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sabato, Dicembre 28, 2024
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Natura morta con coniglio: Paravidino à la polacca

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Foto di Krzysztof Bieliński

GIULIA RANDONE | Le luci si accendono sul corpo nudo e coperto di sangue di una ragazza. Un istante di silenzio, poi la scena si affolla di personaggi e si mette in moto il processo investigativo che deve condurre l’ispettore alla risoluzione del caso. Una dopo l’altra si inanellano le tappe dell’indagine: dal ritrovamento del cadavere in un fosso alla periferia di una cittadina italiana, all’identificazione della vittima, una giovane di cosiddetta buona famiglia, dal rito di riconoscimento del corpo da parte dei genitori all’interrogatorio dei primi sospettati. Infine, l’individuazione del colpevole grazie a un testimone chiave e il trionfo della verità siglato dalla foto dell’assassino in prima pagina.
Il Teatro Drammatico di Varsavia si apre alla drammaturgia contemporanea italiana, accogliendo nel proprio repertorio Martwa natura w rowie, ossia Natura morta in un fosso, la pièce di Fausto Paravidino interpretata da Fausto Russo Alesi nel 2001 (regia di Serena Sinigaglia) e recentemente riproposta in una versione corale dalla compagnia torinese Nessun Vizio Minore (vd. recensione https://paneacquaculture.net/2014/04/01/nessun-vizio-minore-e-la-provincia-violenta/).
Anche l’allestimento di Małgorzata Bogajewska si affida a un ensemble di otto interpreti di buon livello che, giocando con le convenzioni del genere poliziesco, creano personaggi dai tratti marcati: l’ispettore arguto e l’aiutante un po’ tonto, la madre amorevole ma del tutto ignara della vita della figlia, lo spacciatore di professione, il giovane sballato, la prostituta cinica e il fidanzato vigliacco si alternano nel raccontare ciò che sanno e nel confidare allo spettatore ciò che preferiscono tenere nascosto. La vittima, Elisa Orlandi, interviene in questo mosaico di dialoghi frammentari e monologhi, per osservare e interagire silenziosamente con gli altri personaggi: in particolare, guarda divertita la madre e l’ispettore Salti confrontarsi con il senso di colpa e la pietà per la sua fine prematura e con il desiderio di capire che vita, in realtà, conducesse.
L’opera non si esaurisce nell’intrigo, negli sguardi sfuggenti e nei gesti sospettosi di una provincia annoiata e violenta ma, nelle intenzioni della regista, aspira a mostrare una incrinatura nel mondo che crediamo di conoscere, una spaccatura che costringa a fronteggiare paure più profonde.
E qui Bogajewska manca il bersaglio. Padroneggia discretamente la materia giallistica, ma non riesce a farci percepire le crepe che si allargano sotto la superficie dell’ennesimo episodio di cronaca nera. Vorrebbe afferrare qualcosa che sta tra ciò che è vivo e familiare e ciò che è incomprensibile, vorrebbe distillare il perturbante dalla morte, ma il suo sforzo si vanifica in scelte stilistiche incoerenti.
Nei materiali promozionali lo spettacolo è presentato come un giallo ispirato allo stile dei film di Guy Ritchie e Quentin Tarantino, e in effetti alcuni personaggi come lo spacciatore su di giri e ciarliero interpretato da Waldemar Barwiński ammiccano al pubblico come emuli del Vincent Vega di Pulp Fiction.
Tuttavia, fin dalle prime scene è un altro segno a richiamare maggiormente l’attenzione dello spettatore: il fondale è coperto da un lungo dipinto raffigurante un groviglio di figure antropomorfe, nude e con teste da coniglio, mentre sul palco si insinuano personaggi secondari, anch’essi con teste da coniglio, che tacciono o ghignano malignamente. Queste creature ibride sembrano uscite da Rabbits, il serial web di David Lynch, ma nello spettacolo questo innesto grottesco suona poco convincente. L’intreccio tra elementi realistici e soprannaturali fallisce del tutto e il personaggio di Elisa ne è la prova: non inquieta, non spaventa, non crea disagio, sembra posticcio.
Ad aggravare l’impressione di ambiguità stilistica dello spettacolo contribuisce la locandina: la madre, che in scena piange la figlia in composti abiti borghesi, è qui una femme fatale in veletta e giacca di paillettes, una Katarzyna Herman la cui raggelante sensualità è una forte leva all’acquisto del biglietto.

Siamo tutti schizofrenici: la pazzia alla luce dell’arte

71-C-m42oAL._SL1500_NICOLA ARRIGONI | Santarcangelo 1996, arriva carico di libri, è un ragazzo che avrà sì e no vent’anni e parla, parla. Cita Marx, estraendo dalla borsa il Capitale, Brecht, ma anche Cesare del De Bello Gallico, piuttosto che Shakespeare… I lineamenti sono aggraziati, la voce chiara, le mani tremano, gli abiti trasandati, ma in quello stile che passa inosservato nella comunità di teatranti… Parte un dialogo, o almeno credo, una conversazione che non ci vuole molto a capire che immancabilmente è monologo, è conversazione che non converte, ma parte per la tangente.

