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giovedì, Novembre 21, 2024
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Settimana delle Residenze Digitali: intervista a Simone Arganini di Non Player Human

EUGENIO MIRONE | L’acronimo NPC significa “non-playable-character”, è un termine preso in prestito dal mondo del gaming e si riferisce all’insieme di quei personaggi non controllati direttamente dal giocatore che completano l’universo di un videogioco in quanto programmati per eseguire compiti precisi.
Negli ultimi tempi si è sviluppato un forte parallelismo tra la realtà e questi personaggi, la cui caratteristica primaria consiste nel fatto di non essere dotati di libero arbitrio. Il 2023 è stato l’anno di esplosione di questo fenomeno sviluppatosi a tal punto che oggi gli NPC streamers, ovvero persone che eseguono prompt inviati dai follower in live-stream in cambio di token spesso con finalità erotiche o feticiste, hanno un seguito enorme sulle piattaforme social, in particolare su TikTok dove personaggi come Nautecoco e PinkyDoll vantano migliaia di partecipanti alle loro live-stream.
Non sono tardate ad arrivare anche le preoccupazioni degli esperti secondo i quali queste pratiche alimenterebbero la dimensione voyeuristica dell’utente, quel desiderio di rimanere ipnotizzati per evitare di doversi sforzare a pensare. Durante queste dirette streaming, infatti, il pubblico subisce passivo lo svolgersi di un contenuto sempre uguale e privo di rielaborazione creativa nell’illusione di poter dominare la persona al di là dello schermo. Perché impegnarsi in una relazione per cui bisogna investire tempo ed energie quando con qualche clic posso avere il rapporto che desidero?

Non Player Human, l’ultimo lavoro di Simone Arganini e Rocco Punghellini, pone al centro questo singolare fenomeno che i due autori interpretano come un esempio rivelatore del «radicale cambiamento di paradigmi che stiamo continuamente sperimentando nella società post-digitale». Durante la performance verrà avviata una live-stream della durata di un’ora sulla piattaforma Twitch con l’obiettivo di ridurre il campo di libertà del performer che si trova al suo interno, Filippo Arganini. Le sue sorti verranno messe nelle mani di un pubblico sconosciuto e indefinito che con le sue scelte potrà influenzare l’andamento della performance.
Non Player Human è uno dei quattro lavori vincitori del bando Residenze Digitali, il progetto che fornisce agli artisti selezionati l’opportunità di sviluppare le proprie opere pensate per abitare lo spazio digitale attraverso un percorso annuale di affiancamento con figure esperte delle tecnologie applicate in campo artistico.
Un momento centrale dell’esperienza è senz’altro l’incontro con il pubblico che anche quest’anno avrà modo di assistere alle restituzioni dei progetti, sia live che da remoto, durante la Settimana delle Residenze Digitali in programma dal 28 novembre all’1 dicembre (qui il calendario). In vista delle restituzioni abbiamo avuto modo di confrontarci con Simone Arganini, danzatore membro di ColletivO CineticO oltre che autore e sound designer, che di Non Player Human ha curato la scrittura e la regia insieme a Rocco Punghellini.

Simone Arganini, foto di Roberta Segata

Simone, come sei giunto a intercettare il mondo NPC e perché ti ci sei soffermato all’interno della tua ricerca artistica?

In realtà ci sono arrivato in conseguenza al fatto di esser venuto a conoscenza del progetto Residenze Digitali. Io comunque come artista sono molto contaminato dall’utilizzo della tecnologia e inoltre mi sono anche formato nell’ambito della musica elettronica. Sono abbastanza un nerd, per cui già in altri lavori ho integrato la parte performativa con quella tecnica e per lo stesso motivo avevo già adocchiato da qualche anno Residenze Digitali.
Una volta che ho deciso di partecipare, ho chiesto a Rocco Punghellini di collaborare con me. Lui ha in realtà un profilo diverso, è un graphic designer e sviluppatore web con tendenze artistiche spiccate. Siamo partiti dall’idea dell’interattività e quindi del controllo che il pubblico poteva avere sul performer ed è saltata fuori questa figura del “non playable-character”.
Il fenomeno ha avuto un’autentica esplosione l’anno scorso, specialmente in seguito al successo di alcuni streamer che su piattaforme come TikTok e Twitch si prestano a eseguire ciò che il pubblico chiede loro. In seguito, provenendo dal mondo performativo, ho agganciato questo fenomeno al riferimento di Rhythm 0 di Marina Abramovic. L’ambiente però in questo caso è domestico: è un po’ come se entrassimo nella vita quotidiana di questo non-player character, che poi noi nel titolo abbiamo modificato in human.

Il concetto di libero arbitrio è alla base della ricerca, dal comunicato si legge: «Non Player Human è il tentativo dell’io di ridurre il suo campo di libertà fino a farsi oggetto, delegando a un pubblico sconosciuto e indefinito la possibilità di decidere collettivamente le sue sorti». Ma è davvero così o forse il pubblico è il vero schiavo?

Siamo partiti da una riflessione simile per il nostro lavoro e cioè dalla visione dello spazio web come un rifugio esistenziale. Per molti purtroppo il mondo online è un tentativo di fuga dalla realtà e senz’altro il fenomeno degli NPC streamer ha un forte connotato in tal senso. Mi ricorda molto il gioco alle slot machines, il meccanismo infatti è simile: le persone inseriscono compulsivamente soldi per ottenere una piccola quantità di soddisfazione in cambio.
Questa cosa un po’ ci piace riportarla nella nostra performance con la differenza che gli spettatori fra loro creano un gruppo che, pur non vedendosi in faccia, si relaziona al proprio interno. In un certo senso la relazione è più forte di quanto non avvenga ad esempio in uno spettacolo perché si viene messi a contatto con la volontà degli altri e si gioca in un rapporto di accordo oppure di disaccordo.
Quindi per certi versi il grado di libertà è maggiore, anche se comunque il pubblico è ingabbiato nel nostro gioco drammaturgico. Quel che si crea è infatti un ulteriore livello basato sulla percezione del game master (che saremmo un po’ io e Rocco), vale a dire colui che ha costruito le domande e le rivolge agli spettatori. Durante la performance non si manifesta ma il pubblico ne avverte la presenza.

Come avete lavorato insieme tu e Rocco Punghellini, vista la diversità dei vostri profili?

Durante la prima fase abbiamo buttato giù il progetto insieme. Dato che avevamo a disposizione il nostro palco, che sarebbe stato letteralmente casa mia, abbiamo fatto delle prove, delle improvvisazioni sulla base di azioni quotidiane. Con l’idea poi che fosse una performance in video abbiamo disseminato la casa di videocamere per filmarci.
Abbiamo messo le mani in pasta fin da subito insieme, soprattutto nella scrittura. A un certo punto abbiamo deciso che la performance si sarebbe dovuta sviluppare su una specie di albero di decisioni, che quindi poteva diramarsi in tante direzioni a seconda delle decisioni del pubblico. A esso forniamo, infatti, delle domande a risposta multipla e con una votazione si decide come la performance deve proseguire oppure che cosa deve fare mio fratello Filippo, il performer, in quel certo momento.
Abbiamo avuto la fortuna di avere avuto un riscontro con il pubblico in un paio di piccole occasioni che ci hanno permesso di incanalare nella giusta direzione la scrittura del copione, che si è svolta specialmente durante la residenza ad Armunia. Infine abbiamo adoperato le nostre competenze più specifiche. Diciamo che di solito alla mattina ci occupavamo della scrittura e quando eravamo ormai fusi, alla sera, ci dedicavamo alla parte tecnica.
Abbiamo sviluppato tutto noi senza l’aiuto di collaborazioni esterne. Io mi sono occupato della creazione dei suoni mentre Rocco delle grafiche e di tutta l’impalcatura per la messa in scena in streaming. Da ultimo andava progettata la regia della stream dal vivo, compito che è spettato a me, mentre Rocco durante la performance sarà il cameraman che segue Filippo per casa.

Vi hanno aiutato i tutor in questo processo?

Con Laura Gemini e Anna Maria Monteverdi abbiamo avuto un dialogo soprattutto nelle fasi iniziali, per definire il concept e la direzione che avremmo potuto dare al lavoro. In seguito, abbiamo continuato ad aggiornarci negli incontri mensili con tutti i partner, i tutor e gli artisti.
Una volta che abbiamo imboccato la nostra strada e durante la residenza siamo stati molto in full immersion tra di noi. Abbiamo avuto però un bellissimo incontro con Angela Fumarola (direttrice di Armunia n.d.r.). Lei e un piccolo gruppo di performer ci hanno dato la possibilità di fare un ulteriore test con il pubblico dentro al Castello Pasquini di Castiglioncello. In quel caso, tra l’altro, gli spettatori sono stati tutti quanti insieme in una stessa stanza a fruire dello spettacolo diversamente da quanto accade online su Twitch in cui la fruizione è singola.

A questo proposito, avete notato qualche differenza nelle scelte del pubblico tra la fruizione online e quella in presenza?

Non tanto proprio nelle scelte quanto più nel senso di comunità più forte che si è creato con il pubblico in presenza. Stando a contatto con gli altri spettatori è più facile discutere con chi c’è vicino oppure attivare il pensiero sul fatto che ci sono altre persone intorno a te, può venir da chiedersi cosa stiano votando.
Sia online che in presenza, però, si attiva un’altra dinamica interessante: da un lato si realizza che non è possibile fare ciò che si vuole perché non si è soli; ma allo stesso tempo ci si sente più facilitati a decidere liberamente dato che non si ha in mano la responsabilità del potere assoluto. È un’altra questione interessante che lo spettacolo solleva. L’impostazione è comunque piuttosto strutturat, ma il ventaglio delle scelte resta ampio e spazia dal prendersi cura delle condizioni del performer fino alla possibilità di infierire su di esso.
Infine, siamo molto curiosi di vedere cosa può succedere con un pubblico numeroso dato che finora i test che abbiamo compiuto hanno coinvolto un numero abbastanza ristretto di persone. Anche l’elemento della chat può rivelarsi interessante. Non sarà, infatti, solo il luogo delle votazioni ma verrà lasciata aperta; pertanto, con un pubblico numeroso è possibile che si inneschino discussioni interne o si creino piccole fazioni. Non ci resta che attendere il confronto durante la settimana di restituzioni.

Bari International Gender Festival X: il magma oltre i confini della performance

RENZO FRANCABANDERA | Si sta svolgendo in queste settimane il Bari International Gender Festival (BIG), arrivato alla sua decima edizione, un evento multidisciplinare di idea e poetica transfemminista che si tiene nel capoluogo pugliese fino al 30 novembre 2024.
Il festival, organizzato dalla Cooperativa Sociale AL.I.C.E., si concentra sulla celebrazione delle differenze, a partire da quelle di genere, e delle identità non conformi. Attraverso performance, mostre, concerti e proiezioni, BIG esplora tematiche legate alla sessualità e alle diversità culturali, attirando un pubblico variegato e artistə di fama internazionale.
Questa edizione di BIG celebra dieci anni di sperimentazione e impegno culturale (di qui l’idea di giocare con la X numero romano ma anche lettera spesso usata per annullare le differenze di genere), evidenziando come Bari si sia trasformata in un polo per l’arte inclusiva e interdisciplinare. La manifestazione non solo celebra la diversità ma pone domande cruciali sul futuro delle identità e della rappresentazione nell’arte contemporanea, confermandosi come appuntamento fra i più rilevanti in questo ambito nel panorama culturale italiano. Il programma del festival è particolarmente ricco e diversificato, con più di venti eventi che includono l’arte contemporanea, la danza, la musica e il cinema.

Con la direzione artistica affidata a Tita Tummillo e Miki Gorizia il festival ha un programma fittissimo. A dare letteralmente il via alle danze ci ha pensato la DJ e produttrice elettronica Dasha Rush, che ha inaugurato il festival con una partecipatissima performance musicale al Teatro Kismet in cui, come suo solito, ha dato spazio alla sua visione sperimentale che fonde suono e arte digitale.
Nel panorama delle performance, il festival ospita nomi come il coreografo libanese Omar Rajeh (di cui parleremo di seguito), la compagnia italiana Dewey Dell (il 23), Beharie (il 17) di cui abbiamo già parlato di recente e il 20-21 la coreografa ivoriana Nadia Beugré, che con la sua arte esplora temi di resistenza e autodeterminazione. Tra gli ospiti internazionali, la rapper e produttrice ugandese Catu Diosis, legata al collettivo afro Nyege Nyege, porta la sua personale e potente rappresentazione della cultura musicale africana. Si chiude (fra gli altri) con Fanny & Alexander (il 27) e Gaya de Medeiros (il 30).

Il focus sull’arte contemporanea, curato da Pamela Diamante, è un altro dei momenti salienti di questa edizione, con la mostra e il talk del collettivo spagnolo Democracia, noto per le opere che indagano dissenso e conflitto sociale. La mostra Enjoy the Collapse, realizzata in collaborazione con Spazio Murat, include anche l’artista Nuria Güell, la cui ricerca si concentra sulle dinamiche di potere e sulle forme di resistenza politica e sociale. A completare l’offerta artistica, la Fondazione Pino Pascali di Polignano a Mare ospiterà la performance di Nunzia Picciallo, un’indagine sul corpo come spazio di affermazione identitaria.
Il festival è completato da una selezione cinematografica che include, fra documentari e cortometraggi, anche il film No Other Land di Basel Adra, proiettato al Cinema ABC il 10 novembre, un’opera che affronta i conflitti in Palestina e che è stata presentata anche alla Berlinale.

