ELENA SCOLARI | Donald Trump è il vecchio nuovo Presidente degli Stati Uniti, in Italia un professore (Christian Raimo) viene sospeso dall’insegnamento per tre mesi per aver offeso – fuori dal contesto scolastico – il Ministro dell’Istruzione, a Bologna si scontrano in piazza militanti di CasaPound e gruppi antifascisti. Questa è l’aria che tira.
Nelle pubblicità l’aggettivo ‘italiano’ viene cosparso dappertutto: i valori italiani, il latte italiano, il design italiano, la moda italiana… poco importa che il “made in Italy” sia effettivamente prodotto in Italy. Comunque “prima gli italiani”. Che non necessariamente sono le persone nate in Italia, per inciso.
E così Niccolò Fettarappa e Nicola Borghesi, due tra le intelligenze più brillanti del panorama teatrale odierno, si sono uniti per realizzare Uno spettacolo italiano, e cioè uno spettacolo di destra: è ciò che i due dichiarano. Eh sì, perché per domare l’onda bisogna cavalcarla, non ci sono santi. Per capire bisogna sporcarsi le mani.
Borghesi è fondatore del gruppo Kepler 452 con Enrico Baraldi e Paola Aiello, tra i loro spettacoli più noti c’è Il capitale, profonda riflessione sul lavoro e sulla fabbrica, prodotto dopo una “residenza” con gli operai della GKN di Campi Bisenzio; Fettarappa si è fatto conoscere per Apocalisse tascabile, realizzato con Lorenzo Guerrieri, una sferzante, travolgente e caustica critica della società contemporanea e della malconcia situazione in cui molti giovani si trovano.
Qui tutto comincia con l’inno di Mameli cantato in proscenio: per non saper né leggere né scrivere, con quello non si sbaglia. Come per le partite della nazionale. Del resto è una lettera del Ministro in persona a raccomandarlo.
Lo spazio scenico è delimitato da un perimetro di linee tratteggiate, ci mettiamo anche il modellino di una nave che ne difenderà i confini. Italiani. E il crocifisso veglierà sulla serata.
I due attori e drammaturghi indossano i panni di tutti i giorni ma provano – teatralmente parlando – a mettersi nei panni di ciò che non sono. Con qualche richiamo allo spettacolo Gli altri di Kepler 452, scoprono con raccapriccio che alcunepulsioni considerate loro possono essere bipartisan: come disse Giorgio Gaber, “Non ho paura del Berlusconi fuori di me, ho paura del Berlusconi in me”. Fettarappa e Borghesi attraversano allora gli stilemi nazionalisti, oggi così ben risfoderati, evidenziandone le contraddizioni, deridendo se stessi in un crescendo che pare ridanciano ma diventa sempre meno rassicurante man mano che le scene si affastellano.
Nicola e Niccolò si chiamano per nome, si chiamano in causa per introdurre la scena successiva, si raccontano l’un l’altro sogni e incubi. Non sempre i collegamenti sono ferrei ma l’impressione è che il loro pensiero si sviluppi davanti ai nostri occhi, che esempi e circostanze si presentino, in maniera anche slegata, proprio come certe idee guizzano in testa senza che se ne abbia piena coscienza. Così Fettarappa si ritrova in un rave (il primo divieto del governo ora in carica: la missione è sconfiggere il reggae) ad Anguillara, inadeguato e fuori posto, poi Borghesi, in un sogno, accetta l’offerta di un posto fisso e ben retribuito alla Rai, sale sul carrozzone abbandonando i suoi “spettacolini di sinistra”.
I due protagonisti non sono soli, in scena. Una presenza – non ancora del tutto risolta – incombe su di loro: il busto di un immaginario sottosegretario alla Cultura in gesso bianco viene svelato sotto una copertura di pluriball e interagisce con i personaggi, a turno uno degli attori lo impersona da dietro il piedistallo modificando la voce con effetti. Un elemento non facile da inserire nella dinamica drammaturgica e ancora estraneo alla disinvoltura che caratterizza la naturalezza dello stare in scena di Borghesi e Fettarappa. Non è il Gesù di Guareschi, non è il Ministro della Paura di Albanese, è un’idea statuaria e un po’ ovvia del burocrate di potere.
A un certo punto viene citata la nota (e abusata) affermazione tratta da L’idiota di Dostoevskij “La bellezza salverà il mondo”; per la precisione è una domanda che viene posta al principe Myskin, protagonista del romanzo, cui il giovane Lev Nikolàevič risponde affermativamente ma intendendo dire che per raggiungere la bellezza salvifica, quella dell’amore, bisogna prima attraversare l’inferno. Del dolore, della disillusione, della vita. Ed è quello che, mutatis mutandis,ci dicono i due autori con il loro percorso a ostacoli che tocca piccoli abissi dai quali dovremmo riemergere meno sicuri e più consapevoli.
Certo c’è il rischio che Uno spettacolo italiano parli alla consueta famiglia culturale allargata che queste preoccupazioni già le ha, un bel successo sarebbe sarebbe arrivare ai turisti dell’Egitto sicuro, per esempio, per giocare questa partita teatrale fuori casa e vedere l’effetto che fa.
La presa in giro degli spettacoli intellettualoidi di sinistra che risultano incomprensibili ai più non è forse il pungolo più nuovo e più ficcante; Fettarappa che scopre (nel cassetto del sottosegretario) che la sua vera realizzazione è diventare un carabiniere di Latina è surreale ed è oscuramente grottesco vederlo in scena in divisa. Il Fettarappa dell’Arma rievoca la canzoncina per bambini di Bruno Lauzi Johnny Bassotto, il cane poliziotto che «con le manette arresta la tua fantasia» ed esce di scena con una delle battute migliori e più amare: “e se arriva l’uomo nero, noi lo rimpatriamo”.
L’idea però più robusta e angosciante che arriva davvero a insinuarsi e a rimanere in testa, è Borghesi posseduto dallo spirito di un piastrellista emiliano di destra che prorompe dal suo inconscio.
Se la sinistra non va più in fabbrica e non incontra più gli operai e i piastrellisti allora è il piastrellista che va alla montagna. Ed entra, di prepotenza, nel subconscio di chi si è allontanato dal cosiddetto ‘paese reale’ per buttargli in faccia cosa pensa. Questa è la sequenza più riuscita e dove il nucleo delle riflessioni diventa incandescente: dire certe cose, pronunciarle, le fa sentire meno distanti e costringe a ragionarci sopra. Borghesi dialoga con il se stesso piastrellista, cerca di metterlo a tacere, cambia sedia e postura quando “l’ospite” sguscia fuori incontrollabile, è come sopraffatto da una schizofrenia interiore che non lo lascia in pace.
Il finale tragicomicamente patriottico adombra un atto velleitario ma lo spirito di Uno spettacolo italiano è condividere uno smarrimento, dare respiro a una ricerca sincera dentro al buio sociale e politico che stiamo vivendo. Fettarappa e Borghesi sono due autori che ragionano, cercano di capire, si interrogano, guardano fuori dalla finestra.
Ed è quello che bisogna fare, soprattutto quando il clima è pesante.
Il lavoro è stato appena presentato in prima assoluta al Teatro delle Passioni di Modena il 7 novembre scorso, produzione Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale, Agidi, Sardegna Teatro e sarà all’Arena del Sole di Bologna dal 18 al 30 marzo 2025.
UNO SPETTACOLO ITALIANO
prima assoluta
un progetto di e con Niccolò Fettarappa e Nicola Borghesi drammaturgia e regia Niccolò Fettarappa e Nicola Borghesi produzione Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale, Agidi, Sardegna Teatro
MATTEO BRIGHENTI | Sono come noi. Ma non sono noi. Sono i nostri interpreti. Le attrici, gli attori, riproducono la nostra immagine nello “spazio vuoto” del palcoscenico, prendendoci le misure tra le righe di un testo. Sono come specchi. Esistono perché e finché qualcunǝ sta di fronte a loro e li guarda. E così si ri-guarda. Loro, intanto, rappresentano qualcosa che non vedono perché non possono, ma fingono comunque di vederlo. Quindi, simulano. Afànisi di Ctrl+Alt+Canc, continuando nella dirompenza di voler resettare e riavviare questo sistema di segni e di relazioni già dal precedente Opera didascalica, professa la rivelazione e, di conseguenza, la dissoluzione di questo “gioco delle parti”.
Il simulacro è nudo. Non c’è il gioco, perché non ci sono le parti. Ce n’è soltanto una: lǝ spettatorǝ. La scomparsa di cui parla il titolo, mutuato da Jacques Lacan, è legata al ruolo delle attrici e degli attori. Non impersonano: sono solo tramite, funzioni. Specchi della vita che succede in sala. Di cui non sanno nulla, e non vogliono, né pretendono di sapere nulla. Perché il teatro siamo noi che guardiamo. E inizia prima e continua dopo. È un fare attraverso il dire che, nell’ultimo appuntamento di Hystrio Festival 2024 al Teatro Elfo Puccini di Milano, ritroviamo anche inTre liriche di Eat The Catfish / Ac Xenia (qui, qui, qui e qui i resoconti dal Festival di Elena Scolari, Chiara Amato, Francesca Pozzo).
A sipario ancora chiuso Raimonda Maraviglia e Alessandro Paschitto (anche autore del testo e regista) sono già sul palco della Sala Shakespeare. Le braccia incrociate, o dietro la schiena, sembrano commentare chi entra, come se presenziassero allo spettacolo, non come se lo fossero. Una volta entrato tutto il pubblico, dopo la canonica richiesta di spegnere i cellulari, arrivano le regole di ingaggio per viversi Afànisi. Il teatro non c’è, è il cielo che manda la luce di stelle già morte, il qui e ora non esiste, perché ognunǝ è diversǝ, e non può parlare che con sé stessǝ. Glɜ attorɜ sono condizione necessaria ma non sufficiente.
Il palco, vuoto, svela il terzo componente del gruppo: Francesco Roccasecca. È il terzo lato del triangolo di questo “teatro partecipato da fermo”. La scena, infatti, si fa nella testa deglɜ spettatorɜ. E comincia sempre da una parola: «Immaginate…». Le luci sono tutte accese. Non c’è rappresentazione, non c’è distanza tra noi e loro. La differenza è solamente questa: loro parlano, noi restiamo in silenzio. E proiettiamo su di loro le fantasticherie che ci immaginiamo dentro di noi.
Ctrl+Alt+Canc non ci accompagna, piuttosto ci accoglie nelle pause fissate nel testo, nei buchi stabiliti dalla drammaturgia. Lo spettacolo è la scusa per ritrovarsi in un dato luogo e attorno a un dato copione. Così, Afànisi diventa, paradossalmente, un teatro di narrazione in cui la narrazione procede per sollecitazioni immaginative e risposte mancanti, perché ognunǝ dà la sua, e la dà per sé.
È un lavoro che ti espande lo sguardo, che ti porta a vedere quello che non vedresti: è un esercizio riabilitativo dell’attenzione e dell’ascolto personali. Infatti, Maraviglia, Paschitto, Roccasecca non dialogano tanto con il pubblico quanto proprio con te, con me. Non te la raccontano: sei tu, semmai, che lo fai. La verità, come la bugia, è sempre tua.
Non è successo niente, abbiamo ascoltato e ci siamo messi in gioco. Il gioco del punto di vista. Quello che Chiara Ferrara (Premio Mariangela Melato 2024), Dario Caccuri, Jacopo Neri (anche autore e regista), si scambiano continuamente durante le Tre liriche nella Sala Bausch. Attraversano un incontro, una coppia che vuol restare tra sé, lasciando il mondo allo scuro, in quell’ombra che dà sostanza alla luce, come fa il vuoto di risposte con il pieno di intenzioni in Afànisi.
Parte di una trilogia iniziata nel 2020, quando il contatto umano era tenuto in scacco dal Covid-19, questo dialogo a distanza di monologhi al microfono esplora la concatenazione tra amore e paura: la paura del coinvolgimento, quando la relazione nasce, la paura dell’abbandono, mentre la relazione cresce, e la paura dell’oblio, appena la relazione muore. Sono immagini mentali, parole su come un sentimento, impresso in frasi che uniscono e allontanano, ti cambia, ti migliora, ti distorce, e infine ti perde.