In quei caldi giorni del luglio 1996 con il Festival di Santarcangelo nelle mani di Leo De Berardinis, impegnato a rilanciarne lo spirito di festival per un teatro popolare e di piazza, l’Accademia della Follia di Claudio Misculin era impegnata a mettere in scena Crucifige!, una libera rilettura della passione morte e resurrezione di Cristo, agita e raccontata dagli ospiti del Crt di Cremona e dall’ospedale di Sospiro. Quel ragazzo incontrato al bancone del bar dove si sarebbe svolto lo spettacolo dell’Accademia della Follia venni a sapere aveva interpretato il bambino nella prima edizione dell’Anima buona di Sezuan di Brecht per la regia di Giorgio Strehler. Qualcosa di ruppe in quel bimbo allora giovane adulto e si ruppe nella necessità di eccellere intellettualmente, delle parole e dei libri fece il suo mondo, un mondo franto, spezzato, scisso.
Questo aneddoto – si crede – possa ben rendere il complesso e interessante saggio di Louis A. Sass, Follia e modernità. La pazzia alla luce dell’arte, della letteratura e del pensiero moderni (Rafffaello Cortina Editore, pagine 492, euro 32). «La natura della follia è stata concettualizzata come una riduzione o una sopraffazione della propria esistenza in quanto persone – si legge -, un declino della libertà di azione, della riflessione cosciente e delle qualità intellettuali spirituali che da tempo immemorabile sono state considerate essenziali della nostra natura umana. Parafrasando il filosofo Ludwig Wittgenstein, essa è nel nostro linguaggio, e il linguaggio inesorabilmente la reitera». Follia e modernità si occupa di schizofrenia e lega la caratteristica di iper-riflessività propria di questa malattia al modernismo in cui diventa assolutamente di primo piano il soggetto, meglio gli aspetti di un osservazione multipla e soggettiva che divengono in un certo qual modo oggettivati. Si pensi ai grandi romanzi capolavoro di Musil e di Joyce. Uno sguardo soggettivo sul mondo oggettivizzato come se quello sguardo fosse realtà. «Nessun autore lo ha espresso meglio del poeta e drammaturgo Antonin Artaud – si legge nella prefazione -. In un brano sconcertante Artaud descrive il suo volto che sembra fluttuare verso l’alto per poi allontanarsi, simile a una maschera o a una ‘membrana lubrificante’ come se la parte più intima di sé si stesse trasformando in oggetto esterno». E dopotutto le testimonianze di pazienti schizofrenici raccontano come questi dicano di sentirsi morte eppure ipervigili.
Questa condizione dello schizofrenico può diventare metafora, ma forse può essere lo status dell’uomo contemporaneo, è l’effetto deflagrante dell’ironia dissacrante, del relativismo estremo che possono culminare nella paralisi, in una disumanizzazione dilagante, nella scomparsa della realtà esterna a favore di un Io onnipotente e al tempo stesso la dissoluzione di ogni senso di identità. Follia e modernità è un monito, offre uno sguardo lucido, disincantato sulla follia e la nostra contemporaneità e lo fa indagando ponendo la follia schizofrenica a confronto con le opere di artisti e scrittori tra i quali Giorgio De Chirico, Marcel Duchamp, Franz Kafka, Samuel Beckett e prendendo in esame il pensiero di Friedrich Nietzsche, Maartin Heidegger, Michel Foucault e Jacques Deridda. Ben esprime questa nostra condizioni di morti viventi nella realtà in disfacimento Robert Musil: «E’ sorto un mondo di qualità senza uomo, di esperienze senza colui che le vive. Probabilmente la decomposizione del rapporto antropocentrico che per tanto tempo ha posto l’uomo come centro dell’universo è giunta finalmente all’Io, perché l’idea che l’importante dell’esperienza è viverla, e dell’azione il farla, incomincia a sembrare un’ingenuità alla maggior parte degli uomini». E questa la dice lunga del nostro essere nel mondo soggetti attivi, oggi forse più che mai siamo ridotti a meri riguardanti, a io iper-riflessivo, a sguardo distaccato e estraneo su un nostro essere funzionale in balia a tempi e spazi che non sono dettati da noi ma chi vengono dettati…
Louis A. Sass, Follia e modernità. La pazzia alla luce dell’arte, della letteratura e del pensiero moderni, Raffaello Cortina Editore, pagine 492, euro 32.

Nei meandri boscosi del Sogno

GIULIO BELLOTTO | 10580937_318635584963753_5948745514806530445_oL’ultima luna d’estate, così si chiama il festival par excellence del teatro in Brianza, che grazie al lavoro prezioso di Teatro Invito porta nella zona del parco di Montevecchia e della Valcurone artisti provenienti da tutt’Italia e attira una schiera di spettatori da Monza e dalle aree limitrofe. La manifestazione, sviluppata su più comuni, si dichiara promotrice di un teatro “popolare di ricerca” ovvero si propone come luogo d’incontro tra il vasto pubblico e l’essai artistico nazionale.

Agli spettatori finora intervenuti spetta il compito di valutare se questa promessa sia stata mantenuta o meno, ma quindici giorni l’anno (per questa 17° edizione dal 23 agosto al 7 settembre) in cui un’intera provincia si anima di rappresentazioni teatrali di ogni genere, dalla lettura scenica al teatro di narrazione alla commedia al recital al teatro di prosa, ci sembra comunque un successo di cui andare fieri.

Fin dalla nascita, L’ultima luna – in origine chiamata significativamente Teatro e cascine – è stata articolata secondo una struttura particolare, già collaudata all’interno di un certo tipo di teatro d’avanguardia: il festival è itinerante e si avvale di ben 26 architetture in cui i 32 spettacoli del 2014 sono ospitati e alle cui specificità vengono adattati. Questa formula, che presenta non poche difficoltà logistiche e tecniche, si rivela vincente in quanto coinvolge il territorio in un fermento ormai molto sentito dagli abitanti, sopratutto quando gli spettacoli si prospettano inconsueti, accattivanti novità.