Abbiamo assistito in questa edizione a Dance is not for us di Omar Rajeh, figura influente della danza contemporanea e di collegamento fra Europa e mondo arabo. Dance is not for us è una performance che unisce in una indagine profonda riflessioni sull’identità, la memoria e il potere.
Coreografo e fondatore della compagnia Maqamat, Rajeh ha lavorato a lungo in Libano dove ha creato festival come BIPOD e piattaforme per la danza aperte a giovani artistə mediorientali, ma ha dovuto lasciare Beirut per la Francia nel 2019, spinto dall’instabilità politica e da un sistema politico locale oppressivo. Questo passaggio ha influenzato profondamente la sua visione artistica e Dance is not for us è diventata, in un certo senso, una risposta a questo vissuto. Già con Minaret (ospitato a REF 2018) e Beytna (Torino Danza 24) l’artista ha sviluppato una poetica recente che affronta i temi dell’oppressione che deriva dalla stratificazione gerarchica delle società dentro un contesto che rievoca uno specifico rimando alla geografia mediorientale, riservando all’arte il ruolo della liberazione da questa dimensione schematica di cattività dell’espressione umana. La performance, che incorpora e sovrappone momenti di danza e narrazione testuale, offerti al pubblico con la videoproiezione di testi a fondale, esplora il passato, le vicende del proprio vissuto che si sovrappongono ai grandi fatti della storia libanese recente, come un’eredità intima e ineludibile, trasformandolo in un viaggio tra ricordi personali e una critica più ampia alla realtà politica.

Sul palco, Rajeh utilizza una combinazione di movimenti estremamente fisici e gesti ritmici, a volte contratti e improvvisi, soprattutto con la parte superiore del busto, e che sembrano richiamare memorie sepolte e vissuti dolorosi. Attraverso il corpo, Rajeh esplora come la danza possa sfidare le convenzioni e diventare uno spazio per interrogarsi su ciò che ci definisce e su ciò che ci limita. Nella performance, il coreografo sembra trasformarsi in un archivio vivente: il suo corpo diventa mezzo per dare voce a un passato bloccato e rielaborarlo per adattarsi al presente. L’uso della danza come strumento di resistenza e di riflessione è centrale nel lavoro di Rajeh, che cerca di rendere l’arte uno specchio del mondo sociale e politico che lo circonda.

L’elemento naturale del coreografo libanese, in questa coreografia gioca un ruolo profondamente simbolico e visivo, portandone in scena la potenza di raffigurazione in una danza che esplora il legame con il potere anche attraverso il legame tra natura e corpo, la resilienza e la sofferenza. La natura, che rimanda a visioni dell’infanzia, all’hortus conclusus delle piante officinali della casa di famiglia, diventa anche simbolica rappresentazione di qualcosa che si vuole lasciare allo spettatore, come testimonianza di cui continuare a prendersi cura per far crescere i semi: una metafora per la condizione umana, in cui l’elemento naturale non è solo un semplice scenario ma diventa protagonista e specchio dell’anima del danzatore che dopo un prologo in cui è seduto mentre alle sue spalle vengono proiettati testi che ricordano il passato recente, torna in scena proprio con una pianta di asparagus in una geografia scenica disseminata di piantine di basilico. Attraverso l’uso di movimenti fluidi e a tratti violenti, Rajeh rappresenta l’instabilità e la precarietà del vissuto, in cui l’individuo è in costante lotta con forze che lo opprimono, ma che ha una sorta di dovere morale di resistere e riappropriarsi della libertà di espressione.

Dance is not for us – Rajeh – disegno live di Renzo Francabandera

Chi può dire cosa dobbiamo danzare? Il corpo di Rajeh, che si avvolge e sviluppa movimenti ora frenetici, ora di costrizione, esprime la fatica e la resilienza di chi lotta per sopravvivere in condizioni difficili (emblematico il richiamo nei testi a fotografie che ricordano questo o quel momento dell’esperienza dell’artista, con immagini che però non vengono proiettate, e quindi lasciate ad un vuoto immaginativo che è compito dello spettatore riempire). Rajeh nell’affollato talk a fine performance, ha invitato il pubblico a riflettere su come la danza, l’atto artistico, possa essere un atto di resistenza e di testimonianza, portando in scena non solo la tragicità della memoria collettiva, ma anche e soprattutto la forza di riappropriarsi dell’esperienza artistica per rompere gli schemi gerarchici. Il corpo umano, così come la natura, è esposto e vulnerabile, e l’elemento naturale simbolicamente raffigurato dalle piantine di basilico regalate al pubblico alla fine della performance, ne amplifica la condizione fragile, ma propone anche il rimedio dell’accudimento e del far crescere, in un dialogo intimo che richiama la forza primordiale che ci connette tutti al mondo.

Rajeh-Francabandera talk @TeatroKismet ph Alberto Mocellin

Abbiamo rivolto anche alcune domande alla direzione artistica del Festival, Tita Tummillo e Miki Gorizia.

L’edizione di quest’anno del festival ha come titolo X. Che messaggio porta dentro questa denominazione?

“X” è tutto quello che non si può/deve/riesce a dire, non trova parole ed esplode nel petto, nello stomaco, nella bocca. E si incarna nei corpi – della performance, degli/dellə artistə, del nostro team, del nostro pubblico, della nostra città – nell’alterità degli incontri, nella chimica dello stupore, nel disorientamento di fronte all’ignoto, nel tempo che si ferma, scorre o si dilata.

Ma questa edizione ha dentro anche questo compleanno. Una ricorrenza simbolica non banale, dimostrazione di una tenacia di azione e pratica sul territorio, che ricordate anche nel titolo, con la X. 

10 anni di BIG! Di visioni differenti, immaginari insoliti, generi indefiniti, formati scomposti, mutazioni di sguardo, transizioni disciplinari. Di resistenza, culturale, irriverente, nella città di Bari, che comincia a delinearsi e farsi storia, allargare reti, aprire partecipazioni, consolidare posture.

L’esperienza accumulata in questi anni è un valore o c’è sempre qualcosa che arriva ancora a sorprendervi?

Pensavamo di aver fatto esperienza di tutto e invece X.
Gli eventi muovono verso X scenari apocalittici, disastrosi, brutali, e noi prontamente rispondiamo con X danze rituali e catartiche, azioni di posizionamento chiaramente X, storie di margine e confine XXX, scosse di attenzione. Aprite le orecchie, spalancate gli occhi!

Sembra una sorta di invito, il vostro,  a rivivere una frenesia esistenziale, un gemito di vitalità libera, come fa Rajeh nella sua performance, insomma. 

Eco, flauto magico, magnete di creature meravigliose, apparizioni, presenze, il BIG X compone un programma xxx la cui somma delle singole parti non può che dare come risultato una gigantesca X. Magma, organismo, blob informe. Schegge impazzite, traiettorie fenomenali, attrazioni fatali. Nell’incognita come condizione dell’esistenza, il BIG, esperimento costante, ritrova l’equazione stessa del godimento.

Prima Onda Fest: un ponte dal centro verso la periferia tra danza, teatro, musica e comunità

RITA CIRRINCIONE | È la serata inaugurale della V edizione di Prima Onda Fest e siamo nel piccolo foyer del Teatro Garibaldi di Palermo. Tra il pubblico che staziona in attesa dello spettacolo e i tanti “addetti ai lavori” presenti si coglie una certa emozione: per molti di loro questo luogo non è solo un teatro – il teatro dove sono passati artisti come Carlo Cecchi, Peter Brook, Wim Wenders, Emma Dante, Davide Enia, solo per citarne alcuni – ma un luogo che per una generazione di lavoratrici e lavoratori dello spettacolo palermitani ha rappresentato “casa”, uno spazio dove incontrarsi, sperimentare, ricercare, provare, in quella esaltante stagione del TGA – Teatro Garibaldi Aperto – iniziata nell’aprile del 2012 quando, sull’onda del Teatro Valle di Roma, fu occupato.

Teatro Garibaldi – Palermo

Piccolo teatro all’italiana situato nel quartiere arabo della Kalsa, sin dall’inaugurazione (nel 1862 per mano di Garibaldi) è stata segnato da alterne vicende: a brevi periodi di attività sono seguiti lunghi periodi di abbandono, durante i quali è stato saccheggiato e spogliato di ogni arredo, per ritornare più volte a risorgere come un’Araba Fenice. Ma dietro ogni riapertura non c’è alcuna suggestione mitologica come per il leggendario uccello, solo la volontà di artiste e artisti – in questo caso gli organizzatori di Prima Onda – che ancora una volta l’hanno ripulito e sottratto all’incuria e al degrado per restituirlo alla città.
Ideato da Genìa LabArt, “collettivo multidisciplinare di realtà produttive nel campo del teatro, della danza e della musica” presieduto da Sabino Civilleri, anche per questa edizione Prima Onda Fest si è avvalso di una terna di direttrici artistiche: Manuela Lo Sicco, attrice, regista e coreografa, Premio Ubu 2021, per la sezione teatro; la danzatrice e coreografa Giovanna Velardi per la danza; Valeria Cuffaro, dell’associazione Curva Minore, per la parte musicale. Si aggiunge Cristina Alga, che ha curato i progetti dedicati alla comunità, in sinergia con il territorio delle periferie della Città Metropolitana di Palermo.
A partire dal 23 ottobre fino al 3 novembre questa V edizione ha inondato la zona sud-occidentale di Palermo con più di trenta spettacoli, performance, concerti, incontri, workshop. Dal Teatro Garibaldi il festival si è propagato in altre sedi, come l’Ecomuseo Mare Memoria Viva, i Cantieri Culturali alla Zisa, il piccolo Teatro Atlante, con tappe all’aperto come le improvvisazioni musicali Oreto Blues di Curva Minore al Ponte dell’Ammiraglio, le performance itineranti sulla foce del fiume Oreto (Costa Sud – Come l’acqua che scorre di Emilia Guarino e Lina Issa) e persino a bordo di un’imbarcazione al porto turistico della Cala (L’isola desiderata, narrazione di Dario Muratore).
Il festival ha avuto un’anteprima l’11 ottobre negli spazi della Vicaria con Essain / Atelier aperto, sul metodo formativo di Emma Dante, da lei condotto insieme a Sabino Civilleri, e un’appendice il 7 novembre con lo spettacolo Dis/incanto di Daniela Mangiacavallo all’interno del carcere di Pagliarelli.
RLM-Rapid Life Movement, con la regia di Rémy Boissy e la coreografia Sandro Maria Campagna, presentato in collaborazione con il Festival Teatro Bastardo, apre la prima settimana di Prima Onda Fest sulla quale si focalizza questo articolo.
Si tratta di una performance di teatro fisico, frutto del lavoro corale del Collettivo Fearless Rabbits che, attraverso una serie di dinamiche attivate da un dispositivo scenografico, rappresenta allegoricamente la capacità del corpo di superare limiti e ostacoli, come pure l’incessante processo di adattamento dell’uomo all’ambiente circostante, e la continua sfida dell’umanità alla ricerca di nuovi spazi vitali.

Joël-Elisée Konan in Rapid Life Movement

Da una griglia metallica appesa al centro della scena, come una sorta di grosso lampadario, pendono decine di lame in acciaio di diversa larghezza, alternate a lame di plastica trasparente, e collegate a un sistema di cavi e carrucole posto alle spalle della scena. Con questo dispositivo dalla meccanica manuale, che ricorda certe macchine protoindustriali, Sylvain Dubun, artefice-demiurgo, con impassibile arbitrarietà manovra verticalmente le lame, che vanno a “tagliare” lo spazio scenico in cui si muove Joël-Elisée Konan.
Sulla base di una serie di variabili esterne – quantità di lame abbassate, forma dello spazio disegnato, durata della sequenza – e del tipo di disposizione interna – adattamento, reattività, difesa – la risposta del performer dà vita a una creazione coreografica e drammaturgica in cui, in un gioco di rimandi simbolici, momenti di oppressione e di chiusura si alternano a momenti di gioco, di ricerca e di sfida creativa, in cui il limite sembra diventare una risorsa. Fino a quando, con un clangore assordante, l’installazione giunge al collasso finale.

Maria Pilar Perez Aspa e Serena Sinaglia rispettivamente interprete e regista di Isabel Green

Isabel Green di Emanuele Aldrovandi, per la regia di Serena Sinigaglia, mette in scena il disagio del successo e quella specie di maledizione della vittoria che sopraggiunge quando una meta tanto sognata viene finalmente raggiunta lasciando, per assurdo, un senso di infelicità e di vuoto.
Isabel Green (Maria Pilar Perez Aspa) è una diva di Hollywood che ha appena vinto l’Oscar come migliore attrice protagonista e si appresta a pronunciare il suo “discorso di accettazione”. La vediamo sul podio nella raggiante solennità del momento, al centro di una scena fissa, con un fastoso abito da cerimonia rosso e la statuetta in mano. Ma proprio in quel momento qualcosa dentro di lei si spezza: in una forma di scissione interna, la diva trionfante cede il passo alla donna impaurita da un futuro che teme di non poter reggere, e tormentata da un passato di rinunce, di sacrifici e dai sensi di colpa nei confronti del figlio che ha sempre dovuto trascurare.
Nel monologo non mancano momenti tragicomici che mitigano la tensione emotiva, come quando Isabel si rivolge in modo improbabile al pubblico presente alla cerimonia o ai suoi colleghi di Hollywood chiamandoli in causa: «Meryl, Leonard, Julia!». Ma la diva fa sempre più fatica a ignorare paure e sofferenze a lungo soffocate che continuano a venire a galla finché, in una drammatica escalation, prendono il sopravvento esplodendo in un finale imprevedibile.