Ferrara, Caccuri, Neri, ci dicono quanto non riusciamo a godere di quello che abbiamo, mentre ce l’abbiamo, quanto non ritroviamo noi stessɜ in chi abbiamo di fronte. Eppure, amare è rispecchiarsi, è scorgere e imparare sé stessɜ nell’altrǝ, attraverso l’altrǝ. Dovremmo aprire gli occhi, e invece li teniamo chiusi. O fissi sul cellulare, che è poi la stessa cosa. In scena, quando non si rubano la parola, si riscaldano al lume di questi specchi che non riflettono altro che le nostre allucinazioni del mondo, del nostro sprofondare dentro noi stessɜ. Così, quando l’amore passa, e finisce – forse, è questo il suo destino – viene a mancare anche la forza del microfono: la voce è nuda, spogliata dalla relazione che non c’è più, un’assenza a cui è sempre difficile e doloroso dare una vera spiegazione. Dialogano ma è come se parlassero a sé stessɜ e le altre voci fossero dentro la loro testa. E dopo? Si può amare ancora, dopo? Tra l’incontro e l’affanno, la scoperta e l’inganno, Tre liriche dice tutto il bene e il male che c’è dall’inizio alla fine di una storia. Che è la nostra, la tua, e anche la mia. In due bastava essere una metà della stessa vita. Adesso, ricominciare è tornare in possesso della propria. Dall’altra parte della solitudine.
AFÀNISI
testo e regia Alessandro Paschitto con Raimonda Maraviglia, Alessandro Paschitto, Francesco Roccasecca feat. Manuel Severino produzione Campania Teatro Festival, Ctrl+Alt+Canc si ringraziano Giulia Sangiorgio, Chiara Virgilio, Chiara Cucca, l’Asilo – Ex Asilo Filangieri
Vincitore In-Box Generation 2024 Premio della Giuria Critica a Direction Under 30 2023 Vincitore L’Italia dei Visionari – Kilowatt Festival 2023 Vincitore bando UP TO YOU 2023 Vincitore Odiolestate 2022 – Carrozzerie n.o.t Vincitore Bando Intercettazioni 2022 – Circuito CLAPS Lombardia Finalista In-Box 2024 Finalista Intransito Genova 2023 Finalista Bando Verso Sud 2022
TRE LIRICHE
drammaturgia e regia Jacopo Neri musiche Enrico Truffi con Chiara Ferrara, Dario Caccuri, Jacopo Neri produzione Eat The Catfish /Ac Xenia
Vincitore Direction Under 30 2023 Vincitore Intransito 2023 Vincitore Pillole 2023 Finalista In-Box 2024
VALENTINA SORTE | Dopo il successo di Dopo, nel 2021, e di Un nodo in gola, l’estate scorsa, nell’ambito del festival Da vicino nessuno è normale, il TeatroLaCucina ha ospitato dal 27 ottobre al 09 novembre un altro lavoro di Gabriella Salvaterra, Succede, che affronta con delicatezza e in maniera inedita il tema della violenza sulle donne, indagando le forme più svariate e sottili in cui questa si manifesta.
Salvaterra opera da sempre a livello internazionale (America Latina, Stati Uniti, Asia, Australia, Italia) ed è uno dei membri del Teatro de los Sentidos di Enrique Vargas, dove si è formata artisticamente, ma negli ultimi anni ha affermato un percorso di ricerca personale all’interno del teatro sensoriale che l’ha portata alla creazione di esperienze immersive sia all’aperto, nella natura, che al chiuso, nell’oscurità. Attraverso delle installazioni abitate, l’artista mira a creare esperienze poetiche capaci di provocare risonanze interiori e di scatenare trasformazioni individuali e collettive.
Nello specifico, questo progetto è stato commissionato nel 2021 dall’Assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Modena, e per le repliche milanese ha ricevuto il sostegno della Delegata del Sindaco alle Pari Opportunità del Comune di Milano. Si tratta di un’installazione sensoriale e immersiva per uno spettatore alla volta che non mira a denunciare la violenza di genere a squarciagola, come istintivamente verrebbe da fare, quanto a esplorare per vie sotterranee ed intime le forme di violenza che moltissime donne continuano a vivere. La violenza viene affrontata come fosse una componente intrinseca e invisibile di alcune relazioni,come impulso talvolta così sottile e impercettibile da risultare “culturalmente accettabile”, all’interno di un contesto sociale ancora oggi regolato da una forte tendenza al patriarcato. Da questa chiave di lettura nascono l’intelligenza e l’incisività del lavoro della Salvaterra.
L’installazione si configura come un percorso a stazioni, da abitare ed esplorare, lasciandosi avvolgere, nell’oscurità, da un paesaggio visivo, sonoro (a cura di Pancho Garcia) e olfattivo (a cura di Giovanna Pezzullo) molto suggestivo. Un labirinto che si muove fra narrazione, performance partecipata e installazione, un viaggio interiore da praticare in solitudine e al buio. Un viaggio che in realtà inizia prima dell’inizio. Nella sala d’attesa, lo spettatore attende infatti il suo turno avvolto in un’atmosfera ovattata, fatta di esili e incessanti bisbigli che creano come un sottofondo sonoro ed emotivo. La cultura del patriarcato è questo sottofondo, opera attraverso dinamiche spesso invisibili, è una sorta di dimensione latente ma pervasiva, parte del nostro sistema culturale e familiare. Una seconda pelle. Lì da sempre, e per questo più difficile da riconoscere come tale.
Gabriella Salvaterra, insieme ad Arianna Marano e Giovanna Pezzullo accoglie e guida i “visitatori” con molta cautela. Piano piano, con grande rispetto delle storie e delle memorie altrui. È sempre molto delicato l’accesso nella vita degli altri, bisogna procedere in punta di piedi, senza brusche intromissioni, senza alcuna sovrascrittura. La drammaturgia è per metà un puro atto di ascolto. Da una parte c’è lo spazio installativo abitato dalle performer secondo un canovaccio narrativo e un’estrema cura estetica, dall’altra c’è la relazione profonda con l’altro.
Il percorso inizia con la perdita delle proprie coordinate spazio-temporali, immersi nel buio. Come falene ci si muove verso deboli riverberi di luce, lungo dei corridoi. A volte si accede a stanze-museo, vere e proprie Wunderkammer, curate nel minimo dettaglio, affascinanti ma dall’atmosfera macabra e a tratti opprimente. Una di queste, ad esempio, sembra una stanza della “memoria”. Accumulati su numerosi scaffali, troviamo teche illuminate e barattoli di vetro in cui affogano, come immersi nella formaldeide, vecchi ricordi e cimeli d’amore, quasi reliquie. Ci saranno altre stanze simili a queste lungo il percorso, seppur diverse nel loro specifico allestimento. Ciò che le accomuna è una particolare poetica dell’oggetto. Gli oggetti sembrano essere depositari di una narrazione intima (oggetti-evento) quasi medium emotivi, ma il loro allestimento per serialità e accumulazione li riporta allo stesso tempo alla loro mera oggettualità (oggetti-cosa).
Altre volte, invece, si passa accanto a stanze-quadri da osservare dall’esterno come spazi di memoria cristallizzati, dalla grande pulizia formale. Altre volte ancora si entra in spazi installativi performati, in cui si prende parte insieme agli artisti a intense sequenze narrative. In Succede ce ne sono quattro. Per non privare i “futuri” visitatori della relazione diretta con l’opera, non mi soffermerò tanto sui dettagli delle installazioni abitate, quanto sulla loro funzione drammaturgica, anche perché Salvaterra non parte mai dal racconto del reale in quanto tale, ma lo trasla in una rappresentazione simbolica, ancora più forte dell’originale. Grumi poetici di reale.
In ognuna di queste stazioni è sempre presente una figura femminile che accoglie il visitatore e lo guida durante l’esperienza. La prima installazione esplora la perdita dei propri riferimenti identitari, con un’operazione di scomposizione e ricomposizione dell’immagine. Insieme all’acqua, la fotografia è qui di nuovo protagonista, sebbene come cancellazione di sé. La seconda installazione ha un impatto visivo ancora più forte: una serie di sottovesti femminili, sospese all’altezza dello spettatore e cucite una dopo l’altra, formano una specie di spirale che il visitatore inizia a seguire. Quanto può pesare una sottoveste? La loro leggerezza nella vita reale contrasta con la loro rappresentazione nello spazio scenico. Sembrano di piombo per tutto il peso che hanno sopportato. Piombo su piombo. Con questo peso addosso arriviamo al centro della spirale dove siamo chiamati a confrontarci con il processo di negazione a se stessi della violenza subita.
Il terzo spazio performativo assume invece la forma di un ring. Oltrepassiamo le corde e la prospettiva si ribalta. Una pugile ascolta le nostre ferite. La nostra pelle, il nostro corpo è in questo momento un atlante, con morfologie emotive in rilievo, tra altitudini e depressioni. La nostra storia trasuda dalla nostra pelle. Finiamo a terra, è buio pesto. Le nostre paure, i nostri dubbi iniziano allora a salire in superficie, risvegliate da questo percorso sensoriale e interiore.
Non è un attraversamento facile. Né per le performer, né per il pubblico. Per questo alla fine del percorso, c’è un’ultima stazione performativa, una sorta di sala della decompressione, uno spazio di recupero prima di poter tornare fuori. Una frase ci viene sussurrata in questa stanza: “Tutto passa, tutto resta”. Le piccole sopraffazioni, i piccoli soprusi quotidiani, le microviolenze passano spesso inosservate ma restano su di noi e a volte vengono a galla. Le microviolenze ci parlano di quelle macro.
Che il visitatore sia donna o uomo poco importa, il percorso è stato concepito per generare consapevolezza e produrre domande. Succede non intende infatti offrire risposte, fallirebbe il suo scopo. Al contrario, attraverso un solido impianto drammaturgico e una cifra stilistica molto riconoscibile e personale Gabriella Salvaterra costruisce un racconto sincero e profondo che invita davvero a una riflessione intima e mai rassegnata sulle forme sottili e invisibili in cui la cultura della violenza e del patriarcato si manifesta. Succede anche a me?
EUGENIO MIRONE | L’acronimo NPC significa “non-playable-character”, è un termine preso in prestito dal mondo del gaming e si riferisce all’insieme di quei personaggi non controllati direttamente dal giocatore che completano l’universo di un videogioco in quanto programmati per eseguire compiti precisi.
Negli ultimi tempi si è sviluppato un forte parallelismo tra la realtà e questi personaggi, la cui caratteristica primaria consiste nel fatto di non essere dotati di libero arbitrio. Il 2023 è stato l’anno di esplosione di questo fenomeno sviluppatosi a tal punto che oggi gli NPC streamers, ovvero persone che eseguono prompt inviati dai follower in live-stream in cambio di token spesso con finalità erotiche o feticiste, hanno un seguito enorme sulle piattaforme social, in particolare su TikTok dove personaggi come Nautecoco e PinkyDoll vantano migliaia di partecipanti alle loro live-stream.
Non sono tardate ad arrivare anche le preoccupazioni degli esperti secondo i quali queste pratiche alimenterebbero la dimensione voyeuristica dell’utente, quel desiderio di rimanere ipnotizzati per evitare di doversi sforzare a pensare. Durante queste dirette streaming, infatti, il pubblico subisce passivo lo svolgersi di un contenuto sempre uguale e privo di rielaborazione creativa nell’illusione di poter dominare la persona al di là dello schermo. Perché impegnarsi in una relazione per cui bisogna investire tempo ed energie quando con qualche clic posso avere il rapporto che desidero?
Non Player Human, l’ultimo lavoro di Simone Arganini e Rocco Punghellini, pone al centro questo singolare fenomeno che i due autori interpretano come un esempio rivelatore del «radicale cambiamento di paradigmi che stiamo continuamente sperimentando nella società post-digitale». Durante la performance verrà avviata una live-stream della durata di un’ora sulla piattaforma Twitch con l’obiettivo di ridurre il campo di libertà del performer che si trova al suo interno, Filippo Arganini. Le sue sorti verranno messe nelle mani di un pubblico sconosciuto e indefinito che con le sue scelte potrà influenzare l’andamento della performance. Non Player Human è uno dei quattro lavori vincitori del bando Residenze Digitali, il progetto che fornisce agli artisti selezionati l’opportunità di sviluppare le proprie opere pensate per abitare lo spazio digitale attraverso un percorso annuale di affiancamento con figure esperte delle tecnologie applicate in campo artistico.
Un momento centrale dell’esperienza è senz’altro l’incontro con il pubblico che anche quest’anno avrà modo di assistere alle restituzioni dei progetti, sia live che da remoto, durante la Settimana delle Residenze Digitali in programma dal 28 novembre all’1 dicembre (qui il calendario). In vista delle restituzioni abbiamo avuto modo di confrontarci con Simone Arganini, danzatore membro di ColletivO CineticO oltre che autore e sound designer, che di Non Player Human ha curato la scrittura e la regia insieme a Rocco Punghellini.
Simone, come sei giunto a intercettare il mondo NPC e perché ti ci sei soffermato all’interno della tua ricerca artistica?
In realtà ci sono arrivato in conseguenza al fatto di esser venuto a conoscenza del progetto Residenze Digitali. Io comunque come artista sono molto contaminato dall’utilizzo della tecnologia e inoltre mi sono anche formato nell’ambito della musica elettronica. Sono abbastanza un nerd, per cui già in altri lavori ho integrato la parte performativa con quella tecnica e per lo stesso motivo avevo già adocchiato da qualche anno Residenze Digitali.