E’ questo il caso del Sogno di una notte di mezz’estate, una coproduzione di BIS – Brianza in Scena (che riunisce le compagnie Teatro Invito, Scarlattine Teatro e Piccoli idilli) in scena il 2 e 3 settembre a L’ultima luna. La commedia ingenera grande entusiasmo nel nutrito pubblico grazie alla curiosa combinazione di una rappresentazione itinerante all’interno di un festival esso stesso itinerante. Lo spassoso gioco metateatrale del testo viene magistralmente reso soprattutto dal personaggio di Bottom, interpretato da Stefano Bresciani.

Si applaude innanzitutto la più nota commedia di Shakespeare, un meccanismo perfettamente congegnato dove ben sette trame s’intersecano in un gioco di sovrapposizione tra onirico e reale; si apprezza la resa linguistica curata da Luca Radaelli che nel duplice ruolo di traduttore e regista – nonché direttore artistico del festival – è capace di mantenere in italiano la rima e la metrica del testo originale regalandoci peraltro alcuni raffinati divertissement molto apprezzabili come la resa di Bottom in “signor Fondelli, stalliere”; si gode della bellezza del contesto che ospita lo spettacolo, il vasto parco di Villa Greppi (sede del Consorzio Brianteo) che per l’occasione svela alcune delle aree boscose abitualmente chiuse al pubblico. La più evidente peculiarità della messa in scena è la formula itinerante, un viaggio dentro l’opera shakesperiana che talvolta sembra una vera e propria visita guidata attraverso il dramma, reso giocosa festa popolare in cui alberi, sassi e sentieri acquistano nuova dignità di spazio scenico.

Gli spettatori vengono privati della rigida e rassicurante separazione tra palco e platea, senza poltrone numerate dove sedersi comodamente devono seguire gli attori nel progredire delle scene, una corsa ponderata il cui dinamismo è evidenziato dalla fisicità degli attori liberi di muoversi nello spazio aperto. Per entrare nello spirito della pièce e per capirne il senso profondo e originario che lo spettacolo cerca di far emergere è necessario accettare, condividere e infine vivere questo modus per due ore: attori che toccano, fendono la folla e abbracciano gli astanti, camminate nel bosco durante lo spettacolo, momenti per riflettere sulla scena appena vista mentre i più piccoli tra gli spettatori corrono intorno alla processione. Il pubblico entra a far parte dello spettacolo, lo correda e completa confondendosi col teatro stesso – inteso come luogo, ma anche come tempo, di finzione; esattamente come in un sogno, ponte tra il vero e l’immaginifico.

Questo allestimento del Sogno di BIS prevede fondamentalmente due tipi di scenografia a corredo dello spettacolo: la signorile costruzione della villa a rappresentare Atene e la selva abitata dalle creature fatate. Esse sono le prime ad accogliere gli innamorati ateniesi persi nella foresta, metafora della follia degli umani sentimenti e del groviglio di passioni intersecate da Shakespeare: l’amore felice ma fragile di Lisandro ed Ermia, vagheggiata da Demetrio che non corrisponde l’amore infelice di Elena. Tra le fate spicca Puck il buffone, interpretato efficacemente da Francesca Cecala, attrice in grado di rendere la follia e la giocosa fedeltà del folletto con pose svolazzanti e un azzeccato farfugliamento che assurge a cifra comica ma inquietante del personaggio. Tutta questa corte di personaggi gimcana intorno al pubblico appena congedato dalla reggia di Teseo ed entrato nella foresta proprio attraverso un ponte, un simbolo come abbiamo visto assai significativo.

Tuttavia al di là dell’importanza del luogo scenico, le cui peculiarità sono accuratamente studiate, sfruttate e in definitiva fondamentali per la riuscita della messa in scena, ci sono anche altri aspetti interessanti da sottolineare a livello di regia. In primo luogo la scelta degli interpreti che riprende un’interpretazione dell’opera secondo cui i personaggi di Teseo e Oberon e di Ippolita e Titania, signori di due mondi antitetici e complementari, sono interpretati dai medesimi attori; la novità è qui rappresentata dalla scelta dei costumi, laddove il bianco simboleggia il formalismo ateniese e il nero delinea i selvaggi istinti del mondo onirico delle fate.

A completare questo quadro animalesco, costellato da riferimenti a sensualità e sessualità che la regia e la recitazione non nascondono affatto, è messa in evidenza un’impostazione decisamente classica. Al punto che il riferimento al teatro antico diventa trait d’union tra la magia del sogno e la miope concretezza della forma mentis ateniese, basata sulla sterile logica del pensiero umano. Così il prologo che vede Demetrio accusare Lisandro per l’amore che Ermia gli riserva si sviluppa in modo frontale e ricorda la resis del teatro greco. La scelta di utilizzare un vero e proprio coro di danzatrici/cantanti per interpretare le fate al seguito di Titania rispecchia la volontà degli artisti di collegare enigmaticamente i due aspetti dell’esperienza umana: fantasia e realtà oggettiva. Allo spettatore attento ciò suona come una sorta di rassicurazione: gli slittamenti di senso non sono veri ma fanno parte della finzione teatrale.