Guillaume Forestier in Into the silence

Into the silence è un progetto di Yuval Pick, coreografo israeliano naturalizzato francese e attuale direttore del CCN di Lione, che si basa sul metodo denominato Practise elaborato dallo stesso Pick e utilizzato come pratica quotidiana della sua compagnia (un workshop incentrato su questo metodo si è tenuto durante il festival presso l’Area Madera). In questo lavoro intorno a “corpo immaginario” e “space between”, inteso come luogo di relazione e di creatività, i cinque fondamentali della Pratica – rotazione del corpo, trasferimento del peso, spostamento dal centro alle periferie, spazio di mezzo, intenzione del movimento – non hanno solo la funzione di sviluppare le potenzialità corporee del danzatore, ma sono messi al servizio della creazione coreografica.
Ispirato dalle Variazioni Goldberg di J.S. Bach nell’interpretazione della pianista americana Rosalyn Tureck, più lenta e con più intervalli in cui inserire la danza rispetto ad altre versioni, Into the silence si compone di un duetto femminile e di un assolo maschile.
Nel primo – in una scena vuota, un contenitore nero delimitato da linee di luci led – due danzatrici con specificità fisiche e registri espressivi molto diversi tra loro (Noémie De Almeida Ferreira e Madoka Kobayashi) esplorano ciascuna il proprio spazio personale, inizialmente ben delimitato, e che gradualmente si amplia verso una dimensione relazionale: in un gioco di alternanza tra avvicinamenti e distacchi, sintonie e opposizioni, le due performer si aprono al contatto e vanno alla ricerca di un possibile accordo, per tornare, infine, quasi in una forma di ritiro, alla dimensione individuale e, poco dopo, uscire di scena.
Con un stacco piuttosto netto, segue l’assolo di Guillaume Forestier che con ampi movimenti a spirale e impetuosi attraversamenti, un po’ esibiti, occupa incontrastato lo spazio scenico, introducendo nella performance una ben diversa qualità di movimento per dinamicità, decisione e ampiezza del gesto rispetto al duetto femminile precedente.
Entrambe le due parti che compongono Into the silence – che risultano giustapposte senza un’apparente integrazione – risentono, comunque, di un eccesso di tecnicismo legato, probabilmente, alla loro matrice di studio e di training, a scapito di un più arioso respiro creativo.

Francesca Foscarini in Animale

Animale, pluripremiato progetto coreografico di Cosimo Lopalco e Francesca Foscarini, interpretato da quest’ultima, è ispirato alla figura del pittore Antonio Ligabue, al mondo animale al centro della sua opera e alla natura che vi fa da sfondo. Quella di Ligabue è una natura che urla, fatta di dolore e di lotta, dove si uccide e si è uccisi, ma è anche una natura in cui l’animalità può trovare il suo punto di incontro con l’anima, come suggerito dalla radice etimologica che accomuna le due parole-concetto sulle quali i due autori hanno indagato.
Ma l’ispirazione presa dal pittore italo-svizzero e dalla sua poetica non è di tipo concettuale: Animale è la testimonianza incarnata del suo corpo dolente su cui la natura e la vita hanno lasciato delle ferite e al quale lui stesso, con i suoi ripetuti gesti di autolesionismo, ne aveva inferto.
Durante quasi tutta la performance di Francesca Foscarini assistiamo quasi con un certo disagio a un corpo al quale non è risparmiata alcuna caduta, un corpo massacrato, quasi a espiare la colpa di essere nato. Solo verso la fine insperata arriva un po’ di pace, e con essa la bellezza di un fiore che si schiude e di una farfalla che si alza in volo.

RLM-RAPID LIFE MOVEMENT
regia Rémi Boissy
con Joël-Elisée Konan e Sylvain Dubun
scene Vanessa Sannino
coreografia Sandro Maria Campagna
colonna sonora Jean-Pierre Legout
tecnico del suono Solange Fanchon
costruzione Sylvain Dubun
produzione Akompani-Amandine Bretonnière
spettacolo presentato in collaborazione con Teatro Bastardo

ISABEL GREEN
progetto e regia Serena Sinigaglia
testo Emanuele Aldrovandi
con Maria Pilar Pérez Aspa
scene Maria Spazzi
luci Alessandro Barbieri
musiche originali Pietro Caramelli
voce fuori campo Gianluigi Guarino
assistente alla regia Giorgia Aimeri
assistenti alla scenografia Erika Giuliano, Clara Chiesa, Marta Vianello
produzione ATIR
con il sostegno di Next 2017
in collaborazione con il Centro Teatrale MaMiMò

INTO THE SILENCE
coreografo Yuval Pick
assistente coreografo Sharon Eskenazi
interpreti Noémie De Almeida Ferreira & Madoka Kobayashi (duet) Guillaume Forestier (solo)
musica Jean-Sébastien Bach
luci Sébastien Lefèvre
costumi Gabrielle Marty
produzione CCNR Centre Chorégraphique National de Rillieux-la-Pape
coproduzione Scenario Pubblico–Compagnia Zappalà Danza, Catania
residenze L’Échappée—Médiathèque de Rillieux-la-Pape

ANIMALE
ideazione e creazione Francesca Foscarini e Cosimo Lopalco
interpretazione Francesca Foscarini
co-creazione Romain Guion
musiche originali Andrea Cera
video Licorne Maider Fortune
disegno luci e cura della tecnica Luca Serafini
consulenza e programmazione videoproiezione Andrea Santini
voci Miki Seltzer in Genesi 2 (19-20), Bela Lugosi in Bride of the Monster Ed Wood
suoni Seals Martin Clarke, Summer Sunset Eckhard Kuchenbecker, Tikal Dawn Andreas Bick

PRIMA ONDA FEST è un progetto di Genìa LabArt Palermo
direzione artistica Manuela Lo Sicco – teatro / Giovanna Velardi – danza / Valeria Cuffaro – musica / Cristina Alga – Ecomuseo
realizzato con il contributo di MiC – Ministero della Cultura, Regione Siciliana, Assessorato Turismo Sport e Spettacolo, Comune di Palermo – Assessorato alle Culture, Città Metropolitana di Palermo
con il sostegno di Università degli Studi di Palermo – Corso Triennale di Studi DAMS / Institut Français / CoopCulture / Associazione PinDoc / Curva Minore / Teatro Biondo Palermo
in collaborazione con Ecomuseo Urbano Mare Memoria Viva / Teatro Atlante / Area Madera / Atto Unico – Sud Costa Occidentale / Diaria – Didattica Arte Ricerca Azione / Baccanica / Ministero della Giustizia – Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria – Direzione Casa Circondariale “Pagliarelli” / Lega Navale Italiana – Palermo / Teatri di Vetro – Triangolo Scaleno Teatro / Settimana delle Culture / Teatro Bastardo

Prima Onda Fest – V edizione | Palermo, 23, 24, 25, 27 ottobre 2024

Al via la 5ª edizione della Settimana delle Residenze Digitali: intervista a Marcello Cualbu

EUGENIO MIRONE | Da giovedì 28 novembre a domenica 1 dicembre torna La settimana delle Residenze Digitali (qui il calendario), l’occasione per assistere alla prima restituzione, online e/o in presenza, dei progetti artistici vincitori del Bando delle Residenze Digitali, call che ogni anno, dal 2020, supporta artiste e artisti nell’esplorazione dello spazio digitale e che, da quest’anno, presenta due novità principali.
Innanzitutto, l’espansione della rete di collaboratori che supportano l’evento che arriva a estendersi anche in Sardegna e in Friuli-Venezia Giulia con l’aggiunta di due nuove realtà: il Centro di produzione di danza e arti performative Fuorimargine di Cagliari, e l’Associazione Quarantasettezeroquattro (In\Visible Cities – Festival urbano multimediale) di Gorizia.
Un ulteriore ampliamento ha interessato il comparto dei tutor, da quest’anno composto da quattro membri. Si tratta di figure esperte nell’ambito della creazione digitale, che hanno modo di monitorare e fornire il loro supporto ai quattro progetti vincitori lungo il corso delle residenze. Per le prime quattro edizioni in questo ruolo si sono distinte Laura Gemini, Anna Maria Monteverdi e Federica Patti, per questa quinta edizione si è aggiunto anche Marcello Cualbu, professionista con alle spalle un lungo passato nel mondo delle arti digitali.
I progetti di cui verrà data una restituzione nell’arco della 5ª edizione delle residenze digitali sono: Non Player Human del danzatore Simone Arganini e del designer digitale Rocco Punghellini, una performance interattiva su Twitch che, attraverso la figura del “Non-Playable-Character”, porta in scena le tensioni esistenziali dell’essere umano, interrogandosi sulle dinamiche relazionali e di potere che si creano in presenza di un soggetto controllato in un contesto di live-stream; Radio Pentothal, dell’attore e regista Ruggero Franceschini, è una radio ispirata dal personaggio di Andrea Pazienza e dalla storica Radio Alice, i cui contenuti sono generati da un programma di intelligenza artificiale addestrata con materiali della controcultura degli anni ‘70; Spazio latente di Filippo Rosati, fondatore di Umanesimo Artificiale, è un’esperienza digitale immersiva che porta il pubblico in un teatro anatomico virtuale dove l’innesto di un impianto cerebrale consentirà la modifica da parte del pubblico delle memorie del paziente, un lavoro che s’interroga sul rapporto tra tecnologia, arte e coscienza umana; Metabolo II: Orynthia di Valerie Tameu è un rituale cyber-magico, in cui il movimento del corpo umano, quello di un biota acquatico e un software di intelligenza artificiale collaborano per dare vita a un’entità numerica, una figura ispirata alla leggenda della Mami Wata, divinità acquatica proteiforme dell’Africa occidentale ed equatoriale.

Radio Pentothal di Ruggero Franceschini

«La quinta edizione della settimana delle Residenze Digitali porta all’attenzione di pubblico e operatori quattro artisti fortemente motivati a lavorare nello spazio digitale online, con progetti realizzati dal vivo che domandano allo spettatore una partecipazione relazionale e interattiva: sempre più il nostro lavoro si avvicina agli obiettivi che avevamo pensato quando lo abbiamo avviato nel 2020, ovvero aprire nel panorama teatrale e coreografico italiano uno spazio che prima non c’era» dichiarano Lucia Franchi e Luca Ricci, direttori dell’Associazione CapoTrave/Kilowatt e coordinatori insieme ad Armunia del network Residenze Digitali.
L’evento, oltre a rappresentare un momento celebrativo, è soprattutto una tappa di crescita per i lavori artistici, in quanto occasione di contatto con il pubblico. Per l’occasione abbiamo avuto il piacere di dialogare con Marcello Cualbu, alla sua prima esperienza come tutor all’interno del progetto.

Marcello, cosa ti ha spinto a prendere parte al progetto Residenze Digitali in qualità di tutor?

Da anni faccio il tutor all’interno del progetto Fase XL ideato e promosso da C.U.R.A. – Centro Umbro Residenze Artistiche di cui è membro anche La Mama Umbria International. Visto che La Mama Umbria è una delle realtà del progetto delle Residenze Digitali, mi è stato proposto questo incarico che ho trovato fin da subito interessante.
Mi definisco un topo da laboratorio; gran parte della mia attività formativa e di tutoraggio, infatti, si svolge negli spazi di produzione. Ho sempre le mani in pasta, insomma. Per questo, mi è sembrato un po’ strano, all’inizio, pensare di dover svolgere il tutoraggio da remoto; ma devo dire che mi sono trovato abbastanza bene. Per certi versi questa modalità mi ha permesso di essere meno impulsivo in certe scelte. Per uno molto tecnico come me non è così immediato, infatti, fare tutoraggio a degli artisti con i quali il riscontro empirico non è istantaneo.

Che progetti hai seguito?

Ho avuto modo di seguire Metabolo II: Orynthia di Valerie Tameu e Radio Pentothal di Ruggero Franceschini. Con Valerie in parte ho già collaborato e conosco bene la sua poetica e le sue capacità; il progetto di Ruggero, invece, mi ha interessato molto per la tematica, sia dal punto di vista sociale e politico, sia dal punto di vista della ricerca sull’intelligenza artificiale.
Gran parte del lavoro per il suo progetto è stato adoperato nella generazione di un modello linguistico basato sull’AI e addestrato tramite un archivio che lui è riuscito a comporre. L’idea alla base del lavoro, infatti, è quella di provare a creare una forma di radio, non dico autonoma, ma quasi. E devo dire che il modello interagisce piuttosto bene.
Nel progetto di Valerie, invece, il discorso è un po’ più complesso dal punto di vista dell’addestramento delle macchine. Trattandosi di danza, è stato necessario lavorare per dare la possibilità all’intelligenza artificiale di acquisire moltissime posizioni performative, creando un sistema in grado di prevedere ciò che una persona si sta apprestando a fare.

Marcello Cualbu

Sembra un lavoro lungo e complesso, ma arriva un momento in cui l’addestramento finisce e la macchina è pronta?

Assolutamente sì, a un certo punto questo processo si ferma. Ci è voluto tempo, anche perché la parte più complessa è raccogliere il materiale e uniformarlo. Alla base c’è sempre un lavoro di ricerca. La parte tecnologica, in realtà, non è complessa, quella più difficile è quella “umanistica”, vale a dire andare fisicamente e digitalmente negli archivi per consultare fonti e documenti.
Quando parliamo di intelligenza artificiale, sembra che parliamo di chissà che cosa, in realtà il grosso è sempre una ricerca molto umanistica. I cambiamenti in quest’epoca storica avvengono molto velocemente. Quando lavoravo a questi progetti anche solo cinque anni fa mi accorgevo che la forza principale era data da un grande apporto tecnologico: codici informatici, hardware o comunque software molto complessi. Adesso c’è stata una distensione da questo punto di vista, perché l’intelligenza artificiale aiuta moltissimo nell’utilizzo di questi strumenti e anche perché l’oggetto della ricerca sta mutando.
La forza tecnica perde un po’ di potenza, diventano molto più interessanti, invece, le capacità di ricerca umanistica come la concettualizzazione di un soggetto e la successiva creazione della richiesta alla macchina per farlo analizzare. Ad oggi passo molto più tempo sui libri di storia dell’arte o di sociologia che non a guardare tutorial di programmazione informatica.

