role in determining who and what kinds of work would be produced. They liked to give advice to the artists they produced. I remember cloaking my disdain (unsuccessfully I’m sure) while listening to their thoughts and suggestions. The Cunningham Studio (where I self-presented) endured as the last well-known space in the city that was rentable on a first come first serve basis. It could hold one hundred people. 

Still image from Foster’s Choreographies of Writing, a performed lecture, 2011

Are these infrastructural and institutional conditions relevant to the creative process of dance-making? Interesting question. I’m sure, at least, that they framed the conditions of possibility of what I thought I could create as did the many concerts I attended and the conversations with other artists I had.

*****

In many ways making a dance is not that different from writing this text.  I start staring at a blank page just as I stare into the blank room. A little bit gets done every day; some editing and rewriting; some pulling back and looking at the whole and then some zeroing in on a sentence. Words (like movements) are chosen, phrases fleshed out, and sections formed. Eventually arguments are made, one way or the other. The big difference is that with writing there is text to come back to the next day staring back at you from the page or screen, whereas with dance, you have to remember it all and recreate it each day. And then the bigger difference at the end: you have a text that is not permanent, but more permanent, than the dance.

Video, only entering the performing arts in the early 1970s, became a very important tool for choreographers in the 1980s. Providing a powerful and relatively inexpensive way to document a dance, it was also increasingly utilized to record rehearsals so that choreographers had another way, besides their imaginations of reviewing the dance. I never used video in rehearsals, but I’m happy to have the recordings of the concerts.

What are the differences between re-viewing a dance in one’s imagination and on the video, and do these differ from reading what one has written on the page? Video is already a translation from one medium to another, and every choreographer knows that it offers an incomplete accounting of the dance, especially in terms of the kinds of effort experienced by dancer and viewer. It can’t convey the muscularity of dancing, although it may assist in reminding the choreographer of what has been accomplished. But whether I am watching a video or remembering the dance in my imagination, it is a newly creative and interpretative act. It is the dance in this moment.

Isn’t it the same for a text? Isn’t it newly created in each reading? New relationships pop up; a different sense of the words’ rhythm emerges; a newly adjacent idea suggests itself mid-sentence. A time arrives when you’ve said what there is to say.  

As I have here.

Susan Leigh Foster

*Csikszentmihalyi, Mihaly. “A Theoretical Model for Enjoyment.” In The Improvisation Studies Reader: Spontaneous Acts. Edited by Rebecca Caines and Ajay Heble, 150–162. London: Routledge, 2014. p. 36

Still image from Foster’s What Dancing Does, UCLA 129th Faculty Research Lecture – March 23rd, 2021

Credits
Author   Susan Leigh Foster
PAC-Paneacquaculture.net
Italian Text
Fare Coreografia #5: Susan Leigh Foster, dancing with the dance

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Online references of Susan Foster’s work:

Blurred Genres, opening solo — 9’.53’’
Susan Foster dancing in the opening solo of her piece Blurred Genres that was premiered at the Cunningham Studio in New York City in 1986:

UCLA, 129th Faculty Research Lecture    March 23rd, 2021
Susan Leigh Foster, Distinguished Professor, World Arts Cultures and Dance:
What Dancing Does   38’.12’’
0.’         introduction by the Academic Senate Chair
1.’27’’    introduction by Emily Carter
4’.58’’    Susan Foster – introduction
7’.10’’    Four Perspectives on What Dancing Does
7’.44’’    Dancing as Thinking
15’.11’’  Dancing as Signifying
23’.04’’  Dancing as Coercion and as Survival
28’.53’’  Dancing as a Form of Exchanging
35’.43’’  Susan Foster – conclusion

Works in Progress / Podcast of the UCLA School of the Arts & Architecture    Susan Leigh Foster: How dance functions in our lives    23’.58’’  – April 2021

Performance Research 25.6/7 :  pp.186-189    2021
Susan Leigh Foster: Guts ’n’ Brains, building relationality in dancing

