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mercoledì, Dicembre 4, 2024
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Gli Altri Libertini di Tondelli/Lanera ammaliano il pubblico del Piccolo di Milano

CHIARA AMATO / Pac Lab* | «Qual è il tuo posto nel Gran Trojajo?». È una domanda che Altri Libertini, l’ultimo lavoro di Licia Lanera, rivolge a tutti i “vitelloni” di ieri, di oggi e, perché no, anche di domani. Una riflessione sul nostro ruolo in un mondo che cambia, ma che in fondo resta lo stesso. Ma la domanda è posta ed è rilanciata, in primis, alla sua generazione, ai coetanei, ai nati negli anni ’80, quando la casa editrice Feltrinelli pubblicava l’omonima raccolta di racconti di Pier Vittorio Tondelli, scrittore decisamente fuori le righe, che prematuramente morì di AIDS all’età di trentasei anni.
L’opera, rivoluzionaria e spudorata, all’epoca fu inizialmente sequestrata per oscenità, ma riscosse subito un enorme successo di pubblico. Il testo è incentrato su una certa Italia, tanto che il giovane e dannato scrittore lo definì un romanzo a sei episodi (PostoristoroMimi e istrioni, ViaggioSenso contrarioAltri libertini e, infine, Autobahn). La pluripremiata regista e attrice seleziona tre di questi brevi sguardi: Viaggio, Altri Libertini e Autobahn.
Ma il racconto che ci propone in scena si complica, perché intreccia quelle storie, ambientate in quell’Italia fatta di Cossiga Presidente, Toto Cotugno vincitore di Sanremo, e di 260 morti per eroina del 1980, alla nostra Italia, dove di quarantenni che non sanno ancora che posto avere nel gran trojajo della vita ce ne sono eccome. Proprio qui inseriscono, come in un mosaico, pezzi della sua biografia e di quelle dei tre attori in scena con lei (Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva, Roberto Magnani) attraverso brevi accenni alle loro infanzie, mettendoci nomi e cognomi, oltre che la faccia e il corpo.

ph. Manuela Giusto

I tre attori si presentano in mutande, canotta e calzini, per poi vestirsi durante lo spettacolo in abiti borghesi dal gusto un po’ vintage e radical chic, mentre la regista in un tailleur giallo (costumi Angela Tomasicchio) è seduta a uno scrittoio e si pone come uno spettatore.
La scena scarna, oltre allo scrittoio al centro, una cyclette sulla sinistra, una lettiga e un ventilatore sulla destra, una parete di luci (disegno di Martin Palma) sullo sfondo si anima, illuminando in tutte le direzioni a ritmo di musica, come in un concerto, sulle note di Siamo solo noi di Vasco Rossi.
Questo elemento musicale (sound design di Francesco Curci) crea un trait de union tra l’epoca di Tondelli e la generazione della Compagnia Licia Lanera. Generazione cresciuta e immersa in un certo rock e formata con determinate letture, sotto il segno di un capitalismo in espansione e con «la cosa pubblica che viene sostituita dal privato», come ci dice appunto la regista sul palco.
E quella canzone, non a caso, apre e chiude lo spettacolo, accattivandosi il pubblico: all’inizio animando gli artisti che ballano e cantano Vasco, immersi e dannati in un fumo denso di sigarette, e alla fine, posti in fila orizzontale, ci guardano senza speranze e spauriti, su una versione rallentata delle stesse note iniziali, come davanti a un plotone di esecuzione.

Dopo il momento musicale, a turno iniziano a recitare i testi, in quella che potrebbe essere quasi una lettura intima, fatta in un salotto fra amici. I loro corpi interagiscono poco, ma lo fanno in maniera spudorata, violenta, perché le parole di Tondelli sono terribili: senza fronzoli e senza freni ci raccontano quelle vite sospese di disoccupati, drogati, omosessuali, che corrono di notte in macchina, fumando di tutto, bevendo vino scadente, facendo sesso in appartamenti in condivisione, e sì, bucandosi le vene. Quelli che bonariamente poi Fellini inquadrò come Vitelloni, nel suo omonimo capolavoro, perché restano sempre figli, anche quando dovrebbero diventare genitori, se non altro per mero dato anagrafico.

ph. Manuela Giusto

Lo spettacolo ci fa confrontare anche con la periferia, che sta alle città come i sommersi stanno ai salvati, con le sue regole crudeli. E allora in scena il turpiloquio, le bestemmie, i baci assatanati e gli insulti volano dalle bocche degli attori, in questi paesaggi desolati, animati solo dai baretti di provincia. Ognuno di loro si fa portatore di un racconto, dividendo così lo spettacolo in una sequenza di monologhi che si alternano, si incrociano, creando un monologo “a più voci” e una tessitura narrativa complessa, ma scorrevole.
Lanera lascia per sé tre funzioni/ruoli in scena: quello della narratrice esterna che collega le parti; quello della comparsa per dei personaggi secondari; e quello dello spettatore bonario ed empatico, che di fronte alle parole di Tondelli non può far altro che fumare, accogliere con tenerezza queste confessioni e porsi domande sul presente. Accompagna i suoi interpreti e li guida, instradando anche un po’ il pubblico in un’operazione meta-teatrale tra Tondelli e la sua operazione registica.
Ci spiega, infatti, il lavoro svolto sui testi e ci fa intravedere la costruzione collettiva dello spettacolo, mettendosi nella posizione di colei che tiene e tira le fila di tutto. Come ha dichiarato nell’intervista rilasciata su Teatro e Critica, dopo la prima a Romaeuropa, “alla fine Pier Vittorio Tondelli non esiste più se non nei corpi, nella carne, negli sputi degli attori, nelle loro biografie (…) Siamo qui a raccontare le miserie di una generazione che si perpetua sempre uguale da almeno quarant’anni”.

Numerosi gli aspetti interessanti nella trasposizione attoriale: la sensualità di Cupaiuolo (in Autobahn), legato in un rapporto sentimentale con la sua auto, che non abbandona di notte neanche da ubriaco; Giuva, che interpreta un omosessuale innamorato e ferito da un latin lover lombardo (in Altri Libertini), toccando momenti di infinita e disperata tenerezza; fino a Magnani (in Viaggio), che ci mostra quell’aspetto pervasivo e quotidiano dell’eroina, che quasi vogliamo rimuovere dalla memoria collettiva. Di particolare intensità proprio alcuni di questi passaggi sul legame con la dipendenza, emotiva e da eroina, che riportano a noi oggi un problema che oggi vediamo così lontano. Altro momento molto gradito in platea, e accompagnato da fragorosi applausi, è quello dove Giandomenico Cupaiolo elenca determinate categorie umane, alternando la rapidità e volgarità delle parole a movimenti degni di un ottimo ballerino di twist, del quale non si può non ammirare la bravura.
Lo spettacolo è costruito in maniera equilibrata, senza mai risultare pesante nella comprensione, né scollato fra le parti: proprio attraverso la presentazione di questi personaggi scapestrati, che inevitabilmente ingaggiano il pubblico, in sala le risate si alternano ai momenti di silenzio, dove (forse) ognuno ascolta quelle “voci di dentro” che i nostri protagonisti affrontano e zittiscono con «tanto vino e tanta voglia di gridare».

ALTRI LIBERTINI 

di Pier Vittorio Tondelli
adattamento e regia Licia Lanera
con Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva, Licia Lanera, Roberto Magnani
luci Martin Palma
sound design Francesco Curci
costumi Angela Tomasicchio
aiuto regia Nina Martorana
tecnici di compagnia Massimiliano Tane, Laura Bizzoca
produzione Compagnia Licia Lanera
in coproduzione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro
si ringrazia Compagnia La Luna nel Letto

Teatro Studio Melato, Milano | 3 novembre 2024

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.

(La)Horde dall’Inferno al Paradiso, Monga danza con l’arte di Tremlett

Rone e (La)Horde, Room with a view - ph Aude Arago

OLINDO RAMPIN | Non sappiamo se sia frutto del caso o sia, invece, una voluta dialettica tra due stili e concezioni della danza esemplarmente differenti. È un fatto che lo spettatore del Festival Aperto, organizzato da I Teatri di Reggio Emilia, ha incontrato nello stesso giorno, a distanza di poche ore o di pochi minuti, due grammatiche corporee incommensurabili tra loro. Di più, queste grammatiche agivano dentro due contesti ambientali anch’essi così differenti tra loro da costituire quasi un modello di latitudini espressive antitetiche.
A una latitudine ci si imbatteva nella prima di Una stanza tutta per sé, titolo woolfiano per una breve scrittura coreografica, firmata da Camilla Monga e interpretata da due danzatori, ogni volta diversi, della MM Contemporary Dance Company: due messi “angelici” delle opere di David Tremlett, in mostra con il titolo di Another Step ai Chiostri di San Pietro.

La MM Contemporary Dance in una coreografia di Camilla Monga – ph Dario Bonazza

La prima realtà su cui hanno agito Monga e i danzatori non riguarda, però, l’arte di Tremlett, ma gli stessi Chiostri di San Pietro. Il chiostro maggiore, di eccellente fattura, è però latore di un messaggio un po’ enfatico, fuori scala, con quelle statue torve e austere incapsulate nelle nicchie. Invece, ecco che ora nella sera ottobrina che sembra agostana Alice Ruspaggiari e Federico Musumeci, lei corpetto nero trasparente che lascia vedere una figura minuta, lui una mezza tunica nera che lascia scoperte braccia e fianchi, attraversano leggeri ed eleganti i lunghi porticati perimetrali del chiostro illuminati da luci calde e sobrie, e gli conferiscono un’aria romanzesca, misteriosa, ma non magniloquente, sicché nella penombra l’edificio parla stasera un linguaggio aristocratico, ma più amichevole.

I moti dei due performer sono intonati a un’idea non conflittuale del rapporto tra corpo e realtà esterna. Emerge, nell’esiguo spazio delimitato rigidamente dal percorso di visita, un discorso corporeo elaborato ad ampie curve, un disegno di circolare compostezza, con momenti di congiunzione morbida tra i due corpi, mentre in cuffia una composizione rumoristica tesse un complementare tappeto sonoro di voci femminili, inizialmente allusivo, con brevi parole, a un viaggio interiore tra tortuosità di sentieri.

David Tremlett, Drawing for a wall #19, 1999- courtesy Palermo Palazzo Butera Coll. Francesca e Massimo Valsecchi – ph Francesco Rucci

Come sorprende ora, nella guida sinuosa e silente dei due messi danzanti, la bellezza equilibrata, esatta, delle grandi campiture di colore di David Tremlett! I suoi ampi rettangoli parzialmente sovrapposti, con una fondamentale bicromia, sembrano rivelarci un nuovo significato dei colori: del rosso, del giallo, del verde, come se li vedessimo ora per la prima volta.