Ma l’angoscioso mistero, molla di tutta la pièce, resta intatto, caro pubblico. Se la finzione si confonde così in profondità con la realtà quotidiana, tanto da portarvi a Villa Greppi, siete certi di potervi fidare delle parole dei teatranti che state applaudendo?

Fino al 7 settembre, programma su teatroinvito.it

A Short Theatre 2014 spettacoli e performance per cambiare il mondo

unnamedLAURA NOVELLI | Si intitola La rivoluzione delle parole la nona edizione del festival Short Theatre che, diretto da Fabrizio Arcuri e realizzato grazie al supporto organizzativo di AREA06, si svolge nelle prime due settimane di settembre a La Pelanda di Roma con appuntamenti dislocati pure al teatro India e all’Argentina (www.shorttheatre.org;info@shorttheatre.org). Un titolo forte, emblematico, profondamente connesso alla crisi attuale e però caparbiamente proteso a delineare scenari di possibile (possibile?) cambiamento. Lo spiega lo stesso direttore artistico illustrando il ricco programma di una vetrina che, sempre più internazionale e sempre più trasversale, vuole offrire “l’occasione per indagare i meccanismi che possono rivoltare le condizioni del nostro presente, di una crisi così organica che si fa dimenticare: il linguaggio come territorio di costruzione di un nuovo immaginario, che non solo resista al contemporaneo ma tenti di realizzare un futuro, ora e qui”. Un futuro ipotizzabile partendo dunque dalla parola.
Riposizionando l’energia sovversiva della parola – la sua capacità di “dire” il cambiamento – nel perimetro di quel teatro del mondo che, anche laddove fisico e performativo, da sempre ne è una tribuna indomabile. E l’obiettivo artistico sotteso a queste premesse non potrebbe che essere, in ultima analisi, un’esplorazione dell’umano in tempi in cui l’umano vacilla. Perché “essendo l’umano un essere di linguaggio – come scrive Massimo Recalcati nel suo ultimo libro, “Il complesso di Telemaco” – essendo la sua casa la casa del linguaggio, il suo essere non può che manifestarsi attraverso la parola. E’ l’evento della parola a umanizzare la vita e a rendere possibile la potenza del desiderio […].”. Così come a rendere possibile un’eredità che dal passato, dai Padri, diventi linfa per il futuro, per i Figli. Non a caso il lavoro di apertura di questo Short Theatre 9, La casa di Eld, diretto da Oscar Gómez Mata e ispirato ad una novella di R.L.Stevenson, giunge a noi dalla Svizzera per proporre uno scambio pubblico tra “gli adulti che siamo e gli adolescenti che siamo stati” che prevede il coinvolgimento diretto di alcuni ragazzi del territorio. Sui legami familiari e generazionali si interroga pure lo spettacolo vincitore del Premio Scenario 2013, Mio figlio era come un padre per me, del gruppo Fratelli Dalla Via (Marta, Diego e Roberto, premiati quest’anno anche con il Premio Hystrio Castel dei Mondi), in programma insieme ad altre interessanti proposte di danza e performance tra cui quelle di Zaches Teatro (Dittico della Visione) e degli spagnoli El Conde de Torrefiel.
Arriva invece da Parigi il regista Joris Lacoste con il suo intrigante progetto L’Encyclopédie de la parole, avviato nel 2007, che si pone l’obiettivo di collezionare un poliedrico archivio di registrazioni sonore, di cui viene proposto al teatro Argentina lo spettacolo/concerto Suite n°1 ABC, con 22 artisti in scena di cui 11 invitati locali, atte a rappresentare e decodificare i meccanismi della comunicazione orale contemporanea (www.encyclopediedelaparole.org). E se i nomi internazionali reclutati nell’ambito di una solida progettualità di scambio che spazia dalla Spagna al Belgio, dalla Svizzera alla Francia (prevista anche una tavola rotonda sulla drammaturgia europea odierna) sono davvero molti, non di meno la scena italiana mostra un’eclettica vivacità: Kinkaleri è in scaletta con una performance incentrata sulla trasmissione dell’alfabeto gestuale (Everyone gets lighter / All!) e un lavoro sulla cultura beat che si intitola Pasto pubblico/ Poesia al telefono; l’Accademia degli Artefatti torna ad una produzione del 2006, Insulti al pubblico di Peter Handke, un testo dove l’impossibilità di recitare, lo sbranamento del dire, la tortura stessa delle parole impedisce l’azione, preparando il nulla, il vuoto; viaggia poi nel mondo pubblico e privato di nove cantanti degli anni ’60 e ’70 Angela Baraldi nel suo The wedding singers realizzato in sinergia con il Teatro della Tosse, mentre Roberto Latini e Federica Fracassi affrontano un’inedita versione de I giganti della montagna (atto I) di Pirandello su regia dello stesso Latini. E ancora: Antonio Latella dirige la compagnia Stabilemobile nella partitura A.H., elaborata insieme con Federico Bellini, che si interroga sul senso e le radici del male partendo dalla figura di Hitler (tema già affrontato dal regista campano in precedenti lavori quale, ad esempio, Faust Diesis); Babilonia Teatri indaga la figura di Jesus come punto di domanda “che non ha risposta. Non una. Non data” in una prima apparizione a firma di Valeria Raimondi, Enrico Castellani e Vincenzo Todesco; Teatri di Vita porta a Roma il suo fortunato Delirio di una trans populista dedicato a Elfriede Jelinek (ne ho parlato con il regista, Andrea Adriatico, in un’intervista pubblicata il 6 agosto, https://paneacquaculture.net/?s=andrea+adriatico+); infine (ma c’è dell’altro ovviamente) Mariangela Gualtieri regala al pubblico un rito sonoro edificato sulle sue splendide poesie, a partire da quell’ineguagliabile Sermone ai cuccioli della mia specie che ci conduce proprio da dove siamo partiti: la parola come educazione, civiltà, ribellione, eredità umana. Futuro. “Perché – e torno volentieri anche a Recalcati – l’ereditare non è la ricerca di una rassicurazione identitaria. Implica piuttosto un salto in avanti, uno strappo, una riconquista pericolosa”.