Three Performed Lectures – March 2011
Choreographies of Writing

Fare Coreografia #5: Susan Leigh Foster, dancing with the dance

Susan Leigh Foster: me late twenties dancing (courtesy of the author)

GIANNA VALENTI | Susan Leigh Foster — tra i fondatori dei Dance Studies, che con i suoi libri ha cambiato il modo in cui guardiamo, studiamo, pensiamo e scriviamo di danza (e non solo a livello accademico), che ha nutrito generazioni di coreografi, offrendo loro visioni storiche e modelli di pensiero critico per definire e sviluppare le loro pratiche — condivide qui con noi il suo processo di costruzione coreografica, scegliendo una narrazione personale che si fa, al tempo stesso, testo critico.

Foster — danzatrice, coreografa, studiosa all’Università della California Los Angeles, scrittrice di fama internazionale, fondatrice del primo programma di dottorato in Dance Studies negli Stati Uniti, primo Professore invitato a tenere una Lectio Magistralis sulla Danza nella secolare storia del Senato Accademico dell’Università della California, membro onorario del Laban Center di Londra e recentemente insignita di un Dottorato Onorario dall’Università di Stoccolma — ha risposto al mio invito riempiendo la sua Capsula del Tempo con una narrazione che è un esempio del ruolo della parola nel conservare la memoria di un processo creativo e di un’azione coreografica. Un testo, a tratti personale e vulnerabile, che offre non solo una visione storica e critica sulla danza, ma anche un’opportunità pratica e teorica per il nostro fare contemporaneo, poiché la comprensione di un processo coreografico ha il potere di trasformarsi in un dialogo artistico per la definizione di pratiche coreografiche nel nostro presente.

Susan Laigh Foster: me late twenties dancing (courtesy of the author)

Con profonda gratitudine condivido con voi le sue parole:

All’inizio di quasi ogni prova in cui sono da sola, mi accovaccio con la testa tra le mani, appoggiata contro il muro, fissando lo spazio, il corpo attraversato dall’ansia. Rimango immobile in questo modo, tesa e in panico, per molti minuti. Alla fine, qualche tipo di indicazione arriva alla superficie, non un’ispirazione, ma una ragione per lo meno praticabile per alzarmi e muovermi nello spazio. Mentre improvviso una frase di movimento, mi infastidisco immediatamente per quanto sia difficile ripeterla e per quanto appaia morta nella ripetizione. A volte ritorno al muro ad accovacciarmi.  Altre volte mi costringo a restare in piedi e a riprovare diversamente.

Cosa succede dopo? Lentamente, e per lo più senza rendermene conto, mi immergo in un processo di pensieri, dal prossimo al successivo. L’inizio di una frase ha del potenziale e i movimenti cominciano a trovare un loro posto. Alcuni dilemmi vengono risolti, almeno temporaneamente, e altri vengono ignorati. Le indicazioni si susseguono, trasformandosi in sequenze; una linea guida inizia a emergere. Posso fermarmi e rifletterci e arrivare a sapere quale strada prendere. Quando questo processo è al suo meglio, la danza mi dice come procedere per costruirla. Sì. La danza assume una propria esistenza e imprime su di me il suo futuro. Ed è piacevole. «Perché no» – mi dico. «Buona idea». La danza svolta o cambia direzione, ma sa dove sta andando. E poi se ne va. Prendo alcuni appunti e lascio lo studio per la giornata.

Quasi sempre ritorna, a un certo punto, quando entro nello studio il giorno successivo. Le idee sulla danza che ho quando non sto provando sono di solito le mie, e le porto con me in sala prove, ma la danza ha sempre un’opinione. Non solo, è la danza a rivelare sempre il finale. Eccolo lì, proprio davanti ai miei occhi.

Per essere chiari, in questo processo della danza che fa sé stessa, io non sono un tramite o un veicolo, ma piuttosto una collaboratrice. Io e la danza agiamo come partner nella sua produzione. Ma è anche una collaborazione senza ego in cui non c’è nessuna sensazione di divisione tra la volontà e l’azione. I grammatici hanno identificato questo stato come quello della voce mediale, in cui non c’è né soggetto, né oggetto. Un buon esempio di voce mediale può essere trovato nell’affermazione «Succede!».