Quali possono essere allora gli orizzonti delle arti performative (e del teatro in particolare) con il consolidamento nelle nostre vite dell’intelligenza artificiale?

Devo dire che ultimamente trovo molto più dinamico questo scambio, mentre prima il colloquio tra arte (non solo performativa) e tecnologia era in genere una scelta stilistica. Oggi viviamo totalmente immersi nella tecnologia e nel digitale, tutte le arti sono intrise di questa contaminazione, perciò non penso si possa parlare più di una scelta. In più, la tecnologia dell’AI sta velocizzando moltissimo questi processi in maniera massiva.
Personalmente, però, sono del parere che la tecnologia quando non la si vede è sempre meglio. Non sono mai stato un amante dei grandi allestimenti con un utilizzo importante della componente tecnologica. Va benissimo usarla, ma non trovo che la sua vera forza sia come strumento scenico.
Al contrario, l’intelligenza artificiale ti dà la possibilità, ad esempio, di migliorare la fase di ricerca. Usciamo da un periodo di forte isteria nei confronti dell’applicazione della tecnologia alle arti performative, in cui spesso si vedeva un sacco di roba sul palco.

Ti riferisci a un passato recente?

Sì, certo. Gli ultimi dieci/vent’anni. Sembrava quasi un obbligo dover portare in scena questo richiamo alla tecnologia che, però, era ancora in una forma un po’ barocca.

Uno dei punti di forza del progetto Residenze Digitali consiste nel promuovere il binomio teatro/danza e creazione online in un Paese, l’Italia, tra i meno digitalizzati d’Europa in cui, inoltre, per la maggioranza della popolazione l’idea di teatro prevalente è ancora ferma al passato. Come vedi la situazione odierna? Può l’evoluzione in campo artistico aiutare la transizione digitale in senso più ampio?

Viviamo in un Paese che dal punto di vista espressivo ha forti connotati conservatori, non solo tra il pubblico, ma penso anche tra i produttori. È vero che la percezione dell’arte performativa è cambiata moltissimo negli ultimi anni, però la ricerca viene sempre posta tra il rapporto tra pubblico e artista. E io non credo che funzioni tantissimo questa cosa. Non vedo l’uso della tecnologia come un medium interessante per unire pubblico e artista, non è lì secondo me il punto. Ancora non ho capito bene quale sarà, se ci sarà, un punto di giuntura che vedrà la tecnologia come propulsore; ma al momento non vedo niente di interessante all’orizzonte.
Bisognerà continuare a cavarsela come si è sempre fatto in passato, ricercando sempre nuove forme. Il tentativo di ricreare un effetto forte tramite l’uso della tecnologia è destinato a fallire, perché è davvero difficile mettersi in competizione con ciò che fa parte della nostra quotidianità, che già è assurdo. Al contrario, invece, l’uso della tecnologia come propulsore di alcuni aspetti umanistici, secondo me, è molto interessante. Quello avrà un grande successo, immagino che sarà inevitabile.
Si aggiunga poi che il riferimento all’AI ormai sembra che abbia inglobato un po’ tutto il discorso sull’uso della tecnologia. Le persone, in gran parte dei casi, vedono questo strumento come un fornitore di risposte, quando invece, fondamentalmente, credo che l’intelligenza artificiale sia un grande archivio spaziotemporale e noi dobbiamo essere capaci di consultare questo archivio con le parole giuste, con le richieste giuste.
La ricerca con l’AI è molto più attiva, per questo motivo la cultura pregressa di chi consulta gioca un ruolo fondamentale. Oggigiorno la vera sfida è riuscire a consultare questo grande archivio in maniera sensata e riuscire a ottenere dei risultati interessanti.

Paradossalmente, siamo anche noi che ci dobbiamo addestrare a fare una ricerca.

Questo è un altro discorso gravoso, perché l’uso della lingua comincia a diventare una discriminante molto forte, molto più escludente delle capacità tecnologiche. Imparare un codice informatico è relativamente più semplice: posso farlo io, puoi farlo tu e possono farlo anche nell’altro emisfero in maniera agevole.
Al contrario, invece, la cultura pregressa e la capacità di utilizzare il linguaggio per concettualizzare un’idea o un immaginario non è una cosa scontata. È una capacità che va allenata e in cui la discriminante è la costruzione della propria cultura. L’intelligenza artificiale semplicemente mette a nudo questa situazione. Mi accorgo di quanto sia escludente non possedere questa capacità e lo trovo abbastanza pericoloso.

Alain Platel, no other message to the world

Alain Platel, Portrait by Filip Van Roe

GIANNA VALENTI | In the following text, Alain Platel — internationally renowned choreographer and director who has profoundly shifted with his work the history of Western theatrical dance — writes about his life and career, from the early experiments with a group of friends to the foundation of les ballets C de la B in 1984, from the success of a new relational and choreographic model to the internationalization of his work beyond the Belgian borders, up to his most recent research in the post-covid era. A narrative that is both artistic and personal and that reflects the main identity of his choreographic blueprint: the human as the leading dramaturgical focus and the richness and uniqueness of each performer/person as the deep reason for being of every creation and as the guiding principle to the composition of the materials.
Platel has responded with this text to my invitation to leave a testimony on the essence of his creative path, on that unique creative frequency that he has embodied in the world of dance and which has had — and continues to have — an impact on the world at large through his works. Among the proposals I had made, he has chosen to write “a letter to the future”, a form of communication that allows a space of reflection for both the writer and the recipient: a sort of Time Capsule for the future of choreography and humanity.

A recent image of Alain Platel with his dog Kito on his home terrace. Photo Courtesy A.Platel

I’m happy to have received it. He has written it for all of us and I hand it over to you.

Officially, I’ve already been “retired” for three years, but it was only last summer, after the presentation of one of our last creations, Mein Gent, that it became real: to wake up on August 3rd 2024 realizing, for the first time in 40 years, that I had no urgent responsibilities and that nobody was expecting anything from me… I can recommend it! That’s how it was during those last summer months, when my companion Isnelle, our dog Kito and I celebrated it with a beer nearly every evening on our terrace!
As it was well known, and often questioned, that I rarely appeared on stage after a performance, it was no surprise that I didn’t want a goodbye party and that I even threatened to walk away from it if anybody would organize one. They knew I was bloody serious about that, so nobody tried!

When I look back and zoom out, I’m amazed at everything that has happened with me in these last forty years. Because… in reality, I’m quite shy and insecure as a person, so to become in a certain way and to be at certain times so exposed, was often very contradictory to who I feel I am. But above all, my first ambition in the eighties was to become a good Orthopedagogue (remedial teacher), because that’s what I had studied, Psychology and Pedagogics. And when in the mid eighties we started making little performances with friends, it was mainly to have a reason to get together, drink cheap wine, smoke cigarettes and talk about how we would change the world.
Very inspired by the German choreographer Pina Bausch (who used her dancers’ personal histories as an inspiration for her performances) and by the French pedagogue Fernand Deligny (who decided to live with children with a severe mental disorder instead of working with them in psychiatric hospitals), I started making performances that were poor copies of scenes inspired by Bausch’s Café Müller and as there were no social media in those days, we could easily get away with that. Some Flemish young theater directors followed and presented our work, but since there was no money, all of us had to find a real job elsewhere just to survive.
In those years, we had the chance to grow and develop gradually an original physical language that was described as chaotic and unprofessional but — to my own surprise — audiences liked it and professional dancers started to be curious to work with us.

Alain Platel, les ballets C de la B, Out of Context-For Pina, 2010. PHOTO Christophe Raynaud de Lage

As a child and adolescent, I followed some mime, theater and dance workshops, but none of them with the ambition to become a professional. So when I started to “direct” my peers in our first performances, I could never show them what to do and how to do it and I was depending on our limited skills and original proposals. As we had no artistic education, we could care less about conventions, rules or trends. On top of that, there were no fathers to kill in the Belgian performing arts. There was only an old fashioned ballet company and the famous choreographer Maurice Béjart just left the country for Switzerland. No history, no money and only a few alternative spaces to present our performances.
Our work in those years was provocative, very physical, had no specific and recognizable style and was inspired by the anger of the young people who performed it (remember … we were living the Punk era), and it was a very attractive work for some professional dancers who wanted to escape the dull classical world.
There was a moment that I had to choose between an artistic path and my engagements as a pedagogue, because combining both was no longer possible. I decided to take the artistic risk and we created the company Les Ballets Contemporains de la Belgique les ballets C de la B an ironic name for a company that was only the opposite of what was expressed in its name: a collective of different non professionals who had the ambition to create physical performances inspired by the personality of the performers.
Very early in my “career” I knew that if I wanted to make statements about the world in our performances — because that’s how arrogant and pretentious we were — the world had to be seen on stage. That’s why, in the first place, our casts had to be very diversified —(non)professionals, different (cultural) backgrounds, different age,  sex, gender, color, abilities…
I was very glad that this diversity was rarely mentioned by critics, even though in those days the European dance casts were very white. It meant that this diversity, maybe, wasn’t an issue and represented a reality, while nowadays, it’s one of the major criteria to judge a company or a performance.

Alain Platel, les ballets C de la B, Nicht Schlafen, 2016. PHOTO Dmitrijaus Matvejevo

In searching on how I could engage with these very diverse casts, I developed a “method” that worked pretty well: I asked the performers to create personal dance phrases around certain themes. And in fact any theme seemed to work. If you ask a dancer to create a “green” phrase, he/she will certainly come up with something, but always it will be inspired and influenced by their personal background. A ballet dancer will create something ballet-ish, a club dancer something club-ish. But if you then ask the ballet dancer to re-interpret the club phrase he/she will come up with something which is neither ballet nor club dancing. The same question could be asked to kids and non professionals and professional dancers loved to work with them! In that way we started to develop a “style” that I described as bastard dance. We discovered this had endless possibilities, in fact we could create as many genres as many people there were.
I never had a clear idea to start with. Sometimes there was the music of a composer, a stunning set, a series of vague themes or something other that would inspire us, but there was always a specific cast. The performers were the core business. They were asked many (personal) questions (Pina Bausch’ working method) and were invited to improvise around themes I proposed or that they themselves proposed. In constant dialogue with the cast we did then decide what to keep and what to continue to work on the next day and what to leave. Gradually a performance “appeared” and seldom it was something we had imagined at the beginning of the process. A scary but very adventurous process with one main goal: each performer had to be very visible.
It took me a while before I dared to introduce my personal background into the creation processes. From time to time I would mention my experiences as a pedagogue who worked with children with mental or physical difficulties, but only later I showed films and pictures about them (medical documentaries of psychiatric patients at the beginning of the 20th Century and Fernand Deligny’s films Ce gamin là and Le Moindre Geste were very inspiring). For a long time I think I was scared that the performers would make fun of this kind of humanity. But the contrary happened and they recognized an inner world which as dancers they were also looking for: when words don’t work anymore the body starts to talk… and often that language is harsh, less controlled and not “pretty”, but has an emotional effect on both the performers and the audiences.
Since I rarely created (dance) material and also made theater and music performances, as well as operas and film documentaries, I had difficulties to be called a choreographer. But when I realized that the word choreo also refers to a neurological disorder that effects the physical movements of the body… I could live with it.
Performers were engaged for one creation and stayed until the end of the tour (more or less one and a half to two years). Only at the end of the process did I decide — in dialogue with each of them — if it had sense to continue our collaboration or if we would (temporarily) end it. With some performers I worked for more than twenty years,  others just passed by for one creation.

Alain Platel, les Ballets C de la B, Vsprs, 2006. PHOTO Piero Tauro

I’m not a traveller. I can see the whole world on the small spot where I live and during the daily walks with my dog. In the small book Je keek te ver (You looked too far), Marjoleine De Vos describes how she walks every day the same path around her village in the North of the Netherlands. She discovered the entire globe by doing so and didn’t need to make long journeys on the planet. If I would not have been a member of les ballets C de la B,  probably I would not have traveled further than the Belgian coast or the Ardennes … but now I have seen half of the world! I feel extremely privileged.
During my journeys, while communicating with the different casts and also by meeting people on all of the continents, I recognized my shyness and insecurity (that I could hide better and better) in nearly everybody I met. In that sense I never felt unique or alone and I felt instead empowered.
In some places and on many occasions I also witnessed an extreme injustice I had never been confronted with in my personal life. That was the case in Brazil, Lithuania (in the early nineties),  Timisoara, Moscow and Hong Kong, but also in the meeting with the Aboriginals in Australia, or by working in Bobo Dioulasso and Kinshasa and most of all in visiting the Occupied Territories since 2001.
The visits to the Occupied Territories overwhelmed me the most. Since the first workshop in Ramallah in 2001, I was struck by the open and very visable oppression and overall injustice in that area and I realized that the policy of the successive Israeli governments was supported by nearly a complete nation/ethnicity. I joined the BDS (Boycott, Divestment, Sanctions), an international non violent movement, mainly of academics and artists, that is pleading for the (economic) boycott of Israel as long as it remains an apartheid state. To take part in this BDS movement gradually became dangerous and threatening and during the last twenty years I have been insulted and humiliated on numerous occasions, I even received death threats (!) and I was censored and cancelled in certain environments.
If there is anything that left me frustrated at the end of my professional career, it must be that I couldn’t convince my colleagues to join the BDS movement or, at least, to be more outspoken in this tragedy. I knew, and know, how this so called local conflict can, will and already is dominating the development of the entire world politics. Are we evolving towards extreme right and tyrannic governments all over the planet or towards open minded and less nationalistic societies being aware that we all share the same small globe?