***

All’opposta latitudine il Teatro Valli, quando entriamo per assistere a Chronicles, estratti di Room with a view e The age of content firmati dal collettivo (La)Horde per il Ballet National de Marseille, è già esso, con la sua forma architettonica e l’umanità che lo affolla, un’ipotesi di diversa costruzione linguistica: catino ottocentesco ribollente di voci e volti di spettatori, dove circola la tensione nell’attesa dell’evento, nel vago sentore di una qualche essenza che potrebbe venire dal palco. E, infatti, quando si apre il sipario la scena è tutta immersa in una fitta nebbia, dentro la quale gli interpreti sono riuniti come un branco di animali impauriti, quasi ombre di dannati in attesa del giudizio di Minosse.
Da essi, però, si stacca un ragazzo biondissimo, jeans e t-shirt oversize, che comincia una sua irrefrenabile lotta con l’aria, mulinando le braccia con estrema rapidità e violenza, caricando con rabbia, scalciando un immaginario duellante al confine del proscenio.

Rone e (La)Horde, Room with a view – ph Thomas Amouroux

È il segnale liberatorio che la turba dei dispersi nella nebbia attendeva, perché adesso inizia una galleria di variazioni a gruppi di due, tre, quattro, all’insegna di una fisicità giovanile e rabbiosa, dove, tra nuovo circo, rave e danza di strada, un’esilissima danzatrice di origine orientale viene tirata, slogata, innalzata, piroettata all’indietro come fosse un avatar di sé stessa da un trio di performer, tra i quali ricade con il suo corpicino intatto e il viso sorridente per nuovi cicli di energici sballottamenti.

A tratti, la turba si riunisce come un popolo di giovani animali, con atteggiamenti di sfida: ecco un pugno chiuso, un dito medio ostentato verso il pubblico. È il linguaggio primordiale della protesta e della ribellione, una anarco-danza che si esprime attraverso un linguaggio corporeo e gestuale che parla di esacerbazione, insoddisfazione, di antagonismo pre-verbale, pre-razionale. La differente origine dei performer, afrodiscendenti, orientali, mediterranei, nordeuropei, è un’immagine seducente della molteplicità del mondo, in cui essi si ritrovano e si perdono, nella vitalità debordante e acrobatica che fa convivere aggressione e dolcezza, amore e ira.
A un certo punto il loro peregrinare randagio e felice tra risse e abbracci si riunisce in un cerchio che da piccolo si fa sempre più grande, con intrecci di gambe che si rifanno alla hora, la danza del matrimonio ebraico. È l’illusione di ritrovare un’armonia del mondo, essendo il cerchio simbolo di perfezione, di eternità, di illimitatezza. È nel divino la salvezza dal caos?

(La)Horde, Age of content – ph Blandine Soulage

Se il primo estratto fosse una cantica in terzine ci ricorderebbe l’Inferno dantesco, ma un Inferno post-contemporaneo, che ha saputo metabolizzare e disconoscere la propria stessa infelicità. Il secondo estratto, allora, è la terza cantica, è il passaggio diretto e senza transizioni purgatoriali, senza penitenze, oggi del resto improbabili, a un Paradiso millennial, kitsch, pop e queer. Alla nebbia del caos contemporaneo del primo tempo, si contrappone qui un fondale chiaro, un impasto di luci chiare, un racconto in piena luce, in cui i danzatori sono i protagonisti di una metamorfosi antropologica e coreografica. I loro stessi volti e corpi non sembrano più quelli di prima, nel passaggio da una estetica post grunge intenzionalmente antierotica alle gonnelline jeans a pieghe da Saranno famosi, dentro cui vibrano le gambe di una altissima performer, ai corsetti top trasparenti con coppe che femminilizzano i corpi dei due danzatori più potentemente fisicati.
Tutto, ora, parla di allegria, di gioia, del gusto di danzare insieme, di unirsi nella danza, in una forma più armoniosa e più gioiosa della vita. E l’universo stilistico adesso è debitore di stagioni più solidamente codificate della danza, i movimenti si fanno meno spezzati, meno angolosi, pian piano sui visi di tutti si sedimenta un sorriso che non li abbandonerà più, mentre il ricordo del viaggio precedente, nell’inferno della megalopoli distopica, si dissolve nella nebbia che lo avvolgeva, e questo ritorno all’ordine, questa ricomposizione del caos termina con minuti di applausi scroscianti e “bravi” e con più e più richiami di un pubblico completamente conquistato.

UNA STANZA TUTTA PER SÉ
Visita coreografica alla mostra di David Tremlett

concept e coreografia Camilla Monga
danzatori MM Contemporary Dance Company: Filippo Begnozzi, Lorenzo Fiorito, Mario Genovese, Matilde Gherardi, Fabiana Lonardo, Federico Musumeci, Giorgia Raffetto, Alice Ruspaggiari, Nicola Stasi, Giuseppe Villarosa
disegno sonoro Federica Furlani
musiche Clogs, Marta del Grandi, Federica Furlan, Holly Herndone
produzione MM Contemporary Dance Company
in collaborazione con Fondazione Palazzo Magnani
mostra a cura di Marina Dacci 

***

Chronicles: Excerpts from Room With A View and Age of Content

ROOM WITH A VIEW

Concezione artistica RONE & (LA)HORDE – Marine Brutti, Jonathan Debrouwer, Arthur Harel
Musiche di RONE
Regia e coreografia (LA)HORDE – Marine Brutti, Jonathan Debrouwer, Arthur Harel
Con i danzatori del Ballet national de Marseille
Scenografia Julien Peissel
Disegno luci Eric Wurtz
Costumi Salomé Poloudenny
Commissionato dal Théâtre du Châtelet in accordo con Décibels Production e Infiné
Coproduzione Théâtre du Châtelet, Ballet national de Marseille e Grand Théâtre de Provence. 

AGE OF CONTENT

Concept e direzione (LA)HORDE – Marine Brutti, Jonathan Debrouwer, Arthur Harel
coreografia (LA)HORDE in collaborazione con danzatori e danzatrici e gli assistenti del Ballet national de Marseille
Scenografia Julien Peissel
Musica Avia, Gabber Eleganza, Philip Glass
Disegno luci Eric Wurtz
Costumi Salomé Poloudenny
Produzione Ballet national de Marseille

Festival Aperto, Reggio Emilia | 27 ottobre 2024

L’Ombelico dei Limbi: tra i frammenti destrutturati della poetica corporea di Stefania Tansini

Ph. Luca Del Pia

MICHELE PECORINO / PAC LAB* | Tra gli spettacoli ospiti della ventinovesima edizione del Festival delle Colline Torinesi, L’Ombelico dei Limbi di e con Stefania Tansini che è stato ospitato il primo e il 2 novembre scorso alla Lavanderia a Vapore di Collegno, dove, ormai nel 2023, era iniziato il percorso di ricerca di questo lavoro.
Dopo il debutto al PAC di Milano e dopo altre date a Napoli, Firenze, Santarcangelo di Romagna e in altri centri, sono tornate a riflettersi nel luogo di nascita della pièce le ombre del folle Artaud e del suo ben noto L’Ombelico dei Limbi, raccolta di testi e poetiche del periodo surrealista, da cui emerge una frammentazione dell’io e una profonda alienazione a cui Tansini si rivolge, senza però incorrere in citazionismi manieristici privi di ogni riflessione personale. L’intera performance, infatti, si inscrive in una logica percettiva che si lega indissolubilmente, ma in modo mutevole, allo spazio e alle presenze in esso, con cui la performer entra sottilmente in contatto.
Il pubblico accede in sala, ma inusualmente, invece di accomodarsi sulle consuete gradinate, viene invitato a prendere posto su delle sedute disposte su due file, in prossimità della parete di fondo del palco. I gradoni della platea appaiono per metà vuoti dei seggiolini neri a cui si è abituati. A dare inizio all’evento performativo è il meccanico e ronzante rumore dei motori delle tende che lentamente calano, schermando gli ampi finestroni laterali della sala.

Ph. Luca Del Pia

La danzatrice fa il suo ingresso in scena dal retro del palco: come un detrito proveniente da un’altra dimensione, si accascia proprio in prossimità del pubblico, come se si stesse sottraendo a convenzioni di tempo e spazio dalle quali è fuggita. Gli spettatori si trovano dunque in relazione, sin dai primi istanti, con un corpo raggomitolato che giace silenzioso ai suoi piedi. Un corpo accartocciato, ma capace di eludere i postulati e le regole imposti. Indossa abiti neri che la fanno apparire, in relazione all’intero spazio abitato in modo anticonvenzionale, come un’identità enigmatica.
Il suo stare immobile, nel suo “fuori balance”, acquista gradualmente dinamismo e vitalità. Ben presto, abbandona lo spazio antistante al pubblico per esplorare la gradinata, dialogando con il pubblico ora lontanamente, ora in modo più ravvicinato, in un agire tra il dentro e il fuori della scena, il dentro e il fuori degli infiniti frammenti dell’io. Sembrerebbe dipanarsi sull’insolito spazio dell’azione un linguaggio precipuamente cinematografico, dove questo alternarsi di vicinanza e lontananza rimanda a campi lunghi, medi, primi piani e dettagli.
In questo avvicendamento tra lontano e vicino, la performer dispiega sui gradoni un telo bianco, su cui si infrange la luce, col suo pulsare in continuo divenire, per poi riflettersi sulle pareti circostanti. Il telo accoglie il corpo disteso di Tansini fino ad avvolgerlo interamente, come un bozzolo dal quale si libera, come conquistando una novella ed effimera nascita.
Ritorna, quindi, quel rapporto dialettico tra dentro e fuori, tra io e ambiente, tra io e tempo. Il territorio neutro del telo bianco lascia spazio a un momento di stasi: Tansini, recuperata una sedia, vi si siede e stilla delle gocce di colore azzurro da una boccetta sul suo braccio sinistro, una sorta di effluvio della sua interiorità sotto forma di lacrime di sangue azzurrognolo.

