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“Potevo essere io”: Renata Ciaravino racconta la genesi del suo monologo

potevo essere io 2LAURA NOVELLI | Forse perché parla dei bambini e dei ragazzi che siamo stati tutti; forse perché racconta il disagio – comune a molti – di affacciarsi sul mondo sentendosi relegati ai margini; forse perché ci ricorda i nostri palpiti adolescenziali, quei sentimenti così nuovi e tempestosi per i quali avremmo scalato le montagne o saremmo sprofondati nelle viscere della terra: fatto sta che “Potevo essere io” di Renata Ciaravino, interpretato da un’intensa Arianna Scommegna, dopo le felici repliche a Bratislava, al Kilowatt Festival e a Radicondoli, ha chiuso il suo tour estivo a Teglio, nell’ambito del Teatro Festival Valtellina, che le ha assegnato anche il riconoscimento di miglior spettacolo dell’edizione 2014. Aveva suscitato la mia curiosità già l’anno scorso, quando risultò lo spettacolo vincitore del Bando Nextwork 2013, soprattutto per il legame di “parentela” con l’omonimo romanzo della stessa autrice pubblicato nel 2007 da una piccola casa editrice ormai fallita. E dunque, raggiunta Renata Ciaravino al telefono, la prima cosa che le chiedo è proprio:

Come e quando nasce l’idea di trasporre per le scene il tuo romanzo?

“A dire il vero, malgrado lo avessi scritto con entusiasmo e dedizione, una volta pubblicato, ho instaurato con il mio libro un rapporto difficile: ho avvertito quasi un senso di rifiuto, di distanza, come se fosse un figlio non amato. Diciamo che me ne sono disinteressata per un bel po’, poi l’ho ripreso in mano per trarne una scrittura drammaturgica e l’abbiamo fatto in una prima versione teatrale a due personaggi di cui però non mi sentivo soddisfatta. Al monologo con Arianna, che tra l’altro reputo un lavoro ancora capace di ulteriore sviluppi, siamo arrivati molto gradatamente e il contributo di ciascun componente del gruppo di lavoro (Elvio Longato per il video e le scelte musicali; Carlo Compare per le luci, Serena Sinigaglia per la supervisione registica, ndr) è stato fondamentale”.

Quali sono stati i passaggi salienti attraverso cui si è cementata questa sinergia di competenze e poetiche diverse?

Innanzitutto è stato decisivo per me riscrivere il testo in forma di monologo; ho completamente stravolto la struttura della narrazione originale e in questo mi è stata molto utile la lucidità di visione di Elvio Longato. Dopodiché entrambi abbiamo capito che l’attrice giusta, quella che avrebbe potuto valorizzare meglio una partitura del genere, sarebbe stata Arianna Scommegna. Lei ci ha messo un po’ per accettare e poi si è convinta, e devo riconoscere che è bravissima. E’ riuscita a dare al testo una seconda vita. Finalmente sento di aver fatto pace con il mio romanzo: è una storia che amo moltissimo e che ora ritrovo sulla scena nella versione giusta”.

Nel monologo – di nuovo in scena in autunno in varie piazze – si segue il filo di due vite: quella della protagonista e quella di Giancarlo Santelli. Siamo nella periferia nord di Milano tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. I due adolescenti avranno destini molto diversi. Quanto c’è di autobiografico nella trama?

“Certamente racconto una parte della mia storia e della storia di molti miei amici e colleghi con cui condivido il fatto di essere figlia di immigrati arrivati al nord e di aver trascorso l’infanzia e l’adolescenza in certi luoghi. Anche i riferimenti musicali sono di quell’epoca, motivo per cui gli spettatori quarantenni è probabile che si sentano molto coinvolti. Ma anche il pubblico di altre età e con estrazione geografica diversa ama questo lavoro, semplicemente perché affronta temi transgenerazionali, parla dell’infanzia, dell’inclusione e dell’esclusione. E questa è roba che interessa a prescindere dall’età e dal posto in cui si vive”.

Tu sei drammaturga di una formazione teatrale, la Compagnia Dionisi, che è molto viva e impegnata su fronti e progetti diversi. Cosa puoi anticiparci del lavoro “Fuck Me(n). Studi sull’evoluzione del genere maschile”, che debutterà a marzo all’Out-Off, e della prossima edizione del Festival Mixité?

“Per quanto riguarda Fuck Me(n) abbiamo chiesto a tre autori (Massimo Sgorbani, Giampaolo Spinato e Roberto Traverso, ndr) di scrivere tre pezzi su cosa significhi la mascolinità oggi, su come è cambiato il maschio rispetto alla coppia, alla famiglia, alla paternità. Ci sembrava che, fuori dall’ambito omosessuale, a teatro si affronti poco questo tema che invece io e l’intero team creato per il lavoro sentiamo in modo profondo. Il festival Mixité 2014, con lancio nel 2015, sarà una rassegna molto ricca, articolata sul tema dell’identità di genere, affrontato anche qui in modo ampio, largo, laico. Vorremmo mettere insieme produzioni che lascino emergere tutta quella sensibilità nascosta che muove oggi il mondo maschile e femminile. Ci sarà pure uno spettacolo simile a Fuck Me(n) il cui testo sarà composto da tre contributi distinti scritti da me, Cristian Ceresoli e Giuseppe Massa”.

E poi: qualche altro desiderio professionale per gli anni futuri?

“Probabilmente un altro romanzo. Ho già buttato giù le prime pagine. Chissà: staremo a vedere”.