Una volta che ho deciso di partecipare, ho chiesto a Rocco Punghellini di collaborare con me. Lui ha in realtà un profilo diverso, è un graphic designer e sviluppatore web con tendenze artistiche spiccate. Siamo partiti dall’idea dell’interattività e quindi del controllo che il pubblico poteva avere sul performer ed è saltata fuori questa figura del “non playable-character”.
Il fenomeno ha avuto un’autentica esplosione l’anno scorso, specialmente in seguito al successo di alcuni streamer che su piattaforme come TikTok e Twitch si prestano a eseguire ciò che il pubblico chiede loro. In seguito, provenendo dal mondo performativo, ho agganciato questo fenomeno al riferimento di Rhythm 0 di Marina Abramovic. L’ambiente però in questo caso è domestico: è un po’ come se entrassimo nella vita quotidiana di questo non-player character, che poi noi nel titolo abbiamo modificato in human.
Il concetto di libero arbitrio è alla base della ricerca, dal comunicato si legge: «Non Player Human è il tentativo dell’io di ridurre il suo campo di libertà fino a farsi oggetto, delegando a un pubblico sconosciuto e indefinito la possibilità di decidere collettivamente le sue sorti». Ma è davvero così o forse il pubblico è il vero schiavo?
Siamo partiti da una riflessione simile per il nostro lavoro e cioè dalla visione dello spazio web come un rifugio esistenziale. Per molti purtroppo il mondo online è un tentativo di fuga dalla realtà e senz’altro il fenomeno degli NPC streamer ha un forte connotato in tal senso. Mi ricorda molto il gioco alle slot machines, il meccanismo infatti è simile: le persone inseriscono compulsivamente soldi per ottenere una piccola quantità di soddisfazione in cambio.
Questa cosa un po’ ci piace riportarla nella nostra performance con la differenza che gli spettatori fra loro creano un gruppo che, pur non vedendosi in faccia, si relaziona al proprio interno. In un certo senso la relazione è più forte di quanto non avvenga ad esempio in uno spettacolo perché si viene messi a contatto con la volontà degli altri e si gioca in un rapporto di accordo oppure di disaccordo.
Quindi per certi versi il grado di libertà è maggiore, anche se comunque il pubblico è ingabbiato nel nostro gioco drammaturgico. Quel che si crea è infatti un ulteriore livello basato sulla percezione del game master (che saremmo un po’ io e Rocco), vale a dire colui che ha costruito le domande e le rivolge agli spettatori. Durante la performance non si manifesta ma il pubblico ne avverte la presenza.
Come avete lavorato insieme tu e Rocco Punghellini, vista la diversità dei vostri profili?
Durante la prima fase abbiamo buttato giù il progetto insieme. Dato che avevamo a disposizione il nostro palco, che sarebbe stato letteralmente casa mia, abbiamo fatto delle prove, delle improvvisazioni sulla base di azioni quotidiane. Con l’idea poi che fosse una performance in video abbiamo disseminato la casa di videocamere per filmarci.
Abbiamo messo le mani in pasta fin da subito insieme, soprattutto nella scrittura. A un certo punto abbiamo deciso che la performance si sarebbe dovuta sviluppare su una specie di albero di decisioni, che quindi poteva diramarsi in tante direzioni a seconda delle decisioni del pubblico. A esso forniamo, infatti, delle domande a risposta multipla e con una votazione si decide come la performance deve proseguire oppure che cosa deve fare mio fratello Filippo, il performer, in quel certo momento.
Abbiamo avuto la fortuna di avere avuto un riscontro con il pubblico in un paio di piccole occasioni che ci hanno permesso di incanalare nella giusta direzione la scrittura del copione, che si è svolta specialmente durante la residenza ad Armunia. Infine abbiamo adoperato le nostre competenze più specifiche. Diciamo che di solito alla mattina ci occupavamo della scrittura e quando eravamo ormai fusi, alla sera, ci dedicavamo alla parte tecnica.
Abbiamo sviluppato tutto noi senza l’aiuto di collaborazioni esterne. Io mi sono occupato della creazione dei suoni mentre Rocco delle grafiche e di tutta l’impalcatura per la messa in scena in streaming. Da ultimo andava progettata la regia della stream dal vivo, compito che è spettato a me, mentre Rocco durante la performance sarà il cameraman che segue Filippo per casa.
Vi hanno aiutato i tutor in questo processo?
Con Laura Gemini e Anna Maria Monteverdi abbiamo avuto un dialogo soprattutto nelle fasi iniziali, per definire il concept e la direzione che avremmo potuto dare al lavoro. In seguito, abbiamo continuato ad aggiornarci negli incontri mensili con tutti i partner, i tutor e gli artisti.
Una volta che abbiamo imboccato la nostra strada e durante la residenza siamo stati molto in full immersion tra di noi. Abbiamo avuto però un bellissimo incontro con Angela Fumarola (direttrice di Armunia n.d.r.). Lei e un piccolo gruppo di performer ci hanno dato la possibilità di fare un ulteriore test con il pubblico dentro al Castello Pasquini di Castiglioncello. In quel caso, tra l’altro, gli spettatori sono stati tutti quanti insieme in una stessa stanza a fruire dello spettacolo diversamente da quanto accade online su Twitch in cui la fruizione è singola.
A questo proposito, avete notato qualche differenza nelle scelte del pubblico tra la fruizione online e quella in presenza?
Non tanto proprio nelle scelte quanto più nel senso di comunità più forte che si è creato con il pubblico in presenza. Stando a contatto con gli altri spettatori è più facile discutere con chi c’è vicino oppure attivare il pensiero sul fatto che ci sono altre persone intorno a te, può venir da chiedersi cosa stiano votando.
Sia online che in presenza, però, si attiva un’altra dinamica interessante: da un lato si realizza che non è possibile fare ciò che si vuole perché non si è soli; ma allo stesso tempo ci si sente più facilitati a decidere liberamente dato che non si ha in mano la responsabilità del potere assoluto. È un’altra questione interessante che lo spettacolo solleva. L’impostazione è comunque piuttosto strutturat, ma il ventaglio delle scelte resta ampio e spazia dal prendersi cura delle condizioni del performer fino alla possibilità di infierire su di esso.
Infine, siamo molto curiosi di vedere cosa può succedere con un pubblico numeroso dato che finora i test che abbiamo compiuto hanno coinvolto un numero abbastanza ristretto di persone. Anche l’elemento della chat può rivelarsi interessante. Non sarà, infatti, solo il luogo delle votazioni ma verrà lasciata aperta; pertanto, con un pubblico numeroso è possibile che si inneschino discussioni interne o si creino piccole fazioni. Non ci resta che attendere il confronto durante la settimana di restituzioni.
RENZO FRANCABANDERA | Si sta svolgendo in queste settimane il Bari International Gender Festival (BIG), arrivato alla sua decima edizione, un evento multidisciplinare di idea e poetica transfemminista che si tiene nel capoluogo pugliese fino al 30 novembre 2024.
Il festival, organizzato dalla Cooperativa Sociale AL.I.C.E., si concentra sulla celebrazione delle differenze, a partire da quelle di genere, e delle identità non conformi. Attraverso performance, mostre, concerti e proiezioni, BIG esplora tematiche legate alla sessualità e alle diversità culturali, attirando un pubblico variegato e artistə di fama internazionale.
Questa edizione di BIG celebra dieci anni di sperimentazione e impegno culturale (di qui l’idea di giocare con la X numero romano ma anche lettera spesso usata per annullare le differenze di genere), evidenziando come Bari si sia trasformata in un polo per l’arte inclusiva e interdisciplinare. La manifestazione non solo celebra la diversità ma pone domande cruciali sul futuro delle identità e della rappresentazione nell’arte contemporanea, confermandosi come appuntamento fra i più rilevanti in questo ambito nel panorama culturale italiano. Il programma del festival è particolarmente ricco e diversificato, con più di venti eventi che includono l’arte contemporanea, la danza, la musica e il cinema.
Con la direzione artistica affidata a Tita Tummillo e Miki Gorizia il festival ha un programma fittissimo. A dare letteralmente il via alle danze ci ha pensato la DJ e produttrice elettronica Dasha Rush, che ha inaugurato il festival con una partecipatissima performance musicale al Teatro Kismet in cui, come suo solito, ha dato spazio alla sua visione sperimentale che fonde suono e arte digitale.
Nel panorama delle performance, il festival ospita nomi come il coreografo libanese Omar Rajeh (di cui parleremo di seguito), la compagnia italiana Dewey Dell (il 23), Beharie (il 17) di cui abbiamo già parlato di recente e il 20-21 la coreografa ivoriana Nadia Beugré, che con la sua arte esplora temi di resistenza e autodeterminazione. Tra gli ospiti internazionali, la rapper e produttrice ugandese Catu Diosis, legata al collettivo afro Nyege Nyege, porta la sua personale e potente rappresentazione della cultura musicale africana. Si chiude (fra gli altri) con Fanny & Alexander (il 27) e Gaya de Medeiros (il 30).
Il focus sull’arte contemporanea, curato da Pamela Diamante, è un altro dei momenti salienti di questa edizione, con la mostra e il talk del collettivo spagnolo Democracia, noto per le opere che indagano dissenso e conflitto sociale. La mostra Enjoy the Collapse, realizzata in collaborazione con Spazio Murat, include anche l’artista Nuria Güell, la cui ricerca si concentra sulle dinamiche di potere e sulle forme di resistenza politica e sociale. A completare l’offerta artistica, la Fondazione Pino Pascali di Polignano a Mare ospiterà la performance di Nunzia Picciallo, un’indagine sul corpo come spazio di affermazione identitaria.
Il festival è completato da una selezione cinematografica che include, fra documentari e cortometraggi, anche il film No Other Land di Basel Adra, proiettato al Cinema ABC il 10 novembre, un’opera che affronta i conflitti in Palestina e che è stata presentata anche alla Berlinale.
Abbiamo assistito in questa edizione a Dance is not for us di Omar Rajeh, figura influente della danza contemporanea e di collegamento fra Europa e mondo arabo. Dance is not for us è una performance che unisce in una indagine profonda riflessioni sull’identità, la memoria e il potere.
Coreografo e fondatore della compagnia Maqamat, Rajeh ha lavorato a lungo in Libano dove ha creato festival come BIPOD e piattaforme per la danza aperte a giovani artistə mediorientali, ma ha dovuto lasciare Beirut per la Francia nel 2019, spinto dall’instabilità politica e da un sistema politico locale oppressivo. Questo passaggio ha influenzato profondamente la sua visione artistica e Dance is not for us è diventata, in un certo senso, una risposta a questo vissuto. Già con Minaret (ospitato a REF 2018) e Beytna (Torino Danza 24) l’artista ha sviluppato una poetica recente che affronta i temi dell’oppressione che deriva dalla stratificazione gerarchica delle società dentro un contesto che rievoca uno specifico rimando alla geografia mediorientale, riservando all’arte il ruolo della liberazione da questa dimensione schematica di cattività dell’espressione umana. La performance, che incorpora e sovrappone momenti di danza e narrazione testuale, offerti al pubblico con la videoproiezione di testi a fondale, esplora il passato, le vicende del proprio vissuto che si sovrappongono ai grandi fatti della storia libanese recente, come un’eredità intima e ineludibile, trasformandolo in un viaggio tra ricordi personali e una critica più ampia alla realtà politica.
Sul palco, Rajeh utilizza una combinazione di movimenti estremamente fisici e gesti ritmici, a volte contratti e improvvisi, soprattutto con la parte superiore del busto, e che sembrano richiamare memorie sepolte e vissuti dolorosi. Attraverso il corpo, Rajeh esplora come la danza possa sfidare le convenzioni e diventare uno spazio per interrogarsi su ciò che ci definisce e su ciò che ci limita. Nella performance, il coreografo sembra trasformarsi in un archivio vivente: il suo corpo diventa mezzo per dare voce a un passato bloccato e rielaborarlo per adattarsi al presente. L’uso della danza come strumento di resistenza e di riflessione è centrale nel lavoro di Rajeh, che cerca di rendere l’arte uno specchio del mondo sociale e politico che lo circonda.