Alain Platel, les ballets C de la B, Tauberbach, 2014 . PHOTO Chris Van Der Burght

I believe I lived one of the most exciting eras in the history of Western contemporary dance. 1980 – 2020 has been a period during which all genres of contemporary dance took a high flight and Belgium was certainly one of the epicentra. With Anne Teresa De Keersmaeker, Jan Fabre, Wim Vandekeybus, Meg Stuart and, later, also Sidi Larbi Cherkaoui as important figures, Belgium has attracted many young dancers from all over the world. Since a decade though, we’re living a major shifting moment in societies on many levels. Urgent questions are being asked regarding social matters, ecology, economics, gender, diversity, leadership… and the performing arts join into the reflections on these themes which are causing important mindshifts into how performances are conceived, created and presented.
Especially after Covid, I was personally confronted with many doubts amongst my performers about the meaning and sense of dance as an art form. It seemed like in Western contemporary dance everything had been invented and tried out. Also, at the end, the human body has its own limits: one cannot run the 100 meters in zero seconds… That is why to be able to motivate dancers and explore their original passion for the métier sometimes wasn’t easy. But by asking them how they started dancing and by using their memories triggered by that question, one can be very surprised by the joy they are able to rediscover. This process has been the inspiration for the physical language we developed in our latest creations: Another Sacre (2021), C(H)OEURS (2022) and Ombra (2024). 

Alain Platel, choirs, ballet and soloists Opéra de Fiandre & les ballets C de la B, 2022. PHOTO Filip Van Roe

When I reached the age of retirement, the continuation of les ballets C de la B — a company that had become associated with me as a director — was questioned. I never had aspirations to continue to live on, to work on a repertoire and I also wasn’t interested in finding a successor. We decided therefore to change the name, the artistic team and the goals of the company and les ballets C de la B has become laGeste. I retired, a new artistic direction was chosen and the new company focuses mainly on inclusive performative projects.
I remember a tag that at a certain time appeared on many toilets all over the world saying Killroy was here. Nobody ever knew who Killroy was, but apparently he/she had been there and at all those other places. It’s how I feel: I was/am here for a while, never had the real ambition to live what I live(d), but I can only look back with great surprise to what happened to me. Even though I love to live, I believe it’s a heavy burden knowing that there is only one exit: death.
So…  no other message to the world than a quote about life from Fernand Deligny:

être-là
être cet être là
qui est avec un autre
et un autre
alors il te faut être là
tout simplement
et faire ce que tu as à faire
verbe vivant que tu es

to be there
to be this being
who is there with another being
and another
so you just have to be there
very simply
and do what you have to do
which is a proof that you’re there

Alain Platel

https://youtu.be/i9xXGqPkIYk?si=2l2J9Bvowh-vBAd3

 

Italian Text
Fare Coreografia 4: Alain Platel, no other message to the world

Credits
Author Alain Platel
Editor Gianna Valenti
PAC-Paneacquaculture.net

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Fare Coreografia #4: Alain Platel, no other message to the world

Alain Platel, Portrait by Filip Van Roe

GIANNA VALENTI | Nel testo che segue, Alain Platel, coreografo e regista di fama internazionale che con il proprio lavoro ha cambiato profondamente la storia della danza teatrale occidentale, si racconta e racconta della propria carriera: dalle prime sperimentazioni con un gruppo di amici alla fondazione di les ballets C de la B nel 1984, dall’affermazione di un nuovo modello relazionale e coreografico all’internazionalizzazione del suo lavoro oltre i confini del Belgio, sino alla sua più recente ricerca in epoca post-Covid. Un racconto che è artistico e umano e che non può che riflettere l’identità principale del suo progetto coreografico: la centralità di ogni performer/persona come chiave drammaturgica, come ricerca di senso e come guida nella composizione dei materiali.
Platel ha risposto con questo testo a un mio invito a lasciare una testimonianza sull’essenza del proprio percorso creativo, su quella frequenza creativa unica che ha incarnato nell’universo danza e che ha avuto — e continua ad avere — un impatto sul mondo attraverso le sue opere. Tra le proposte da me fatte, il coreografo e regista ha scelto di scrivere una “lettera al futuro”, una forma di comunicazione che permette uno spazio di riflessione sia per chi scrive che per chi legge: una sorta di capsula del tempo per il futuro della coreografia e dell’umanità.

Una recente immagine di Alain Platel, scattata dalla sua compagna Isnelle, sulla sua terrazza insieme al suo cane Kito

Sono felice di averla ricevuta. L’ha scritta per tutti noi e ve la consegno.

Ufficialmente sono già in pensione, ma è stato solo la scorsa estate, dopo la presentazione di una delle nostre ultime creazioni, Mein Gent, che è diventato ufficiale: svegliarsi il 3 agosto 2024 con la consapevolezza, per la prima volta in quarant’anni, che non c’erano responsabilità urgenti da affrontare e che nessuno si aspettava qualcosa da me… ve lo consiglio! Così, durante questi ultimi mesi estivi, con la mia compagna Isnelle e il nostro cane Kito ho festeggiato quasi tutte le sere con una birra sulla nostra terrazza! Sono sempre stato conosciuto, e spesso messo in discussione, per le mie rare apparizioni sulla scena alla fine di uno spettacolo, e non è stata una sorpresa che non volessi una festa d’addio. Anzi, ho minacciato di andarmene se qualcuno l’avesse organizzata: sapevano che facevo sul serio e nessuno ha cercato di farlo!
Se mi guardo indietro e allargo lo sguardo, rimango stupito da tutto quello che mi è successo in questi ultimi quarant’anni. Perché… in realtà sono piuttosto timido e insicuro come persona, quindi diventare in un certo modo e dover essere in certi momenti così esposto, è stato spesso molto contraddittorio con quello che sento di essere. Soprattutto, la mia prima ambizione negli anni Ottanta era quella di diventare un buon Ortopedagogo (un insegnante per bisogni educativi speciali), perché era quello che avevo studiato, Psicologia e Pedagogia, e quando a metà degli anni Ottanta cominciammo a fare piccole performance tra amici, era soprattutto per avere un motivo per stare insieme, bere vino scadente, fumare sigarette e parlare di come avremmo cambiato il mondo.
Molto ispirato dalla coreografa tedesca Pina Bausch (che ha utilizzato le storie personali dei suoi danzatori come fonti per le sue performance) e dal pedagogo francese Fernand Deligny (che ha deciso di vivere con i bambini affetti da gravi disturbi mentali invece di lavorare con loro negli ospedali psichiatrici), ho iniziato a realizzare performance che erano copie scadenti di scene ispirate a Café Müller della Bausch, ma poiché a quei tempi non esistevano i social media, riuscivamo a farla franca. Alcuni giovani registi teatrali fiamminghi seguivano e presentavano il nostro lavoro, ma non c’erano soldi e tutti noi dovevamo trovarci un lavoro vero altrove per poter sopravvivere.
Sono stati anni in cui abbiamo avuto la possibilità di crescere e di sviluppare gradualmente un linguaggio fisico originale che veniva descritto come caotico e non professionale ma che, con mia grande sorpresa, il pubblico apprezzava, e che incuriosiva i danzatori professionisti che hanno così iniziato a voler lavorare con noi.

Alain Platel, les ballets C de la B, Out of Context – For Pina, 2010. PHOTO Christophe Raynaud de Lage

Da bambino e adolescente ho seguito alcuni laboratori di mimo, teatro e danza, ma nessuno con l’ambizione di diventare un professionista. Quindi, quando ho iniziato a “dirigere” i miei compagni di lavoro nelle nostre prime performance, non ero certo in grado di mostrare loro cosa fare e come farlo. Dipendevo dalle nostre capacità limitate e dalle nostre proposte originali e, poiché non avevamo un’educazione artistica, non poteva fregarcene di meno delle convenzioni, delle regole o delle tendenze. Inoltre, in Belgio, non c’erano padri da uccidere nelle arti performative; esisteva solo una compagnia di balletto vecchio stile e il famoso coreografo Maurice Béjart aveva appena lasciato il Paese per la Svizzera: nessuna storia, niente soldi e solo pochi spazi alternativi dove presentare le nostre sperimentazioni.
Il nostro lavoro, in quegli anni, era provocatorio, molto fisico, non aveva uno stile specifico e riconoscibile e prendeva ispirazione dalla rabbia dei giovani interpreti (ricordatevi… eravamo nell’era punk): un tipo di lavoro molto attraente per alcuni danzatori professionisti che volevano sfuggire al noioso mondo del classico.
C’è stato, poi, un momento in cui ho dovuto scegliere tra un percorso artistico e i miei impegni come pedagogo, perché mettere insieme entrambi non era più possibile. Ho deciso, così, di assumermi il rischio artistico e abbiamo creato la compagnia Les Ballets Contemporains de la Belgique les ballets C de la B un nome ironico per una compagnia che era il contrario di ciò che il suo nome indicava: un collettivo di non professionisti, assolutamente diversi tra di loro, che avevano l’ambizione di creare performance fisiche ispirate alla personalità degli interpreti.
Sin dall’inizio della mia “carriera” sapevo che se volevo fare dichiarazioni sul mondo attraverso le nostre performance — perché questo era il nostro livello di arroganza e pretenziosità — il mondo doveva diventare ben visibile sulla scena. È per questo che, come prima regola, i nostri cast dovevano essere molto diversificati: (non) professionisti, background (culturali) diversi, diverse età, sesso, genere, colore e abilità…. Devo dire che mi ha fatto molto piacere che questa diversità sia stata menzionata solo raramente dai critici, anche se a quei tempi i cast di danza europei erano molto bianchi. Forse, significava che questa diversità non era un problema e rappresentava una realtà quando, al giorno d’oggi, è uno dei criteri principali per giudicare una compagnia o una performance.

Alain Platel, les ballets C de la B, Nicht Schlafen, 2016. PHOTO Dmitrijaus Matvejevo

Mentre cercavo un modo di interagire con questi cast così diversi, ho sviluppato un “metodo” che ha funzionato piuttosto bene: chiedevo ai performer di creare frasi personali di danza su temi specifici. E, in effetti, qualsiasi tema sembrava funzionare. Se chiedi a un performer di creare una frase “verde”, lui o lei sicuramente si inventeranno qualcosa che sarà sempre ispirato e influenzato dal suo background personale. I danzatori classici creeranno qualcosa di simile a un balletto, un club dancer creerà qualcosa di simile a una club dance. Ma se, poi, chiedi ai danzatori classici di reinterpretare la frase del club dancer, lui o lei si inventerà qualcosa che non è né balletto, né club dancing. La stessa domanda potrebbe essere fatta anche ai bambini, ai ragazzi e ai non professionisti, e va detto che i danzatori professionisti adorano lavorare con loro! In quel modo abbiamo iniziato a sviluppare uno “stile” che ho descritto come bastard dance (danse bâtarde). Abbiamo scoperto che le possibilità erano infinite, infatti potevamo creare tanti generi quante erano le persone presenti.
Non avevo mai una chiara idea con cui cominciare. A volte c’era la musica di un compositore, una scenografia straordinaria, una serie di temi vaghi o qualcos’altro che ci ispirava, ma c’era sempre un cast specifico. I performer erano il centro dell’intero lavoro. Facevo molte domande (personali) — come nel metodo di lavoro di Pina Bausch — e li invitavo a improvvisare attorno a temi che proponevo o che loro stessi proponevano. Poi, in costante dialogo con il cast, si decideva cosa tenere, su che cosa continuare a lavorare il giorno successivo e che cosa lasciare. Gradualmente una performance “appariva” e raramente era qualcosa che avevamo immaginato all’inizio del processo. Un processo che impauriva, ma estremamente avventuroso e con un obiettivo principale: ogni performer doveva essere molto visibile.
Mi ci è voluto un po’ prima di osare introdurre il mio background personale nei processi di creazione. Di tanto in tanto menzionavo le mie esperienze di pedagogo che lavorava con bambini con difficoltà mentali o fisiche, ma solo in seguito ho mostrato film e immagini su di loro (documentari medici di pazienti psichiatrici dell’inizio del XX secolo e i film di Fernand Deligny Ce gamin là e Le Moindre Geste che ci furono di grande stimolo).
Penso che per molto tempo ho avuto paura che i performer si prendessero gioco di questo tipo di umanità. Ma, di fatto, è successo il contrario, e hanno riconosciuto un mondo interiore che loro stessi come danzatori stavano cercando: quando le parole non funzionano più, il corpo comincia a parlare… e spesso quel linguaggio è duro, meno controllato e non “bello”, ma con un effetto emotivo che coinvolge sia i performer che il pubblico.
Dato che raramente creavo materiali danzati ed ero impegnato come regista anche con spettacoli teatrali e musicali, nonché con opere liriche e documentari cinematografici, avevo difficoltà a sentirmi definire un coreografo, ma quando ho capito che la parola choreo si riferisce anche a un disturbo neurologico che influenza i movimenti fisici del corpo… ho finito per conviverci.
I performer venivano ingaggiati per una creazione e rimanevano fino alla fine del tour (più o meno da un anno e mezzo ai due anni) e solo alla fine del processo decidevo — dialogando con ognuno di loro — se avesse senso continuare la nostra collaborazione o se avremmo dovuto (temporaneamente) interromperla: con alcuni performer ho lavorato per più di vent’anni, altri sono semplicemente passati per una creazione.