Come cambia la musica quando la burocrazia non e’ sorda! Il caso Quartetto Delfico

balla di fieno rotolanteEMANUELE TIRELLI | I fatti sono due. Le idee non cadono dagli alberi e l’Italia ha patrimoni meravigliosi stipati in cantina e inaccessibili.
Lo scorso anno, l’ex ministro Massimo Bray aveva proposto l’affidamento ai privati dei musei inutilizzati.
Pensiamo poi ad arredi e oggetti ammassati in alcune stanze della Reggia di Caserta. Oppure alla Villa Reale di Monza, abbandonata e saccheggiata serenamente per anni.
A Caltanissetta, Gela, Mazzarino, Marianopoli e San Cataldo. E a molti altri ancora. Senza considerare la possibile ricaduta economica che il recupero e la valorizzazione di questi siti potrebbero avere sulle finanze del nostro Paese, come sottolinea una puntata di Report dello scorso anno intitolata ironicamente “Belli da morire”.
Spesso è il tira e molla tra le istituzioni a generare un andazzo infinito capace di mummificare ogni cosa e quasi pure ogni speranza. E spesso il motivo è che non si sa cosa farne o “non ci sono soldi”. Anche se poi l’Italia riceve danari dall’Europa e li restituisce perché non li ha usati.

Potremmo dire, quasi quasi, più o meno, la stessa cosa del Conservatorio di Firenze. Al suo interno c’è il Fondo Pitti, biblioteca musicale dei Granduchi di Toscana dedicata, tra le altre cose, alle trascrizioni per quartetti d’archi e ottetti di fiati di grandi opere di aree italiana e viennese. Parliamo di Mozart, Cimarosa, Paisiello, Salieri e Beethoven. Per dirne qualcuno.
Sembra infatti che tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, e ancora fino a Giuseppe Verdi, fosse molto in voga trascriverle per formazioni musicali numericamente più snelle che potessero riproporle anche nei palazzi dei signori, senza dover raggiungere necessariamente i pochi teatri d’opera. Un po’ come un juke-box d’altri tempi.
Questo materiale è rimasto inutilizzato dall’unità d’Italia (appena 153 anni fa), fino a quando qualcuno non si è ricordato che le idee non cadono dagli alberi e ha scritto un progetto. Questo qualcuno si chiama Quartetto Delfico, è una formazione italiana che suona in tutta Europa ed è al suo secondo disco con l’etichetta olandese Brilliant Classics.
Quattro bravi musicisti hanno messo nero su bianco il Progetto Pitti hanno bussato alla porta del Conservatorio per domandare l’accesso al materiale. Perché? Per usarlo, naturalmente. Quattro programmi musicali all’anno per i prossimi 3 anni, ognuno dei quali deve debuttare necessariamente a Firenze e poi andare dove li porterà il Quartetto. Tutto ok. Il Conservatorio ha accettato. Hanno iniziato con “Don Giovanni allo specchio” per lo scorso Maggio Musicale Fiorentino, proseguito subito dopo con “Benucci, star dell’opera buffa a Vienna”, mentre dal prossimo autunno sarà la volta dei due programmi dedicati alla “Passione di Nostro Signore Gesù Cristo” di Paisiello e a musiche originali per quartetto di autori più o meno conosciuti come Luigi Boccherini. E anche qui, i fatti sono due. La formazione può avere accesso, utilizzare e portare in giro materiale che non si sarebbe mai potuta permettere. E il Conservatorio può vedere utilizzato il proprio materiale altrimenti serenamente abbandonato in archivio, senza spendere un euro e con il suo marchio sempre presente. Tutto questo ha mosso anche la curiosità di festival italiani e stranieri e di etichette discografiche interessate ad ospitare e incidere su disco le musiche del progetto.
Beh, certo, viste da questa prospettiva le cose sembrano più facili. E il problema, quasi sempre, è tutto nella differenza tra un sistema che ha la burocrazia intelligente e proattiva e un altro in cui la burocrazia si nasconde dietro le leggi per far morire la propria realtà.
È come fare perennemente lo sciopero bianco. Ecco, l’Italia è da 153 anni almeno in sciopero bianco. Oppure è in malattia.

Transformers 4. Ma come sono umani questi robot!

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ALESSANDRO MASTANDREA | Spiega un accorato Cade Yeager (Mark Wahlberg) a un deluso Optimus Prime: “non dovete giudicarci per quello che siamo, ma per quel che possiamo essere, per il nostro potenziale”.
Quindi, prima di esprimere un parere sul nuovo capitolo della saga robotica diretta da Michael Bay, sarà meglio seguire lo stesso consiglio, giudicando Transformers 4 non per quello che effettivamente è, ma per quello che sarebbe potuto essere, per il suo potenziale.
E sotto questa lente, Transformers 4 esprime un potenziale altissimo. Blockbuster che è anche allegoria di tematiche spinose quali, ad esempio, l’accettazione e l’accoglienza del diverso da sé, del migrante (dell’alieno nel significato letterale del termine), delle difficoltà dei rapporti generazionali padre-figlio, del sottile confine che separa l’uso legittimo della forza da parte di una democrazia dal suo abuso e, infine, di cosa sia lecito fare nella lotta al terrorismo.
E’ un’antica casta di guerrieri quella degli Autobot, provenienti dallo spazio profondo e approdati per caso sul globo terracqueo, solo per scoprire che il loro arrivo è salutato da paura, sospetti e pregiudizi. A nulla valgono, per ingraziarsi la razza umana, gli sforzi profusi nella lotta contro i nemici di sempre, gli infidi Decepticon. Incompresi e malvisti, sulla squadra degli Autobot paiono gravare fosche nubi di tragedia, con la situazione che non fa che precipitare durante l’arco dell’avvincente saga.
Viene fuori, infatti, che questi robottoni antropomorfi non sappiano rinunciare alle proprie particolari usanze, barbare per i più, umanissime per altri, e dovunque essi si trovino obbligati a scatenare qualche fragorosa rissa da bar con l’immancabile seguito di alieni malvagi tornati per tormentarli. Sicchè, quel che accade dopo, è tutto un turbinio di esplosioni, crolli e devastazioni varie, che tocca sempre alla razza umana ripulire: che va bene anche qualche migliaio di vittime collaterali tra i civili – a quelle siamo tristemente abituati anche da queste parti – ma guai a toccare la pulizia e il decoro delle nostre città.
Non stupisce, allora, il trattamento riservato nell’ultimo capitolo della saga agli Autobot, con Optimus Prime che ha anche il coraggio di lamentarsi: “Dopo tutto quel che abbiamo fatto, gli umani ci danno anche la caccia”. Tipico atteggiamento di quelle minoranze aliene con manie di persecuzione, quando invece siamo noi umani a dover fare i conti con una ulteriore insidiosa eredità: l’aumento dei tassi di disoccupazione nel settore della pubblica sicurezza e nella lotta alle razze extraterrestri. A riprova che un’immigrazione senza regole crea seri problemi di occupazione.
Ai governi della terra, a quello USA in particolare, non rimane altro che attuare politiche fortemente conservatrici, rispolverando vecchi modelli economici che si pensavano sorpassati: un nuovo regime autarchico, ecco la novità. Interrompere l’importazione di tecnologia aliena e costruire con manovalanza locale robottoni migliori, salvo poi, all’occorrenza, delocalizzare in Cina, scenario perfetto per il roboante finale.
Braccati dagli umani e dai di loro evoluti manufatti robotici, nel paese delle grande muraglia, Optimum prime e compari sono sul punto di crollare, anche perché sulle loro tracce si sono messi nientemeno che i loro creatori, sorta di scafisti interstellari, cui la razza umana li ha venduti dopo aver siglato oscuri trattati bilaterali finalizzati all’inversione dei flussi migratori. Dati ormai per spacciati i Transformers sapranno tuttavia farsi valere, ribaltando le sorti della battaglia e liberando forme preistoriche di vita robotica aliena, commerciate illegalmente per la galassia dagli scafisti/padroni.
Si fa un gran dibattere in questi giorni di Michael Bay, e del suo modo di fare cinema. Se esso segua nuovi percorsi autoriali, una sperimentazione votata al superamento degli attuali limiti del cinema, o se il suo lavoro vada inquadrato in un più mesto inchino alle logiche di mercato e dell’exploitation. Domande cui, forse, solo il tempo potrà rispondere. Quel che è certo, è che il regista, con le sue opere, pone degli interrogativi. Se in modo consapevole o meno, è tutt’altra faccenda.