L’elemento naturale del coreografo libanese, in questa coreografia gioca un ruolo profondamente simbolico e visivo, portandone in scena la potenza di raffigurazione in una danza che esplora il legame con il potere anche attraverso il legame tra natura e corpo, la resilienza e la sofferenza. La natura, che rimanda a visioni dell’infanzia, all’hortus conclusus delle piante officinali della casa di famiglia, diventa anche simbolica rappresentazione di qualcosa che si vuole lasciare allo spettatore, come testimonianza di cui continuare a prendersi cura per far crescere i semi: una metafora per la condizione umana, in cui l’elemento naturale non è solo un semplice scenario ma diventa protagonista e specchio dell’anima del danzatore che dopo un prologo in cui è seduto mentre alle sue spalle vengono proiettati testi che ricordano il passato recente, torna in scena proprio con una pianta di asparagus in una geografia scenica disseminata di piantine di basilico. Attraverso l’uso di movimenti fluidi e a tratti violenti, Rajeh rappresenta l’instabilità e la precarietà del vissuto, in cui l’individuo è in costante lotta con forze che lo opprimono, ma che ha una sorta di dovere morale di resistere e riappropriarsi della libertà di espressione.
Chi può dire cosa dobbiamo danzare? Il corpo di Rajeh, che si avvolge e sviluppa movimenti ora frenetici, ora di costrizione, esprime la fatica e la resilienza di chi lotta per sopravvivere in condizioni difficili (emblematico il richiamo nei testi a fotografie che ricordano questo o quel momento dell’esperienza dell’artista, con immagini che però non vengono proiettate, e quindi lasciate ad un vuoto immaginativo che è compito dello spettatore riempire). Rajeh nell’affollato talk a fine performance, ha invitato il pubblico a riflettere su come la danza, l’atto artistico, possa essere un atto di resistenza e di testimonianza, portando in scena non solo la tragicità della memoria collettiva, ma anche e soprattutto la forza di riappropriarsi dell’esperienza artistica per rompere gli schemi gerarchici. Il corpo umano, così come la natura, è esposto e vulnerabile, e l’elemento naturale simbolicamente raffigurato dalle piantine di basilico regalate al pubblico alla fine della performance, ne amplifica la condizione fragile, ma propone anche il rimedio dell’accudimento e del far crescere, in un dialogo intimo che richiama la forza primordiale che ci connette tutti al mondo.
Abbiamo rivolto anche alcune domande alla direzione artistica del Festival, Tita Tummillo e Miki Gorizia.
L’edizione di quest’anno del festival ha come titolo X. Che messaggio porta dentro questa denominazione?
“X” è tutto quello che non si può/deve/riesce a dire, non trova parole ed esplode nel petto, nello stomaco, nella bocca. E si incarna nei corpi – della performance, degli/dellə artistə, del nostro team, del nostro pubblico, della nostra città – nell’alterità degli incontri, nella chimica dello stupore, nel disorientamento di fronte all’ignoto, nel tempo che si ferma, scorre o si dilata.
Ma questa edizione ha dentro anche questo compleanno. Una ricorrenza simbolica non banale, dimostrazione di una tenacia di azione e pratica sul territorio, che ricordate anche nel titolo, con la X.
10 anni di BIG! Di visioni differenti, immaginari insoliti, generi indefiniti, formati scomposti, mutazioni di sguardo, transizioni disciplinari. Di resistenza, culturale, irriverente, nella città di Bari, che comincia a delinearsi e farsi storia, allargare reti, aprire partecipazioni, consolidare posture.
L’esperienza accumulata in questi anni è un valore o c’è sempre qualcosa che arriva ancora a sorprendervi?
Pensavamo di aver fatto esperienza di tutto e invece X.
Gli eventi muovono verso X scenari apocalittici, disastrosi, brutali, e noi prontamente rispondiamo con X danze rituali e catartiche, azioni di posizionamento chiaramente X, storie di margine e confine XXX, scosse di attenzione. Aprite le orecchie, spalancate gli occhi!
Sembra una sorta di invito, il vostro, a rivivere una frenesia esistenziale, un gemito di vitalità libera, come fa Rajeh nella sua performance, insomma.
Eco, flauto magico, magnete di creature meravigliose, apparizioni, presenze, il BIG X compone un programma xxx la cui somma delle singole parti non può che dare come risultato una gigantesca X. Magma, organismo, blob informe. Schegge impazzite, traiettorie fenomenali, attrazioni fatali. Nell’incognita come condizione dell’esistenza, il BIG, esperimento costante, ritrova l’equazione stessa del godimento.
RITA CIRRINCIONE | È la serata inaugurale della V edizione di Prima Onda Fest e siamo nel piccolo foyer del Teatro Garibaldi di Palermo. Tra il pubblico che staziona in attesa dello spettacolo e i tanti “addetti ai lavori” presenti si coglie una certa emozione: per molti di loro questo luogo non è solo un teatro – il teatro dove sono passati artisti come Carlo Cecchi, Peter Brook, Wim Wenders, Emma Dante, Davide Enia, solo per citarne alcuni – ma un luogo che per una generazione di lavoratrici e lavoratori dello spettacolo palermitani ha rappresentato “casa”, uno spazio dove incontrarsi, sperimentare, ricercare, provare, in quella esaltante stagione del TGA – Teatro Garibaldi Aperto – iniziata nell’aprile del 2012 quando, sull’onda del Teatro Valle di Roma, fu occupato.
Piccolo teatro all’italiana situato nel quartiere arabo della Kalsa, sin dall’inaugurazione (nel 1862 per mano di Garibaldi) è stata segnato da alterne vicende: a brevi periodi di attività sono seguiti lunghi periodi di abbandono, durante i quali è stato saccheggiato e spogliato di ogni arredo, per ritornare più volte a risorgere come un’Araba Fenice. Ma dietro ogni riapertura non c’è alcuna suggestione mitologica come per il leggendario uccello, solo la volontà di artiste e artisti – in questo caso gli organizzatori di Prima Onda – che ancora una volta l’hanno ripulito e sottratto all’incuria e al degrado per restituirlo alla città.
Ideato da Genìa LabArt, “collettivo multidisciplinare di realtà produttive nel campo del teatro, della danza e della musica” presieduto da Sabino Civilleri,anche per questa edizione Prima Onda Fest si è avvalso di una terna di direttrici artistiche: Manuela Lo Sicco, attrice, regista e coreografa, Premio Ubu 2021, per la sezione teatro; la danzatrice e coreografa Giovanna Velardi per la danza; Valeria Cuffaro, dell’associazione Curva Minore, per la parte musicale. Si aggiunge Cristina Alga, che ha curato i progetti dedicati alla comunità, in sinergia con il territorio delle periferie della Città Metropolitana di Palermo.
A partire dal 23 ottobre fino al 3 novembre questa V edizione ha inondato la zona sud-occidentale di Palermo con più di trenta spettacoli, performance, concerti, incontri, workshop. Dal Teatro Garibaldi il festival si è propagato in altre sedi, come l’Ecomuseo Mare Memoria Viva, i Cantieri Culturali alla Zisa, il piccolo Teatro Atlante, con tappe all’aperto come le improvvisazioni musicali Oreto Blues di Curva Minore al Ponte dell’Ammiraglio, le performance itineranti sulla foce del fiume Oreto (Costa Sud – Come l’acqua che scorre di Emilia Guarino e Lina Issa) e persino a bordo di un’imbarcazione al porto turistico della Cala (L’isola desiderata, narrazione di Dario Muratore).
Il festival ha avuto un’anteprima l’11 ottobre negli spazi della Vicaria con Essain / Atelier aperto, sul metodo formativo di Emma Dante, da lei condotto insieme a Sabino Civilleri, e un’appendice il 7 novembre con lo spettacolo Dis/incanto di Daniela Mangiacavallo all’interno del carcere di Pagliarelli. RLM-Rapid Life Movement, con la regia di Rémy Boissy e la coreografia Sandro Maria Campagna, presentato in collaborazione con il Festival Teatro Bastardo, apre la prima settimana di Prima Onda Fest sulla quale si focalizza questo articolo.
Si tratta di una performance di teatro fisico, frutto del lavoro corale del Collettivo Fearless Rabbits che, attraverso una serie di dinamiche attivate da un dispositivo scenografico, rappresenta allegoricamente la capacità del corpo di superare limiti e ostacoli, come pure l’incessante processo di adattamento dell’uomo all’ambiente circostante, e la continua sfida dell’umanità alla ricerca di nuovi spazi vitali.
Da una griglia metallica appesa al centro della scena, come una sorta di grosso lampadario, pendono decine di lame in acciaio di diversa larghezza, alternate a lame di plastica trasparente, e collegate a un sistema di cavi e carrucole posto alle spalle della scena. Con questo dispositivo dalla meccanica manuale, che ricorda certe macchine protoindustriali, Sylvain Dubun, artefice-demiurgo, con impassibile arbitrarietà manovra verticalmente le lame, che vanno a “tagliare” lo spazio scenico in cui si muove Joël-Elisée Konan.
Sulla base di una serie di variabili esterne – quantità di lame abbassate, forma dello spazio disegnato, durata della sequenza – e del tipo di disposizione interna – adattamento, reattività, difesa – la risposta del performer dà vita a una creazione coreografica e drammaturgica in cui, in un gioco di rimandi simbolici, momenti di oppressione e di chiusura si alternano a momenti di gioco, di ricerca e di sfida creativa, in cui il limite sembra diventare una risorsa. Fino a quando, con un clangore assordante, l’installazione giunge al collasso finale.
Isabel Green di Emanuele Aldrovandi, per la regia di Serena Sinigaglia, mette in scena il disagio del successo e quella specie di maledizione della vittoria che sopraggiunge quando una meta tanto sognata viene finalmente raggiunta lasciando, per assurdo, un senso di infelicità e di vuoto.
Isabel Green (Maria Pilar Perez Aspa) è una diva di Hollywood che ha appena vinto l’Oscar come migliore attrice protagonista e si appresta a pronunciare il suo “discorso di accettazione”. La vediamo sul podio nella raggiante solennità del momento, al centro di una scena fissa, con un fastoso abito da cerimonia rosso e la statuetta in mano. Ma proprio in quel momento qualcosa dentro di lei si spezza: in una forma di scissione interna, la diva trionfante cede il passo alla donna impaurita da un futuro che teme di non poter reggere, e tormentata da un passato di rinunce, di sacrifici e dai sensi di colpa nei confronti del figlio che ha sempre dovuto trascurare.
Nel monologo non mancano momenti tragicomici che mitigano la tensione emotiva, come quando Isabel si rivolge in modo improbabile al pubblico presente alla cerimonia o ai suoi colleghi di Hollywood chiamandoli in causa: «Meryl, Leonard, Julia!». Ma la diva fa sempre più fatica a ignorare paure e sofferenze a lungo soffocate che continuano a venire a galla finché, in una drammatica escalation, prendono il sopravvento esplodendo in un finale imprevedibile.
Into the silence è un progetto di Yuval Pick, coreografo israeliano naturalizzato francese e attuale direttore del CCN di Lione, che si basa sul metodo denominato Practise elaborato dallo stesso Pick e utilizzato come pratica quotidiana della sua compagnia (un workshop incentrato su questo metodo si è tenuto durante il festival presso l’Area Madera). In questo lavoro intorno a “corpo immaginario” e “space between”, inteso come luogo di relazione e di creatività, i cinque fondamentali della Pratica – rotazione del corpo, trasferimento del peso, spostamento dal centro alle periferie, spazio di mezzo, intenzione del movimento – non hanno solo la funzione di sviluppare le potenzialità corporee del danzatore, ma sono messi al servizio della creazione coreografica.
Ispirato dalle Variazioni Goldberg di J.S. Bach nell’interpretazione della pianista americana Rosalyn Tureck, più lenta e con più intervalli in cui inserire la danza rispetto ad altre versioni, Into the silence si compone di un duetto femminile e di un assolo maschile.
Nel primo – in una scena vuota, un contenitore nero delimitato da linee di luci led – due danzatrici con specificità fisiche e registri espressivi molto diversi tra loro (Noémie De Almeida Ferreira e Madoka Kobayashi) esplorano ciascuna il proprio spazio personale, inizialmente ben delimitato, e che gradualmente si amplia verso una dimensione relazionale: in un gioco di alternanza tra avvicinamenti e distacchi, sintonie e opposizioni, le due performer si aprono al contatto e vanno alla ricerca di un possibile accordo, per tornare, infine, quasi in una forma di ritiro, alla dimensione individuale e, poco dopo, uscire di scena.
Con un stacco piuttosto netto, segue l’assolo di Guillaume Forestier che con ampi movimenti a spirale e impetuosi attraversamenti, un po’ esibiti, occupa incontrastato lo spazio scenico, introducendo nella performance una ben diversa qualità di movimento per dinamicità, decisione e ampiezza del gesto rispetto al duetto femminile precedente.
Entrambe le due parti che compongono Into the silence – che risultano giustapposte senza un’apparente integrazione – risentono, comunque, di un eccesso di tecnicismo legato, probabilmente, alla loro matrice di studio e di training, a scapito di un più arioso respiro creativo.