Per alcune coreografie ciò che è necessario è una sequenza di parametri che strutturano l’azione al cui interno le risposte di movimento rimangono parzialmente improvvisate. Per altre, i passaggi si accumulano conteggio dopo conteggio, costruendo frasi di movimento che possono essere ripetute, corrette, e perfezionate. Ogni danza richiede qualcosa di diverso, e spesso, alcune diverse combinazioni di materiale improvvisato e fissato, ma il processo della danza che fa sé stessa rimane lo stesso.

Still image from Foster’s Choreographies of Writing, a performed lecture, 2011

Ho esperienza di questa stessa sensazione di collaborazione con la danza anche durante una performance, quando sto improvvisando la coreografia.  «Cosa vuole la danza? Di che cosa ha bisogno?» – chiedo. E lei risponde. Il tempo si dilata oltre la metrica che gli attribuiamo. Diventa possibile accedere a ciò che è passato ed essere contemporaneamente nel presente. Piuttosto che una linea, il tempo diventa un volume in cui ci si può muovere in ogni direzione. Sto danzando con e in contrasto a ciò che ho fatto precedentemente nella danza. Alcune persone vogliono preservare per l’improvvisazione la possibilità di essere immersi soltanto nel momento, solo nel presente. Io preferisco localizzare il presente all’interno di una continuità, che lo connette a tutto ciò che è venuto prima e a tutto ciò che potrebbe seguire.

Gli psicologi, tra cui Mihaly Csikszentmihalyi, hanno identificato questo stato come uno di speciale immersione nell’atto di compiere qualsiasi cosa – come scalare una parete di roccia, correre in una gara, giocare a scacchi o a basket. Chiamandolo flow state / stato di flusso, Csikszentmihalyi sostiene che pone l’attenzione sull’integrazione di azione e attenzione, in un modo non ordinario e di completa concentrazione per la fusione di intenzione e risultato. Sebbene questa integrazione tra persona e azione venga spesso riferita come una perdita del sé, come osserva Csikszentmihalyi, ciò che si perde nel flusso non è la consapevolezza di sé, che infatti spesso aumenta, ma invece «la costruzione del sé» che «impariamo a interporre tra lo stimolo e la risposta».* Così, gli scalatori riferiscono di un forte aumento della consapevolezza delle loro sensazioni cinestetiche, proprio come i giocatori di scacchi della loro capacità di seguire il modo in cui le loro menti affrontano il gioco.

Per quanto molto di tutto questo assomigli a ciò di cui faccio esperienza quando creo (con) la danza, c’è una differenza che potrebbe essere solo quantitativa, ma che potrebbe essere anche qualitativa. La danza ha la capacità di fare qualcosa di veramente imprevedibile e completamente al di fuori di qualsiasi idea io abbia di lei. Quei movimenti “pazzi, ma proprio giusti” sarebbero possibili nell’arrampicata su roccia o negli scacchi, oppure queste attività sono più circoscritte in termini di opzioni disponibili? Non conosco la risposta a questa domanda, ma potrebbe chiarire qualcosa sulla particolarità del fare arte… oppure no.

Quando sono in prova con un gruppo di danzatori, il processo è completamente diverso. Entro nella stanza con passo deciso, con l’intenzione di apparire sicura. Arrivo piena di idee, molte più di quante avremo il tempo di esplorare nelle due o tre ore di lavoro.  Queste proposte esplorative sono annotate su pagine che consulto occasionalmente nel corso delle prove, in modo da essere certa di non dimenticarmi di qualche pezzo cruciale, di ciò che immagino possa essere necessario alla fase successiva dello sviluppo della danza. Ho tracciato una traiettoria per il pezzo, e lo scopo della prova è di guidare i danzatori lungo quel percorso.
Naturalmente, ci sono delle deviazioni; i danzatori scoprono una ricca vena di materiale di movimento che merita un’esplorazione approfondita; i danzatori si grattano la testa nella completa incapacità di capire quello che sto chiedendo; i risultati di ciò che viene sviluppato segnalano che il pezzo non riguarda ciò che avevo pianificato.