Ph. Luca Del Pia

A subentrare di seguito è anche il suono, attraverso acuti via via sempre più alti, emessi dalla stessa Tansini, che raggiungono apici massimi, in cui le tonalità squillanti sembrano fondersi con il suo corpo, con la sua carne, per poi culminare in parola. Parole ripetute e sussurrate come invocazioni asettiche al tempo e allo spazio. Al loro fianco anche le musiche composte da Paolo Allara.
L’Ombelico dei Limbi si rivela essere un viaggio introspettivo che si inerpica tra tensioni e costrutti che la performer scardina poeticamente. Si tratta di una performance in cui l’io si disgrega nel suo legarsi a una fisicità tormentata, andando oltre il tempo e lo spazio. È inoltre insito nel lavoro un incessante dialogo tra macro e micro, tra grandi e piccoli sistemi, dove si presenta una fluida trama di associazioni e dislocazioni non soltanto motorie, ma anche verbali e di senso. Le parole a brandelli o i vocalizzi laceranti sono tracce di un post-umano che porta, sul finale, a un abbandono del linguaggio.
In conclusione, il punto di vista che si offre al pubblico è inusuale, come il modo in cui la performer abita lo spazio. Le logiche acquisite vengono sovvertite e il pubblico stesso si ritrova ad attenzionare, attraverso uno sguardo frammentante, le differenti sezioni della scena, delle micro-sezioni.
Stefania Tansini, ancora una volta, come in My body solo o in altri suoi precedenti lavori, non ha percorso un’univoca strada, ma plurime vie costellate da differenti elementi sensoriali che si coniugano insieme, arrivando a definire un suo personale mondo dall’essere utopico.

L’OMBELICO DEI LIMBI

progetto, coreografia danza e costumi Stefania Tansini
musiche Paolo Aralla
luci Elena Gui
dramaturg Raffaella Colombo
tutor Silvia Rampelli
vocal care Monica Demuru
direttore tecnico Omar Scala
assistenza ai costumi Chiara Sommariva
organizzazione e promozione Federica Parisi
grazie a MeArTe_ fabrics and tailoring, Fondazione Il Lazzaretto
in coproduzione con Fondazione Teatro Grande di Brescia, Romaeuropa Festival, Tpe-Teatro Piemonte Europa/Colline Torinesi, Nanou associazione culturale
con il supporto di residenza Artisti nei Territori Masque Teatro, Boarding Pass Plus Dance/Santarcangelo dei Teatri, Olinda residenza artistica, residenza da Centro nazionale di produzione della danza Virgilio Sieni, progetto Air_Artisti in residenza 2023/Lavanderia a Vapore

Lavanderia a Vapore, Collegno (TO) | 1 Novembre 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.​

Cirillo fra Molière e Da Ponte, per un Don Giovanni oscuro e filosofico

RENZO FRANCABANDERA | Già all’apertura del sipario, si capisce che qualcosa della magnificenza scenografica ha a che fare più con la lirica che con lo “spazio vuoto” teatrale alla Brook. Qualche giorno fa, parlando con uno scenografo, gli chiedevo infatti quale fosse nel suo sentire la principale differenza fra le scenografie teatrali e quelle liriche. E sorprendentemente la risposta è stata che è proprio la geografia dello stare quello che distingue. Gli interpreti lirici di solito si muovono meno, hanno una performatività più limitata. E dunque la scenografia deve inventare luoghi e spazi in cui possano stare, nascondersi, da cui venir fuori. Insomma, nella lirica è la scenografia a sopperire al minor movimento degli interpreti.
Eccone spiegata la tradizionale imponenza. E imponente, addirittura a due piani, è quella che si rivela davanti agli occhi appena si apre il sipario del Teatro delle Muse ad Ancona, che con il Don Giovanni di Arturo Cirillo inaugura la stagione. A fare gli onori di casa, poco prima dell’inizio, è Giuseppe Dipasquale, il nuovo direttore artistico di Marche Teatro, che ha preso la parola per salutare il pubblico e raccogliere il testimone di Velia Papa, cui si deve, comunque, la firma di questa stagione.
L’eredità preziosa si sostanzia, fra le altre cose, del profondo legame intessuto con artisti come Cirillo, che Marche Teatro ha prodotto per diversi anni e che, per quest’ultimo lavoro, porta in scena una versione del Don Giovanni che unisce Molière e Lorenzo Da Ponte, per dare vita a una versione dell’opera che vuole riportare al teatro il testo del libretto operistico. L’interpretazione, che mescola prosa e versi con le liriche di Da Ponte liberate dalla formalità del canto, ambisce a muoversi tra eleganza poetica e vivacità teatrale.

foto Tommaso Le Pera

Si diceva dell’imponente scenografia, firmata da Dario Gessati, che divide il piano base da un sopraelevato che ricorda il giardino di una villa, collegata al piano terra da una imponente scala che si bipartisce, aprendo scomparti e passaggi segreti, terreno di azione ideale del personaggio che, con sotterfugi e furbizie, alimenta in modo instancabile il catalogo delle conquiste femminili, di ogni parte del mondo. Inutili i tentativi del suo servo e di sua moglie Elvira di ricondurlo a una condotta morale. Ma l’eloquio e l’intelligenza del libertino, che spiazza la morale sociale e ne vuole smascherare, per certi versi, le ipocrisie, ha la meglio sugli umani e pretende di sfidare anche il destino e la morte.
Il mito di Don Giovanni, il leggendario seduttore di Siviglia, ha infatti ispirato innumerevoli versioni e interpretazioni nel corso dei secoli, con due delle più celebri rappresentazioni proprio nel teatro di Molière e nell’opera di Da Ponte, il cui libretto è stato poi musicato da Wolfgang Amadeus Mozart. Entrambe le opere non solo mettono in scena la figura del seduttore, ma approfondiscono anche il senso di trasgressione, il conflitto con le norme sociali e la ricerca di libertà che lo caratterizzano.
La commedia di Molière, intitolata Dom Juan ou le Festin de Pierre, rappresentò un punto di svolta nell’interpretazione di Don Giovanni. Scritta nel 1665, l’opera metteva in scena un protagonista cinico, irriverente e impenitente, che sfidava non solo le convenzioni sociali, ma anche i precetti religiosi. Il Don Giovanni di Molière non è solo un libertino; è anche un ribelle filosofico, che si fa beffe dei valori morali e della fede in Dio, incarnando una forma di razionalismo estremo, scardinando l’idea tradizionale del peccatore redento, e offrendo, invece, un personaggio che, anche di fronte al castigo finale, rifiuta di pentirsi.
Qui emerge quasi come vero e proprio antagonista non l’universo sociale di cui Don Giovanni si fa beffe, ma il servo Sganarello, che rappresenta la voce del popolo e della morale comune, e che tenta più volte di riportare il suo padrone sulla “retta via”, ma senza successo. Una lettura che Cirillo in fondo abbraccia, sviluppando il personaggio in modo tridimensionale, e affidandone l’interpretazione a un valente Giacomo Vigentini, che lo porta con intelligenza fra ironia e dramma.
Il Don Giovanni di Da Ponte musicato da Mozart venne rappresentato per la prima volta nel 1787 e costituisce uno dei capolavori della musica e del teatro. Il libretto di Da Ponte, basato in parte sull’opera di Molière, arricchisce il mito con una complessità psicologica che va oltre la pura raffigurazione del libertino. Da Ponte, infatti, dipinge un Don Giovanni che sembra fuggire da sé stesso e dal vuoto della propria esistenza. L’opera si apre con il primo assassinio del Commendatore, differenziandosi, così, da molte altre versioni, nelle quali l’uccisione è solo accennata. Questo omicidio segna da subito Don Giovanni come un “eroe maledetto”, che trascina con sé una serie di personaggi e sentimenti contrastanti.
Da Ponte e Mozart introducono una profondità musicale e drammatica che permette allo spettatore di cogliere le molte sfumature del protagonista, affascinante, ma anche manipolatorio e crudele. Che ne è in questo allestimento della musica? Non scompare, ma compare qua e là a fare da contrappunto sonoro ad alcune celebri arie, come quella del Madamina, il catalogo è questo accompagnando il percorso del personaggio, e facendo risuonare in una versione registrata e semplificata, colta, ma anche popolare, la partitura mozartiana. A suonare un ensamble di pochi elementi, ma ben assortiti e ispirati.
Cirillo si muove con la sua versione fra il libertino filosofico di Molière, che si ribella consapevolmente ai dogmi religiosi e sociali, e il Don Giovanni di Da Ponte, più enigmatico e trascinato da una forza oscura che lo spinge oltre i limiti umani e a cui vogliono accennare, soprattutto nella seconda parte, le luci di Paolo Manti: spaziano da ambientazioni oscure e spettrali, fino alle accese fiamme infernali del finale, che abbagliano la vicenda e gli spettatori con l’incombere dell’inesorabile destino di ogni umano.

foto Tommaso Le Pera

Si diceva della centralità della figura del servo come contraltare: sia Sganarello sia Leporello svolgono la funzione di rappresentare la morale comune e di essere la coscienza mancata del protagonista. Sganarello, nel teatro di Molière, cerca di convincere il padrone a pentirsi, ma alla fine è costretto ad assistere impotente alla sua rovina. Leporello, nell’opera di Da Ponte, oscilla tra la paura e l’ammirazione verso il suo padrone, esprimendo la contraddizione di chi è attratto e, allo stesso tempo, respinto dalla trasgressione.
Nell’allestimento di Cirillo la fusione dei testi di Molière e Da Ponte, con l’aggiunta della musica di Mozart, alterna il tragico e il comico. Cirillo stesso interpreta Don Giovanni, esplorando non solo il mito letterario, ma compiendo un viaggio tra linguaggi diversi, mantenendo il tono beffardo di Molière e la poesia di Da Ponte, accompagnati dalla musica di Mozart, che sottolinea sia la leggerezza che il destino ineluttabile del personaggio e restituendo queste parole al teatro.
L’operazione, a ben vedere, fa da contraltare a quella recente, e ugualmente ispirata dalla musica, che era stata realizzata con il precedente Cyrano. Lì l’amore devoto e spirituale, qui quello libertino e carnale. Eppure entrambi i personaggi sono protagonisti di una titanica lotta con il destino: ma se in Cyrano l’amore vince sulla morte, qui l’ineluttabile destino dell’individuo assoggetta l’umano che tenta di ribellarsi. In un caso la prosa cerca di raccontare il poetico, il divino sentimento, nell’altro la poesia vuole raccontare la dannazione del quotidiano e del destino umano.
Cirillo affronta in modo intrigante l’archetipo che continua a suscitare interesse per la sua ambiguità morale e per la rappresentazione di un desiderio di libertà che non conosce limiti. Il personaggio, con la sua incapacità di pentimento e la sua sfida costante al divino e alla società, rimane un simbolo della tensione tra la ricerca di piacere e il bisogno di ordine morale. Don Giovanni è un eroe, un antieroe o semplicemente una vittima delle proprie passioni? Questa ambiguità rende il mito del seduttore un tema eterno, in grado di adattarsi ai valori e alle domande di ogni epoca.