Animale, pluripremiato progetto coreografico di Cosimo Lopalco e Francesca Foscarini, interpretato da quest’ultima, è ispirato alla figura del pittore Antonio Ligabue, al mondo animale al centro della sua opera e alla natura che vi fa da sfondo. Quella di Ligabue è una natura che urla, fatta di dolore e di lotta, dove si uccide e si è uccisi, ma è anche una natura in cui l’animalità può trovare il suo punto di incontro con l’anima, come suggerito dalla radice etimologica che accomuna le due parole-concetto sulle quali i due autori hanno indagato.
Ma l’ispirazione presa dal pittore italo-svizzero e dalla sua poetica non è di tipo concettuale: Animale è la testimonianza incarnata del suo corpo dolente su cui la natura e la vita hanno lasciato delle ferite e al quale lui stesso, con i suoi ripetuti gesti di autolesionismo, ne aveva inferto.
Durante quasi tutta la performance di Francesca Foscarini assistiamo quasi con un certo disagio a un corpo al quale non è risparmiata alcuna caduta, un corpo massacrato, quasi a espiare la colpa di essere nato. Solo verso la fine insperata arriva un po’ di pace, e con essa la bellezza di un fiore che si schiude e di una farfalla che si alza in volo.
RLM-RAPID LIFE MOVEMENT regia Rémi Boissy
con Joël-Elisée Konan e Sylvain Dubun
scene Vanessa Sannino
coreografia Sandro Maria Campagna
colonna sonora Jean-Pierre Legout
tecnico del suono Solange Fanchon
costruzione Sylvain Dubun
produzione Akompani-Amandine Bretonnière
spettacolo presentato in collaborazione con Teatro Bastardo
ISABEL GREEN
progetto e regia Serena Sinigaglia
testo Emanuele Aldrovandi
con Maria Pilar Pérez Aspa
scene Maria Spazzi
luci Alessandro Barbieri
musiche originali Pietro Caramelli
voce fuori campo Gianluigi Guarino
assistente alla regia Giorgia Aimeri
assistenti alla scenografia Erika Giuliano, Clara Chiesa, Marta Vianello
produzione ATIR
con il sostegno di Next 2017
in collaborazione con il Centro Teatrale MaMiMò
INTO THE SILENCE
coreografo Yuval Pick
assistente coreografo Sharon Eskenazi
interpreti Noémie De Almeida Ferreira & Madoka Kobayashi (duet) Guillaume Forestier (solo)
musica Jean-Sébastien Bach
luci Sébastien Lefèvre
costumi Gabrielle Marty
produzione CCNR Centre Chorégraphique National de Rillieux-la-Pape
coproduzione Scenario Pubblico–Compagnia Zappalà Danza, Catania
residenze L’Échappée—Médiathèque de Rillieux-la-Pape
ANIMALE
ideazione e creazione Francesca Foscarini e Cosimo Lopalco
interpretazione Francesca Foscarini
co-creazione Romain Guion
musiche originali Andrea Cera
video Licorne Maider Fortune
disegno luci e cura della tecnica Luca Serafini
consulenza e programmazione videoproiezione Andrea Santini
voci Miki Seltzer in Genesi 2 (19-20), Bela Lugosi in Bride of the Monster Ed Wood
suoni Seals Martin Clarke,Summer Sunset Eckhard Kuchenbecker, Tikal Dawn Andreas Bick
PRIMA ONDA FEST è un progetto di Genìa LabArt Palermo
direzione artistica Manuela Lo Sicco – teatro / Giovanna Velardi – danza / Valeria Cuffaro – musica / Cristina Alga – Ecomuseo
realizzato con il contributo di MiC – Ministero della Cultura, Regione Siciliana, Assessorato Turismo Sport e Spettacolo, Comune di Palermo – Assessorato alle Culture, Città Metropolitana di Palermo
con il sostegno di Università degli Studi di Palermo – Corso Triennale di Studi DAMS / Institut Français / CoopCulture / Associazione PinDoc / Curva Minore / Teatro Biondo Palermo
in collaborazione con Ecomuseo Urbano Mare Memoria Viva / Teatro Atlante / Area Madera / Atto Unico – Sud Costa Occidentale / Diaria – Didattica Arte Ricerca Azione / Baccanica / Ministero della Giustizia – Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria – Direzione Casa Circondariale “Pagliarelli” / Lega Navale Italiana – Palermo / Teatri di Vetro – Triangolo Scaleno Teatro / Settimana delle Culture / Teatro Bastardo
Prima Onda Fest – V edizione | Palermo, 23, 24, 25, 27 ottobre 2024
EUGENIO MIRONE | Da giovedì 28 novembre a domenica 1 dicembre torna La settimana delle Residenze Digitali (qui il calendario), l’occasione per assistere alla prima restituzione, online e/o in presenza, dei progetti artistici vincitori del Bando delle Residenze Digitali, call che ogni anno, dal 2020, supporta artiste e artisti nell’esplorazione dello spazio digitale e che, da quest’anno, presenta due novità principali.
Innanzitutto, l’espansione della rete di collaboratori che supportano l’evento che arriva a estendersi anche in Sardegna e in Friuli-Venezia Giulia con l’aggiunta di due nuove realtà: il Centro di produzione di danza e arti performative Fuorimargine di Cagliari, e l’Associazione Quarantasettezeroquattro (In\Visible Cities – Festival urbano multimediale) di Gorizia.
Un ulteriore ampliamento ha interessato il comparto dei tutor, da quest’anno composto da quattro membri. Si tratta di figure esperte nell’ambito della creazione digitale, che hanno modo di monitorare e fornire il loro supporto ai quattro progetti vincitori lungo il corso delle residenze. Per le prime quattro edizioni in questo ruolo si sono distinte Laura Gemini, Anna Maria Monteverdi e Federica Patti, per questa quinta edizione si è aggiunto anche Marcello Cualbu, professionista con alle spalle un lungo passato nel mondo delle arti digitali.
I progetti di cui verrà data una restituzione nell’arco della 5ª edizione delle residenze digitali sono: Non Player Human del danzatore Simone Arganini e del designer digitale Rocco Punghellini, una performance interattiva su Twitch che, attraverso la figura del “Non-Playable-Character”, porta in scena le tensioni esistenziali dell’essere umano, interrogandosi sulle dinamiche relazionali e di potere che si creano in presenza di un soggetto controllato in un contesto di live-stream; Radio Pentothal, dell’attore e regista Ruggero Franceschini,è una radio ispirata dal personaggio di Andrea Pazienza e dalla storica Radio Alice, i cui contenuti sono generati da un programma di intelligenza artificiale addestrata con materiali della controcultura degli anni ‘70; Spazio latente di Filippo Rosati,fondatore di Umanesimo Artificiale, è un’esperienza digitale immersiva che porta il pubblico in un teatro anatomico virtuale dove l’innesto di un impianto cerebrale consentirà la modifica da parte del pubblico delle memorie del paziente, un lavoro che s’interroga sul rapporto tra tecnologia, arte e coscienza umana; Metabolo II: Orynthia di Valerie Tameu è un rituale cyber-magico, in cui il movimento del corpo umano, quello di un biota acquatico e un software di intelligenza artificiale collaborano per dare vita a un’entità numerica, una figura ispirata alla leggenda della Mami Wata, divinità acquatica proteiforme dell’Africa occidentale ed equatoriale.
«La quinta edizione della settimana delle Residenze Digitali porta all’attenzione di pubblico e operatori quattro artisti fortemente motivati a lavorare nello spazio digitale online, con progetti realizzati dal vivo che domandano allo spettatore una partecipazione relazionale e interattiva: sempre più il nostro lavoro si avvicina agli obiettivi che avevamo pensato quando lo abbiamo avviato nel 2020, ovvero aprire nel panorama teatrale e coreografico italiano uno spazio che prima non c’era» dichiarano Lucia Franchi e Luca Ricci, direttori dell’Associazione CapoTrave/Kilowatt e coordinatori insieme ad Armunia del network Residenze Digitali.
L’evento, oltre a rappresentare un momento celebrativo, è soprattutto una tappa di crescita per i lavori artistici, in quanto occasione di contatto con il pubblico. Per l’occasione abbiamo avuto il piacere di dialogare con Marcello Cualbu, alla sua prima esperienza come tutor all’interno del progetto.
Marcello, cosa ti ha spinto a prendere parte al progetto Residenze Digitali in qualità di tutor?
Da anni faccio il tutor all’interno del progetto Fase XL ideato e promosso da C.U.R.A. – Centro Umbro Residenze Artistiche di cui è membro anche La Mama Umbria International. Visto che La Mama Umbria è una delle realtà del progetto delle Residenze Digitali, mi è stato proposto questo incarico che ho trovato fin da subito interessante.
Mi definisco un topo da laboratorio; gran parte della mia attività formativa e di tutoraggio, infatti, si svolge negli spazi di produzione. Ho sempre le mani in pasta, insomma. Per questo, mi è sembrato un po’ strano, all’inizio, pensare di dover svolgere il tutoraggio da remoto; ma devo dire che mi sono trovato abbastanza bene. Per certi versi questa modalità mi ha permesso di essere meno impulsivo in certe scelte. Per uno molto tecnico come me non è così immediato, infatti, fare tutoraggio a degli artisti con i quali il riscontro empirico non è istantaneo.
Che progetti hai seguito?
Ho avuto modo di seguire Metabolo II: Orynthia di Valerie Tameu e Radio Pentothal di Ruggero Franceschini. Con Valerie in parte ho già collaborato e conosco bene la sua poetica e le sue capacità; il progetto di Ruggero, invece, mi ha interessato molto per la tematica, sia dal punto di vista sociale e politico, sia dal punto di vista della ricerca sull’intelligenza artificiale.
Gran parte del lavoro per il suo progetto è stato adoperato nella generazione di un modello linguistico basato sull’AI e addestrato tramite un archivio che lui è riuscito a comporre. L’idea alla base del lavoro, infatti, è quella di provare a creare una forma di radio, non dico autonoma, ma quasi. E devo dire che il modello interagisce piuttosto bene.
Nel progetto di Valerie, invece, il discorso è un po’ più complesso dal punto di vista dell’addestramento delle macchine. Trattandosi di danza, è stato necessario lavorare per dare la possibilità all’intelligenza artificiale di acquisire moltissime posizioni performative, creando un sistema in grado di prevedere ciò che una persona si sta apprestando a fare.
Sembra un lavoro lungo e complesso, ma arriva un momento in cui l’addestramento finisce e la macchina è pronta?
Assolutamente sì, a un certo punto questo processo si ferma. Ci è voluto tempo, anche perché la parte più complessa è raccogliere il materiale e uniformarlo. Alla base c’è sempre un lavoro di ricerca. La parte tecnologica, in realtà, non è complessa, quella più difficile è quella “umanistica”, vale a dire andare fisicamente e digitalmente negli archivi per consultare fonti e documenti.
Quando parliamo di intelligenza artificiale, sembra che parliamo di chissà che cosa, in realtà il grosso è sempre una ricerca molto umanistica. I cambiamenti in quest’epoca storica avvengono molto velocemente. Quando lavoravo a questi progetti anche solo cinque anni fa mi accorgevo che la forza principale era data da un grande apporto tecnologico: codici informatici, hardware o comunque software molto complessi. Adesso c’è stata una distensione da questo punto di vista, perché l’intelligenza artificiale aiuta moltissimo nell’utilizzo di questi strumenti e anche perché l’oggetto della ricerca sta mutando.
La forza tecnica perde un po’ di potenza, diventano molto più interessanti, invece, le capacità di ricerca umanistica come la concettualizzazione di un soggetto e la successiva creazione della richiesta alla macchina per farlo analizzare. Ad oggi passo molto più tempo sui libri di storia dell’arte o di sociologia che non a guardare tutorial di programmazione informatica.
Quali possono essere allora gli orizzonti delle arti performative (e del teatro in particolare) con il consolidamento nelle nostre vite dell’intelligenza artificiale?
Devo dire che ultimamente trovo molto più dinamico questo scambio, mentre prima il colloquio tra arte (non solo performativa) e tecnologia era in genere una scelta stilistica. Oggi viviamo totalmente immersi nella tecnologia e nel digitale, tutte le arti sono intrise di questa contaminazione, perciò non penso si possa parlare più di una scelta. In più, la tecnologia dell’AI sta velocizzando moltissimo questi processi in maniera massiva.
Personalmente, però, sono del parere che la tecnologia quando non la si vede è sempre meglio. Non sono mai stato un amante dei grandi allestimenti con un utilizzo importante della componente tecnologica. Va benissimo usarla, ma non trovo che la sua vera forza sia come strumento scenico.
Al contrario, l’intelligenza artificiale ti dà la possibilità, ad esempio, di migliorare la fase di ricerca. Usciamo da un periodo di forte isteria nei confronti dell’applicazione della tecnologia alle arti performative, in cui spesso si vedeva un sacco di roba sul palco.
Ti riferisci a un passato recente?