Torno a casa e disegno i percorsi degli spostamenti spaziali delle scene sviluppate fino a quel momento. I danzatori si muovono ripetutamente sulla stessa diagonale? Ogni scena dura lo stesso tempo? Le scene si sviluppano tutte allo stesso ritmo? Metti tutto a posto la prossima settimana!

I disegni delle traiettorie spaziali dei danzatori mi aiutano a rivedere la danza quando sono a casa, seduta sul pavimento, mentre penso a cosa segue cosa. Ho in mente un argomento, o meglio, una tesi che la danza deve sviluppare, e la domanda diventa come sviluppare al meglio quel tema, in modo che gli spettatori possano seguirlo e assimilarlo. Non sono interessata a mostrare semplicemente un processo che crea azioni, ma piuttosto a comunicare un mondo ipotetico in cui le persone si muovono e si relazionano tra loro in modi specifici. Per questo motivo ho sempre creduto che coreografare è teorizzare. Il processo esplora una serie di “cosa succederebbe se” e poi fornisce agli spettatori risposte provvisorie a quelle domande. Ovviamente, ciò che gli spettatori vedono e come lo interpretano è un campo aperto di possibilità. Ma cerco, nel corso della costruzione della danza, di stabilire le sue proposizioni nel modo più chiaro possibile. Forse, la prova di ciò è il numero di spettatori che arrivano a un’interpretazione della danza simile alle mie intenzioni.

Still image from Foster’s Kinesthetic Empathies & the Politics of Compassion, a performed lecture, 2011

Non è semplice, e spesso non è una buona idea, mettere sé stessi nella danza. È impossibile vedere la danza come la vedono gli spettatori quando ci si danza dentro. Ma spesso è una necessità economica – una danzatrice in meno da pagare. Così, quando sto lavorando a un pezzo, identifico le sezioni in cui apparirò, ma raramente riesco a provare insieme ai danzatori sino a quando lo spettacolo non sta per debuttare. A quel punto, devo cambiare radicalmente marcia e imparare la danza in un modo completamente nuovo – dal suo interno. Questo significa prestare attenzione a chi mi è vicino e quando, mantenere chiare le formazioni spaziali, imparare il ritmo e le sue richieste aerobiche, e proiettare la mia attenzione nello spazio. Nonostante queste abilità così diverse, parte della sensazione della danza che mi sta danzando rimane. La danza si compiace nel mostrarsi a un pubblico, ma è uno sforzo di gruppo in cui mi sento altrettanto connessa agli altri danzatori quanto lo sono alla danza stessa.

Gli altri danzatori stanno anche loro danzando con la danza? La danza li sta danzando nello stesso modo in cui sta danzando me? Non lo so. Probabilmente le cose cambiano a ogni esecuzione. Ho cercato di trasmettere loro quello che intendo (quello che la danza spera di dire). Ma forse loro (e io?) siamo più immersi nell’estasi del nostro movimento di gruppo. Il qui e ora e le azioni successive prendono il sopravvento sull’attenzione.

Un’altra cosa succede verso la fine delle prove — mi viene un’idea per una nuova danza. Proprio quando sta per finire di fare sé stessa, la danza presenta una nuova idea per una nuova iterazione di sé. La danza è molto astuta nel mantenersi in azione e, allo stesso tempo, è premurosa nei miei confronti, così da non farmi sentire abbandonata o priva di ispirazione.

Per tutto il tempo in cui la danza e io la stiamo creando, sono completamente invischiata in compiti paralleli, la cui realizzazione è vitale per il progetto: organizzare lo spazio per le prove e ritirare la chiave; affittare uno spazio dove potersi esibire; viaggiare in treno fino a New York City e poi a Hoboken, dove ho affittato una stanza in modo da poter provare due o tre volte durante un lungo weekend, il tutto mentre correggo compiti e preparo corsi; trovare e lavorare con un compositore, un lighting designer, e, infine, un direttore di scena; progettare e stampare cartoline e manifesti; scrivere comunicati stampa; programmare un fotografo che faccia le foto della danza; fare o trovare costumi e ideare oggetti di scena; progettare, scrivere e stampare il programma; guardare in giro quello che stanno facendo gli altri coreografi e confrontarmi con loro. Chi può dire che tutto questo non faccia parte della coreografia? Non io.