E ora i Transformers in salsa abruzzese:

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Archivio Zeta e la parola architettonica: la video intervista

UnknownRENZO FRANCABANDERA | Dopo il ciclo delle grandi tragedie greche e’ con Gli ultimi giorni dell’Umanità – Macerie e frammenti dalla muraglia di Karl Kraus che Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti, ovvero Archivio Zeta, accolgono il pubblico al cimitero germanico della Futa. Un appuntamento, quello con la loro drammaturgia e regia, che si rinnova ogni agosto in questo luogo dell’assoluto, un appuntamento che diventa ricorrenza spirituale per chi inizia a frequentarlo e per i cittadini di questa zona che seguono questa formazione artistica da piu’ di un decennio ormai.
E cosi’ anche noi siamo tornati, ad un anno di distanza dalla trilogia eschilea dell’Orestea e a pochi giorni dalla spettacolare performance urbana allestita durante il festival di Volterra, per raccontare con un video reportage questa nuova creazione, su un testo contemporaneo e affidata come sempre ad un gruppo misto di attori e semplici appassionati autodidatti non professionisti che Archivio Zeta ha formato sul territorio in questi anni, e che comprende anche tre giovanissimi attori in erba: Giulio Azzoguidi, Renata Carri, Antonia Guidotti, Elio Guidotti, Gianluca
Guidotti, Tommaso Moncelli, Giulia Piazza, Alfredo Puccetti, Andrea
Sangiovanni, Enrica Sangiovanni gli interpreti dello spettacolo, cui fa da contraltare, come sempre, una complessa partitura sonora composta da Patrizio Barontini, arricchita da inserti sonori d’epoca e dalla voce dall’alto di Luca Ronconi che conclude l’allestimento.
Lo spettacolo, pensato in occasione del Centenario della Prima Guerra Mondiale, va in scena al Cimitero Militare Germanico del Passo della Futa (FI) tutti i giorni fino al 17 agosto 2014 alle ore 18, un’occasione particolare per confrontarsi con una modalita’ teatrale tragica in senso etimologico purtroppo in progressivo abbandono.
I fautori del sodalizio artistico Archivio Zeta hanno dunque il merito di rimanere contemporanei interpreti della tradizione millenaria del teatro occidentale, con uno sforzo tenace in un territorio di confine.
La chiacchierata con Guidotti e Sangiovanni che vi proponiamo in questo video e’ l’opportunita’ di conoscere la compagnia, il loro linguaggio e l’impegno tenace per portare la scena in dialogo con la realta’, fuori dalle finzioni produttive che inquinano economicamente oltre che moralmente il circuito nazionale.

Il video reportage e’ visibile cliccando sulla foto seguente, mentre per partecipare alle prossime repliche dello spettacolo, visti i posti limitati, consigliamo la prenotazione al
tel. 334 9553640 o via mail a info@archiviozeta.eu

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Il mondo strappato di Mimmo Rotella