Sì, certo. Gli ultimi dieci/vent’anni. Sembrava quasi un obbligo dover portare in scena questo richiamo alla tecnologia che, però, era ancora in una forma un po’ barocca.
Uno dei punti di forza del progetto Residenze Digitali consiste nel promuovere il binomio teatro/danza e creazione online in un Paese, l’Italia, tra i meno digitalizzati d’Europa in cui, inoltre, per la maggioranza della popolazione l’idea di teatro prevalente è ancora ferma al passato. Come vedi la situazione odierna? Può l’evoluzione in campo artistico aiutare la transizione digitale in senso più ampio?
Viviamo in un Paese che dal punto di vista espressivo ha forti connotati conservatori, non solo tra il pubblico, ma penso anche tra i produttori. È vero che la percezione dell’arte performativa è cambiata moltissimo negli ultimi anni, però la ricerca viene sempre posta tra il rapporto tra pubblico e artista. E io non credo che funzioni tantissimo questa cosa. Non vedo l’uso della tecnologia come un medium interessante per unire pubblico e artista, non è lì secondo me il punto. Ancora non ho capito bene quale sarà, se ci sarà, un punto di giuntura che vedrà la tecnologia come propulsore; ma al momento non vedo niente di interessante all’orizzonte.
Bisognerà continuare a cavarsela come si è sempre fatto in passato, ricercando sempre nuove forme. Il tentativo di ricreare un effetto forte tramite l’uso della tecnologia è destinato a fallire, perché è davvero difficile mettersi in competizione con ciò che fa parte della nostra quotidianità, che già è assurdo. Al contrario, invece, l’uso della tecnologia come propulsore di alcuni aspetti umanistici, secondo me, è molto interessante. Quello avrà un grande successo, immagino che sarà inevitabile.
Si aggiunga poi che il riferimento all’AI ormai sembra che abbia inglobato un po’ tutto il discorso sull’uso della tecnologia. Le persone, in gran parte dei casi, vedono questo strumento come un fornitore di risposte, quando invece, fondamentalmente, credo che l’intelligenza artificiale sia un grande archivio spaziotemporale e noi dobbiamo essere capaci di consultare questo archivio con le parole giuste, con le richieste giuste.
La ricerca con l’AI è molto più attiva, per questo motivo la cultura pregressa di chi consulta gioca un ruolo fondamentale. Oggigiorno la vera sfida è riuscire a consultare questo grande archivio in maniera sensata e riuscire a ottenere dei risultati interessanti.
Paradossalmente, siamo anche noi che ci dobbiamo addestrare a fare una ricerca.
Questo è un altro discorso gravoso, perché l’uso della lingua comincia a diventare una discriminante molto forte, molto più escludente delle capacità tecnologiche. Imparare un codice informatico è relativamente più semplice: posso farlo io, puoi farlo tu e possono farlo anche nell’altro emisfero in maniera agevole.
Al contrario, invece, la cultura pregressa e la capacità di utilizzare il linguaggio per concettualizzare un’idea o un immaginario non è una cosa scontata. È una capacità che va allenata e in cui la discriminante è la costruzione della propria cultura. L’intelligenza artificiale semplicemente mette a nudo questa situazione. Mi accorgo di quanto sia escludente non possedere questa capacità e lo trovo abbastanza pericoloso.
GIANNA VALENTI | In the following text, Alain Platel — internationally renowned choreographer and director who has profoundly shifted with his work the history of Western theatrical dance — writes about his life and career, from the early experiments with a group of friends to the foundation of les ballets C de la B in 1984, from the success of a new relational and choreographic model to the internationalization of his work beyond the Belgian borders, up to his most recent research in the post-covid era. A narrative that is both artistic and personal and that reflects the main identity of his choreographic blueprint: the human as the leading dramaturgical focus and the richness and uniqueness of each performer/person as the deep reason for being of every creation and as the guiding principle to the composition of the materials.
Platel has responded with this text to my invitation to leave a testimony on the essence of his creative path, on that unique creative frequency that he has embodied in the world of dance and which has had — and continues to have — an impact on the world at large through his works. Among the proposals I had made, he has chosen to write “a letter to the future”, a form of communication that allows a space of reflection for both the writer and the recipient: a sort of Time Capsule for the future of choreography and humanity.
I’m happy to have received it. He has written it for all of us and I hand it over to you.
Officially, I’ve already been “retired” for three years, but it was only last summer, after the presentation of one of our last creations, Mein Gent,that it became real: to wake up on August 3rd 2024 realizing, for the first time in 40 years, that I had no urgent responsibilities and that nobody was expecting anything from me… I can recommend it! That’s how it was during those last summer months, when my companion Isnelle, our dog Kito and I celebrated it with a beer nearly every evening on our terrace!
As it was well known, and often questioned, that I rarely appeared on stage after a performance, it was no surprise that I didn’t want a goodbye party and that I even threatened to walk away from it if anybody would organize one. They knew I was bloody serious about that, so nobody tried!
When I look back and zoom out, I’m amazed at everything that has happened with me in these last forty years. Because… in reality, I’m quite shy and insecure as a person, so to become in a certain way and to be at certain times so exposed, was often very contradictory to who I feel I am. But above all, my first ambition in the eighties was to become a good Orthopedagogue (remedial teacher), because that’s what I had studied, Psychology and Pedagogics. And when in the mid eighties we started making little performances with friends, it was mainly to have a reason to get together, drink cheap wine, smoke cigarettes and talk about how we would change the world. Very inspired by the German choreographer Pina Bausch (who used her dancers’ personal histories as an inspiration for her performances) and by the French pedagogue Fernand Deligny (who decided to live with children with a severe mental disorder instead of working with them in psychiatric hospitals), I started making performances that were poor copies of scenes inspired by Bausch’s Café Müller and as there were no social media in those days, we could easily get away with that. Some Flemish young theater directors followed and presented our work, but since there was no money, all of us had to find a real job elsewhere just to survive.
In those years, we had the chance to grow and develop gradually an original physical language that was described as chaotic and unprofessional but — to my own surprise — audiences liked it and professional dancers started to be curious to work with us.
As a child and adolescent, I followed some mime, theater and dance workshops, but none of them with the ambition to become a professional. So when I started to “direct” my peers in our first performances, I could never show them what to do and how to do it and I was depending on our limited skills and original proposals. As we had no artistic education, we could care less about conventions, rules or trends. On top of that, there were no fathers to kill in the Belgian performing arts. There was only an old fashioned ballet company and the famous choreographer Maurice Béjart just left the country for Switzerland. No history, no money and only a few alternative spaces to present our performances.
Our work in those years was provocative, very physical, had no specific and recognizable style and was inspired by the anger of the young people who performed it (remember … we were living the Punk era), and it was a very attractive work for some professional dancers who wanted to escape the dull classical world.
There was a moment that I had to choose between an artistic path and my engagements as a pedagogue, because combining both was no longer possible. I decided to take the artistic risk and we created the company Les Ballets Contemporains de la Belgique — les ballets C de la B —an ironic name for a company that was only the opposite of what was expressed in its name: a collective of different non professionals who had the ambition to create physical performances inspired by the personality of the performers. Very early in my “career” I knew that if I wanted to make statements about the world in our performances — because that’s how arrogant and pretentious we were — the world had to be seen on stage. That’s why, in the first place, our casts had to be very diversified —(non)professionals, different (cultural) backgrounds, different age,sex, gender, color, abilities…
I was very glad that this diversity was rarely mentioned by critics, even though in those days the European dance casts were very white. It meant that this diversity, maybe, wasn’t an issue and represented a reality, while nowadays, it’s one of the major criteria to judge a company or a performance.
In searching on how I could engage with these very diverse casts, I developed a “method” that worked pretty well: I asked the performers to create personal dance phrases around certain themes. And in fact any theme seemed to work. If you ask a dancer to create a “green” phrase, he/she will certainly come up with something, but always it will be inspired and influenced by their personal background. A ballet dancer will create something ballet-ish, a club dancer something club-ish. But if you then ask the ballet dancer to re-interpret the club phrase he/she will come up with something which is neither ballet nor club dancing. The same question could be asked to kids and non professionals and professional dancers loved to work with them! In that way we started to develop a “style” that I described as bastard dance. We discovered this had endless possibilities, in fact we could create as many genres as many people there were.
I never had a clear idea to start with. Sometimes there was the music of a composer, a stunning set, a series of vague themes or something other that would inspire us, but there was always a specific cast. The performers were the core business. They were asked many (personal) questions (Pina Bausch’ working method) and were invited to improvise around themes I proposed or that they themselves proposed. In constant dialogue with the cast we did then decide what to keep and what to continue to work on the next day and what to leave. Gradually a performance “appeared” and seldom it was something we had imagined at the beginning of the process. A scary but very adventurous process with one main goal: each performer had to be very visible. It took me a while before I dared to introduce my personal background into the creation processes. From time to time I would mention my experiences as a pedagogue who worked with children with mental or physical difficulties, but only later I showed films and pictures about them (medical documentaries of psychiatric patients at the beginning of the 20th Century and Fernand Deligny’s films Ce gamin làand Le Moindre Geste were very inspiring). For a long time I think I was scared that the performers would make fun of this kind of humanity. But the contrary happened and they recognized an inner world which as dancers they were also looking for: when words don’t work anymore the body starts to talk… and often that language is harsh, less controlled and not “pretty”, but has an emotional effect on both the performers and the audiences. Since I rarely created (dance) material and also made theater and music performances, as well as operas and film documentaries, I had difficulties to be called a choreographer. But when I realized that the word choreo also refers to a neurological disorder that effects the physical movements of the body… I could live with it.
Performers were engaged for one creation and stayed until the end of the tour (more or less one and a half to two years). Only at the end of the process did I decide — in dialogue with each of them — if it had sense to continue our collaboration or if we would (temporarily) end it. With some performers I worked for more than twenty years,others just passed by for one creation.
I’m not a traveller. I can see the whole world on the small spot where I live and during the daily walks with my dog. In the small book Je keek te ver (You looked too far), Marjoleine De Vos describes how she walks every day the same path around her village in the North of the Netherlands. She discovered the entire globe by doing so and didn’t need to make long journeys on the planet. If I would not have been a member of les ballets C de la B,probably I would not have traveled further than the Belgian coast or the Ardennes … but now I have seen half of the world! I feel extremely privileged.
During my journeys,while communicating with the different casts and also by meeting people on all of the continents, I recognized my shyness and insecurity (that I could hide better and better) in nearly everybody I met. In that sense I never felt unique or alone and I felt instead empowered. In some places and on many occasions I also witnessed an extreme injustice I had never been confronted with in my personal life. That was the case in Brazil, Lithuania (in the early nineties),Timisoara, Moscow and Hong Kong, but also in the meeting with the Aboriginals in Australia, or by working in Bobo Dioulasso and Kinshasa and most of all in visiting the Occupied Territories since 2001. The visits to the Occupied Territories overwhelmed me the most. Since the first workshop in Ramallah in 2001, I was struck by the open and very visable oppression and overall injustice in that area and I realized that the policy of the successive Israeli governments was supported by nearly a complete nation/ethnicity. I joined the BDS (Boycott, Divestment, Sanctions), an international non violent movement, mainly of academics and artists, that is pleading for the (economic) boycott of Israel as long as it remains an apartheid state. To take part in this BDS movement gradually became dangerous and threatening and during the last twenty years I have been insulted and humiliated on numerous occasions, I even received death threats (!) and I was censored and cancelled in certain environments. If there is anything that left me frustrated at the end of my professional career, it must be that I couldn’t convince my colleagues to join the BDS movement or, at least, to be more outspoken in this tragedy. I knew, and know, how this so called local conflict can, will and already is dominating the development of the entire world politics. Are we evolving towards extreme right and tyrannic governments all over the planet or towards open minded and less nationalistic societies being aware that we all share the same small globe?
I believe I lived one of the most exciting eras in the history of Western contemporary dance. 1980 – 2020 has been a period during which all genres of contemporary dance took a high flight and Belgium was certainly one of the epicentra. With Anne Teresa De Keersmaeker, Jan Fabre, Wim Vandekeybus, Meg Stuart and, later, also Sidi Larbi Cherkaoui as important figures, Belgium has attracted many young dancers from all over the world. Since a decade though, we’re living a major shifting moment in societies on many levels. Urgent questions are being asked regarding social matters, ecology, economics, gender, diversity, leadership… and the performing arts join into the reflections on these themes which are causing important mindshifts into how performances are conceived, created and presented. Especially after Covid, I was personally confronted with many doubts amongst my performers about the meaning and sense of dance as an art form. It seemed like in Western contemporary dance everything had been invented and tried out. Also, at the end, the human body has its own limits: one cannot run the 100 meters in zero seconds… That is why to be able to motivate dancers and explore their original passion for the métier sometimes wasn’t easy. But by asking them how they started dancing and by using their memories triggered by that question, one can be very surprised by the joy they are able to rediscover. This process has been the inspiration for the physical language we developed in our latest creations: Another Sacre(2021),C(H)OEURS (2022) and Ombra (2024).