Sole, 12 anni dopo: dove sei, mio eroe? La saga dell’abbandono per Valentina Capone

Sole-Valentina-CaponeRENZO FRANCABANDERA | Una piccola tournée nel 2014 quella di Sole, spettacolo ideato, diretto e interpretato per la prima volta 12 anni fa da Valentina Capone: una ispirazione originaria euripidea e un completamento nel 2008, alla morte di De Berardinis, cui l’attrice è stata vicina negli ultimi anni di attività, fra il 95 e il 2001, prima del tragico incidente ospedaliero cui il genio teatrale sopravvisse, ma senza più riprendere coscienza, restando in coma fino al 2008.

E’ proprio il tema della solitudine, dell’abbandono, quello che la Capone mette al centro della ricerca, un abbandono che ha a che fare, o almeno dovette averlo in origine senz’altro, con il distacco umano, artistico, emotivo dalla figura di riferimento.

E lo spettacolo effettivamente riprende molti codici che fecero del teatro di Leo un caposaldo per una generazione di giovani interpreti, come ad esempio la capacità di rileggere lo spazio del tragico entro i confini di una satira irridente e contemporanea. Come non ricordare le battute iniziali di quel “Totò, principe di Danimarca” che Leo interpretò con attori che ancora calcano i palcoscenici italiani, fra cui, nella seconda edizione, proprio la Capone, in cui il regista interprete irridente diceva:”Che ridete, che ridete? Amleto è una tragedia!”.

La Capone con quello stesso sguardo, immaginando figure dalla sessualità ambigua e dall’umanità zoomorfa, portò in scena un remake contemporaneo de Le Troiane, che poi si completerà a sei anni dalla sua ideazione, in occasione della morte di De Berardinis, ripreso quest’anno, a sei anni dalle ultime date, che valsero nel 2009 il premio ETI – Olimpici del teatro.

E’ Teatro Libero di Milano che riprende Sole, rimettendolo in produzione e facendolo circuitare, con un’ultima data per la stagione estiva 2014 proprio ad inizio agosto nel teatro milanese.

Che sapore ha il tutto a 12 anni dalla sua creazione?

Sicuramente, pure in una teatralità che appare per certi versi, come ovvio, datata, continuano a vivere, e con forza, alcuni momenti di particolare intensità, che paradossalmente sono quelli del distacco dalla lezione del maestro, quelli del percorso solitario, che culmina proprio nella visione più forte, con l’attrice che nella sua nudità e i capelli sciolti, approcci a, con le braccia chiuse al seno, il proscenio, per una dichiarazione d’amore all’eroe lontano, una dichiarazione contemporanea, metropolitana, fatta di nottate e sigarette, di luci della ribalta spente e di interni privati.

In un melange di tragico, indagine sul corpo e sulla maschera, di ricerca sulla doppiezza fra ciò che appare e ciò che è sostanza, muovendosi fra i pochissimi elementi in scena, se si fa eccezione per qualche richiamo alla figura del guerriero andato e alle maschere di Stefano Perocco Di Meduna (un rimando a certa iconografia del maestro), il tutto si svolge in un buio squarciato dalle belle e precise luci di Stefano Stacchini con le musiche di Alessandro Rinaldi.

Ci resta la sensazione di una compattezza estetica maggiore rispetto a ciò che arriva sul piano drammaturgico. Le epifanie grottesche che emergono dal buio, infatti, ad alcuni giorni di distanza, restano in memoria, confermano l’impatto visivo forte della ricerca, e che prevale, sotto certi aspetti, sulla parola e su quello che del recitato resta.

Ecco che forse, un destino utile e possibile di questa ricerca, nel suo rileggersi nel tempo e negli anni, potrebbe essere quello di ricavarne anche un più breve, ma più icastico, momento performativo sul tema dell’abbandono, di cui restino alcune parti essenziali del recitato e dell’agito, per una rilettura della memoria capace di farsi sintesi, lacerazione, ode di commiato, lo spazio di un taglio, di una cesura, forse senza più un sole ad illuminare.

“Teatro di Terra”, le Ariette a convito a Torre Guaceto

arieVINCENZO SARDELLI | Ci sono format artistici che sembrano creati apposta per certi contesti. È il caso dello spettacolo Teatro di Terra, che abbiamo visto a Torre Guaceto sulla costa brindisina: natura, teatro, musica e cibo nei cortili dei contadini della Riserva. È il progetto Nelle case del Parco, giunto in questo agosto 2014 alla XIV edizione, curato dalla Compagnia Thalassia di Mesagne.

Ospitalità e conversazione. Polenta, bruschetta e formaggio. Peperonata, anguria e vino. Il cortile della casa bianca di Pinuccio Bellanova è lo scenario ideale per Paola Berselli e Stefano Pasquini, contadini-attori emiliani della Compagnia delle Ariette, in scena con Maurizio Ferraresi.