DON GIOVANNI

da Molière, Da Ponte, Mozart
adattamento e regia di Arturo Cirillo

personaggi e interpreti
Don Giovanni Arturo Cirillo
Sganarello Giacomo Vigentini
Donna Elvira Giulia Trippetta
Donna Anna Irene Ciani
Don Ottavio Francesco Petruzzelli
Don Luigi Rosario Giglio
Masetto Francesco Petruzzelli
Zerlina Irene Ciani
Un povero Francesco Petruzzelli
Commendatore Rosario Giglio
Signor Quaresima Rosario Giglio
Ragotino (lacchè di Don Giovanni) Francesco Petruzzelli

scene Dario Gessati
costumi Gianluca Falaschi
luci Paolo Manti
musiche Mario Autore

assistente alla regia Mario Scandale
regista assistente Roberto Capasso
assistente scenografo Stefano Pes
costumista collaboratrice Anna Missaglia

musiche registrate Orchestra Topica: Davide d’Aló clarinetto, Roberto Dogustan chitarra sette corde, Gibbone pandeiro, Francesca Diletta Iavarone flauto traverso, Davide Maria Viola violoncello, Joe Zerbib trombone

foto di scena Tommaso Le Pera

direttore di scena Paolo Manti
capo macchinista Andrea Zenoni
datore luci Giammatteo Di Carlo
fonico Giovanni Grasso
sarta Michela Ruggieri
amministratrice di compagnia Serena Martarelli

produzione esecutiva di MARCHE TEATRO:
direttore di produzione Marta Morico
direttore tecnico dell’allestimento Roberto Bivona
produzione, distribuzione Alessandro Gaggiotti
organizzazione Emanuele Belfiore
coordinamento Sartoria Teatro delle Muse Stefania Cempini
direttore amministrativo Monia Miecchi
responsabile amministrativo produzioni Katya Badaloni
contabilità Laura Fabbietti
responsabile ufficio personale Claudia Meloncelli
capo ufficio stampa / coordinamento area comunicazione Beatrice Giongo
promozione Benedetta Morico
comunicazione e grafica Fabio Leone, Lara Virgulti

produzione
MARCHE TEATRO, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

Teatro delle Muse, Ancona | 31 ottobre 2024

Testimonianze, Ricerca, Azioni. A Genova il festival sulla performance di Teatro Akropolis – intervista a Clemente Tafuri

RENZO FRANCABANDERA | Se c’è una cosa su cui Teatro Akropolis ha da sempre distillato un credo fermo è il postulato che li ha spinti da vent’anni circa a dedicarsi alle arti performative. E questo postulato viene richiamato anche in occasione del lancio della edizione numero 15 di Testimonianze Ricerca Azioni, il festival che la compagnia organizza a Genova in pieno autunno e che quest’anno si svilupperà, con un ricco programma, dal 5 al 17 novembre, ma contando su alcune azioni di prologo che si sono tenute a fine ottobre.
«In questi anni quello che ha ispirato la ricerca di Teatro Akropolis è stato il confronto tra l’origine del teatro (lo ribadiamo, già performativo, anzi totalmente performativo) e la irreversibile crisi della rappresentazione che si definisce da Schopenhauer in poi. (…) Se l’arte è una delle esperienze umane più complesse, la ricerca nell’arte rappresenta il vertice (e il fondamento) di questa esperienza. Ed è impossibile occuparsene se non si vive nel conflitto tra lo spazio e la forma, la parola e la sua dissoluzione, la rappresentazione e i suoi confini. La ricerca, in teatro ma evidentemente non solo, è il vero cammino del viandante, non una sosta, non l’illusione della meta.”
Abbiamo sempre guardato con grande interesse alle pratiche poste in essere in questi anni, peraltro arricchite da numerosi riconoscimenti proprio per l’instancabile azione di ricerca, condensatasi intorno alle edizioni e alla rivista che viene editata, ma anche alla documentazione filmica e di archivio sulle arti performative, che negli ultimi anni è diventato ulteriore terreno di approfondimento. Abbiamo incontrato in avvio di Festival Clemente Tafuri, una delle anime fondatrici di Akropolis, e regista delle più recenti operazioni artistiche promosse dalla compagnia.

Clemente, Testimonianze Ricerca Azioni è un festival che si è ricavato uno spazio molto netto e preciso nel panorama della ricerca dell’arte dal vivo in Italia. Ritieni che il filo che avete iniziato a tessere nella prima edizione sia rimasto lo stesso o gli intrecci hanno poi cambiato la struttura dell’evento?

Il filo è rimasto lo stesso. Il motivo per cui gli spettacoli sono selezionati e il senso che definisce i nuovi progetti riguardano il rapporto tra il teatro e la svolta performativa così come si è definita durante il secolo scorso e ancora si sta definendo. Una crisi che ha interessato tutte le arti, che si può sintetizzare con la crisi della rappresentazione. Ed è una questione fondamentale che interessa il nostro tempo più che mai proprio perché si assiste a un ritorno all’ordine decisamente preoccupante. Sembra che il Novecento sia stato rimosso. Come se tutti i grandi temi dell’arte, della cultura, della politica che lo hanno animato fossero stati risolti. Una follia. In ogni caso, da questo tema se ne sviluppano altri. Gli intrecci, come dici tu, cambiano la struttura dell’evento che però non perde la sua ispirazione.

Che edizione sarà questa e quali idee hanno favorito la scelta della direzione artistica?

Heliopolis, l’archivio sulle arti performative che presentiamo in questa edizione del festival, è un progetto che in qualche modo risponde alla tua domanda. Si struttura intorno a una mappa concettuale i cui temi sono alla base del festival e, potremmo dire, alla base di quasi tutte le nostre attività. La transdisciplinarietà, la trasmissione dei saperi, il corpo del performer, la relazione possibile tra il teatro e le arti performative, l’arte contemporanea, il tragico e la nascita del teatro, la relazione tra uomo identità e personaggio.

Yuko Kaseki e Megumi Eda

Che legame ha Akropolis e la sua azione politica e poetica con il festival? Peraltro presenterete il vostro ultimo lavoro…

Il lavoro di un artista mi interessa se affonda le radici nel cuore dei problemi dell’arte. Che vuol dire di conseguenza affondare le radici nella cultura, nella società, nella vita di ognuno. Scegliere quindi di presentare un artista, dare spazio alla sua ricerca, significa prendere una posizione che è anche politica. Da una certa prospettiva soprattutto. Utilizzare slogan, frasi a effetto intorno a questioni di natura sociale e culturale e poi programmare spettacoli che hanno in sé una matrice ideologica opposta mi sembra una tendenza generale su cui bisogna riflettere. Puoi dire di fare uno spettacolo a sostegno di qualunque causa, ma se lo spettacolo nelle sue strutture è reazionario, contraddittorio, e si limita a una chiacchiera intorno al problema, la questione si fa pericolosa. Si insinua l’idea che la forma non rappresenti più un problema, che non abbia peso da un punto di vista politico. Che sia possibile, cioè, fare più o meno qualsiasi cosa in scena e poi riscattarla con una drammaturgia a tema.
Il film su Carmelo Bene che presentiamo in questa edizione del festival espone, anche se non esplicitamente, questa prospettiva. La potenza dell’ispirazione di Carmelo Bene è un terremoto per chiunque fa questo mestiere. D’altra parte tutto il progetto La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro ha come obiettivo quello di mettere in luce questioni fondative dell’arte attraverso il lavoro di artisti e filosofi. E sono questioni di grande impegno culturale e politico.

L’altro lavoro riguarda la relazione tra musica e immagine, memoria e sviluppo della partitura musicale. At First Light, da un’idea di Pietro Borgonovo, che dirigerà la partitura musicale di Benjamin, rappresenta un nuovo modo di fruizione del suono, uno sfondamento dell’immagine attraverso la trasparenza del corpo del performer. È una grande sfida. Il lavoro con Pietro ha rappresentato una svolta nel cammino di ricerca di Teatro Akropolis.

Il pubblico, la città. Come si porta al coinvolgimento una realtà in così grande mutamento sociale e organizzativo?

Il pubblico segue Teatro Akropolis con passione, forse perché le tante attività che proponiamo rappresentano la possibilità di un incontro ampio, su più livelli. Dalla formazione all’editoria, dagli spettacoli ai convegni e ai seminari, passando per gli incontri con gli artisti, le residenze artistiche, una sala rinnovata e progettata per ospitare diverse forme di spettacolo.
La città è in trasformazione, è vero, e i rischi sono tanti. Non ultimo il problema di uno stravolgimento sociale proprio nella parte di città in cui si trova Teatro Akropolis. È il frutto di decisioni che negli anni hanno definito una nuova politica industriale, ridisegnando in parte il ponente di Genova. E in questo il ruolo della cultura è decisivo.
Ovviamente per cultura intendo un lavoro sinergico tra scuole, associazioni, biblioteche, università. Non si può pensare che i teatri debbano risolvere tutti i problemi, o comunque debbano occuparsi indiscriminatamente di tutto. Il Comune, in questo senso, è stato disponibile a un dialogo fattivo, concreto, intorno a questioni strategiche. Pianificare in tempi lunghi le attività è una svolta essenziale. La precarietà e la circostanzialità dei finanziamenti alla cultura è un problema serio che va affrontato e risolto.

Teatro Akropolis ha sempre avuto fin dall’inizio della sua pratica una declinazione della poetica all’interno di una pratica di studio e ricerca sul linguaggio, che sta continuando e si arricchisce di nuovi capitoli.

I diversi linguaggi dell’arte sono essenziali per avvicinarsi sempre più al nucleo di questo lavoro. Il cinema, la musica, la scrittura, la pittura sono parte del teatro inevitabilmente, costitutivamente, perché ogni linguaggio dell’arte è uno strumento per mettere più a fuoco questioni originarie e irrisolte dell’arte stessa. Ma hanno logiche e regole differenti.
Ogni forma d’arte ha le sue intrinseche specificità e questioni da affrontare. Nel nostro caso, non si tratta di mescolare linguaggi. Un film è un film. Un dipinto è un dipinto. Se lavoro a un film devo togliermi dalla testa di trattare un attore come farei in scena, di lavorare sui tempi e lo spazio di un’inquadratura come farei se stessi lavorando a una scenografia.
Sembra ovvio, ma non lo è così tanto. Il teatro è tremendamente debordante. I teatranti sono debordanti. Se mettono mano su qualcosa la teatralizzano senza neanche accorgersene. Così come gli scrittori che mettono in scena un’opera. La letteratura finisce col divorare ogni elemento della scena, attori compresi. In questo senso, corriamo tutti dei rischi.

Lupa Maimone Zoologia

A volte, per chi fa arte, la sensazione di impotenza rispetto ai grandi eventi del mondo è drammatica. Che ruolo ha oggi questo pezzo di società e questa attività, per taluni apparentemente elitaria, dentro uno scacchiere mondiale che ci fa sentire in modo così grave l’incuranza per la vita umana?