When I reached the age of retirement, the continuation of les ballets C de la B — a company that had become associated with me as a director — was questioned. I never had aspirations to continue to live on, to work on a repertoire and I also wasn’t interested in finding a successor. We decided therefore to change the name, the artistic team and the goals of the company and les ballets C de la B has become laGeste. I retired, a new artistic direction was chosen and the new company focuses mainly on inclusive performative projects.
I remember a tag that at a certain time appeared on many toilets all over the world saying Killroy was here.Nobody ever knew who Killroy was, but apparently he/she had been there and at all those other places. It’s how I feel: I was/am here for a while, never had the real ambition to live what I live(d), but I can only look back with great surprise to what happened to me. Even though I love to live, I believe it’s a heavy burden knowing that there is only one exit: death. So…no other message to the world than a quote about life from Fernand Deligny:
être-là
être cet être là
qui est avec un autre
et un autre
alors il te faut être là
tout simplement
et faire ce que tu as à faire
verbe vivant que tu es
to be there
to be this being
who is there with another being
and another
so you just have to be there
very simply
and do what you have to do
which is a proof that you’re there
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GIANNA VALENTI | Nel testo che segue, Alain Platel, coreografo e regista di fama internazionale che con il proprio lavoro ha cambiato profondamente la storia della danza teatrale occidentale, si racconta e racconta della propria carriera: dalle prime sperimentazioni con un gruppo di amici alla fondazione di les ballets C de la B nel 1984, dall’affermazione di un nuovo modello relazionale e coreografico all’internazionalizzazione del suo lavoro oltre i confini del Belgio, sino alla sua più recente ricerca in epoca post-Covid. Un racconto che è artistico e umano e che non può che riflettere l’identità principale del suo progetto coreografico: la centralità di ogni performer/persona come chiave drammaturgica, come ricerca di senso e come guida nella composizione dei materiali.
Platel ha risposto con questo testo a un mio invito a lasciare una testimonianza sull’essenza del proprio percorso creativo, su quella frequenza creativa unica che ha incarnato nell’universo danza e che ha avuto — e continua ad avere — un impatto sul mondo attraverso le sue opere. Tra le proposte da me fatte, il coreografo e regista ha scelto di scrivere una “lettera al futuro”, una forma di comunicazione che permette uno spazio di riflessione sia per chi scrive che per chi legge: una sorta di capsula del tempo per il futuro della coreografia e dell’umanità.
Sono felice di averla ricevuta. L’ha scritta per tutti noi e ve la consegno.
Ufficialmente sono già in pensione, ma è stato solo la scorsa estate, dopo la presentazione di una delle nostre ultime creazioni, Mein Gent, che è diventato ufficiale: svegliarsi il 3 agosto 2024 con la consapevolezza, per la prima volta in quarant’anni, che non c’erano responsabilità urgenti da affrontare e che nessuno si aspettava qualcosa da me… ve lo consiglio! Così, durante questi ultimi mesi estivi, con la mia compagna Isnelle e il nostro cane Kito ho festeggiato quasi tutte le sere con una birra sulla nostra terrazza! Sono sempre stato conosciuto, e spesso messo in discussione, per le mie rare apparizioni sulla scena alla fine di uno spettacolo, e non è stata una sorpresa che non volessi una festa d’addio. Anzi, ho minacciato di andarmene se qualcuno l’avesse organizzata: sapevano che facevo sul serio e nessuno ha cercato di farlo!
Semi guardo indietro e allargo lo sguardo, rimango stupito da tutto quello che mi è successo in questi ultimi quarant’anni. Perché… in realtà sono piuttosto timido e insicuro come persona, quindi diventare in un certo modo e dover essere in certi momenti così esposto, è stato spesso molto contraddittorio con quello che sento di essere. Soprattutto, la mia prima ambizione negli anni Ottanta era quella di diventare un buon Ortopedagogo (un insegnante per bisogni educativi speciali), perché era quello che avevo studiato, Psicologia e Pedagogia, e quando a metà degli anni Ottanta cominciammo a fare piccole performance tra amici, era soprattutto per avere un motivo per stare insieme, bere vino scadente, fumare sigarette e parlare di come avremmo cambiato il mondo.
Molto ispirato dalla coreografa tedesca Pina Bausch (che ha utilizzato le storie personali dei suoi danzatori come fonti per le sue performance) e dal pedagogo francese Fernand Deligny (che ha deciso di vivere con i bambini affetti da gravi disturbi mentali invece di lavorare con loro negli ospedali psichiatrici), ho iniziato a realizzare performance che erano copie scadenti di scene ispirate a Café Müller della Bausch, ma poiché a quei tempi non esistevano i social media, riuscivamo a farla franca. Alcuni giovani registi teatrali fiamminghi seguivano e presentavano il nostro lavoro, ma non c’erano soldi e tutti noi dovevamo trovarci un lavoro vero altrove per poter sopravvivere.
Sono stati anni in cui abbiamo avuto la possibilità di crescere e di sviluppare gradualmente un linguaggio fisico originale che veniva descritto come caotico e non professionale ma che, con mia grande sorpresa, il pubblico apprezzava, e che incuriosiva i danzatori professionisti che hanno così iniziato a voler lavorare con noi.
Da bambino e adolescente ho seguito alcuni laboratori di mimo, teatro e danza, ma nessuno con l’ambizione di diventare un professionista. Quindi, quando ho iniziato a “dirigere” i miei compagni di lavoro nelle nostre prime performance, non ero certo in grado di mostrare loro cosa fare e come farlo. Dipendevo dalle nostre capacità limitate e dalle nostre proposte originali e, poiché non avevamo un’educazione artistica, non poteva fregarcene di meno delle convenzioni, delle regole o delle tendenze. Inoltre, in Belgio, non c’erano padri da uccidere nelle arti performative; esisteva solo una compagnia di balletto vecchio stile e il famoso coreografo Maurice Béjart aveva appena lasciato il Paese per la Svizzera: nessuna storia, niente soldi e solo pochi spazi alternativi dove presentare le nostre sperimentazioni.
Il nostro lavoro, in quegli anni, era provocatorio, molto fisico, non aveva uno stile specifico e riconoscibile e prendeva ispirazione dalla rabbia dei giovani interpreti (ricordatevi… eravamo nell’era punk): un tipo di lavoro molto attraente per alcuni danzatori professionisti che volevano sfuggire al noioso mondo del classico.
C’è stato, poi, un momento in cui ho dovuto scegliere tra un percorso artistico e i miei impegni come pedagogo, perché mettere insieme entrambi non era più possibile. Ho deciso, così, di assumermi il rischio artistico e abbiamo creato la compagnia Les Ballets Contemporains de la Belgique — les ballets C de la B — un nome ironico per una compagnia che era il contrario di ciò che il suo nome indicava: un collettivo di non professionisti, assolutamente diversi tra di loro, che avevano l’ambizione di creare performance fisiche ispirate alla personalità degli interpreti.
Sin dall’inizio della mia “carriera” sapevo che se volevo fare dichiarazioni sul mondo attraverso le nostre performance — perché questo era il nostro livello di arroganza e pretenziosità — il mondo doveva diventare ben visibile sulla scena. È per questo che, come prima regola, i nostri cast dovevano essere molto diversificati: (non) professionisti, background (culturali) diversi, diverse età, sesso, genere, colore e abilità….Devo dire che mi ha fatto molto piacere che questa diversità sia stata menzionata solo raramente dai critici, anche se a quei tempi i cast di danza europei erano molto bianchi. Forse, significava che questa diversità non era un problema e rappresentava una realtà quando, al giorno d’oggi, è uno dei criteri principali per giudicare una compagnia o una performance.
Mentre cercavo un modo di interagire con questi cast così diversi, ho sviluppato un “metodo” che ha funzionato piuttosto bene: chiedevo ai performer di creare frasi personali di danza su temi specifici. E, in effetti, qualsiasi tema sembrava funzionare. Se chiedi a un performer di creare una frase “verde”, lui o lei sicuramente si inventeranno qualcosa che sarà sempre ispirato e influenzato dal suo background personale. I danzatori classici creeranno qualcosa di simile a un balletto, un club dancer creerà qualcosa di simile a una club dance. Ma se, poi, chiedi ai danzatori classici di reinterpretare la frase del club dancer, lui o lei si inventerà qualcosa che non è né balletto, né club dancing. La stessa domanda potrebbe essere fatta anche ai bambini, ai ragazzi e ai non professionisti, e va detto che i danzatori professionisti adorano lavorare con loro! In quel modo abbiamo iniziato a sviluppare uno “stile” che ho descritto come bastard dance (danse bâtarde). Abbiamo scoperto che le possibilità erano infinite, infatti potevamo creare tanti generi quante erano le persone presenti.
Non avevo mai una chiara idea con cui cominciare. A volte c’era la musica di un compositore, una scenografia straordinaria, una serie di temi vaghi o qualcos’altro che ci ispirava, ma c’era sempre un cast specifico. I performer erano il centro dell’intero lavoro. Facevo molte domande (personali) — come nel metodo di lavoro di Pina Bausch — e li invitavo a improvvisare attorno a temi che proponevo o che loro stessi proponevano. Poi, in costante dialogo con il cast, si decideva cosa tenere, su che cosa continuare a lavorare il giorno successivo e che cosa lasciare. Gradualmente una performance “appariva” e raramente era qualcosa che avevamo immaginato all’inizio del processo. Un processo che impauriva, ma estremamente avventuroso e con un obiettivo principale: ogni performer doveva essere molto visibile.
Mi ci è voluto un po’ prima di osare introdurre il mio background personale nei processi di creazione. Di tanto in tanto menzionavo le mie esperienze di pedagogo che lavorava con bambini con difficoltà mentali o fisiche, ma solo in seguito ho mostrato film e immagini su di loro (documentari medici di pazienti psichiatrici dell’inizio del XX secolo e i film di Fernand DelignyCe gamin làe Le Moindre Gesteche ci furono di grande stimolo).
Penso che per molto tempo ho avuto paura che i performer si prendessero gioco di questo tipo di umanità. Ma, di fatto, è successo il contrario, e hanno riconosciuto un mondo interiore che loro stessi come danzatori stavano cercando: quando le parole non funzionano più, il corpo comincia a parlare… e spesso quel linguaggio è duro, meno controllato e non “bello”, ma con un effetto emotivo che coinvolge sia i performer che il pubblico.
Dato che raramente creavo materiali danzati ed ero impegnato come regista anche con spettacoli teatrali e musicali, nonché con opere liriche e documentari cinematografici, avevo difficoltà a sentirmi definire un coreografo, ma quando ho capito che la parola choreo si riferisce anche a un disturbo neurologico che influenza i movimenti fisici del corpo… ho finito per conviverci.
I performer venivano ingaggiati per una creazione e rimanevano fino alla fine del tour (più o meno da un anno e mezzo ai due anni) e solo alla fine del processo decidevo — dialogando con ognuno di loro — se avesse senso continuare la nostra collaborazione o se avremmo dovuto (temporaneamente) interromperla: con alcuni performer ho lavorato per più di vent’anni, altri sono semplicemente passati per una creazione.
Non sono un viaggiatore. Riesco a vedere il mondo intero dal piccolo angolo in cui vivo e durante le passeggiate quotidiane con il mio cane. Nel minuscolo libro Je keek te ver (Hai guardato troppo lontano), Marjoleine De Vos descrive come ogni giorno rifà lo stesso percorso all’interno del suo villaggio nel nord dei Paesi Bassi e come questo le abbia permesso di scoprire l’intero globo senza bisogno di intraprendere lunghi viaggi attraverso il pianeta. Se non fossi stato membro di les ballets C de la B, probabilmente non avrei viaggiato oltre la costa belga o oltre le Ardenne… ma ora posso dire di aver visto mezzo mondo e mi sento estremamente privilegiato!
Durante i miei percorsi, comunicando con i diversi cast e incontrando persone provenienti da tutti i diversi continenti, ho potuto riconoscere in loro la mia stessa timidezza e insicurezza (che tra l’altro riuscivo a nascondere sempre meglio) e in questo senso non mi sono mai più sentito unico o solo, ma anzi rafforzato da questa esperienza.
In alcuni luoghi e in molte occasioni sono stato anche testimone di un’ingiustizia estrema con la quale non avevo mai dovuto confrontarmi nella mia vita personale. È stato così in Brasile, Lituania (all’inizio degli anni Novanta), Timisoara, Mosca e Hong Kong, ma anche nell’incontro con gli aborigeni australiani o durante il mio lavoro a Bobo Dioulasso e Kinshasa e, soprattutto, visitando i Territori Occupati dal 2001.