FRANCESCA PEDDONI | L’impiegato postale fisso’ la tigre negli occhi. Istanti interminabili con la belva davanti. Il silenzio. Poi un graffio lacerante.
Si può davvero rimanere indifferenti davanti a un manifesto pubblicitario magari un po’ rovinato e staccato appena? Si può davvero passare oltre senza staccarne anche solo un piccolo pezzo? Chi da ragazzino non l’ha fatto? Un gesto così naturale e senza un fine logico che non può essere considerato un furto: viene quasi spontaneo farlo senza essere visti. Un gesto divenuto una magistrale azione artistica che unisce l’istinto alla progettazione, l’intuito all’azione.
Non capita tutti i giorni di visitare una mostra ed essere accolti da una grossa tigre gialla tutta graffiata e strappata, a meno che non si parli di Mimmo Rotella e dei colorati protagonisti delle sue opere. I più importanti undici anni della carriera artistica di un uomo, un calabrese, con un futuro come impiegato del ministero delle poste, con la passione per l’arte e un grande fuoco fosforescente dentro.
Un passionale del sud che non si accontenta di una vita grigia e di un lavoro “normale”, ma capisce che l’arte è quel fuoco che ha dentro e non può domare. Il percorso espositivo, curato da Germano Celant, inizia con un collage di fotografie in bianco e nero dell’artista che raccontano lo straordinario spaccato di una vita, passata dal completo anonimato della provincia alla frequentazione dei “cattivi ragazzi” dell’arte americana degli anni 50’: Robert Rauschenberg, Oldenburg, Twombly, Jackson Pollock e Yves Klein. Per interpretare al meglio il clima del periodo, il curatore affianca alla ricerca di Rotella proprio le opere di questi artisti.
Per tutti la necessità è trovare un linguaggio nuovo, originale, che si distacchi dalla tradizione, portando la vita nell’arte e riversando la realtà nella pittura. Di conseguenza, giornali, stampe, legni, graffiti e stoffe animano le opere americane di questo periodo. Ricerche che come uno tsunami si abbatteranno anche in Europa sconvolgendo il panorama artistico. Sarà una profonda crisi morale e artistica legata all’incapacità di trovare un linguaggio personale a far rientrare Rotella in Europa nel 1952 e a fargli notare l’opera di due artisti francesi, due eccentrici personaggi, Raymond Hains e Jacques Mahé de la Villeglé (del futuro gruppo del Nouveau Realisme, capeggiati dal critico Pierre Restany) che nottetempo, staccano i manifesti pubblicitari, documentando data, ora e durata della “bravata”. Nello stesso periodo Roma, la città eterna, è decorata con tanti manifesti pubblicitari: il circo, i film, gli attori, i prodotti pubblicizzati, sono una tentazione cui l’artista non può resistere. Ed ecco l’illuminazione, l’idea e il gesto che diventa quasi necessario: “Strappare i manifesti dai muri, è l’unica rivalsa, l’unica protesta, contro una società che ha perso il gusto dei cambiamenti e delle trasformazioni strabilianti”.
L’esposizione mette in evidenza proprio l’originalità “rotelliana”, che inizia con il gesto di appropriarsi dei coloratissimi cartelloni dalle strade della città, andando oltre il documentarne l’evento. In altre parole, egli percepisce sin dall’inizio il potenziale del gesto, e la notte, stacca dai muri quel pezzo di vita urbana che poi assemblerà nello studio su un supporto. Un gesto, che vuole: “superare la pittura e la poesia con colori già stesi e parole già scritte” giocando con gli accostamenti di colore, tagliando e raschiando fino alla nascita dell’opera. Nelle prime sale sono presenti oltre ai Dècollages, i Retrò d’Affiches; anche in questo caso si tratta di manifesti staccati e assemblati al contrario, materici e informali, dove, a differenza dei primi, l’artista non interviene, ma lascia che sia la pura essenza della materia ad esprimersi con la ruggine, la colla e i frammenti. La mostra, con il suo percorso cronologico, documenta l’evoluzione comunicativa dei Dècollages.
Undici anni raccontati in una serie di opere che attraverso le varie sale, diventano veri e propri spaccati della società. Una realtà popolare raccontata dai protagonisti dei films; così dopo i manifesti di un qualsiasi prodotto culinario, ecco i dècollage evolversi e usare come protagonisti le grandi icone globali dell’America pop, eroine del cinema, che hanno fatto sognare migliaia di persone in tutto il mondo. Ed è la bellissima Marilyn Monroe che emerge dagli strappi, dal togliere le strisce di carta attorno alla sua figura senza rovinarne l’immagine di diva intoccabile. Bella, forte, la sua sensualità è tutta lì in quello sguardo ammiccante, in quella posa così naturale e provocante, e come dice l’artista stesso: “Ognuno ha il suo mito, ognuno ha la sua icona, a me spesso domandano: – perché tu realizzi sempre il ritratto di Marilyn? – Perché Marilyn è un personaggio, non è semplicemente una bellissima donna, ma è anche una grande artista, sa recitare, cantare, ballare, ognuno ha il suo mito e il mio è Marilyn!”
Le immagini del circo invece, riportano un po’ tutti indietro nel tempo, quando acrobati e giocolieri erano davvero uno spettacolo, ora come allora è la fosforescente tigre gialla a dare spettacolo, lasciando intuire quanto di stravagante ed eccentrico ci fosse in quest’uomo che stava per essere risucchiato nel grigio di una vita d’ufficio di un qualunque impiegato del ministero delle poste (senza offesa per chi ama il grigio…ovviamente!)

Mimmo Rotella. Décollages e Retro d’Affiches. Palazzo Reale di Milano (13 giugno – 31 agosto 2014).

Foto:
http://www.mymovies.it/cinemanews/2014/108986/
(la tigre)

Marilyn messa a fuoco

sDSC_9922GIULIA RANDONE | Una donna bionda, scalza, con indosso solo un golfino nero, parla concitata al telefono – “Sì, sì, vieni. Vieni il prima possibile. Aspetto”. Mette giù la cornetta e conquista il centro della scena ripetendo a se stessa – “Aspetto. Aspetto. Aspetto”. In mano ha un telecomando, lo punta verso la platea – “Ok. Così sia” – e preme un pulsante. Sulla parete alle sue spalle si proietta la ripresa video di ciò che lo spettatore vede accadere sul palcoscenico.

Inizia così Persona. Marilyn, spettacolo che inaugura il progetto che il regista polacco Krystian Lupa dedica a “tre icone senza le quali il ventesimo secolo sarebbe più povero”: la diva Marilyn Monroe, la filosofa Simone Weil e il maestro di danze George Gurdjieff.
Entrando in uno degli edifici che compongono il monumentale Palazzo della cultura, dono di Stalin agli abitanti di Varsavia, prendiamo posto nel buio di una delle sale del Teatro Drammatico, che nel 2009 ha tenuto a battesimo la “fantasia teatrale” ispirata alla Monroe e da allora la ripropone regolarmente in cartellone.