Lo spettacolo è ritrovo conviviale. Dopo gli applausi, si mangia.

Il cibo è rito, relazione. Servito al pubblico dagli stessi attori, il cibo non solo conclude, ma dà anche il via alla messinscena. Spicchi di formaggio, come quello che Odisseo si aspettava da Polifemo in nome dell’ospitalità cara agli dei. E mandorle, sinonimo di rinascita e saggezza, segreto e fecondità.

Piatti brindisini. E cibi della terra delle Ariette, associazione che dal 1989 produce e promuove anche cultura teatrale. “Ariette” è un podere in collina, 2,8 ettari di terra in pendenza lungo la Valle del Marcatore, sopra Bazzano, dalle parti di Bologna. Qui i campi hanno un nome, come le persone: Ariette, Due querce, Inferno, Purgatorio, Paradiso. Anche questa è convivialità. Come le storie che gli spettatori ascoltano, disposti a semicerchio, intorno a una scena che è terra e pollaio, paiolo e fornelletto a gas. E polenta, preparata durante lo spettacolo a segnare il tempo. A dare il ritmo. Lento. Solenne. Come il movimento della “cannella”, l’enorme mestolo di nocciolo che serve a mescolare. Come il vomere per rivoltare la terra.

Teatro di terra è agape, intreccio di esistenze e parole. «Non si può essere contemporaneamente ciò che si è e ciò che si è stati». Inizia il tempo di una trasformazione. Proprio come il mais, che si tramuta in polenta.

Il cerchio di terra al centro della scena è vita. Vita da cui si nasce e polvere cui si ritorna. Ma un ciclo può anche chiudersi in modo innaturale. Come lo sparo del G8 di Genova che spense la vita di Carlo Giuliani, ed è una delle prime istantanee dello spettacolo.

Sono racconti di morte, amore e abbandono. Emozioni di un teatro civile. Sono storie di semi e di carote. Cadenze di vanga e rastrello. E una terra che è dono e sudore. Citazioni colte, da Pessoa a Wim Wenders, da Tom Wait a Patti Pravo. Chiusura pirotecnica di popcorn cotti in padella, saltellanti come lapilli, e stelle filanti luminose nelle mani degli attori.

Uno spettacolo sulla terra non poteva che essere umile, artigianale. Forse un po’ slegato drammaturgicamente. Forse perfettibile nella regia di Stefano Pasquini. Ad esempio, come fa lo spettatore a capire che la genesi dello spettacolo coincide con i fatti di Genova del 2001, e che il riferimento a Giuliani fu considerato dalle Ariette un atto dovuto?

Ma qui, proprio, conta il cuore. E la verità di tre figure che si presentano in canottiera intima, con naturalezza quotidiana. Con i segni della pelle arrossata dal sole. E l’inflessione emiliana così reale, più pulita della dizione impostata dei teatranti.

Quando la riflessione sulla scena si fa struggente, ecco la capacità di smorzare: un naso da clown, una barzelletta, palloncini multicolori. Perché «non c’è impero o ideale che valga un solo pupazzo di neve».

Le lacrime di un annaffiatoio sulla parrucca di Paola Berselli, le miserie umane, non turbano la natura, l’alternarsi di lavoro e riposo. Scopriamo che persino strappare a pezzettini una banconota può essere un buon affare.

Mai smettere di sognare, ci dicono le Ariette. Male che vada, ci mangiamo su. Una spianata di polenta, profumi d’olio, parmigiano e rosmarino. E un buon rosso. A scacciare la malinconia. A brindare insieme, con allegria.

L’ultimo valzer di Zelda Fitzgerald: danza macabra secondo la Piccola Magnolia

GIULIA MURONI | Allontanarsi dalla follia sulla scorta di vorticosi arabeschi del pensiero e scrivere per fuggire l’incombenza oscura del disagio mentale. Questi i motivi per cui i medici di Zelda Fitzgerald, nella clinica psichiatrica di Baltimora, hanno incentivato la sua attitudine a scrivere. Non del stesso avviso il marito Francis Scott il quale pare sentisse sentimenti ambivalenti rispetto a questa attività, e alla stessa personalità dell’eccentrica e capricciosa coniuge.

10501799_10204686260865254_8891228869488711549_nPiccola Compagnia della Magnolia ha portato in scena “Zelda/ Vita e morte di Zelda Fitzgerald”, monologo tratto dalla tormentata vicenda di Zelda Fitzgerald a partire da “Lasciami l’ultimo valzer”, romanzo degli ultimi anni di vita in clinica psichiatrica. Il lavoro condotto dalla compagnia (Giorgia Cerruti e Davide Giglio) sul testo di Zelda e sui carteggi Francis-Zelda ha permesso di costruire una ricca drammaturgia in cui si dà spazio ai chiaroscuri della coppia, in bilico tra l’esaltazione dei ruggenti anni Venti in Europa e gli abissi di insicurezze e fragilità, pronti a riemergere e trascinare nel fondo. Non si tratta di un dialogo, è Zelda (Giorgia Cerruti) a dire la sua, a raccontare le loro vite dal suo personale punto di vista, deformandole con il mastice delle sue nevrosi e mischiandole con le storie dei romanzi di Francis, della sua infanzia agiata, delle numerosi ambizioni inespresse.