Le visite ai Territori Occupati sono quelle che mi hanno maggiormente coinvolto e sopraffatto. Fin dal primo seminario a Ramallah, nel 2001, sono rimasto colpito dall’oppressione palese e visibile e dall’ingiustizia generale presente in quell’area e mi sono reso conto che la politica dei diversi governi israeliani era quasi completamente sostenuta da una visione di nazione/etnia. Per questo ho aderito alBDS (Boycott, Divestment, Sanctions), un movimento internazionale non violento, composto principalmente da accademici e artisti, che chiede il boicottaggio (economico) di Israele finché rimarrà uno stato apartheid. Prendere parte a questo movimento è diventato, però, gradualmente pericoloso e minaccioso: negli ultimi vent’anni sono stato insultato e umiliato in numerose occasioni, ho ricevuto persino minacce di morte (!) e sono stato censurato e cancellato in alcuni ambienti.
Se c’è qualcosa che mi ha lasciato frustrato alla fine della mia carriera professionale, è che non sono riuscito a convincere i miei colleghi a unirsi al movimento BDS o, almeno, a rendersi più disponibili a parlare apertamente di questa tragedia. Sapevo, e so, come questo cosiddetto conflitto locale può, potrà e già domina lo sviluppo dell’intera politica mondiale. Ci stiamo evolvendo verso governi tirannici di estrema destra su tutto il pianeta o verso società meno nazionalistiche, di mentalità aperta, nella consapevolezza che condividiamo tutti lo stesso piccolo globo?
Credo di aver vissuto una delle epoche più emozionanti della storia della danza contemporanea occidentale. Il periodo 1980-2020 è stato un periodo in cui tutti i generi della danza contemporanea hanno preso il volo e il Belgio è stato sicuramente uno degli epicentri. Con Anne Teresa De Keersmaeker, Jan Fabre, Wim Vandekeybus, Meg Stuart e, più tardi, anche Sidi Larbi Cherkaoui come figure importanti, il Belgio ha attratto molti giovani danzatori da tutto il mondo. Da un decennio, però, stiamo vivendo un momento di grande cambiamento nelle società a molti livelli. Vengono poste domande urgenti su questioni sociali, ecologia, economia, genere, diversità, leadership… e le performing arts si uniscono alle riflessioni su questi temi che stanno dando forma a importanti cambiamenti di mentalità sul modo in cui le performance sono concepite, create e presentate.
Soprattutto dopo il Covid, mi sono confrontato personalmente con molti dei dubbi dei miei performer sul significato e sul senso della danza come forma d’arte, quando sembrava che nella danza contemporanea occidentale tutto fosse stato inventato e sperimentato. Inoltre, alla fine, il corpo umano ha i suoi limiti: non è possibile correre i 100 metri in zero secondi… Ecco perché motivare i danzatori e portarli a esplorare la loro passione originaria per il mestiere a volte non è stato facile, ma chiedendo loro come hanno iniziato a danzare e utilizzando i loro ricordi generati da quella domanda, sono rimasto molto sorpreso dalla gioia che sono riusciti a riscoprire; un processo, questo, che è stato l’ispirazione per il linguaggio fisico che abbiamo sviluppato nelle nostre ultime creazioni: Another Sacre (2021), C(H)OEURS (2022) e Ombra (2024).
Quando ho raggiunto l’età della pensione, la continuazione di les ballets C de la B – una compagnia che è stata associata al mio nome come regista – è stata messa in discussione. Non ho mai avuto l’aspirazione di continuare a farla vivere, di mantenermi in quel ruolo e di lavorare su un repertorio e non mi interessava nemmeno trovare un successore. Abbiamo quindi deciso di cambiare il nome, il team artistico e gli obiettivi della compagnia e les ballets C de la B è diventata laGeste. Sono andato in pensione, è stata scelta una nuova direzione artistica e la nuova compagnia si concentra principalmente su progetti performativi inclusivi.
Ricordo un tag apparso a un certo punto su molti bagni di tutto il mondo che diceva che Killroy è stato qui. Nessuno ha mai saputo chi fosse Killroy, ma a quanto pare lui/lei era stato lì e in tutti quegli altri posti. È così che mi sento: sono stato/sono qui per un po’, non ho mai avuto la reale ambizione di vivere ciò che vivo e ho vissuto, posso solo guardare indietro sorprendendomi di tutto quello che mi è successo. Anche se amo vivere, credo che sia un fardello pesante sapere che c’è una sola via d’uscita: la morte.
Quindi… nessun altro messaggio al mondo se non una citazione di Fernand Deligny sulla vita:
être-là
être cet être là
qui est avec un autre
et un autre
alors il te faut être là
tout simplement
et faire ce que tu as à faire
verbe vivant que tu es
to be there
to be this being
who is there with another being
and another
so you just have to be there
very simply
and do what you have to do
which is a proof that you’re there
Il collegamento multimediale a questo testo, “Fare Corrografia #4: Alain Platel, no other message to the world” può essere condiviso senza restrizioni. Tuttavia, ai sensi della Convenzione di Berna sui diritti di proprietà intellettuale (diritto d’autore), il presente testo può essere citato, secondo un uso corretto e nella misura necessaria per raggiungere lo scopo desiderato, ma non può essere copiato o riutilizzato senza la previa autorizzazione dell’autore sia nelle pubblicazioni digitali che stampate.
CHIARA AMATO / Pac Lab* | «Qual è il tuo posto nel Gran Trojajo?». È una domanda che Altri Libertini, l’ultimo lavoro di Licia Lanera, rivolge a tutti i “vitelloni” di ieri, di oggi e, perché no, anche di domani. Una riflessione sul nostro ruolo in un mondo che cambia, ma che in fondo resta lo stesso. Ma la domanda è posta ed è rilanciata, in primis, alla sua generazione, ai coetanei, ai nati negli anni ’80, quando la casa editrice Feltrinelli pubblicava l’omonima raccolta di racconti di Pier Vittorio Tondelli, scrittore decisamente fuori le righe, che prematuramente morì di AIDS all’età di trentasei anni.
L’opera, rivoluzionaria e spudorata, all’epoca fu inizialmente sequestrata per oscenità, ma riscosse subito un enorme successo di pubblico. Il testo è incentrato su una certa Italia, tanto che il giovane e dannato scrittore lo definì un romanzo a sei episodi (Postoristoro, Mimi e istrioni, Viaggio, Senso contrario, Altri libertini e, infine, Autobahn). La pluripremiata regista e attrice seleziona tre di questi brevi sguardi: Viaggio, Altri Libertini e Autobahn.
Ma il racconto che ci propone in scena si complica, perché intreccia quelle storie, ambientate in quell’Italia fatta di Cossiga Presidente, Toto Cotugno vincitore di Sanremo, e di 260 morti per eroina del 1980, alla nostra Italia, dove di quarantenni che non sanno ancora che posto avere nel gran trojajo della vita ce ne sono eccome. Proprio qui inseriscono, come in un mosaico, pezzi della sua biografia e di quelle dei tre attori in scena con lei (Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva, Roberto Magnani) attraverso brevi accenni alle loro infanzie, mettendoci nomi e cognomi, oltre che la faccia e il corpo.
I tre attori si presentano in mutande, canotta e calzini, per poi vestirsi durante lo spettacolo in abiti borghesi dal gusto un po’ vintage e radical chic, mentre la regista in un tailleur giallo (costumi Angela Tomasicchio) è seduta a uno scrittoio e si pone come uno spettatore.
La scena scarna, oltre allo scrittoio al centro, una cyclette sulla sinistra, una lettiga e un ventilatore sulla destra, una parete di luci (disegno di Martin Palma) sullo sfondo si anima, illuminando in tutte le direzioni a ritmo di musica, come in un concerto, sulle note di Siamo solo noi di Vasco Rossi.
Questo elemento musicale (sound design di Francesco Curci) crea un trait de union tra l’epoca di Tondelli e la generazione della Compagnia Licia Lanera. Generazione cresciuta e immersa in un certo rock e formata con determinate letture, sotto il segno di un capitalismo in espansione e con «la cosa pubblica che viene sostituita dal privato», come ci dice appunto la regista sul palco.
E quella canzone, non a caso, apre e chiude lo spettacolo, accattivandosi il pubblico: all’inizio animando gli artisti che ballano e cantano Vasco, immersi e dannati in un fumo denso di sigarette, e alla fine, posti in fila orizzontale, ci guardano senza speranze e spauriti, su una versione rallentata delle stesse note iniziali, come davanti a un plotone di esecuzione.
Dopo il momento musicale, a turno iniziano a recitare i testi, in quella che potrebbe essere quasi una lettura intima, fatta in un salotto fra amici. I loro corpi interagiscono poco, ma lo fanno in maniera spudorata, violenta, perché le parole di Tondelli sono terribili: senza fronzoli e senza freni ci raccontano quelle vite sospese di disoccupati, drogati, omosessuali, che corrono di notte in macchina, fumando di tutto, bevendo vino scadente, facendo sesso in appartamenti in condivisione, e sì, bucandosi le vene. Quelli che bonariamente poi Fellini inquadrò come Vitelloni, nel suo omonimo capolavoro, perché restano sempre figli, anche quando dovrebbero diventare genitori, se non altro per mero dato anagrafico.
Lo spettacolo ci fa confrontare anche con la periferia, che sta alle città come i sommersi stanno ai salvati, con le sue regole crudeli. E allora in scena il turpiloquio, le bestemmie, i baci assatanati e gli insulti volano dalle bocche degli attori, in questi paesaggi desolati, animati solo dai baretti di provincia. Ognuno di loro si fa portatore di un racconto, dividendo così lo spettacolo in una sequenza di monologhi che si alternano, si incrociano, creando un monologo “a più voci” e una tessitura narrativa complessa, ma scorrevole.
Lanera lascia per sé tre funzioni/ruoli in scena: quello della narratrice esterna che collega le parti; quello della comparsa per dei personaggi secondari; e quello dello spettatore bonario ed empatico, che di fronte alle parole di Tondelli non può far altro che fumare, accogliere con tenerezza queste confessioni e porsi domande sul presente. Accompagna i suoi interpreti e li guida, instradando anche un po’ il pubblico in un’operazione meta-teatrale tra Tondelli e la sua operazione registica.
Ci spiega, infatti, il lavoro svolto sui testi e ci fa intravedere la costruzione collettiva dello spettacolo, mettendosi nella posizione di colei che tiene e tira le fila di tutto. Come ha dichiarato nell’intervista rilasciata su Teatro e Critica, dopo la prima a Romaeuropa, “alla fine Pier Vittorio Tondelli non esiste più se non nei corpi, nella carne, negli sputi degli attori, nelle loro biografie (…) Siamo qui a raccontare le miserie di una generazione che si perpetua sempre uguale da almeno quarant’anni”.
Numerosi gli aspetti interessanti nella trasposizione attoriale: la sensualità di Cupaiuolo (in Autobahn), legato in un rapporto sentimentale con la sua auto, che non abbandona di notte neanche da ubriaco; Giuva, che interpreta un omosessuale innamorato e ferito da un latin lover lombardo (in Altri Libertini), toccando momenti di infinita e disperata tenerezza; fino a Magnani (in Viaggio), che ci mostra quell’aspetto pervasivo e quotidiano dell’eroina, che quasi vogliamo rimuovere dalla memoria collettiva. Di particolare intensità proprio alcuni di questi passaggi sul legame con la dipendenza, emotiva e da eroina, che riportano a noi oggi un problema che oggi vediamo così lontano. Altro momento molto gradito in platea, e accompagnato da fragorosi applausi, è quello dove Giandomenico Cupaiolo elenca determinate categorie umane, alternando la rapidità e volgarità delle parole a movimenti degni di un ottimo ballerino di twist, del quale non si può non ammirare la bravura.
Lo spettacolo è costruito in maniera equilibrata, senza mai risultare pesante nella comprensione, né scollato fra le parti: proprio attraverso la presentazione di questi personaggi scapestrati, che inevitabilmente ingaggiano il pubblico, in sala le risate si alternano ai momenti di silenzio, dove (forse) ognuno ascolta quelle “voci di dentro” che i nostri protagonisti affrontano e zittiscono con «tanto vino e tanta voglia di gridare».
ALTRI LIBERTINI
di Pier Vittorio Tondelli
adattamento e regia Licia Lanera
con Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva, Licia Lanera, Roberto Magnani
luci Martin Palma
sound design Francesco Curci
costumi Angela Tomasicchio
aiuto regia Nina Martorana
tecnici di compagnia Massimiliano Tane, Laura Bizzoca
produzione Compagnia Licia Lanera
in coproduzione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro
si ringrazia Compagnia La Luna nel Letto
Teatro Studio Melato, Milano | 3 novembre 2024
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.
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