La coreografia continua a svilupparsi: trasferirsi nello spazio della performance per le prove tecniche e la prova generale, lavorare con tutte queste altre persone che hanno un’idea così parziale di ciò di cui tratta, ma che possono essere portate a capire e a prendere le decisioni giuste in base alla loro conoscenza tecnica di illuminazione e suono. Devono montare e puntare le luci; montare gli altoparlanti e collegarli a qualunque sia la musica che viene prodotta. Qualcuno, di solito io, deve preparare le sedie e spazzare il pavimento. E quando proviamo il pezzo montato, sono in scena a danzare, ma devo uscire ripetutamente per vedere come appare e come si sente.

E poi, dopo tre sere di performance, tutto deve essere smontato. Le attrezzature restituite, le sedie riposte, i costumi raccolti e lavati, gli oggetti di scena portati a casa, gli appunti e i disegni della danza archiviati insieme alle foto, ai materiali pubblicitari e al programma.

Forse, mi prendo qualche settimana di pausa, ma la danza mi ha lasciata con un’idea, quindi sono ansiosa di cominciare a esplorarla. Torno al muro nello studio, accasciata, confusa… ma lentamente qualcosa emerge.

*****

Intendiamoci, ciò che ho scritto sul processo di fare una danza è molto discutibile. Sono passati molti anni da quando facevo danze regolarmente. Sicuramente ricordo la posizione accasciata contro il muro (e ricordo di sorridere ironicamente a quanto fosse necessaria). Ho ancora i disegni degli spostamenti spaziali, quindi so di averli fatti. Conosco molto bene la sensazione di collaborare con la danza e le fantastiche sorprese che mi dava. Ma questa narrazione che ho dato fa sembrare il processo così chiaro e definito, quando sono abbastanza sicura che non lo fosse.

Inoltre, ciò che ho scritto descrive un periodo di nove anni in cui, mentre insegnavo alla Wesleyan University, mi autoproducevo a New York e facevo performance a livello regionale. In base alle mie dichiarazioni fiscali, spendevo metà del mio stipendio annuale di 34.000 dollari per queste produzioni, mentre ricevevo un riconoscimento modesto sotto forma di recensioni sul «New York Times» e sul «Village Voice» e due piccoli finanziamenti dal National Endowment for the Arts. Questo è stato anche un periodo (la metà degli anni ’80) in cui l’intero sistema che presentava la danza sperimentale stava subendo una ristrutturazione, principalmente attraverso l’introduzione di direttori artistici-curatori che assumevano il controllo degli spazi, che in precedenza erano stati gestiti dai collettivi di artisti. Questi direttori si appropriavano del ruolo potente di determinare chi e quali tipi di lavoro sarebbero stati prodotti. Amavano anche dare consigli agli artisti che producevano. Ricordo di aver cercato di nascondere il mio disprezzo (sicuramente senza successo), mentre ascoltavo le loro riflessioni e i loro suggerimenti. Il Cunningham Studio (dove mi autopresentavo) rimaneva l’ultimo spazio ben conosciuto in città che poteva essere affittato secondo il principio del primo che arriva si serve. Poteva ospitare cento persone.

Still image from Foster’s Choreographies of Writing, a performed lecture, 2011

Sono queste condizioni infrastrutturali e istituzionali rilevanti per il processo creativo del fare danza? Domanda interessante. Sono certa, almeno, che queste condizioni hanno inquadrato le condizioni di possibilità di ciò che pensavo di poter creare, così come i molti spettacoli a cui ho assistito e le conversazioni che ho avuto con altri artisti.