Alain Platel, les Ballets C de la B, Vsprs, 2006. PHOTO Piero Tauro

Non sono un viaggiatore. Riesco a vedere il mondo intero dal piccolo angolo in cui vivo e durante le passeggiate quotidiane con il mio cane. Nel minuscolo libro Je keek te ver (Hai guardato troppo lontano), Marjoleine De Vos descrive come ogni giorno rifà lo stesso percorso all’interno del suo villaggio nel nord dei Paesi Bassi e come questo le abbia permesso di scoprire l’intero globo senza bisogno di intraprendere lunghi viaggi attraverso il pianeta. Se non fossi stato membro di les ballets C de la B, probabilmente non avrei viaggiato oltre la costa belga o oltre le Ardenne… ma ora posso dire di aver visto mezzo mondo e mi sento estremamente privilegiato!
Durante i miei percorsi, comunicando con i diversi cast e incontrando persone provenienti da tutti i diversi continenti, ho potuto riconoscere in loro la mia stessa timidezza e insicurezza (che tra l’altro riuscivo a nascondere sempre meglio) e in questo senso non mi sono mai più sentito unico o solo, ma anzi rafforzato da questa esperienza.
In alcuni luoghi e in molte occasioni sono stato anche testimone di un’ingiustizia estrema con la quale non avevo mai dovuto confrontarmi nella mia vita personale. È stato così in Brasile, Lituania (all’inizio degli anni Novanta), Timisoara, Mosca e Hong Kong, ma anche nell’incontro con gli aborigeni australiani o durante il mio lavoro a Bobo Dioulasso e Kinshasa e, soprattutto, visitando i Territori Occupati dal 2001.
Le visite ai Territori Occupati sono quelle che mi hanno maggiormente coinvolto e sopraffatto. Fin dal primo seminario a Ramallah, nel 2001, sono rimasto colpito dall’oppressione palese e visibile e dall’ingiustizia generale presente in quell’area e mi sono reso conto che la politica dei diversi governi israeliani era quasi completamente sostenuta da una visione di nazione/etnia. Per questo ho aderito al BDS (Boycott, Divestment, Sanctions), un movimento internazionale non violento, composto principalmente da accademici e artisti, che chiede il boicottaggio (economico) di Israele finché rimarrà uno stato apartheid. Prendere parte a questo movimento è diventato, però, gradualmente pericoloso e minaccioso: negli ultimi vent’anni sono stato insultato e umiliato in numerose occasioni, ho ricevuto persino minacce di morte (!) e sono stato censurato e cancellato in alcuni ambienti.
Se c’è qualcosa che mi ha lasciato frustrato alla fine della mia carriera professionale, è che non sono riuscito a convincere i miei colleghi a unirsi al movimento BDS o, almeno, a rendersi più disponibili a parlare apertamente di questa tragedia. Sapevo, e so, come questo cosiddetto conflitto locale può, potrà e già domina lo sviluppo dell’intera politica mondiale. Ci stiamo evolvendo verso governi tirannici di estrema destra su tutto il pianeta o verso società meno nazionalistiche, di mentalità aperta, nella consapevolezza che condividiamo tutti lo stesso piccolo globo?

Alain Platel, les ballets C de la B, Tauberbach, 2014 . PHOTO Chris Van Der Burght

Credo di aver vissuto una delle epoche più emozionanti della storia della danza contemporanea occidentale. Il periodo 1980-2020 è stato un periodo in cui tutti i generi della danza contemporanea hanno preso il volo e il Belgio è stato sicuramente uno degli epicentri. Con Anne Teresa De Keersmaeker, Jan Fabre, Wim Vandekeybus, Meg Stuart e, più tardi, anche Sidi Larbi Cherkaoui come figure importanti, il Belgio ha attratto molti giovani danzatori da tutto il mondo. Da un decennio, però, stiamo vivendo un momento di grande cambiamento nelle società a molti livelli. Vengono poste domande urgenti su questioni sociali, ecologia, economia, genere, diversità, leadership… e le performing arts si uniscono alle riflessioni su questi temi che stanno dando forma a importanti cambiamenti di mentalità sul modo in cui le performance sono concepite, create e presentate.
Soprattutto dopo il Covid, mi sono confrontato personalmente con molti dei dubbi dei miei performer sul significato e sul senso della danza come forma d’arte, quando sembrava che nella danza contemporanea occidentale tutto fosse stato inventato e sperimentato. Inoltre, alla fine, il corpo umano ha i suoi limiti: non è possibile correre i 100 metri in zero secondi… Ecco perché motivare i danzatori e portarli a esplorare la loro passione originaria per il mestiere a volte non è stato facile, ma chiedendo loro come hanno iniziato a danzare e utilizzando i loro ricordi generati da quella domanda, sono rimasto molto sorpreso dalla gioia che sono riusciti a riscoprire; un processo, questo, che è stato l’ispirazione per il linguaggio fisico che abbiamo sviluppato nelle nostre ultime creazioni: Another Sacre (2021), C(H)OEURS (2022) e Ombra (2024).

Alain Platel, cori, balletto e solisti dell’Opera delle Fiandre e les ballets C de la B. C(H)OEURS, 2022. PHOTO Filip Van Roe

Quando ho raggiunto l’età della pensione, la continuazione di les ballets C de la B – una compagnia che è stata associata al mio nome come regista – è stata messa in discussione. Non ho mai avuto l’aspirazione di continuare a farla vivere, di mantenermi in quel ruolo e di lavorare su un repertorio e non mi interessava nemmeno trovare un successore. Abbiamo quindi deciso di cambiare il nome, il team artistico e gli obiettivi della compagnia e les ballets C de la B è diventata laGeste. Sono andato in pensione, è stata scelta una nuova direzione artistica e la nuova compagnia si concentra principalmente su progetti performativi inclusivi.
Ricordo un tag apparso a un certo punto su molti bagni di tutto il mondo che diceva che Killroy è stato qui. Nessuno ha mai saputo chi fosse Killroy, ma a quanto pare lui/lei era stato lì e in tutti quegli altri posti. È così che mi sento: sono stato/sono qui per un po’, non ho mai avuto la reale ambizione di vivere ciò che vivo e ho vissuto, posso solo guardare indietro sorprendendomi di tutto quello che mi è successo. Anche se amo vivere, credo che sia un fardello pesante sapere che c’è una sola via d’uscita: la morte.
Quindi… nessun altro messaggio al mondo se non una citazione di Fernand Deligny sulla vita:

être-là
être cet être là
qui est avec un autre
et un autre
alors il te faut être là
tout simplement
et faire ce que tu as à faire
verbe vivant que tu es

to be there
to be this being
who is there with another being
and another
so you just have to be there
very simply
and do what you have to do
which is a proof that you’re there

Alain Platel

https://youtu.be/i9xXGqPkIYk?si=2l2J9Bvowh-vBAd3

 

English Text
Alain Platel, no other message to the world

Credits
Autore Alain Platel
Editing & Traduzione Gianna Valenti
PAC-Paneacquaculture.net

Il collegamento multimediale a questo testo, “Fare Corrografia #4: Alain Platel, no other message to the world” può essere condiviso senza restrizioni. Tuttavia, ai sensi della Convenzione di Berna sui diritti di proprietà intellettuale (diritto d’autore), il presente testo può essere citato, secondo un uso corretto e nella misura necessaria per raggiungere lo scopo desiderato, ma non può essere copiato o riutilizzato senza la previa autorizzazione dell’autore sia nelle pubblicazioni digitali che stampate.

Gli Altri Libertini di Tondelli/Lanera ammaliano il pubblico del Piccolo di Milano

CHIARA AMATO / Pac Lab* | «Qual è il tuo posto nel Gran Trojajo?». È una domanda che Altri Libertini, l’ultimo lavoro di Licia Lanera, rivolge a tutti i “vitelloni” di ieri, di oggi e, perché no, anche di domani. Una riflessione sul nostro ruolo in un mondo che cambia, ma che in fondo resta lo stesso. Ma la domanda è posta ed è rilanciata, in primis, alla sua generazione, ai coetanei, ai nati negli anni ’80, quando la casa editrice Feltrinelli pubblicava l’omonima raccolta di racconti di Pier Vittorio Tondelli, scrittore decisamente fuori le righe, che prematuramente morì di AIDS all’età di trentasei anni.
L’opera, rivoluzionaria e spudorata, all’epoca fu inizialmente sequestrata per oscenità, ma riscosse subito un enorme successo di pubblico. Il testo è incentrato su una certa Italia, tanto che il giovane e dannato scrittore lo definì un romanzo a sei episodi (PostoristoroMimi e istrioni, ViaggioSenso contrarioAltri libertini e, infine, Autobahn). La pluripremiata regista e attrice seleziona tre di questi brevi sguardi: Viaggio, Altri Libertini e Autobahn.
Ma il racconto che ci propone in scena si complica, perché intreccia quelle storie, ambientate in quell’Italia fatta di Cossiga Presidente, Toto Cotugno vincitore di Sanremo, e di 260 morti per eroina del 1980, alla nostra Italia, dove di quarantenni che non sanno ancora che posto avere nel gran trojajo della vita ce ne sono eccome. Proprio qui inseriscono, come in un mosaico, pezzi della sua biografia e di quelle dei tre attori in scena con lei (Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva, Roberto Magnani) attraverso brevi accenni alle loro infanzie, mettendoci nomi e cognomi, oltre che la faccia e il corpo.

ph. Manuela Giusto

I tre attori si presentano in mutande, canotta e calzini, per poi vestirsi durante lo spettacolo in abiti borghesi dal gusto un po’ vintage e radical chic, mentre la regista in un tailleur giallo (costumi Angela Tomasicchio) è seduta a uno scrittoio e si pone come uno spettatore.
La scena scarna, oltre allo scrittoio al centro, una cyclette sulla sinistra, una lettiga e un ventilatore sulla destra, una parete di luci (disegno di Martin Palma) sullo sfondo si anima, illuminando in tutte le direzioni a ritmo di musica, come in un concerto, sulle note di Siamo solo noi di Vasco Rossi.
Questo elemento musicale (sound design di Francesco Curci) crea un trait de union tra l’epoca di Tondelli e la generazione della Compagnia Licia Lanera. Generazione cresciuta e immersa in un certo rock e formata con determinate letture, sotto il segno di un capitalismo in espansione e con «la cosa pubblica che viene sostituita dal privato», come ci dice appunto la regista sul palco.
E quella canzone, non a caso, apre e chiude lo spettacolo, accattivandosi il pubblico: all’inizio animando gli artisti che ballano e cantano Vasco, immersi e dannati in un fumo denso di sigarette, e alla fine, posti in fila orizzontale, ci guardano senza speranze e spauriti, su una versione rallentata delle stesse note iniziali, come davanti a un plotone di esecuzione.

Dopo il momento musicale, a turno iniziano a recitare i testi, in quella che potrebbe essere quasi una lettura intima, fatta in un salotto fra amici. I loro corpi interagiscono poco, ma lo fanno in maniera spudorata, violenta, perché le parole di Tondelli sono terribili: senza fronzoli e senza freni ci raccontano quelle vite sospese di disoccupati, drogati, omosessuali, che corrono di notte in macchina, fumando di tutto, bevendo vino scadente, facendo sesso in appartamenti in condivisione, e sì, bucandosi le vene. Quelli che bonariamente poi Fellini inquadrò come Vitelloni, nel suo omonimo capolavoro, perché restano sempre figli, anche quando dovrebbero diventare genitori, se non altro per mero dato anagrafico.

ph. Manuela Giusto

Lo spettacolo ci fa confrontare anche con la periferia, che sta alle città come i sommersi stanno ai salvati, con le sue regole crudeli. E allora in scena il turpiloquio, le bestemmie, i baci assatanati e gli insulti volano dalle bocche degli attori, in questi paesaggi desolati, animati solo dai baretti di provincia. Ognuno di loro si fa portatore di un racconto, dividendo così lo spettacolo in una sequenza di monologhi che si alternano, si incrociano, creando un monologo “a più voci” e una tessitura narrativa complessa, ma scorrevole.
Lanera lascia per sé tre funzioni/ruoli in scena: quello della narratrice esterna che collega le parti; quello della comparsa per dei personaggi secondari; e quello dello spettatore bonario ed empatico, che di fronte alle parole di Tondelli non può far altro che fumare, accogliere con tenerezza queste confessioni e porsi domande sul presente. Accompagna i suoi interpreti e li guida, instradando anche un po’ il pubblico in un’operazione meta-teatrale tra Tondelli e la sua operazione registica.
Ci spiega, infatti, il lavoro svolto sui testi e ci fa intravedere la costruzione collettiva dello spettacolo, mettendosi nella posizione di colei che tiene e tira le fila di tutto. Come ha dichiarato nell’intervista rilasciata su Teatro e Critica, dopo la prima a Romaeuropa, “alla fine Pier Vittorio Tondelli non esiste più se non nei corpi, nella carne, negli sputi degli attori, nelle loro biografie (…) Siamo qui a raccontare le miserie di una generazione che si perpetua sempre uguale da almeno quarant’anni”.

Numerosi gli aspetti interessanti nella trasposizione attoriale: la sensualità di Cupaiuolo (in Autobahn), legato in un rapporto sentimentale con la sua auto, che non abbandona di notte neanche da ubriaco; Giuva, che interpreta un omosessuale innamorato e ferito da un latin lover lombardo (in Altri Libertini), toccando momenti di infinita e disperata tenerezza; fino a Magnani (in Viaggio), che ci mostra quell’aspetto pervasivo e quotidiano dell’eroina, che quasi vogliamo rimuovere dalla memoria collettiva. Di particolare intensità proprio alcuni di questi passaggi sul legame con la dipendenza, emotiva e da eroina, che riportano a noi oggi un problema che oggi vediamo così lontano. Altro momento molto gradito in platea, e accompagnato da fragorosi applausi, è quello dove Giandomenico Cupaiolo elenca determinate categorie umane, alternando la rapidità e volgarità delle parole a movimenti degni di un ottimo ballerino di twist, del quale non si può non ammirare la bravura.
Lo spettacolo è costruito in maniera equilibrata, senza mai risultare pesante nella comprensione, né scollato fra le parti: proprio attraverso la presentazione di questi personaggi scapestrati, che inevitabilmente ingaggiano il pubblico, in sala le risate si alternano ai momenti di silenzio, dove (forse) ognuno ascolta quelle “voci di dentro” che i nostri protagonisti affrontano e zittiscono con «tanto vino e tanta voglia di gridare».