Fin dalle prime battute la voce della protagonista seduce e respinge: sottile, capricciosa, sempre incerta ma penetrante, a tratti si incanta, rimane sospesa come a catturare l’attenzione, per poi riprendere con maggiore urgenza un pensiero lasciato indietro, una citazione, un ricordo doloroso. È il timbro caratteristico dell’attrice Sandra Korzeniak ed è il canale nel quale si immette il suo viaggio all’interno della persona (nell’accezione data da Carl Gustav Jung di ruolo sociale) di Marilyn Monroe.

Rifugiatasi in cerca di solitudine in un ex studio fotografico occupato da un grande tavolo cosparso di oggetti, Marilyn è continuamente contesa da personaggi che reclamano un contatto e un diritto su di lei. Per il giovane custode del loft la donna è il coronamento del sogno erotico, per lo psicanalista Ralph Greenson una paziente da condurre con ogni mezzo sulla giusta via, per l’amico fotografo André un soggetto da circoscrivere ed eternare in uno scatto, per l’attrice Paula Strasberg un’allieva che dimentica di essere “più importante di Cristo” e mortifica la propria eccezionalità nell’abuso di alcool e sesso. Marilyn sogna di interpretare il ruolo di Grušenka nei Fratelli Karamazov, ossessivamente pensa a lei e ripete le sue battute, confidando che il luogo in cui si è nascosta le permetta di capire intimamente il personaggio che tanto la affascina. La Strasberg non comprende la ricerca dell’allieva, corregge la sua interpretazione giudicandola troppo fragile e incoerente rispetto alla forza dell’anima russa incarnata dall’eroina dostoevskiana. Sulle note di un’impetuosa musica operistica di ispirazione slava, l’acting coach trascina la discepola in una danza che dovrebbe convincerla a impadronirsi del personaggio per celebrarne la grandezza.

Marilyn, tuttavia, le oppone resistenza. Non è il potere che cerca. Beve, si trucca le labbra “per avere meno paura”, seduce e si ritrae, vaga insonne e si assopisce, parla a lungo, forse per riuscire a pensare, “perché non ci sia un’interruzione nel pensiero, che è come la morte”, si veste e si denuda. Fa ciò che ci aspettiamo che faccia Marilyn Monroe – si offre allo sguardo altrui – e la sua immagine si moltiplica attraverso il riflesso di uno specchio, l’istantanea del fotografo riprodotta in tempo reale su una parete o la registrazione dal vivo che fa da sfondo a gran parte dello spettacolo.

Questa sovraesposizione non mira a persuaderci che l’attrice Korzeniak stia interpretando in maniera convincente il ruolo della diva hollywoodiana, al contrario ripulisce lo sguardo dal binomio attore-personaggio per rilanciare il mistero dell’incontro e della compenetrazione tra più storie umane. Nella scena finale il palco si popola di una decina di figuranti: qualcuno copre il tavolo con un lenzuolo e aiuta Marilyn/Korzeniak a sdraiarsi, qualcun altro si appropria della telecamera e inizia a filmare la platea. Con un certo disagio ci troviamo adesso a osservare noi stessi su quella medesima parete in cui, nelle tre ore precedenti, abbiamo guardato il corpo dell’attrice.

Quel corpo che ora, in video, prende fuoco, prima di venire riconsegnato al buio.

Il teatro di Elfriede Jelinek secondo Andrea Adriatico

LAURA NOVELLI | 541622_10151494113850287_1119237104_n“Oggi qui c’è un sole bellissimo. Il posto è molto carino e l’atmosfera accogliente. E’ la prima volta che partecipo al Festival Orizzonti di Chiusi e ne sono felice”. Rubando qualche minuto alle preziose prove che precedono l’imminenza di un debutto, Andrea Adriatico – regista, giornalista, architetto, cineasta e direttore artistico di Teatri di Vita – non nasconde il suo entusiasmo e la sua ammirazione per il teatro di Elfriede Jelinek, nota scrittrice austriaca premio Nobel nel 2004 alla cui produzione drammaturgica la realtà bolognese dedica quest’anno ben tre lavori. Dopo Delirio di una TRANS populista (interprete Eva Robin’s), debuttato a fine giugno in seno al festival Cuore di Brasile (e che vedremo al teatro India di Roma a settembre nell’ambito di Short Theatre 2014), è ora la volta di un secondo allestimento, Jackie e le altre (dal testo Jackie del 2010) il cui battesimo è previsto a Chiusi in questi giorni (nel cast figurano Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s e Selvaggia Tegon Giacoppo) e che, già prenotato in diverse piazze per la prossima stagione, anticipa il terzo movimento del trittico, Un pezzo per Sport.

Da cosa nasce questo profondo interesse per la scrittura di Elfriede Jelinek?

Sono innamorato di questa autrice assai poco rappresentata da noi soprattutto per la complessità linguistica della sua drammaturgia. Una drammaturgia calata totalmente nella cultura mitteleuropea e ben consapevole della tradizione epica che ha alle spalle ma che, nello stesso tempo, riesce a leggere con estrema lucidità il contemporaneo. Questo è ciò che davvero mi interessa: la visione chiara e originale di un teatro politico che sappia interpretare le emozioni sociali”.

Questi elementi di cui parli come si ritrovano in Jackie e le altre?

“Nel suo Jackie la scrittrice austriaca propone una rilettura del mito di Jackie Onassis dove, senza trascurare gli elementi storici, ricostruisce il tracciato di una donna contemporanea che ha fatto un rivoluzionario percorso di appropriazione della propria identità. La Jelinek ci consegna un lungo monologo pieno di spunti strepitosi: un testamento dove la first lady passa in rassegna la propria vita soffermandosi sulla differenza tra carnalità e mistero e facendoci capire come attraverso la moda, gli abiti, ella si sia appropriata della propria funzionalità femminile. Nel mio lavoro ho attivato un meccanismo di moltiplicazione per cui in scena ci sono quattro attrici che moltiplicano il mito stesso di Jackie; attraverso la ripetizione credo possano emergere meglio tutte le tensioni sociali e culturali che il testo sottende”.