L’incuranza per la vita umana c’è sempre stata. Ora la avvertiamo di più perché la catastrofe della guerra riguarda l’Occidente, o comunque una parte del mondo in cui riconosciamo, diciamo così, una nostra identità. Ed è proprio l’interpretazione del tema dell’identità a creare conflitti, incomprensioni, a innescare brutali forme di emarginazione e di segregazione. Come al solito guardiamo quello che accade senza chiederci perché accade, senza andare a cercare i motivi un po’ più in là dei tempi immediatamente recenti.
Cosa possono fare gli artisti? Poco. Perché quella dell’arte, pur essendo la voce più potente di ogni epoca, è anche la più fragile. E come per ogni altra voce la sua forza dipende da chi la ascolta. Potrei dirti che è fondamentale lavorare sul territorio, radicare la propria azione politica, sensibilizzare il pubblico, coinvolgerlo con mille stratagemmi. Ma è talmente ovvio che è inutile ripeterlo. Lo facciamo. Lo fanno in tanti, per fortuna.
La questione è: quanto incide l’arte nella vita delle persone? Non parlo del tempo libero. Parlo del tempo in assoluto. Che strumenti ha il pubblico per avvicinarsi all’arte in modo quantomeno consapevole, e non come un turista? Valutare l’arte in base ai numeri, al botteghino, agli algoritmi, al giudizio di chi si occupa di queste cose per passatempo è un’altra follia. E a parte gli artisti, la cui voce resta sempre più spesso inascoltata, anche il pubblico risente di questa situazione.

amən_EM+_ © Luca Donatiello

Catania Off Fringe festival #3: spettacolari riflessioni sul presente

ELENA ZETA GRIMALDI | Dopo esserci immersi negli spettacoli della prima settimana (qui l’articolo) e nelle performance più legate alla danza (potete leggerne qui), torniamo al Fringe più a sud d’Italia, il Catania Off.
Sfogliando il programma, si notano due cose: che gli spettacoli proposti sono sempre più spesso monologhi, e che affrontano sempre più problematiche sociali. Basta curiosare tra i commenti lasciati (o non lasciati) dagli spettatori nelle pagine dei vari spettacoli, per rendersi conto che questo genere riscuote grande successo.
Da un lato, questo rafforza l’idea che sia ormai usuale un modo di fruire il mondo un po’ “voyeuristico”, in cui il racconto di sé (soprattutto se condito di grandi temi mainstream) attrae sempre; dall’altro, però, è evidente da parte degli artisti il bisogno di allontanarsi dalla spettacolarizzazione fine a sé stessa e metterla al servizio di una riflessione sul presente. E questo viene fatto nei modi più disparati, a volte con risultati notevoli. È il caso dei tre spettacoli che abbiamo seguito.

Boxeur – foto di Pedro Parraga

Il primo, Boxeur di Pequod Compagnia, è una storia di boxe e antifascismo, che mescola passato e presente, realtà e desiderio, partendo da «l’incontro del secolo tra Victor Young Perez e Eugene Smith Lorenzoni» per celebrare la fine della Seconda guerra mondiale. All’alzarsi delle luci, tra le piantane coi fari, uno sgabello e un pungiball che abbracciano lo spazio come pali di un ring, entra il protagonista, Stefano Pietro Detassis, che da un microfono in un angolo del proscenio racconta la genesi dello spettacolo. In un momento buio della sua vita, si è iscritto alla palestra popolare di quartiere, dove boxe e antifascismo sono un connubio inscindibile. Nessuno, all’inizio, riusciva a capire come uno sport così violento potesse essere (per moltissimi) simbolo di riscatto e libertà, neanche lui; ma poi, proprio in palestra, ha scovato quella storia.
Lo spettacolo, dunque, è un’appassionante digressione che porta a comprendere l’importanza di quel match del 1946 a Parigi, attraverso la storia dei due pugili. La prima parte si concentra su Lorenzoni, immigrato in giovane età con la famiglia dalle montagne del nord Italia a causa delle violenze fasciste, che si ritrova nel caos della capitale francese a lavorare in fabbrica e non riesce ad adattarsi a quella vita rumorosa e grigia, almeno fino a che non incontra il suo allenatore di boxe. Da lì, la sua carriera decolla, e diventa uno dei pugili più famosi di Francia; fino a che non arrivano i nazisti, ed è costretto a prendere le armi – «immaginate voi come sarebbe perdere tutto per andare in guerra», ci dice il narratore. Perez, invece, è un ebreo tunisino, il più giovane campione del mondo di pugilato della storia. Denunciato e deportato ad Auschwitz, andrà avanti combattendo incontri per divertire i gerarchi tedeschi.
Tutta l’estetica dello spettacolo tende a costruire un’atmosfera vintage un po’ caricaturale (un mix di Keaton e tatuaggi “old school”): costumi d’epoca dai colori sgargianti, i baffi del protagonista laccati all’insù, le movenze innaturali e quasi ballate che ben si accordano (chi l’avrebbe mai detto!) alle hit pop che fanno da intermezzo ai momenti della storia. Detassis tiene la scena con grande energia, e riesce a far apparire i personaggi di contorno (il padre di Lorenzoni, gli amici, l’allenatore, i nazisti…) con grande suggestione, frutto anche di un testo ben congegnato nel “saltellare” in diversi spazi e tempi, e di intelligenti scelte registiche che mai si allontanano dall’idea che sorregge tutto lo spettacolo (entrambe merito di Maura Pettorruso).
Una menzione speciale per la potenza emotiva e drammaturgica è da fare al finale, grazie al quale l’intero spettacolo, a ritroso, viene arricchito di un ulteriore livello di lettura, che scombussola tutta la visione, e fa in modo che il pubblico esca dalla sala sconvolto quanto basta da non dimenticare la storia sulla sedia da cui si è appena alzato.

Radici – foto di Pedro Parraga

Restiamo nella stessa epoca con il secondo spettacolo. Radici, di e con Antonio Anzilotti De Nitto, racconta le persecuzioni naziste, e lo fa da tre punti di vista che solitamente restano un po’ sottotraccia nel resoconto storico: un ragazzo omosessuale, un pugile rom e un internato psichiatrico. In sala, De Nitto instaura subito un rapporto col pubblico, interrogandolo direttamente e utilizzando questo espediente come trampolino per tuffarsi nella storia del primo vero amore del ragazzo, che purtroppo si instaura con un ebreo che verrà presto deportato con tutta la sua famiglia, sorte che toccherà subito dopo anche al protagonista.
Basta contare fino a dieci e togliere il montgomery, che De Nitto diventa un rude pugile che battibecca con la moglie (anche questa individuata nel pubblico), la quale vorrebbe cambiasse lavoro, ma va a vedere comunque tutti gli incontri, fino a che il Reich decide che i vincitori devono essere sempre ariani, e la carriera del protagonista crolla. Per proteggere la moglie e la figlia, il pugile divorzia e se ne va di casa; presto verrà arrestato e costretto a combattere per il divertimento dei suoi aguzzini.
Si conta di nuovo fino a dieci, via le bretelle, e abbiamo davanti un ragazzo neurodivergente intento a esaminare il risultato di un test: per quello che sa, se lo supera potrà partire alla volta di un altro centro, dove già si trova la ragazza di cui è innamorato; ma non riesce a capire perché il dottore non gli dà mai un buon voto. Apprendiamo subito dopo che chi supera il test viene spedito in una struttura nazista, scoperta che ha fatto sprofondare il dottore in una stato di ansia e depressione. Vani sono i tentativi di convincere il ragazzo, che continuerà, forse all’infinito, a cercare di ottenere il voto che desidera.
Lo spettacolo risulta davvero toccante: il racconto è forte, e della narrazione in prima persona vengono sfruttate tutte le potenzialità, colpendo lo spettatore nel vivo. De Nitto ha una presenza scenica che cattura e una straordinaria capacità di cambiare personaggio: passando da uno all’altro quasi sembra, nella luce soffusa, che anche i suoi connotati siano mutati.
Essere contemporaneamente attore, autore e regista, però, può causare qualche intoppo: a parte la luce soffusa che non cambia mai e rischia, in alcuni punti dal ritmo più lento, di annoiare un po’, qua e là c’è qualche ingenuità registica e, a parere di chi scrive, l’impostazione drammaturgica del terzo episodio è forse un po’ sbilanciata, dando troppo spazio al dottore. Niente di irreparabile né, in fondo, di così grande da inficiare lo spettacolo; ma basterebbe davvero qualche accortezza in più per rendere Radici uno spettacolo riuscito da ogni punto di vista.

News

Cambiamo totalmente atmosfera, contesto storico e genere performativo, con News di 044 Mime Company: in scena ci sono ben tre interpreti, siamo immersi nella cronaca più stringente, e – come s’intuisce dal nome della compagnia – lo spettacolo manca totalmente di parole.
Un po’ mimi, un po’ clown, un po’ acrobati, gli ucraini Kateryna Spodoneiko, Pavlo Vyshnevskyi e Oleksandr Symonenko riescono a tenere in piedi un frizzante e divertente spettacolo per 50 minuti che volano in un batter d’occhio, utilizzando solo i loro corpi e… un sacco di giornali. News si concentra sull’assunto che «le informazioni che ci circondano plasmano la nostra visione del mondo», nel bene, ma soprattutto nel male. Non solo e non tanto per il loro potere manipolativo, ma anche e soprattutto per le conseguenze psicologiche dell’essere sommersi da sempre più notizie in sempre più breve tempo, da cui consegue la brama di averne sempre di più, situazione che (inutile negarlo) almeno una volta nella vita è sfuggita di mano a tutti.
All’inizio, infatti, i tre performer stanno in scena, ognuno col suo giornale preferito; ognuno incuriosito da ciò che sta leggendo l’altro, cerca prima di sbirciare e poi di impossessarsi dei giornali altrui, in una esilarante sequela di incastri di corpi e fogli di carta, che appaiono assolutamente naturali, ma sono evidentemente studiati nei minimi dettagli (e richiedono una preparazione fisica notevole). Nel mentre, a turno, ognuno instaura col giornale anche un rapporto personale: chi ci gioca, chi lo usa per aumentare il seno, chi lo trasforma in mazzi di fiori, utilizzando dell’oggetto (che è il vero protagonista) anche la consistenza, il suono, il potenziale trasformativo.
Ma, a mano a mano che il gioco va avanti, diventa sempre più violento: è impossibile smettere di leggere, impossibile rinunciare a informarsi, bisogna restare sempre al passo con la notizia. Arrivati a un alto grado di malsana euforia, uno dei tre personaggi deciderà di prendersi una pausa e cercherà di impedire anche agli altri due di continuare ad alimentare la dipendenza, ma non sarà per niente un compito facile.
Pur mantenendo il tono giocoso e cartoonesco che caratterizza lo spettacolo, nonché un utilizzo del giornale sempre diverso, originale e inaspettato, il finale assume un tono grottesco e distopico che, accentuato invece che smorzato dalle risate che comunque continuano in platea, colpisce lo spettatore. Come se quel giornale, con un gesto inaspettato, ti fosse arrivato in piena faccia.