Visto a Racconigi (CN), nel cartellone de la Fabbrica delle Idee/Progetto Cantoregi, nell’abside della chiesa sconsacrata di Santa Croce, lo spettacolo vede in scena Zelda, seduta nel letto di contenzione della clinica in cui ha trascorso la fase terminale della sua esistenza e dove ha incontrato la morte. A otto anni dalla perdita di Francis, il delirio sembra avere la meglio su di lei e il soliloquio inscenato scorre tra l’amore e la nostalgia, il risentimento e il livore, tratteggiando i confini di una danza macabra ininterrotta. Sconquassato l’asse temporale, i numerosi flash-back, il rimestamento dei piani e la confusione di registri e prospettive contribuiscono a creare un mosaico complesso e variopinto, in grado di abbracciare tutta l’esistenza di Zelda Fitzgerald fino alla sua drammatica fine.

Giorgia Cerruti padroneggia con sapienza l’arte attoriale: non è una performer, è un’Attrice. Nella dicotomia tra attore tradizionale di teatro drammatico e performer postmoderno, la Cerruti muove verso una soluzione efficace e originale, scevra di birignao e consapevole della potenza specifica dell’arte attoriale, aperta ad un caleidoscopio di possibilità interpretative. In questo lavoro profondamente onesto e di qualità, la finzione è mostrata: nel suo volto si susseguono i mutevoli stati d’animo di Zelda che passa in rassegna la sua esistenza e nella voce, dal timbro ricco di variazioni, risiede un’intensità formale di rilievo.

Uno spettacolo caratterizzato da pochi elementi, ben calibrati e di pregio, indicativi di una declinazione dell’artistico scenico che non scivola nell’intellettualismo e che si fa carico di un’operazione estremamente valida: quella di dare spazio autonomo a una figura complessa e controversa sulla quale troppe volte sono state date letture subordinate alla celebrità del marito.

Teglio teatro festival Valtellina: natura e valori per legare le arti

DSCN5930RENZO FRANCABANDERA | Una tradizione che anno dopo anno si rafforza, nomi sempre migliori del panorama teatrale nazionale, da Francesca Mazza alla Scommegna, passando per Licia Maglietta e i burattini di Cortesi, legati alla musica, che da queste parti ha avuto un illustre concittadino fra i membri del Quartetto Cetra, Felice Chiusano, cui quest’anno è stato dedicato un omaggio con gli Italian Harmonists e un loro concerto dedicato proprio al repertorio dei Cetra e di quegli anni ruggenti.
E ancora cinema e letteratura, per un mix che anno dopo anno diventa sempre più interessante e capace di attrarre arte in una valle da sempre portatrice di tradizioni e valori consolidati, dal rispetto della natura, alla solidarietà della montagna.

Teglio in Valtellina, fra spettacoli ad alta quota, palazzi storici, eventi al confine con il bellissimo cantone dei Grigioni in Svizzera, è il luogo in cui tutto questo accade, e se accade è merito della tenacia con cui da anni l’ideazione e direzione artistica di Maria Agnese Bresesti sa mettere tutto insieme con movimentata dolcezza, affiancata negli anni alla direzione organizzativa da Giulia Cacioni.

Siamo stati ospiti del secondo week end, e fra presentazioni di libri dedicati al teatro a scuola, di documentari su Walter Bonatti, una leggenda in questa valle e non solo, spettacoli, concerti e feste, davvero raccontare tutto è stato in realtà facile come perdersi in una passeggiata di montagna dietro questo o quel profumo, o dietro un conviviale piatto di bontà locali.

Teglio insomma è un posto in cui venire in ogni stagione, e l’occasione estiva si rafforza con un festival che può ancora tanto crescere con la lungimiranza e la passione che già lo animano. L’edizione 2015 sarà dedicata al De rerum natura di Lucrezio e avrà come tema Dacci oggi il nostro pane, un legame forte con l’Expo e con la spiritualità di questa valle.

 IL VIDEOREPORTAGE DELL’EDIZIONE 2014 DEL FESTIVAL E’ DISPONIBILE CLICCANDO SULL’IMMAGINE SEGUENTE

 

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Ricucire il mondo: Maria Lai e l’arte ordita dei suoi fili

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FRANCESCA PEDDONI | Fili cuciti, ricuciti e scuciti. Fili tesi o aggrovigliati, liberi o annodati che s’impossessano dei linguaggi silenziosi di una piccola donna: Maria Lai. Sono i fili che uniscono virtualmente tre delle maggiori istituzioni artistiche della Sardegna: Musei civici di Cagliari, MAN di Nuoro e la Stazione dell’arte di Ulassai, in “Ricucire il mondo” – dal 10 luglio al 02 novembre 2014 – la prima retrospettiva dedicata all’universo artistico di una fra le più importanti protagoniste femminili dell’arte contemporanea.

Era una piccola donna sarda, con un passato legato agli zingari e alle leggende, in un luogo aspro come la Sardegna, terra primitiva di pastori e tessitrici, luogo un po’ magico dove le janas, le fate delle grotte, aiutano a costruire le trame delle cuciture di tappeti e di stoffe con il loro ordito che mescola rigore geometrico e libera fantasia. Sono i fili della tradizione e del passato che stanno alla base di quest’originale ricerca creativa che porterà l’artista ad amare le sue radici e allo stesso tempo a doversene staccare, trovando nei linguaggi contemporanei dei punti di riferimento necessari per quello che diventerà il suo linguaggio personale. L’immaginario intreccio d’arte allestito in occasione della mostra inizia con le prime opere esposte nel percorso cagliaritano: schizzi dell’artista realizzati dagli anni quaranta agli anni sessanta, influenzati dagli insegnamenti di Arturo Martini, suo maestro durante gli anni della formazione a Venezia.