ALTRI LIBERTINI 

di Pier Vittorio Tondelli
adattamento e regia Licia Lanera
con Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva, Licia Lanera, Roberto Magnani
luci Martin Palma
sound design Francesco Curci
costumi Angela Tomasicchio
aiuto regia Nina Martorana
tecnici di compagnia Massimiliano Tane, Laura Bizzoca
produzione Compagnia Licia Lanera
in coproduzione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro
si ringrazia Compagnia La Luna nel Letto

Teatro Studio Melato, Milano | 3 novembre 2024

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

(La)Horde dall’Inferno al Paradiso, Monga danza con l’arte di Tremlett

Rone e (La)Horde, Room with a view - ph Aude Arago

OLINDO RAMPIN | Non sappiamo se sia frutto del caso o sia, invece, una voluta dialettica tra due stili e concezioni della danza esemplarmente differenti. È un fatto che lo spettatore del Festival Aperto, organizzato da I Teatri di Reggio Emilia, ha incontrato nello stesso giorno, a distanza di poche ore o di pochi minuti, due grammatiche corporee incommensurabili tra loro. Di più, queste grammatiche agivano dentro due contesti ambientali anch’essi così differenti tra loro da costituire quasi un modello di latitudini espressive antitetiche.
A una latitudine ci si imbatteva nella prima di Una stanza tutta per sé, titolo woolfiano per una breve scrittura coreografica, firmata da Camilla Monga e interpretata da due danzatori, ogni volta diversi, della MM Contemporary Dance Company: due messi “angelici” delle opere di David Tremlett, in mostra con il titolo di Another Step ai Chiostri di San Pietro.

La MM Contemporary Dance in una coreografia di Camilla Monga – ph Dario Bonazza

La prima realtà su cui hanno agito Monga e i danzatori non riguarda, però, l’arte di Tremlett, ma gli stessi Chiostri di San Pietro. Il chiostro maggiore, di eccellente fattura, è però latore di un messaggio un po’ enfatico, fuori scala, con quelle statue torve e austere incapsulate nelle nicchie. Invece, ecco che ora nella sera ottobrina che sembra agostana Alice Ruspaggiari e Federico Musumeci, lei corpetto nero trasparente che lascia vedere una figura minuta, lui una mezza tunica nera che lascia scoperte braccia e fianchi, attraversano leggeri ed eleganti i lunghi porticati perimetrali del chiostro illuminati da luci calde e sobrie, e gli conferiscono un’aria romanzesca, misteriosa, ma non magniloquente, sicché nella penombra l’edificio parla stasera un linguaggio aristocratico, ma più amichevole.

I moti dei due performer sono intonati a un’idea non conflittuale del rapporto tra corpo e realtà esterna. Emerge, nell’esiguo spazio delimitato rigidamente dal percorso di visita, un discorso corporeo elaborato ad ampie curve, un disegno di circolare compostezza, con momenti di congiunzione morbida tra i due corpi, mentre in cuffia una composizione rumoristica tesse un complementare tappeto sonoro di voci femminili, inizialmente allusivo, con brevi parole, a un viaggio interiore tra tortuosità di sentieri.

David Tremlett, Drawing for a wall #19, 1999- courtesy Palermo Palazzo Butera Coll. Francesca e Massimo Valsecchi – ph Francesco Rucci

Come sorprende ora, nella guida sinuosa e silente dei due messi danzanti, la bellezza equilibrata, esatta, delle grandi campiture di colore di David Tremlett! I suoi ampi rettangoli parzialmente sovrapposti, con una fondamentale bicromia, sembrano rivelarci un nuovo significato dei colori: del rosso, del giallo, del verde, come se li vedessimo ora per la prima volta.

***

All’opposta latitudine il Teatro Valli, quando entriamo per assistere a Chronicles, estratti di Room with a view e The age of content firmati dal collettivo (La)Horde per il Ballet National de Marseille, è già esso, con la sua forma architettonica e l’umanità che lo affolla, un’ipotesi di diversa costruzione linguistica: catino ottocentesco ribollente di voci e volti di spettatori, dove circola la tensione nell’attesa dell’evento, nel vago sentore di una qualche essenza che potrebbe venire dal palco. E, infatti, quando si apre il sipario la scena è tutta immersa in una fitta nebbia, dentro la quale gli interpreti sono riuniti come un branco di animali impauriti, quasi ombre di dannati in attesa del giudizio di Minosse.
Da essi, però, si stacca un ragazzo biondissimo, jeans e t-shirt oversize, che comincia una sua irrefrenabile lotta con l’aria, mulinando le braccia con estrema rapidità e violenza, caricando con rabbia, scalciando un immaginario duellante al confine del proscenio.

Rone e (La)Horde, Room with a view – ph Thomas Amouroux

È il segnale liberatorio che la turba dei dispersi nella nebbia attendeva, perché adesso inizia una galleria di variazioni a gruppi di due, tre, quattro, all’insegna di una fisicità giovanile e rabbiosa, dove, tra nuovo circo, rave e danza di strada, un’esilissima danzatrice di origine orientale viene tirata, slogata, innalzata, piroettata all’indietro come fosse un avatar di sé stessa da un trio di performer, tra i quali ricade con il suo corpicino intatto e il viso sorridente per nuovi cicli di energici sballottamenti.

A tratti, la turba si riunisce come un popolo di giovani animali, con atteggiamenti di sfida: ecco un pugno chiuso, un dito medio ostentato verso il pubblico. È il linguaggio primordiale della protesta e della ribellione, una anarco-danza che si esprime attraverso un linguaggio corporeo e gestuale che parla di esacerbazione, insoddisfazione, di antagonismo pre-verbale, pre-razionale. La differente origine dei performer, afrodiscendenti, orientali, mediterranei, nordeuropei, è un’immagine seducente della molteplicità del mondo, in cui essi si ritrovano e si perdono, nella vitalità debordante e acrobatica che fa convivere aggressione e dolcezza, amore e ira.
A un certo punto il loro peregrinare randagio e felice tra risse e abbracci si riunisce in un cerchio che da piccolo si fa sempre più grande, con intrecci di gambe che si rifanno alla hora, la danza del matrimonio ebraico. È l’illusione di ritrovare un’armonia del mondo, essendo il cerchio simbolo di perfezione, di eternità, di illimitatezza. È nel divino la salvezza dal caos?

(La)Horde, Age of content – ph Blandine Soulage

Se il primo estratto fosse una cantica in terzine ci ricorderebbe l’Inferno dantesco, ma un Inferno post-contemporaneo, che ha saputo metabolizzare e disconoscere la propria stessa infelicità. Il secondo estratto, allora, è la terza cantica, è il passaggio diretto e senza transizioni purgatoriali, senza penitenze, oggi del resto improbabili, a un Paradiso millennial, kitsch, pop e queer. Alla nebbia del caos contemporaneo del primo tempo, si contrappone qui un fondale chiaro, un impasto di luci chiare, un racconto in piena luce, in cui i danzatori sono i protagonisti di una metamorfosi antropologica e coreografica. I loro stessi volti e corpi non sembrano più quelli di prima, nel passaggio da una estetica post grunge intenzionalmente antierotica alle gonnelline jeans a pieghe da Saranno famosi, dentro cui vibrano le gambe di una altissima performer, ai corsetti top trasparenti con coppe che femminilizzano i corpi dei due danzatori più potentemente fisicati.
Tutto, ora, parla di allegria, di gioia, del gusto di danzare insieme, di unirsi nella danza, in una forma più armoniosa e più gioiosa della vita. E l’universo stilistico adesso è debitore di stagioni più solidamente codificate della danza, i movimenti si fanno meno spezzati, meno angolosi, pian piano sui visi di tutti si sedimenta un sorriso che non li abbandonerà più, mentre il ricordo del viaggio precedente, nell’inferno della megalopoli distopica, si dissolve nella nebbia che lo avvolgeva, e questo ritorno all’ordine, questa ricomposizione del caos termina con minuti di applausi scroscianti e “bravi” e con più e più richiami di un pubblico completamente conquistato.

UNA STANZA TUTTA PER SÉ
Visita coreografica alla mostra di David Tremlett

concept e coreografia Camilla Monga
danzatori MM Contemporary Dance Company: Filippo Begnozzi, Lorenzo Fiorito, Mario Genovese, Matilde Gherardi, Fabiana Lonardo, Federico Musumeci, Giorgia Raffetto, Alice Ruspaggiari, Nicola Stasi, Giuseppe Villarosa
disegno sonoro Federica Furlani
musiche Clogs, Marta del Grandi, Federica Furlan, Holly Herndone
produzione MM Contemporary Dance Company
in collaborazione con Fondazione Palazzo Magnani
mostra a cura di Marina Dacci 

***

Chronicles: Excerpts from Room With A View and Age of Content

ROOM WITH A VIEW

Concezione artistica RONE & (LA)HORDE – Marine Brutti, Jonathan Debrouwer, Arthur Harel
Musiche di RONE
Regia e coreografia (LA)HORDE – Marine Brutti, Jonathan Debrouwer, Arthur Harel
Con i danzatori del Ballet national de Marseille
Scenografia Julien Peissel
Disegno luci Eric Wurtz
Costumi Salomé Poloudenny
Commissionato dal Théâtre du Châtelet in accordo con Décibels Production e Infiné
Coproduzione Théâtre du Châtelet, Ballet national de Marseille e Grand Théâtre de Provence. 

AGE OF CONTENT

Concept e direzione (LA)HORDE – Marine Brutti, Jonathan Debrouwer, Arthur Harel
coreografia (LA)HORDE in collaborazione con danzatori e danzatrici e gli assistenti del Ballet national de Marseille
Scenografia Julien Peissel
Musica Avia, Gabber Eleganza, Philip Glass
Disegno luci Eric Wurtz
Costumi Salomé Poloudenny
Produzione Ballet national de Marseille

Festival Aperto, Reggio Emilia | 27 ottobre 2024

L’Ombelico dei Limbi: tra i frammenti destrutturati della poetica corporea di Stefania Tansini

Ph. Luca Del Pia

MICHELE PECORINO / PAC LAB* | Tra gli spettacoli ospiti della ventinovesima edizione del Festival delle Colline Torinesi, L’Ombelico dei Limbi di e con Stefania Tansini che è stato ospitato il primo e il 2 novembre scorso alla Lavanderia a Vapore di Collegno, dove, ormai nel 2023, era iniziato il percorso di ricerca di questo lavoro.
Dopo il debutto al PAC di Milano e dopo altre date a Napoli, Firenze, Santarcangelo di Romagna e in altri centri, sono tornate a riflettersi nel luogo di nascita della pièce le ombre del folle Artaud e del suo ben noto L’Ombelico dei Limbi, raccolta di testi e poetiche del periodo surrealista, da cui emerge una frammentazione dell’io e una profonda alienazione a cui Tansini si rivolge, senza però incorrere in citazionismi manieristici privi di ogni riflessione personale. L’intera performance, infatti, si inscrive in una logica percettiva che si lega indissolubilmente, ma in modo mutevole, allo spazio e alle presenze in esso, con cui la performer entra sottilmente in contatto.
Il pubblico accede in sala, ma inusualmente, invece di accomodarsi sulle consuete gradinate, viene invitato a prendere posto su delle sedute disposte su due file, in prossimità della parete di fondo del palco. I gradoni della platea appaiono per metà vuoti dei seggiolini neri a cui si è abituati. A dare inizio all’evento performativo è il meccanico e ronzante rumore dei motori delle tende che lentamente calano, schermando gli ampi finestroni laterali della sala.

Ph. Luca Del Pia

La danzatrice fa il suo ingresso in scena dal retro del palco: come un detrito proveniente da un’altra dimensione, si accascia proprio in prossimità del pubblico, come se si stesse sottraendo a convenzioni di tempo e spazio dalle quali è fuggita. Gli spettatori si trovano dunque in relazione, sin dai primi istanti, con un corpo raggomitolato che giace silenzioso ai suoi piedi. Un corpo accartocciato, ma capace di eludere i postulati e le regole imposti. Indossa abiti neri che la fanno apparire, in relazione all’intero spazio abitato in modo anticonvenzionale, come un’identità enigmatica.
Il suo stare immobile, nel suo “fuori balance”, acquista gradualmente dinamismo e vitalità. Ben presto, abbandona lo spazio antistante al pubblico per esplorare la gradinata, dialogando con il pubblico ora lontanamente, ora in modo più ravvicinato, in un agire tra il dentro e il fuori della scena, il dentro e il fuori degli infiniti frammenti dell’io. Sembrerebbe dipanarsi sull’insolito spazio dell’azione un linguaggio precipuamente cinematografico, dove questo alternarsi di vicinanza e lontananza rimanda a campi lunghi, medi, primi piani e dettagli.
In questo avvicendamento tra lontano e vicino, la performer dispiega sui gradoni un telo bianco, su cui si infrange la luce, col suo pulsare in continuo divenire, per poi riflettersi sulle pareti circostanti. Il telo accoglie il corpo disteso di Tansini fino ad avvolgerlo interamente, come un bozzolo dal quale si libera, come conquistando una novella ed effimera nascita.
Ritorna, quindi, quel rapporto dialettico tra dentro e fuori, tra io e ambiente, tra io e tempo. Il territorio neutro del telo bianco lascia spazio a un momento di stasi: Tansini, recuperata una sedia, vi si siede e stilla delle gocce di colore azzurro da una boccetta sul suo braccio sinistro, una sorta di effluvio della sua interiorità sotto forma di lacrime di sangue azzurrognolo.