Di quali tensioni sociali, culturali e politiche ci racconta invece il primo lavoro del Progetto Jelinek, Delirio di una Trans populista?

“Qui c’è un chiaro riferimento alla figura di Jörg Haider, ex-governatore della Carinzia noto per la sua omosessualità sul filo della pedofilia, e c’è soprattutto un comizio in cui si ritrovano tutti i tratti peggiori dell’Europa contemporanea, tutti i meccanismi perversi dei discorsi autoreferenziali: ho detto IO tutto il tempo, recita una battuta. Si parla di uomo-massa, di emozione privata-emozione condivisa, di consenso. Nello spettacolo il comizio è affidato al personaggio di una trans e dunque diventa ancora una volta terreno di appropriazione di identità, cosa che di fatto esiste anche nel testo”.

Lavori con Eva Robin’s dal ’93, dai tempi de La voce umana di Cocteau: cosa c’è alla base di questo felice sodalizio artistico?

“Non sono uno che sente di avere una compagnia. Forse perché faccio cose diverse non ho il concetto del gruppo. Con Eva credo che si sia stabilito un rapporto di fiducia soprattutto perché è una bravissima attrice, e le recensioni lo confermano. Il linguaggio della Jelinek, ad esempio, le calza alla perfezione, soprattutto quando è ironico e c’è da dire che in Jackie e le altre poi la sua presenza rimanda proprio all’idea di essere attraverso l’abito, attraverso l’involucro”.

In autunno debutterà anche la terza produzione dedicata alla Jelinek di cui firmi ancora la regia. Cosa ci puoi anticipare?

Un pezzo per Sport si ispira alla pièce Sport – Un pezzo che è stata rappresentata una sola volta a Vienna in una allestimento spettacolare. Il tema di questo lavoro è la massa ossessionata dal culto del corpo e dell’immagine. Ma si tratta soprattutto di un testo incredibile: sulla carta risulta quasi illeggibile, ostico, ma scomponendolo si scoprono quali sensibilità e genialità ci siano dietro. La Jelinek (alla cui produzione teatrale l’Emilia Romagna, a dicembre, dedicherà un’ampia rassegna, il Focus Festival Jelinek diretto da Elena Di Gioia, ndr) non è paragonabile a nessuna altro autore e mi piace perché non dà asserzioni bensì punti di vista. Ci dice semplicemente: io penso questo”.

Teglio Teatro Festival Valtellina: sei anni di passione ad alta quota

4578_foto_rev0RENZO FRANCABANDERA | E’ disperatamente bella l’Italia. e le sue passioni piu’ antiche, coltivate in territori che sono scenari fantastici, scenografie naturali che davvero nulla altro hanno da richiedere per donare l’emozione del teatro. E’ cosi’ dalla Sicilia alla Valtellina, da Siracusa a Teglio, localita’ fra Sondrio e Bormio dove da sei anni, d’estate, si respira la passione per la scena. Sono passati sei anni. E anche quest’anno, da quel lontano 2009, ha preso il via venerdì 1 e si prolunghera’ fino a mercoledì 13 agosto, con appuntamenti teatrali e musicali nelle valli e nei rifugi, sentieri d’arte e di storia e percorsi di gusto, coinvolgendo numerosi comuni della Valtellina.

“Fiabe e sogni di ieri e di oggi” il tema scelto quest’anno per la rassegna, organizzata e diretta dall’associazione Incontri di civiltà, guidata da Maria Agnese Bresesti. storie di vedovanza con una straordinaria Licia Maglietta (ne “Il difficile mestiere di vedova”, 1 agosto, Palazzo Juvalta a Teglio) sogni di gioventù con la bravissima Arianna Scommegna (con “Potevo essere io”, 4 agosto, Palazzo Juvalta a Teglio,) sfide realizzate con un omaggio ad alta quota ad un grande alpinista come Walter Bonatti (sabato 9 agosto, Prato Valentino, con proiezione del docufilm W di Walter, ideato e realizzato proprio a Dubino , con la regista Paola Nessi, dalla sua incantevole compagna di vita, Rossana Podestà, scomparsa ad fine 2013), musica e passione popolare con Francesca Mazza (Omaggio a Napoli, lunedì 11 agosto a Tirano e martedì 12 agosto ad Aprica) e ancora dimenticate fiabe valtellinesi (presentazione di un preziosissimo libello del 1928) per far rivivere i cortili storici, raffinati concerti nei palazzi e nei rifugi più belli (sabato 2 agosto, a 2mila metri al Rifugio Schiazzera di Vervio con il pianoforte di Chicco Cotelli), presentazioni di libri con gli autori e racconti con la tipica merenda valtellinese, poesia sotto le stelle (nel magnifico Palazzo Besta, Teglio), passeggiate e biciclettate lungo i sentieri più caratteristici con storici dell’arte e ampio spazi anche quest’anno a giovani talenti della Valtellina: maghi, pianisti e narrastorie.

Filo rosso di quest’edizione è il “racconto”, a volte fiabesco e a volte memoria di un passato che non si può dimenticare. Sogni e riflessioni su cos’eravamo e cosa stiamo diventando: voci dal passato e novelle da riscoprire, a volte dimenticate e più spesso rimosse che tornano a farsi sentire.

, si aprirà venerdì 1 agosto: alle ore 10,30 nella casa comunale di Teglio si torna indietro nel tempo con la presentazione di un preziosissimo libello di fiabe “Ometto e le sue novelle”, illustrato a colori, pubblicato nel 1928 da una scrittrice tellina, Annetta Morelli, vedova dell’astronomo Michele Rajna. A seguire un omaggio – con una mostra a lui dedicata – a Felice Chiusaro, mai dimenticato componente del Quartetto Cetra che proprio a Teglio, dopo averla tanto amata, ha deciso di essere seppellito. Alle ore 21 entra nel vivo la kermesse a Palazzo Juvalta a Teglio con la passione e la fantasia di Licia Maglietta e il suo “Il difficile mestiere di vedova”, un monologo di Silvana Grasso, storia di provincia, paradossale ed esilarante, che offre uno spaccato di realtà che la Maglietta, regista ed interprete, fa dinamica rappresentazione, accompagnata dal mandolino del maestro Tiziano Palladino.
Sabato 2 agosto si continua nello storico e affascinante borgo di Nigola (in dialetto significa “nuvola”) con la sagra “Borgo che rivive”, dalle ore 20, con banchetti di artigianato, cena con polenta taragna e prodotti tipici (su prenotazione) e spettacolo con il gruppo folcloristico “I Tencitt” di Cunardo (Varese). Al rifugio Schiazzera (Sernio) l’appuntamento è invece, sempre sabato 2 agosto, con il pianoforte di Chicco Cotelli e il flauto di Alessandro Ruggeri.