Si tratta di disegni su carta, semplici, istintivi, immediati, poche linee evocano volti dignitosi e gestualità antiche legate al lavoro delle donne sarde. Le matite e le chine con gli anni accolgono il colore, steso a velature sulla carta; così il segno, sicuro e preciso, si evolve verso l’essenzialità. Nascono da qui i lavori più celebri: le Lavagne, le Geografie, i Libri cuciti, opere in cui l’artista interviene inventando parole non scritte, visibili ma incomprensibili, in cui libera e aggroviglia i tanto amati fili che prepotentemente s’impadroniscono delle sue opere. E’ sempre il percorso cagliaritano a offrire documentari e interviste, testimonianze commoventi dalla flebile voce dell’artista che nella sua apparente fragilità ha saputo “legarsi alla montagna”: il filo nel 1981 si trasforma in nastro e partendo da una leggenda locale che menziona un “nastro azzurro”, l’artista decide di legare con un tessuto lungo oltre venti chilometri 10615579_760613787315558_2316735299533274132_nle case del paese fino alla montagna, in cerca di una tregua spirituale con la natura. Una performance legata all’analisi delle emozioni dell’animo umano: uno stesso nastro che tiene uniti insieme odio, amore, amicizia, diversità e uguaglianze. Un grande telaio all’aria aperta, una metafora dell’arte, raccontata in mostra dalla proiezione del filmato originale. Il percorso cronologico continua al MAN di Nuoro con la produzione dell’artista dai primi anni ottanta al duemila, attraverso opere, materiali, documentari, foto e video dei principali interventi ambientali, da “La disfatta dei varani” a “Essere è Tessere”.

Una serie di lavori, tra cui “Lenzuoli”, “Libri cuciti”, “Geografie” e “Telai”, raccontano infine la relazione dell’artista con il mondo dell’infanzia e della didattica. La retrospettiva culmina nella Stazione dell’Arte di Ulassai, un museo d’arte contemporanea fondato dall’artista stessa. E’ il silenzio che accoglie il visitatore in quest’angolo sperduto della Sardegna, un’ex stazione ferroviaria immersa nel verde dell’Ogliastra. Qui sono raccolte le opere della maturità divise in due parti: le sculture esposte all’interno degli spazi museali e un percorso ambientale, caratterizzato da dodici opere suggestive, posizionate in spazi che dal parco dell’ex stazione si snodano all’interno del paese di Ulassai. Negli spazi museali, le grandi “Carte geografiche”, che l’artista ha continuato a modificare soprattutto negli ultimi anni; tele e velluti, luminosi e profondi sono dei grandi spazi cuciti, talvolta scuciti e poi ancora ricuciti.

Nel percorso lo spazio più interessante è dedicato alla bellissima installazione “Invito a tavola”, pani e libri monocromi “apparecchiano” un lungo tavolo bianco; un’Ultima Cena che rappresenta la fine del percorso artistico di Maria Lai, con due simboli che racchiudono l’essenzialità di un lavoro durato una vita: il pane e il libro, metafore dell’arte come nutrimento. E’ circondati dal silenzio di questo luogo quasi magico che si è coinvolti appieno dal testamento artistico di questa piccola donna sarda. Il suo linguaggio fatto di fili, cuciti ricuciti e scuciti, è testimone di una vita di ricerca, che qui finisce, fra le parole non scritte che raccontano di fate e telai, nastri e montagne silenziose.

Alcuni video della mostra

 https://www.youtube.com/watch?v=TL8mGWVreeI

https://www.youtube.com/watch?v=0rVoN64Fz-o

I burattini di Daniele Cortesi: il videoreportage

RENZO FRANCABANDERA | Incontriamo i burattini di Daniele Cortesi al Teglio Teatro Festival, un’occasione estiva di incontri che si svolge ormai dal 2009 in Valtellina da inizio a metà di agosto.
Cortesi è un erede di una tradizione per certi versi secolare, se si guarda all’evoluzione del burattino in Italia, una tradizione che distingue i pupi e i burattini, a seconda della meccanica di movimento, ma anche del patrimonio drammaturgico di riferimento, essendo i primi legati alla letteratura del poema epico e i secondi alla commedia dell’arte e alle sue evoluzioni dopo la rivoluzione francese.
Per altri versi, questa è una tradizione generazionale artigiana, fatta di ultimi detentori di un sapere che ha una specificità regionale molto forte, legata a personaggi nati fra fine Settecento e inizio Ottocento che sopravvivono proprio grazie alla tradizione verbale di artista in artista, di artigiano in artigiano.
La video intervista a Cortesi è dunque un documento ad un’arte che in modo superficiale viene definita come destinata ad un pubblico di bambini. Sono spettacoli di gradissimo fascino e abilità sia tecnica che teatrale, occasioni imprendibili che assolutamente segnaliamo. Incontrare un grande burattinaio, un puparo della vera tradizione, significa incontrare una fascinazione senza tempo, che unisce il pubblico di ogni età, riportandoci al confronto con forme d’arte straordinarie.

Di seguito il link al video reportage di oggi, a cui accedere cliccando sulla seguente fotografia.

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