BOXEUR

di Maura Pettorruso
regia Maura Pettorruso
con Stefano Pietro Detassis
luci Federica Rigon
musiche Giacomo Maturo
costumi Valentina Basiliana
produzione PequodCompagnia Teatro E

RADICI

di Antonio Anzilotti De Nitto
regia Antonio Anzilotti De Nitto
con Antonio Anzilotti De Nitto
costumi Antonio Anzilotti De Nitto
produzione Ferrara Off APS

NEWS

di 044 Mime Company
regia Pavlo Vyshnevskyi
con Kateryna Spodoneiko, Pavlo Vyshnevskyi, Oleksandr Symonenko
costumi 044 Mime Company
produzione 044 Mime Company

Catania Off Fringe Festival | 27 ottobre 2024

Des-Espoirs di Irène Tassembedo: al via la stagione Maggiore Danza con un dialettico grido internazionale

Ph. Frank Bortelle

MICHELE PECORINO / PAC LAB* | Lo scorso 30 ottobre, il teatro Il Maggiore di Verbania ha ospitato la prima nazionale dello spettacolo Des-Espoirs, firmato dalla coreografa Irène Tassembedo, che ha affrontato in diversi suoi lavori coreografici e cinematografici di livello internazionale tematiche politico-sociali. La presentazione del lavoro ha segnato l’apertura della stagione Maggiore Danza, promossa dalla Fondazione Egri per la Danza e curata da Raphael Bianco, che mira a coinvolgere il pubblico e favorirne lo sviluppo, introducendo nuove estetiche e linguaggi multidisciplinari nella programmazione teatrale della cittadina piemontese. La stagione, che si avvale anche della collaborazione di Piemonte dal Vivo, presenta un calendario variegato con una sezione specificamente rivolta alle nuove generazioni di spettatori.
In questa nuova edizione è stato avviato, infatti, un progetto volto a offrire spazi formativi di confronto e dialogo con i linguaggi della danza per le scuole. La performance, il cui debutto è avvenuto nel 2023 al festival internazionale di Ouagadougou, vede in scena danzatori provenienti da Burkina Faso, Mali, Niger e Costa d’Avorio e mette in atto un fremente invito al cambiamento. Affronta con audacia, nel suo articolato sviluppo, le problematiche della regione del Sahel, una vasta area dell’Africa subsahariana caratterizzata da molteplici problemi di natura economica e sociale. Attraverso ritmi incalzanti e danze tradizionali, i giovani danzatori portano alla ribalta la difficile situazione socio-politica, sottolineando l’urgente necessità di risposte e azioni concrete per affrontare le sfide contemporanee.
Des-Espoirs si presenta sin dai primi minuti con una chiara struttura drammaturgica composta da molteplici episodi che si concatenano tra loro, grazie a una coesistenza sonora di musiche appartenenti a epoche e contesti culturali differenti. Anche le luci, soggette a frequenti cambi, spesso bagnano i corpi solo parzialmente, rivelandosi dunque contrastate. Il titolo stesso dell’opera poi, Des-Espoirs, avendo un duplice significato, invita a immergersi in una dialettica complessa. La parola espoirs, traducibile con speranza, se accompagnata dal prefisso des, assume il significato opposto, disperazione. Un gioco di parole che simboleggia un’assenza di prospettive, ma anche l’anelito verso la libertà e l’identità sociale.
Questa dualità tra speranza e disperazione permea l’intero lavoro, evidenziando le contraddizioni di un mondo in cui l’esclusione, l’ineguaglianza e le crisi d’identità ostacolano le azioni socio-comunitarie. Il contrasto tra disperazione e aspirazione diventa un tema centrale, riflettendo un logoramento esistenziale che i performer incarnano attraverso movimenti che appaiono talvolta dilaniati da una rabbia interiorizzata.

ph. Franck Bortelle

I brani musicali utilizzati, tratti sia dal Requiem di Verdi sia da sonorità del pop contemporaneo francese e da atmosfere tribali del Sudafrica, evocano una complessità ricca di sfumature in cui ogni sintesi spicciola risulterebbe impossibile. Ogni parte è un continuo e lento transito tra speranza e disperazione, tra conflitto e coesistenza.
Persino i costumi, che spaziano da semplici abiti neri a indumenti che richiamano le tessiture della tradizione subsahariana, e i pochi oggetti di scena, come giornali, infradito, bacinelle colme d’acqua e piccole torce usate nel finale dello spettacolo, aggiungono strati comunicativi alla rappresentazione. Non si tratta solo di elementi visivi che arricchiscono l’estetica della scena, ma di oggetti attraverso i quali viene intessuta una narrazione che intende denunciare le disperazioni  quotidiane in cui è costretta la regione del Sahel.
I numerosi episodi  appaiono come cicli di nascita e morte, proponendo una visione non lineare della vita e delle esperienze, quasi un montaggio contrastato, per usare un’espressione presa in prestito dal linguaggio cinematografico. Des-Espoirs non è solo una richiesta di cambiamento, ma anche una partitura intrisa di un dolore lancinante, denso di significato, da cui emerge una dialettica che porta a una maggiore consapevolezza. Un dolore che, osservato attraverso la lente hegeliana, è essenziale affinché lo spirito non resti immobile e si evolva.
Questa rappresentazione visiva e fisica della sofferenza rende palpabile la complessità della condizione umana del Sahel, trasformando lo spettacolo in un’esperienza profonda.

DES-ESPOIRS

creazione coreografica e messa in scena  Irène Tassembedo
assistenti Clément Nikiema, Moustaph Kabore
assistente alla messa in scena Bachir Tassembedo
danzatori Clément Nikiema, Moustaph Kabore, Danielle Zongo, Clarisse Sawadogo, Sofyama Ouedraogo, Haidra Guiro, Ulrich Baho, Elène Coulibaly, Aicha Koraou
scene e costumi Irène Tassembedo
illuminotecnica Mahamadi Zougrana
suono Serge Tichindo, Maxence Tassembedo
produzione Compagnia Irène Tassembedo, Grin des Arts Vivants, MC Prod, EDIT, FIDQ, C-SANTE
in collaborazione con: Fondazione Piemonte dal Vivo all’interno della rassegna diffusa We Speak Dance e in collaborazione con il Teatro Il Maggiore di Verbania. 

Il Maggiore, Verbania | 30 ottobre 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Daria Deflorian e la vegetariana di Han Kang: la violenza dietro le forti scelte silenziose

RENZO FRANCABANDERA | Il racconto che gli altri fanno di noi. Del nostro essere e del nostro non essere. Chissà quante mostruosità raccontate di noi da altri mostri. E quante ne diciamo noi sugli altri, da mostri quali siamo, a nostra volta. Che miserabile l’umanità, quando contempla invidiosa e imbelle. Ma le nostre scelte cambiano ciò che si muove intorno a noi?
La vegetariana, il romanzo del 2007 della scrittrice sudcoreana Han Kang, premio Nobel per la Letteratura 2024, ruota attorno alla vita di Yeong-hye, una donna che, dopo un sogno angosciante, decide di diventare vegetariana, una scelta che sconvolge profondamente le dinamiche della sua famiglia. È diviso in tre parti, ciascuna delle quali adotta una prospettiva diversa sulla vita di Yeong-hye e sulla sua scelta di vita. Diversa in primo luogo perché raccontata da persone diverse.

La vegetariana © Andrea Pizzalis

«Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante». Così inizia il libro, lo spettacolo, e il racconto della prospettiva del marito di Yeong-hye, che quasi pirandellianamente osserva il mutare dei comportamenti della donna con crescente incomprensione e frustrazione.
La scelta radicale di lei lo destabilizza, poiché vede il vegetarianismo come un segno di un disturbo mentale che si va facendo spazio in lei; che, a sua volta, fa invece spazio nel frigorifero (svuotandolo di accumuli di carne congelata e pronta alla cottura), ma soprattutto nella vita. Una pulizia che diventa pulsione ascetica e che si rivolge in modo particolare alle relazioni parentali, all’ambito della famiglia di origine, e con particolare forza focalizzando il conflitto sul violento padre, che proverà con la violenza a costringerla a riprendere un’alimentazione che includa la carne.
A incarnare questa figura giudicante, emblema di una modalità di relazione molto maschile, patriarcale e tradizionale, è Gabriele Portoghese. Lo vediamo portare in scena un materasso a due piazze al fondo dello spazio scenico, che più che una casa sembra lo spazio interno di uno squallido esempio di edilizia popolare, un corridoio, uno spazio di passaggio, ma con i muri sporchi, di certo non pulito e brillante.
La struttura emiciclica della scena, creata da Daniele Spanò (che dopo La ferocia ci pare continui le sue indagini scenografiche sulle relazioni fra architetture e senso del vuoto), si condensa poi in due stanze ai lati: quella a sinistra, del cui interno emblematicamente mai nulla sapremo e che è abitata solo dalla protagonista, e quella a destra, che è, invece, un bagno, spazio dell’intimo per eccellenza, ma che sarà comunque a più riprese offerto allo sguardo degli spettatori.
La luce che illumina la squallida casa è quella di una lampada di non particolare brillantezza a fondale. Quelle che illuminano, invece, le due stanze e il proscenio si colorano progressivamente di una specifica cifra emotiva, che varia di sequenza in sequenza. Il disegno di questi equilibri cromatici, che regolano in modo particolarmente efficace le intensità dei vuoti e dei pieni, è di Giulia Pastore.
Ci pare che la descrizione dell’evolvere di questo equilibrio/squilibrio fra vuoti e pieni sia una delle chiavi di lettura, se non la principale che muove l’adattamento per la scena che Daria Deflorian ha realizzato in collaborazione con Francesca Marciano, cercando di mantenere viva anche la scrittura polimorfa della scrittrice nell’unione fra realismo (quello dell’impianto scenografico e anche dei costumi di Metella Raboni) e il simbolismo (degli oggetti di scena e di alcune immagini, di alcuni specifici ambienti).
Questa volta la regista, nota per il suo lavoro su drammaturgie intime e complesse, restituisce l’intensità del romanzo attraverso un linguaggio scenico che cerca di cogliere il senso di estraniamento e metamorfosi della protagonista, abdicando alla forma postdrammatica che aveva caratterizzato i lavori del suo periodo in sodalizio artistico con Antonio Tagliarini.
Qui gli attori interpretano i personaggi e, anche se non di rado si rivolgono in ampi monologhi al pubblico con un fare confidenziale, non c’è mai una confusione con la persona-interprete. Al più, il tentativo di avvicinare la mediocrità, l’ipocrisia, la violenza, la forma erotica di cui ciascuno di loro è portatore. La regista è anche interprete, nella parte della sorella della vegetariana, ruolo affidato a Monica Piseddu.