Ph. Luca Del Pia

A subentrare di seguito è anche il suono, attraverso acuti via via sempre più alti, emessi dalla stessa Tansini, che raggiungono apici massimi, in cui le tonalità squillanti sembrano fondersi con il suo corpo, con la sua carne, per poi culminare in parola. Parole ripetute e sussurrate come invocazioni asettiche al tempo e allo spazio. Al loro fianco anche le musiche composte da Paolo Allara.
L’Ombelico dei Limbi si rivela essere un viaggio introspettivo che si inerpica tra tensioni e costrutti che la performer scardina poeticamente. Si tratta di una performance in cui l’io si disgrega nel suo legarsi a una fisicità tormentata, andando oltre il tempo e lo spazio. È inoltre insito nel lavoro un incessante dialogo tra macro e micro, tra grandi e piccoli sistemi, dove si presenta una fluida trama di associazioni e dislocazioni non soltanto motorie, ma anche verbali e di senso. Le parole a brandelli o i vocalizzi laceranti sono tracce di un post-umano che porta, sul finale, a un abbandono del linguaggio.
In conclusione, il punto di vista che si offre al pubblico è inusuale, come il modo in cui la performer abita lo spazio. Le logiche acquisite vengono sovvertite e il pubblico stesso si ritrova ad attenzionare, attraverso uno sguardo frammentante, le differenti sezioni della scena, delle micro-sezioni.
Stefania Tansini, ancora una volta, come in My body solo o in altri suoi precedenti lavori, non ha percorso un’univoca strada, ma plurime vie costellate da differenti elementi sensoriali che si coniugano insieme, arrivando a definire un suo personale mondo dall’essere utopico.

L’OMBELICO DEI LIMBI

progetto, coreografia danza e costumi Stefania Tansini
musiche Paolo Aralla
luci Elena Gui
dramaturg Raffaella Colombo
tutor Silvia Rampelli
vocal care Monica Demuru
direttore tecnico Omar Scala
assistenza ai costumi Chiara Sommariva
organizzazione e promozione Federica Parisi
grazie a MeArTe_ fabrics and tailoring, Fondazione Il Lazzaretto
in coproduzione con Fondazione Teatro Grande di Brescia, Romaeuropa Festival, Tpe-Teatro Piemonte Europa/Colline Torinesi, Nanou associazione culturale
con il supporto di residenza Artisti nei Territori Masque Teatro, Boarding Pass Plus Dance/Santarcangelo dei Teatri, Olinda residenza artistica, residenza da Centro nazionale di produzione della danza Virgilio Sieni, progetto Air_Artisti in residenza 2023/Lavanderia a Vapore

Lavanderia a Vapore, Collegno (TO) | 1 Novembre 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.​

Cirillo fra Molière e Da Ponte, per un Don Giovanni oscuro e filosofico

RENZO FRANCABANDERA | Già all’apertura del sipario, si capisce che qualcosa della magnificenza scenografica ha a che fare più con la lirica che con lo “spazio vuoto” teatrale alla Brook. Qualche giorno fa, parlando con uno scenografo, gli chiedevo infatti quale fosse nel suo sentire la principale differenza fra le scenografie teatrali e quelle liriche. E sorprendentemente la risposta è stata che è proprio la geografia dello stare quello che distingue. Gli interpreti lirici di solito si muovono meno, hanno una performatività più limitata. E dunque la scenografia deve inventare luoghi e spazi in cui possano stare, nascondersi, da cui venir fuori. Insomma, nella lirica è la scenografia a sopperire al minor movimento degli interpreti.
Eccone spiegata la tradizionale imponenza. E imponente, addirittura a due piani, è quella che si rivela davanti agli occhi appena si apre il sipario del Teatro delle Muse ad Ancona, che con il Don Giovanni di Arturo Cirillo inaugura la stagione. A fare gli onori di casa, poco prima dell’inizio, è Giuseppe Dipasquale, il nuovo direttore artistico di Marche Teatro, che ha preso la parola per salutare il pubblico e raccogliere il testimone di Velia Papa, cui si deve, comunque, la firma di questa stagione.
L’eredità preziosa si sostanzia, fra le altre cose, del profondo legame intessuto con artisti come Cirillo, che Marche Teatro ha prodotto per diversi anni e che, per quest’ultimo lavoro, porta in scena una versione del Don Giovanni che unisce Molière e Lorenzo Da Ponte, per dare vita a una versione dell’opera che vuole riportare al teatro il testo del libretto operistico. L’interpretazione, che mescola prosa e versi con le liriche di Da Ponte liberate dalla formalità del canto, ambisce a muoversi tra eleganza poetica e vivacità teatrale.

foto Tommaso Le Pera

Si diceva dell’imponente scenografia, firmata da Dario Gessati, che divide il piano base da un sopraelevato che ricorda il giardino di una villa, collegata al piano terra da una imponente scala che si bipartisce, aprendo scomparti e passaggi segreti, terreno di azione ideale del personaggio che, con sotterfugi e furbizie, alimenta in modo instancabile il catalogo delle conquiste femminili, di ogni parte del mondo. Inutili i tentativi del suo servo e di sua moglie Elvira di ricondurlo a una condotta morale. Ma l’eloquio e l’intelligenza del libertino, che spiazza la morale sociale e ne vuole smascherare, per certi versi, le ipocrisie, ha la meglio sugli umani e pretende di sfidare anche il destino e la morte.
Il mito di Don Giovanni, il leggendario seduttore di Siviglia, ha infatti ispirato innumerevoli versioni e interpretazioni nel corso dei secoli, con due delle più celebri rappresentazioni proprio nel teatro di Molière e nell’opera di Da Ponte, il cui libretto è stato poi musicato da Wolfgang Amadeus Mozart. Entrambe le opere non solo mettono in scena la figura del seduttore, ma approfondiscono anche il senso di trasgressione, il conflitto con le norme sociali e la ricerca di libertà che lo caratterizzano.
La commedia di Molière, intitolata Dom Juan ou le Festin de Pierre, rappresentò un punto di svolta nell’interpretazione di Don Giovanni. Scritta nel 1665, l’opera metteva in scena un protagonista cinico, irriverente e impenitente, che sfidava non solo le convenzioni sociali, ma anche i precetti religiosi. Il Don Giovanni di Molière non è solo un libertino; è anche un ribelle filosofico, che si fa beffe dei valori morali e della fede in Dio, incarnando una forma di razionalismo estremo, scardinando l’idea tradizionale del peccatore redento, e offrendo, invece, un personaggio che, anche di fronte al castigo finale, rifiuta di pentirsi.
Qui emerge quasi come vero e proprio antagonista non l’universo sociale di cui Don Giovanni si fa beffe, ma il servo Sganarello, che rappresenta la voce del popolo e della morale comune, e che tenta più volte di riportare il suo padrone sulla “retta via”, ma senza successo. Una lettura che Cirillo in fondo abbraccia, sviluppando il personaggio in modo tridimensionale, e affidandone l’interpretazione a un valente Giacomo Vigentini, che lo porta con intelligenza fra ironia e dramma.
Il Don Giovanni di Da Ponte musicato da Mozart venne rappresentato per la prima volta nel 1787 e costituisce uno dei capolavori della musica e del teatro. Il libretto di Da Ponte, basato in parte sull’opera di Molière, arricchisce il mito con una complessità psicologica che va oltre la pura raffigurazione del libertino. Da Ponte, infatti, dipinge un Don Giovanni che sembra fuggire da sé stesso e dal vuoto della propria esistenza. L’opera si apre con il primo assassinio del Commendatore, differenziandosi, così, da molte altre versioni, nelle quali l’uccisione è solo accennata. Questo omicidio segna da subito Don Giovanni come un “eroe maledetto”, che trascina con sé una serie di personaggi e sentimenti contrastanti.
Da Ponte e Mozart introducono una profondità musicale e drammatica che permette allo spettatore di cogliere le molte sfumature del protagonista, affascinante, ma anche manipolatorio e crudele. Che ne è in questo allestimento della musica? Non scompare, ma compare qua e là a fare da contrappunto sonoro ad alcune celebri arie, come quella del Madamina, il catalogo è questo accompagnando il percorso del personaggio, e facendo risuonare in una versione registrata e semplificata, colta, ma anche popolare, la partitura mozartiana. A suonare un ensamble di pochi elementi, ma ben assortiti e ispirati.
Cirillo si muove con la sua versione fra il libertino filosofico di Molière, che si ribella consapevolmente ai dogmi religiosi e sociali, e il Don Giovanni di Da Ponte, più enigmatico e trascinato da una forza oscura che lo spinge oltre i limiti umani e a cui vogliono accennare, soprattutto nella seconda parte, le luci di Paolo Manti: spaziano da ambientazioni oscure e spettrali, fino alle accese fiamme infernali del finale, che abbagliano la vicenda e gli spettatori con l’incombere dell’inesorabile destino di ogni umano.

foto Tommaso Le Pera

Si diceva della centralità della figura del servo come contraltare: sia Sganarello sia Leporello svolgono la funzione di rappresentare la morale comune e di essere la coscienza mancata del protagonista. Sganarello, nel teatro di Molière, cerca di convincere il padrone a pentirsi, ma alla fine è costretto ad assistere impotente alla sua rovina. Leporello, nell’opera di Da Ponte, oscilla tra la paura e l’ammirazione verso il suo padrone, esprimendo la contraddizione di chi è attratto e, allo stesso tempo, respinto dalla trasgressione.
Nell’allestimento di Cirillo la fusione dei testi di Molière e Da Ponte, con l’aggiunta della musica di Mozart, alterna il tragico e il comico. Cirillo stesso interpreta Don Giovanni, esplorando non solo il mito letterario, ma compiendo un viaggio tra linguaggi diversi, mantenendo il tono beffardo di Molière e la poesia di Da Ponte, accompagnati dalla musica di Mozart, che sottolinea sia la leggerezza che il destino ineluttabile del personaggio e restituendo queste parole al teatro.
L’operazione, a ben vedere, fa da contraltare a quella recente, e ugualmente ispirata dalla musica, che era stata realizzata con il precedente Cyrano. Lì l’amore devoto e spirituale, qui quello libertino e carnale. Eppure entrambi i personaggi sono protagonisti di una titanica lotta con il destino: ma se in Cyrano l’amore vince sulla morte, qui l’ineluttabile destino dell’individuo assoggetta l’umano che tenta di ribellarsi. In un caso la prosa cerca di raccontare il poetico, il divino sentimento, nell’altro la poesia vuole raccontare la dannazione del quotidiano e del destino umano.
Cirillo affronta in modo intrigante l’archetipo che continua a suscitare interesse per la sua ambiguità morale e per la rappresentazione di un desiderio di libertà che non conosce limiti. Il personaggio, con la sua incapacità di pentimento e la sua sfida costante al divino e alla società, rimane un simbolo della tensione tra la ricerca di piacere e il bisogno di ordine morale. Don Giovanni è un eroe, un antieroe o semplicemente una vittima delle proprie passioni? Questa ambiguità rende il mito del seduttore un tema eterno, in grado di adattarsi ai valori e alle domande di ogni epoca.

DON GIOVANNI

da Molière, Da Ponte, Mozart
adattamento e regia di Arturo Cirillo

personaggi e interpreti
Don Giovanni Arturo Cirillo
Sganarello Giacomo Vigentini
Donna Elvira Giulia Trippetta
Donna Anna Irene Ciani
Don Ottavio Francesco Petruzzelli
Don Luigi Rosario Giglio
Masetto Francesco Petruzzelli
Zerlina Irene Ciani
Un povero Francesco Petruzzelli
Commendatore Rosario Giglio
Signor Quaresima Rosario Giglio
Ragotino (lacchè di Don Giovanni) Francesco Petruzzelli

scene Dario Gessati
costumi Gianluca Falaschi
luci Paolo Manti
musiche Mario Autore

assistente alla regia Mario Scandale
regista assistente Roberto Capasso
assistente scenografo Stefano Pes
costumista collaboratrice Anna Missaglia

musiche registrate Orchestra Topica: Davide d’Aló clarinetto, Roberto Dogustan chitarra sette corde, Gibbone pandeiro, Francesca Diletta Iavarone flauto traverso, Davide Maria Viola violoncello, Joe Zerbib trombone

foto di scena Tommaso Le Pera

direttore di scena Paolo Manti
capo macchinista Andrea Zenoni
datore luci Giammatteo Di Carlo
fonico Giovanni Grasso
sarta Michela Ruggieri
amministratrice di compagnia Serena Martarelli

produzione esecutiva di MARCHE TEATRO:
direttore di produzione Marta Morico
direttore tecnico dell’allestimento Roberto Bivona
produzione, distribuzione Alessandro Gaggiotti
organizzazione Emanuele Belfiore
coordinamento Sartoria Teatro delle Muse Stefania Cempini
direttore amministrativo Monia Miecchi
responsabile amministrativo produzioni Katya Badaloni
contabilità Laura Fabbietti
responsabile ufficio personale Claudia Meloncelli
capo ufficio stampa / coordinamento area comunicazione Beatrice Giongo
promozione Benedetta Morico
comunicazione e grafica Fabio Leone, Lara Virgulti

produzione
MARCHE TEATRO, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

Teatro delle Muse, Ancona | 31 ottobre 2024