Domenica 3 agosto si apre a Mazzo di Valtellina con un suggestivo concerto d’organo nella chiesa di Santo Stefano (ore 10,45) per continuare a Poggiridenti alle ore 17 con la storica Franca Prandi che accompagnerà il pubblico alla scoperta della terra tellina. Alle ore 21 (Teglio – Salone Oratorio) sarà presentato lo spettacolo teatrale “Fuori Fuoco” di e con Alessandra Merico e Eloisa Atti. Lunedì 4 agosto sarà un’altra grande donna della scena teatrale italiana, la giovane Arianna Scommegna in “Potevo essere io”, testo di Renata Ciaravino, anche qui storia appassionata ed amarissima, ambientata nella periferia milanese degli anni ottanta, a cui la Scommegna dà voce con straordinaria sensibilità, alternando momenti di intensa comicità e ad altri di aspra inquietudine. Martedì 5 agosto a Tirano, nello storico Palazzo Torelli (ore 21) sarà presentato invece lo spettacolo “Le donne di Dante” di Silvia Bragonzi. Grande attesa per “Essere donna” ( mercoledì 6 agosto alle ore 21) ormai tradizionale appuntamento della Valtellina con omaggio al femminile in musica e poesia con Grazia Levi (arpa e voce di Giuliano Mattioli). Ad animare il borgo di Teglio ci penserà giovedì 7 agosto Giacomo Occhi con Rivoluzione stazionaria in concerto (Teatro di pietra di Teglio, ore 21) mentre venerdì 8 agosto per le vie del borgo le leggende, fiabe e musica della Valtellina prendono vita con Miriana Ronchetti, Chicco Cotelli, Monica Clementi, Alessandra Bedognè e Francesco Dei Cas (a seguire degustazione di sciatt, formaggi e vini e dolci locali)

Sabato 9 agosto appuntamento speciale a Prato Valentino con un concerto ad alta quota con la band Caronte e la proiezione (alle 14.30) dell’appassionante documentario W Walter, realizzato proprio in Valtellina dalla regista Roberta Nessi e da Rossana Podestà, storica compagna di Walter, scomparsa lo scorso dicembre (alla sua passione e tenacia è dedicato l’evento). La serata si conclude a Tirano (alle ore 21, a Palazzo Torelli) con “Storie che camminano da sole” con Matteo Gazzolo (seguirà degustazione prodotti tipici). Nei giardini dello splendido Palazzo Besta di Teglio a cura della Biblioteca Comunale e dell’Accademia del Pizzocchero si svolgerà domenica 10 agosto la decima edizione di “Poesia e musica sotto le stelle” e a seguire il concerto “Italia Harmonist, omaggio ai Cetra” con gli artisti stabili del Coro del Teatro alla Scala di Milano. Francesca Mazza e Guido Sodo a Palazzo Torelli di Tirano lunedì 11 agosto presentano Passione – Omaggio a Napoli (in replica ad Aprica, sala Congressi martedì 12 agosto ore 21). Spettacolo di burattini con Daniele Cortesi a Teglio matedì 12 alle ore 21 nella splendida cornice di Palazzo Juvalta.

Il festival si chiude in bellezza nel Salone dell’oratorio di Teglio con “Piccoli Grandi Sogni” di Giulia Bresesti e Tiziano Giudice e la premiazione dello spettacolo vincitore.

Tutti gli incontri sono ad ingresso gratuito. Per il calendario completo degli eventi: Ufficio I.A.T. di Teglio – Tel. 0342/78.20.00 – www.teatrovaltellina.it iatteglio@valtellinaturismo.com

Quel punk di Riccardo III, intervista scritta e video a Michele Sinisi

SinisiANDREA CIOMMIENTO | Il teatro è sempre occasione per rifondare il senso sociale di appartenenza di una comunità. Collinarea Festival si è consacrato da quest’anno motore essenziale e simbolo di questa tensione.

Un tentativo politico che si riversa anche sulle scelte in cartellone, e nel caso del nuovo lavoro di Michele Sinisi queste scelte si distanziano dall’idea di spettacolo approdando alla performance. Un lavoro che ha lasciato la comunità festivaliera di Lari piacevolmente disturbata nel suo ascolto.

Come potremmo giustificare il tentativo, anch’esso politico, di Riccardo III prodotto da Teatro Minimo e Pontedera Teatro? La performance è un progetto scostante e maleducato che lede la pazienza del pubblico. Il tentativo dell’attore è chiaro: sollecitare quella comunità che lo accoglie, rischiare spezzando l’immagine che si ha di lui. Il risultato è stato raggiunto ovvero affondare le mani in un terreno più minaccioso in scena, senza intreccio drammaturgico e in una relazione sfacciata con lo spettatore.

Il Riccardo III che hai presentato a Collinarea vive di un’atmosfera punk al contrario del precedente Amleto che vive di un proprio sviluppo drammatico comprensibile a tutti…
Tutto è partito da una sfida ovvero l’idea di lavorare al di là della “parola che significa”. Ritornare indietro alle suggestioni, ai piaceri e alle scommesse di questo lavoro, tornare a una curiosità di linguaggio verbale di pancia, prendere solo il testo di Shakespeare e farne farne uno spettacolo che tenga non più di quarantacinque minuti. Ho deciso di lavorare non sulla comprensibilità logica e drammaturgica tradizionalmente intesa ma su dei segni per far sentire la realtà di Riccardo III senza raccontarla.