Foto di Andrea Pizzalis

L’altra parte maschile, che corrisponde all’ulteriore e ulteriore narratore della vicenda di Yeong-hye è Paolo Musio, suo cognato. Dopo la narrazione del marito, che racconta della decisione della donna e del suo allontanarsi da schemi, vincoli e costrizioni di derivazione familiare prossima, nella seconda parte, il cognato di Yeong-hye, artista e videomaker, sviluppa una strana ossessione per la donna e la sua crescente alienazione.
Il cuore dello spettacolo ruota attorno all’attrazione e alla trasgressione, e mostra la forza passiva, ma modellante della donna, che finisce per influenzare anche chi le sta intorno. Emblematica e iconica la notevole scena in cui lui le dipinge il corpo: è resa in modo assai poetico con il ricorso a una lavagna luminosa, che ingrandisce sul corpo di lei l’azione pittorica che Musio realizza sulla superficie dello strumento tecnico, e che viene proiettata a muro sul corpo di lei.
Piseddu arriva a questa interpretazione con tutta la maturità di un percorso artistico attorale che negli ultimi anni ne ha visto una crescita enorme. Questa prova specifica le chiede tanto in termini di esposizione, e non alludiamo banalmente a quella del corpo nudo, ma proprio a una complessità della cifra identitaria del femminile di grandi complessità e tridimensionalità. E la risposta è davvero altissima.
L’attrice interpreta in modo sofisticato lo straniamento, con armi recitative capaci di catalizzare lo sguardo, fino a farla diventare metronomo della rappresentazione. Attribuisce la cifra dell’intimo e le sue pose, ora frontali, ora di spalle, affidando all’asperità vertebrale della spina dorsale, al corpo di bellissima maturità ed eleganza, la capacità di offrire allo spettatore ora la parte ingenua, infantile e trasognata della personalità, ora la sua feroce e testarda determinazione.
Questa specifica questione emerge con ancora maggior forza e chiarezza nell’ultima parte della vicenda, affidata alla narrazione della sorella, interpretata dalla Deflorian, appunto. Costei, di fatto, scopre che suo marito e Yeong-hye hanno condiviso una dimensione intima quando trova le immagini fotografiche e filmiche realizzate da lui nelle sessioni di body painting con la vegetariana.
La frustrazione della donna, che Deflorian descrive in modo icastico e doloroso nella femminilità repressa e via via incattivita dagli eventi, fino a neutralizzarne lo slancio e la potenza, arriva a ordire una vendetta ai danni della sorella, che viene praticamente accompagnata in una clinica per persone con disturbi psichici.

Foto di Andrea Pizzalis

Questo alla fine, come spesso succede, finisce per segnarla in modo definitivo. Eppure la rivolta di lei alle violenze e alle ferite nate in ambiente familiare e di cui non si fa menzione esplicita, ma che si vogliono e possono intuire, la capacità, comunque, di liberarsi, lascia alla sorella, che ne diventa crudele antagonista sotto molti aspetti, un’amarezza inestinguibile. «Non aveva saputo perdonarle di essersi involata da sola al di là di un confine che lei non era mai riuscita a varcare, non aveva saputo perdonare quella meravigliosa irresponsabilità che aveva permesso a Yeong-hye di liberarsi delle costrizioni sociali, lasciandola indietro, ancora prigioniera. E prima che Yeong-hye spezzasse quelle sbarre, lei non sapeva neppure che esistessero».

L’operazione è filologica e compatta, ha un ritmo più serrato e scandito nei primi due episodi,  mentre l’ultimo, in scena, come nel libro, si muove in uno spazio più largo e lento, in cui il conflitto non è più relazionale, ma psichico, non più di prossimità, ma di distanze: è la parte senza dubbio più complessa per una resa scenica del romanzo e della sua parte più onirica e angosciante, che sicuramente necessita di trovare il respiro del pubblico per registrarsi in modo definitivo.
La squadra di interpreti è notevole e gli ambienti, le visioni, gli squarci sull’intimo, sono poetiche, adulte, dolorose, di vuoti e assenze come quella dello specchio nel bagno, di cui si vede solo l’ombra impercettibile, come quella che lasciano i quadri che vengono spostati, rispetto al fondo dell’intonaco. Il simbolico non potersi guardare allo specchio esalta tutta la narrazione sul rifiuto della violenza umana, sull’alienazione, la ribellione individuale, e si interroga sul corpo come veicolo di espressione e sulla ricerca di libertà interiore.
Le scelte di liberazione passano anche e soprattutto attraverso quello che non solo spiritualmente, ma anche fisicamente ci attraversa, ci nutre, ci fa vibrare. Il progressivo isolamento della protagonista e le ripercussioni sulle persone che la circondano – il marito, il cognato, la sorella – nel romanzo, come in scena, mettono in luce il contrasto tra la ricerca di una purezza vegetale e il carattere predatorio, cannibale, della società umana, che la protagonista respinge con crescente determinazione.
È uno spettacolo che, in diverse sequenze e su diverse questioni, torna alla mente. È prodotto da INDEX e coprodotto con diversi teatri e festival internazionali, dove sono in programma le repliche delle prossime settimane, che seguono quelle bolognesi e romane al Romaeuropa Festival. Calorosa l’accoglienza del pubblico, che ha affollato le sale in tutte le repliche.

LA VEGETARIANA

scene dal romanzo di Han Kang
adattamento del testo Daria Deflorian e Francesca Marciano
co-creazione e interpretazione Daria Deflorian, Paolo Musio, Monica Piseddu, Gabriele Portoghese
regia Daria Deflorian
aiuto regia Andrea Pizzalis

scene Daniele Spanò
luci Giulia Pastore
suono Emanuele Pontecorvo
aiuto regia Andrea Pizzalis
costumi Metella Raboni
consulenza artistica nella realizzazione delle scene Lisetta Buccellato
collaborazione al progetto Attilio Scarpellini
direzione tecnica Lorenzo Martinelli con Micol Giovanelli
stagista assistente Blu Silla
per INDEX Valentina Bertolino, Elena de Pascale, Francesco Di Stefano, Silvia Parlani
comunicazione Francesco Di Stefano
produzione INDEX
in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale; La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello in corealizzazione con Romaeuropa Festival, TPE – Teatro Piemonte Europa, Triennale Milano Teatro, Odéon-Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, théâtre Garonne | Scène Européenne – Toulouse
con la collaborazione di ATCL / Spazio Rossellini, Istituto Culturale Coreano in Italia
con il supporto di MiC – Ministero della Cultura

l’immagine è di Andrea Pizzalis

copyright © Han Kang 2007
copyright © Adelphi 2016

nell’ambito di Opening – showcase Italia

Visto @ Teatro Arena del Sole, Bologna | 25 ottobre 2024

Come un quadro in una stanza. Riccardo III di Luca Ariano con Pietro Faiella

LEONARDO CHIAVENTI / PAC LAB* | La pioggia batte contro le pareti del Teatro India di Roma, mentre il pubblico comincia a prendere posto. La sala è piccola, poche file di sedie sono rivolte verso due pannelli bianchi che chiudono lo spazio scenico e un cuscino, con sopra una corona, è poggiato davanti alla prima fila. Le luci si abbassano progressivamente fino a spegnersi e i due panelli si aprono lasciando intravedere un corpo in ombra. Così Riccardo III diretto da Luca Ariano ha inizio.
Sarebbe stata una serata perfetta per rimanere dentro un museo fino alla sua chiusura, camminare nelle sue stanze vuote con il solo rumore dei propri passi a interrompere il silenzio, come fece Margherita Buy nel film Le Fate ignoranti di Ferzan Özpetek. Il teatro, però, può trasmettere ugualmente le stesse emozioni che si provano osservando un’opera d’arte, lo sguardo è il senso che più viene messo alla prova in entrambi casi. Lo ha mostrato, infatti, Luca Ariano con la sua scenografia – curata insieme ad Alessandra Solimene – che circonda ogni personaggio in un ambiente bianco e spoglio, formato da vari panelli mobili che delimitano la scena, permettendo così una grande versatilità degli spazi.

Mirko Lorusso, Liliana Massari, Gilda Deianira Ciao e Lucia Fiocco. Foto di Manuela Giusto

Riccardo III è un dramma storico di William Shakespeare composto tra il 1591 e il 1592 che narra la fine della Guerra delle Due Rose, con la sconfitta dell’ultimo re della Casata di York nella battaglia di Bosworth Field. Nell’immaginario comune, è diventato l’archetipo del personaggio corrotto dal potere, che non si pone limiti verso la sua ricerca ossessiva del trono. Pietro Faiella, attore teatrale di lungo corso, ha lavorato particolarmente sulla gestualità per interpretare questa parte, presentando il monarca deforme come un performer che domina completamente la scena.
Tuttavia, è come se questa attenzione verso la corporeità avesse distolto dalle parole che Faiella recita nel corso dello spettacolo. Infatti, tra le scene più forti rimane sicuramente impresso il momento in cui l’attore, dopo essere riuscito a farsi nominare re d’Inghilterra, si avvicina danzando alla corona e, finalmente, la prende e la pone sulla sua testa: è sua. Al contrario, alcuni dialoghi che ha con gli altri attori non convincono, non avendo la stessa forte intensità delle azioni che compie.

Pietro Faiella. Foto di Manuela Giusto

Come un quadro di Lucio Fontana, dove i tagli nella tela sono un ponte verso il nulla che abbraccia la vita umana, il quadro che Ariano crea insieme a Solimene è un luogo aperto, in cui il re ha la possibilità di uscire e rientrare dal palco durante il corso dello spettacolo.
Un binomio, quindi, che si può individuare come un elemento importante per la lettura critica è il dentro e il fuori dello spazio scenico. Il fuori trova la sua massima espressione nella corona, simbolo assoluto di potere, e nella scelta di non mostrare mai i volti di Re Edoardo o dei suoi eredi, i Principi della Torre. Vengono presentati, difatti, solamente come voci che provengono dall’ alto, il cui suono bisogna immaginarlo. Il fuori, dunque, si presenta come lo spazio del potere, dove si trova la corona e dove provengono le voci dei re. Il dentro, al contrario, è la scena, la lotta, il cammino per ottenere ciò che più si brama di più.
I costumi, creati dalla stilista di Bastia Umbria Elisa Leclè, ricordano l’estetica della fantascienza di Denis Villeneuve con la sua pellicola Dune. La semplicità delle linee e i colori neutri sottolineano l’appartenenza dei personaggi al contesto in cui vivono, il bianco della scenografia richiama gli abiti degli attori per rafforzare il legame che intercorre tra la scenografia come cornice e gli attori come figure del quadro.

Gilda Deianira Ciao, Liliana Massari e Lucia Fiocco. Foto di Manuela Giusto

Liliana Massari, l’attrice che interpreta l’anziana Duchessa di York, ha restituito un’interpretazione della madre del re in grado di mostrare la complessità emotiva della sua parte, nonostante la riduzione del suo ruolo all’interno della rappresentazione. Infatti, insieme all’Amleto, il dramma sulla fine della Guerra delle Due Rose è una delle opere più lunghe di Shakespeare. Ciò, però, non si avverte nella trasposizione di Luca Ariano, le modifiche sul testo hanno reso la sua realizzazione più vicina alla sensibilità contemporanea del pubblico. Si può notare anche nella scelta di utilizzare come musica delle canzoni moderne, come nel finale del dramma con My Way di Frank Sinatra.
Il regista, perciò, ha portato in scena una rivisitazione dell’opera del noto drammaturgo inglese che riesce a incantare lo spettatore, nonostante alcune imperfezioni, e che arriva a trasmettere la tragedia che vive il suo protagonista, in eterna lotta tra il desiderio del potere e la realtà che lo vede sconfitto, tra la gloria e la morte.
Lo spettacolo giunge alla fine. Riccardo ha perso la Battaglia di Bosworth Field. Enrico Tudor, invece, ha vinto e così, da quel giorno, darà inizio alla sua dinastia, che regalerà alla storia dell’Inghilterra grandi sovrani come Elisabetta I.
Prima di morire trafitto dalle spade nemiche, l’ultimo re della rosa bianca viene circondato dai fantasmi delle persone che ha tradito e assassinato per ottenere il trono: suo fratello, sua moglie, suo cugino e molti altri. Riccardo per terra, distrutto dalla consapevolezza di aver perso tutto, cerca di proteggere la sua corona. I panelli si chiudono. Lo spettacolo termina. E il quadro nella stanza ritorna a celarsi.

RICCARDO III

di William Shakespeare
progetto di Luca Ariano e Pietro Faiella
regia Luca Ariano
con Pietro Faiella, Roberto Baldassari, Gilda Deianira Ciao, Romina Delmonte, Luca Di Capua, Lucia Fiocco, Mirko Lorusso, Liliana Massari, Alessandro Moser

Teatro India, Roma | 23 ottobre 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.

Beautiful Creatures, il teatro dei sogni de lacasadiargilla per Scabia e Ronconi

Beautiful Creatures. Foto di Ilaria Costanzo

MATTEO BRIGHENTI | Un sottile spaesamento. Dolce, avvolgente. Non sai più chi sei, da dove vieni o dove vai, ma ti senti leggerǝ. Felice di esserti smarritǝ. Una volta finiti gli incontri, le illuminazioni in prima assoluta delle Beautiful CreaturesTerre di lupi, di lantanidi e ginestre de lacasadiargilla, il Teatro Fabbricone di Prato ti parla come sospeso nel risveglio da un sogno: non c’è un centro, c’è dove si trovano glɜ altrɜ, e dove ti trovi tu. Ogni angolo è una scoperta, per chi si fa trovare in ascolto. Anche oltre la scena, quando comincia qualcosa che non è la vita, ma non è nemmeno teatro. Lo sguardo è l’apertura all’incontro che scegli di attraversare.
L’opera itinerante e immersiva, diretta da Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni, è ispirata al poeta, narratore e affabulatore Giuliano Scabia, artista immenso a cui Andrea Mancini e Massimo Marino, peraltro, hanno dedicato un’importante mostra al Museo di Palazzo Pretorio: Giuliano Scabia: teatro di poesia negli spazi degli scontri. «Non potevamo mettere in scena un testo di Scabia, non potevamo incarnare il suo teatro vagante, ma potevamo evocarlo», scrivono Ferlazzo Natoli e Ferroni nelle note di regia.
Così, lo spunto narrativo (la drammaturgia del testo è di Roberto Scarpetti) è quello di un sedicente esperimento di Collective Sleeping, uno spazio-tempo in cui l’andamento del sogno scorre modificando la percezione in cui sono immersɜ sognatrici e sognatori. Le prime “notizie” risalgono al 2019. Ma è solo nel 2024 che viene identificato il “sito” di uno di questi esperimenti, poi interrotto per l’esaurirsi delle materie prime necessarie a sostenerlo. Persa, inoltre, ogni traccia deɜ partecipanti.

Beautiful Creatures. Foto di Ilaria Costanzo

Dunque, chiuso alle nostre spalle il portone scorrevole del Fabbricone, Marta Ciappina (sua la drammaturgia del movimento), in video su due schermi piatti, ci spiega all’ingresso le regole d’ingaggio per vivere l’esperienza ed essere, a nostra volta, Beautiful Creatures: usare i sensi, abbandonarci alla non logicità delle relazioni, assecondando un viaggio che facciamo per conto nostro e che ognunǝ fa per conto suo, tra il non ancora e il non più. Il sito identificato del Collective Sleeping, quindi, è quello dove ci troviamo adesso. È questo teatro.
E teatro è tutto, non solo il palcoscenico, ma anche il foyer, i bagni, la tribuna e il sotto tribuna, i camerini, come mai è stato fatto prima d’ora. La bellissima creatura che ci abbraccia e rappresenta è questo grande edificio di una storica struttura industriale pratese, usato per la prima volta come spazio teatrale nel 1974 da Luca Ronconi per la sua Orestea. 50 anni esatti di storia riattraversati e rilanciati in un denso convegno di tre giorni al Teatro Magnolfi, Laboratori per un nuovo teatro, sempre a cura di Marino.

Foto di Ilaria Costanzo

È il luogo, innanzitutto, che prende vita. È un paesaggio in cui perdersi e poi ritrovarsi, grazie a una mappa data a ciascunǝ di noi. È una “foresta di simboli” come nelle Corrispondenze di Charles Baudelaire, incarnati e agiti da Giacomo Albites Coen, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Alice Palazzi, Francesco Villano. Animano di dolcezza e perdizione presenze che non sfuggono all’ossessione del tempo. Sono sette. Uno scrittore in crisi, tormentato da profezie e dalle immagini de I Ching; un ballerino amatoriale, marito senza passione e seduttore per noia; una cantante di strada, che si guadagna da vivere come partner nei balli di sala; una donna inquieta, che sogna a occhi aperti di liberarsi del marito; un ex cacciatore di frodo della bassa Renania, arruolato come cecchino in guerra, poi dato per disperso; un giovane di buona famiglia dall’oscuro passato, che è solito passeggiare tra un bosco e i rottami di una città mitteleuropea; Anna, Lucia, Myrta, Marta o Maria, che ama abitare gli spazi perimetrali e aggirarsi nei sogni deglɜ altrɜ.

Foto di Ilaria Costanzo

Si tratta di anime del passato che rivendicano la loro permanenza nel presente, alla stregua delle opere plastiche, in lattice malleabile, di Martina Biolo, calchi di oggetti quotidiani disseminati lungo il percorso, che restituiscono valore ai vissuti comuni. Verosimilmente sono questi i “lantanidi” ricordati nel sottotitolo, ovvero i metalli, chiamati un tempo “terre rare”, essenziali per lo sviluppo delle energie rinnovabili, e qui usati per “rinnovare” il Collective Sleeping.
Allora, quelle sette figure sono tra quantɜ hanno partecipato al famigerato test del 2024. Lɜ vediamo o, meglio, lɜ seguiamo nei loro spostamenti fisici e nei percorsi mentali che tracciano intorno a noi, accompagnati dai suoni, i rumori e gli incanti di un “bosco magico” delle apparizioni (lo spazio scenico e i paesaggi sonori sono di
Alessandro Ferroni, lo spazio sonoro è di Pasquale Citera).

Foto di Ilaria Costanzo

Beautiful Creatures, infatti, è una scena percorsa da appuntamenti continui, tra tavoli, botole, scale, poltrone e palchi. Il montaggio è multifocale, procede per folgorazioni cangianti, sotto un cielo che in sala incombe muto al passare di nuvole rapide come pensieri (la drammaturgia delle luci è di Luigi Biondi, gli ambienti visivi e il disegno video sono di Maddalena Parise). Le performance sono tutte diverse per natura e misura che, come si legge ancora nelle note di regia, «raccolgono parole, tracce, immagini, liste, ritornelli e oggetti dall’universo scabiano», seguendo il passo «di una musicalità imbizzarrita», incoraggiando «il rapporto con il creaturale e l’inanimato», raccogliendo «il desiderio di rischio e di gioco, e la spregiudicatezza capace di radiografare i nostri tempi».
Così, mentre cerchi di capire che canzone la cantante di strada stia intonando, che ballo la coppia dɜ ballerinɜ stiano eseguendo o a chi il cacciatore stia dando la caccia, lei, lui, loro sono già passatɜ oltre, ad altro. Le parole, i significati, qui sono uno Scarabeo composto non muovendo le singole tessere, ma l’intero tavolo. Accade tutto insieme e tutte le strade sono ugualmente possibili: sta a te scegliere a chi andare dietro. E cosa leggerci.

Foto Ilaria Costanzo

Capitiamo, dunque, nel pieno di una cosmogonia, di una creazione in atto, con la Compagnia che si manifesta e si sottrae alla nostra vista in assoluta armonia. Come quando ballano l’Hully Gully su I Watussi di Edoardo Vianello: ciascunǝ trova il proprio tempo nel tempo comune deglɜ altrɜ. Tempo che, a intervalli cadenzati, li richiama all’ordine sul palco.
È l’annuncio di un nuovo giorno che inizia, per poi riattraversare le porte lasciate aperte dal sogno, quando l’orologio ha fatto il suo corso. Ancora una volta. Fino all’ultimo giro, che lascia le Beautiful Creatures nell’immobilità del sonno, e consegna noi alla sorpresa e al precipizio di fare nostri, da svegli, i loro intenti di libertà.

BEAUTIFUL CREATURES
Terre di lupi, di lantanidi e ginestre
un’Opera ispirata a Giuliano Scabia

un progetto de lacasadargilla
regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
drammaturgia del testo Roberto Scarpetti
parole di e con Giacomo Albites Coen, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Alice Palazzi, Francesco Villano
drammaturgia del movimento Marta Ciappina
drammaturgia delle luci Luigi Biondi
costumi Anna Missaglia
spazio scenico e paesaggi sonori Alessandro Ferroni
ambienti visivi e disegno video Maddalena Parise
spazio sonoro Pasquale Citera
tecnico video e collaborazione al disegno video Luca Brinchi
assistente alla regia e al progetto Matteo Finamore
e con le opere di Martina Biolo
produzione Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con lacasadargilla
con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Prato
e di Publiacqua

Prima Assoluta

Teatro Fabbricone, Prato | 25 ottobre 2024