*****

In molti modi, costruire una danza non è poi così diverso dallo scrivere questo testo. Inizio fissando una pagina vuota proprio come fisso la stanza vuota. Ogni giorno si fa qualche piccola cosa; un po’ di editing e di riscrittura; qualche passo indietro per distanziarsi e guardare l’insieme, per poi riavvicinarsi concentrandosi su una frase. Le parole (come i movimenti) sono scelte, le frasi prendono consistenza, e le sezioni si formano. Alla fine, gli argomenti si sviluppano, in un modo o nell’altro. La grande differenza è che con la scrittura c’è un testo a cui ritornare il giorno successivo, un testo che ti guarda dalla pagina o dallo schermo, mentre con la danza devi ricordarti tutto e ricrearla ogni giorno. E poi, la differenza più grande alla fine: hai un testo che non è permanente, ma è più permanente della danza.

Il video, entrato nelle arti performative solo nei primi anni ’70, era diventato uno strumento molto importante per i coreografi negli anni ’80. Rendendo disponibile una modalità potente e relativamente economica per documentare una danza, veniva anche usato sempre di più per registrare le prove, facendo sì che i coreografi avessero un altro modo, oltre alla loro immaginazione, per rivedere la danza. Non ho mai fatto uso del video durante le prove, ma sono felice di avere le registrazioni degli spettacoli.

Quali sono le differenze tra rivedere una danza nella propria immaginazione e sul video, e c’è una differenza con il leggere ciò che si è scritto su una pagina? Il video è già una traduzione da un medium all’altro, e ogni coreografo sa che offre una visione incompleta della danza, specialmente per quanto riguarda i tipi di coinvolgimento energetico di cui il danzatore e lo spettatore hanno fatto esperienza. Non può trasmettere la muscolarità della danza, benché possa aiutare il coreografo a ricordare ciò che è stato realizzato. Ma sia che io stia guardando un video o ricordando la danza nella mia immaginazione, si tratta di un atto creativo e interpretativo nuovo. È la danza in questo momento.

Non è lo stesso per un testo? Non viene creato nuovamente a ogni lettura? Nuove relazioni appaiono; emerge un senso diverso del ritmo delle parole; una nuova idea adiacente suggerisce sé stessa nel mezzo di una frase.  Arriva un momento in cui hai detto tutto ciò che c’era da dire.

Come ho fatto qui.

Susan Leigh Foster

*Csikszentmihalyi, Mihaly. “A Theoretical Model for Enjoyment.” In The Improvisation Studies Reader: Spontaneous Acts. Edited by Rebecca Caines and Ajay Heble, 150–162. London: Routledge, 2014. p. 36

Still image from Foster’s What Dancing Does, UCLA 129th Faculty Research Lecture – March 23rd, 2021

Crediti
Autore Susan Leigh Foster
Traduzione Gianna Valenti
PAC-Paneacquaculture.net
English Text
Susan Leigh Foster, dancing with the dance

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Alcuni riferimenti online del lavoro di Susan Foster:

Blurred Genres, opening solo — 9’.53’’
Susan Foster dancing in the opening solo of her piece Blurred Genres that was premiered at the Cunningham Studio in New York City in 1986:

UCLA, 129th Faculty Research Lecture    March 23rd, 2021
Susan Leigh Foster, Distinguished Professor, World Arts Cultures and Dance:
What Dancing Does   38’.12’’
0.’         introduction by the Academic Senate Chair
1.’27’’    introduction by Emily Carter
4’.58’’    Susan Foster – introduction
7’.10’’    Four Perspectives on What Dancing Does
7’.44’’    Dancing as Thinking
15’.11’’  Dancing as Signifying
23’.04’’  Dancing as Coercion and as Survival
28’.53’’  Dancing as a Form of Exchanging
35’.43’’  Susan Foster – conclusion

Works in Progress
Podcast of the UCLA School of the Arts & Architecture
    April 2021
Susan Leigh Foster: How dance functions in our lives    23’.58’’

Performance Research 25.6/7 :  pp.186-189    2021
Susan Leigh Foster: Guts ’n’ Brains, building relationality in dancing

Three Performed Lectures – March 2011
Choreographies of Writing