Ci sei tu insieme a un indelebile e a uno spray di colore rosso utilizzati per imprimere immagini e parole scritte sul ferro zincato. L’esperienza che ne facciamo è olfattiva e visiva al tempo stesso…
Il colore così come il ferro zincato del tavolo, la maglia, il microfono e i puntelli li ho utilizzati per raccontare una spinta di pancia dal punto di vista emotivo e rituale, intellegibile nell’immediatezza ovvero il superamento del disegno con lo stencil che svuota il percorso e la memoria presentandone i passaggi più evidenti del figurativo contemporaneo.

Che obiettivi ti sei dato?
Riuscire a lavorare su dei segni che appartengono a una memoria comune, giocare sull’assemblaggio di questo linguaggio che definisco popolare, figlio di questo tempo sezionato e rimontato rispetto al rapporto della tv e del cinema o adesso della rete, e capire quanto evolve un linguaggio e quanto riproporlo in scena come uno spaccato.

Perché usare Shakespeare per entrare dentro il sangue?
Riccardo III è una fascinazione attoriale. C’è l’idea di interpretarlo. Ho deciso di partire da qualcosa che rappresenta l’archetipo e l’artificio, la sua deformità per cominciare a sciogliere chimicamente questa idea, questa immagine di Riccardo che abbiamo, questo cliché per certi versi, e cominciare ad abbassare sempre più il risuonatore dell’immaginazione al punto di renderlo viscerale. Lo shock continuo in scena è l’equivalente che noi proveremmo se solo avessimo a che fare con una vita vissuta in quel modo. Riccardo è disposto a tutto pur di raggiungere il potere. Nel mio caso il potere di tenere il pubblico.

Estratto video dall’intervista con Michele Sinisi:

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A Dio che non risponde, intervista scritta e video alle Vie del Fool

Schermata 2014-08-04 alle 12.18.36ANDREA CIOMMIENTO | Luna Park è la testimonianza solitaria di un Don Chisciotte disperso e circondato da architetture senza umanità simbolo della desolazione della provincia italiana. Il monologo delle Vie del Fool, ospite a Collinarea Festival 2014, racconta le geometrie di palazzine e tangenziali dimesse che racchiudono l’esistenza di un uomo in scena in compagnia della luce elettrica, unica presenza “umana” tra strade vuote e notti senza sonno. Sarà il sogno a farlo da padrone, il sogno nella ricerca di Dio o degli Alieni, il sogno che alimenta gli ultimi brandelli di immaginazione come ripetizione alterata dei suoi vissuti, a volte troppo carichi di aspettiva, a volte incisivi e capaci di portarci nel suo mondo immaginato.

Il vostro spettacolo è l’ultimo capitolo di una trilogia che cerca risposte a domande universali. In Luna Park ascoltiamo dall’inizio alla fine la domanda: “Dio dove sei?”
Luna Park è l’ultimo capitolo della trilogia dove si va a stringere sulle domande fondamentali. Non potevamo non prendere anche la religione. Spesso le risposte che ci vengono fornite lasciano un vuoto più che colmarlo. Volevamo lavorare sui non luoghi, sul tema del vuoto e su un paesaggio che fosse desolato. Abbiamo pensato alla desolazione di una tangenziale di notte dove non passano più le macchine, nel nostro caso è la tangenziale est di Roma. Siamo partiti da quel silenzio.

Come lo collegate agli altri due lavori?
Siamo partiti da un lavoro che ha sollevato una riflessione su tutto il pensiero esistenzialista comprendendo le Operette morali di Leopardi e il Mondo invisibile di Ionesco, e piano piano abbiamo cercato un nostro modo per rispondere alle nostre domande più urgenti: la prima di tutte era il confronto con l’esistere. Lo abbiamo affrontato usando come pretesto la figura del Pinocchio; cosa gli succede nel momento in cui diventa un essere umano in carne e ossa. Poi la resistenza/esistenza con Ulisse, il suo viaggio e ritorno a casa. Un lavoro sulle resistenze quotidiane. E alla fine siamo arrivati a Luna Park dove abbiamo cercato di dare una risposta a queste domande e al senso della vita. A questo Dio che non risponde.

In queste domande a Dio quanto ha inciso la figura del Don Chisciotte?
Abbiamo cercato di attraversare il pensiero che sottende l’opera del Don Chisciotte. Non abbiamo preso tanto il personaggio e la sua storia quanto il modo manierista di affrontare il dualismo irreale/reale, materiale/immateriale, sogno/concretezza. Per questo il personaggio principale è un personaggio estremamente concreto non è di certo un eroe però è a suo modo un idealista, vede duelli impossibili in un pacchetto di biscotti mangiato nel bar della stazione, mulini a vento sulla luna, autovelox che sono altre cose, antenne che sono radar per cercare Dio in pausa pranzo. Ci siamo chiesti se possono essere dei Don Chisciotte moderni coloro che insistono nel vedere un’altra realtà oltre a quella esistente.

Che risposta vi siete dati?
Non arrendersi alla realtà che c’è ma cercare di privilegiare l’idea e l’ideale rispetto alla realtà. Questa è la metamorfosi, la cosa non è quello che è ma quello che rappresenta per me. Il nostro Don Chisciotte inventa cani immaginari e scarpe a lato della tangenziale in un modo tutto suo, per questo è incomunicabile e proprio per questo appartiene a tutti noi.

Il personaggio che avete creato assorbe come una spugna tutta l’umanità incontrata e che davanti a noi reinterpreta tramite il suo modo di guardare al mondo…
C’è il tentativo di contenere tutte le letture, sguardi e tempi in un momento preciso. Vale anche per gli stili teatrali, non abbiamo uno stile o un linguaggio o una poetica. Cerchiamo di non fossilizzarci in categorie o scelte e questo è un atteggiamento tenuto dall’ideazione, alla scrittura e alla realizzazione.

Estratto video dell’intervista con Simone Perinelli e Isabella Rotolo: