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Mittelfest 2014, la “Dannata patria” della nuova scena balcanica

segnaliANDREA CIOMMIENTO | La nuova drammaturgia balcanica chiama a giudizio i responsabili diretti e i complici della questione serbo-croata. È la prerogativa dello spettacolo di Oliver Frjic intitolato “Dannato sia il traditore della patria sua” in cui lo spazio scenico è scarno componendosi soltanto di attori/musicisti predicatori di violenza. Il coro di voci si porta appresso storie di stupri e abusi subiti, fosse titine, vittime infoibate, risate colme d’odio e pianti da schernire nell’interpretazione.

Il lavoro prodotto dalla Slovensko Mladinsko Gledališce non è una creazione composita ma un ciclo di confessioni parcellizzate e inquietanti in cui tutto nasce e si annienta ogni quarto d’ora: il tema da raccontare si presenta inizialmente innocuo e risolutivo, in pochi minuti il linguaggio si corrompe e l’unica soluzione è la caduta dei corpi a causa degli spari per mano dall’attore più giovane. Qui il lutto non è pretesto di cambiamento ma una semplice pausa tra un massacro e l’altro oltre a essere il segnale di un ritorno imminente di sangue. Ogni quadro scenico viene fatto a pezzi e vivisezionato richiamando a una presa di coscienza collettiva sull’indifferenza di questi ultimi vent’anni.

La finzione del teatro, uno dei temi che affronta Frjic in questo lavoro collettivo nato da improvvisazioni, diventa il pretesto per pianificare l’attacco e prendere di mira gli spettatori con l’obiettivo di far vivere il meccanismo del massacro e l’ingranaggio che porta allo scontro ovvero l’esperienza di un conflitto degenerante. Si esplorano le violenze della storia come rappresentazioni finzionali di atti furiosi che generano nuovi modelli di brutalità sociale e riportano al centro i segni che la violenza è capace di perpetuare.

Il processo d’accusa portato in scena pone l’Europa e l’Italia tra i principali colpevoli dei silenzi complici e dell’aumento di corruzione e mafiosità del presente, accuse che a dire il vero risultano un po’ troppo generiche e vicine allo stereotipo politico “Fascismo-Mafia-Berlusconi”. La bellezza inquieta presagisce in questo allestimento un futuro di turbolenze originate da visioni nazionalistiche e reazionarie che portano con sé un passato pronto a risvegliarsi.

Il Mittelfest 2014 (“Segnali. Cartografia della bellezza inquieta”) proseguirà fino a domenica 27 luglio. Tra i nomi teatrali Jan Fabre, Luca Ronconi, Ivica Buljan, Gabriele Vacis e le realtà del CSS Teatro Stabile d’Innovazione del Friuli Venezia Giulia, CTA Centro regionale Teatro d’Animazione e di figura di Gorizia e la Civica Accademia “Nico Pepe” di Udine. Per tutti i dettagli: www.mittelfest.org

Fiabe e avventure. Stralci tra Moresco e Mari

moresco_fazioCARIBALDI | Saranno felici i lettori da volume breve, quella tipologia di persone che rifuggono per principio i libri lunghi, e ai quali affibbiano spesso epiteti eterogenei, quali ad esempio “mattone”, e come tali li lasciano nel muro delle librerie.

Non nego che il ragionamento, all’apparenza semplicistico, possegga un suo fascino. Con tale scelta si legge ugualmente e magari con meno fatica, senza ansia che manchi il tempo di finire quelle poche pagine e che, una volta giunti alla fine, sia passato talmente tanto tempo che ci siamo dimenticati l’inizio e gran parte della trama. Ma così facendo addio Recherche, Guerra e pace, La montagna incantata, La marcia di Radetzky, Enrico il verde o Anna Karenina tanto per citare a memoria.

Tuttavia, scegliere per compattezza può regalare anche sorprese e permette di apprezzare volumi di rara intensità. Mi ricordo ancora, quando un mio conoscente, appartenente alla schiera dei lettori da volume breve – qualità di cui si faceva un gran vanto – mi consigliò il meraviglioso Il fucile da caccia di Inoue Yasushi.

Questo lungo preambolo per sottolineare l’uscita, negli ultimi mesi, di due brevi romanzi, o sarebbe forse meglio dire due fiabe, di un autore che negli ultimi anni sta attirando sempre più attenzione e i cui titoli più conosciuti non sono certo caratterizzati dalla brevità, oltre ad essere assai compositi per materia (stratificata), lingua e complessità di pensiero. Mi riferisco ad Antonio Moresco, milanese d’adozione, nato a Mantova nel 1947 e ai due volumi Mondadori, collana libellule: La lucina e Fiaba d’amore. Due testi brevi, caratteri grandi in pagine piccole, 167 per l’esattezza il primo e 155 il secondo. Per di più, il genere aiuta la lettura e permette di avvicinarsi a un autore “difficoltoso”, questo detto non come critica. Provate a confrontarvi col maestoso Canti del caos o con un volume come Gli esordi, se già non lo avete fatto, e capirete cosa intendo

Quindi vedrete in quanti adesso vi parleranno di Moresco, lo “scopriranno”, ve lo consiglieranno e ne diverranno cultori. Poi, dopo l’ospitata di aprile da Fazio, come non conoscerlo? Meglio però sorvolare sul salotto liturgico di rai 3 dove, come in tutte le messe che si rispettano don Fabio ci insegna come comportarci bene. Meglio pensare che la presenza di Moresco sia stata casuale…

Moresco è un autore che merita attenzione, anche se, tutto quel parlare di lui come autore di culto, per pochi, quell’alone quasi mistico-mitologico, lo rendono antipatico e distante. Ma non fateci caso, non è colpa sua, accade suo malgrado. Basta ascoltarlo od incontrarlo per accorgersene. In un panorama letterario come il nostro (come sarebbe bello poter dire il vostro…) pochi sono gli scrittori che meritino di essere affrontati, soprattutto tra i viventi, ora che addirittura Aldo Nove scrive un romanzo su san Francesco e affronta tour di presentazione con Emidio Clementi, Alessio Bertallot, Jovanotti e chissà quali altri, oppure che Bompiani pubblica un libro di Candida Morvillo, quella per niente candida per intendersi, che stavolta ci dice che “le stelle non sono lontane”. Ma non ricadiamo in sterili polemiche.

Oltre a Moresco, che tra l’altro è anche un grande autore di teatro (questa giocatevela in una discussione pseudo letteraria tra amici, farete una grande figura: citate la raccolta di drammi Merda e luce e vedrete che farete colpo sul vostro interlocutore) mi preme segnalare un altro autore, sempre italiano, sempre interessante, soprattutto dal punto di vista linguistico, ovvero per la volontà dichiarata di muoversi all’interno di quel magno perimetro segnato da nomi nobili del nostro patrimonio quali Gadda, Fenoglio, Landolfi, Primo Levi ed altri. Mi riferisco al milanese Michele Mari, del quale è da poco in libreria per i tipi Einaudi Roderick Duddle, godibilissimo e felice romanzo d’avventure, che ci riavvicina al gusto del leggere in quanto tale, con un occhio dichiarato a due grandi autori quali Stevenson e Dickens, pietre miliari nel percorso letterario dell’autore ambrosiano.

Ma se siete poco attratti dal genere o dal perimetro letterario summenzionato, forse potrà stimolarvi la lettura di un suo precedente volume, Rosso Floyd (2010) che, come si evince facilmente dal titolo, è un romanzo sulla parabola artistica dei Pink Floyd. Vedete che dove non corre in aiuto la brevità, come dicevamo sopra, ecco forse arrivare la curiosità per una tematica insolita. Pensate che un mio amico è riuscito a farlo leggere alla tardo-adolescente (?) sorella vegana e tutta piercing che così ha toccato in vita sua quota tre romanzi letti. Cito questo esempio poiché immagino essere altri gli autori che potrebbero interessare la suddetta, non certamente Mari.

Strano accostare due autori lontani come Moresco e Mari, due scrittori distanti, dai percorsi molto diversi – Mari tra l’altro è figlio di Enzo Mari e insegna all’università, quasi opposto invece il percorso biografico di Moresco – ma vicini tuttavia se si considerano due semplici fattori: quello qualitativo, del quale sembra che ogni giorno si perdano sempre più le tracce, e quello sostanziale, innestato su di un confronto diretto e vero con la pagina scritta, che li caratterizza entrambi.

Per dirla in breve, sono due che si rimboccano le maniche e inzuppano le mani nell’inchiostro e mestano e rimestano. Non lo versano da un contenitore in flute trasparenti, in attesa che evapori per vedere cosa resta.

Programma Collinarea Festival (25 luglio – 2 agosto 2014)

Locandina 70x100_webCOLLINAREA 2014
Lari, 25 luglio – 2 agosto 2014

PROGRAMMA 

SPETTACOLI

Venerdì 25 luglio ore 21.15, Crespina, Torre a Cenaia – apertura festival
BOBO RONDELLI & L’ OTTAVO PADIGLIONE XX° Anniversario
Concerto

Domenica 26 luglio ore 21.15, Ponsacco, Teatro Odeon
BUSTRIC
ILLUSIONISMI

Lunedì 28 luglio
ore 19.15, Lari, Castello – prima regionale
Babilonia Teatri
PINOCCHIO
di Valeria Raimondi e Enrico Castellani
con Enrico Castellani, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli, Luca Scotton
Pinocchio è un progetto di Babilonia Teatri e Gli Amici di Luca

ore 20.30, Lari, Teatro
Scenica Frammenti
NOI E LORO
Esito del progetto teatrale realizzato con la Scuola Elementare di Lari
Condotto da Loris Seghizzi, Dimitri Galli Rohl e Camilla Del Freo

ore 21.15, Lari, Castelloprima nazionale
Scenica Frammenti
ULISSE
Indagine su un uomo al di sopra di ogni sospetto
Tratto dall’omonima opera
di e con Roberto Kirtan Romagnoli
regia Loris Seghizzi

ore 22.15, Lari, Piazza del Teatro – prima regionale
Teatro del Tempo
AL FORESTÉR
vita accidentale di un anarchico
di Matteo Bacchini
regia e interpretazione Savino Paparella

Martedì 29 luglio

ore 19.15, Lari, Castello
Ortika Produzioni
CHI AMA BRUCIA
Discorsi al limite della Frontiera
ideazione e regia Alice Conti
drammaturgia Alice Conti e Chiara Zingariello
con Alice Conti
Vincitore di Anteprima 2014

ore 20.30, Lari, Piazza del Teatro – primo studio
Fabrizio Saccomanno/Francesco Niccolini
GRAMSCI
Antonio detto Nino
di Francesco Niccolini e Fabrizio Saccomanno
con Fabrizio Saccomanno

ore 21.15, Lari, Teatro
LeVieDelFool
LUNA PARK
Do You Want a Cracker?
di e con Simone Perinelli

ore 22.15, Lari, Castello
Compagnia Laboratorio Scenica Frammenti
MOSCHE
Esito del laboratorio teatrale condotto da Francesco Oliviero e Loris Seghizzi
collaborazione artistica Mohared Barone

Mercoledì 30 luglio
ore 19.15, Lari, Salone del Castello
Jorge Romero
DIVINO PASTOR GÒNGORA
dal testo di Jaime Chabaud
drammaturgia, regia, composizione musicale e interpretazione Jorge Romero
spettacolo in spagnolo

ore 20.30, Lari, Piazza del Teatro – anteprima nazionale
Teatro Agricolo
LA LUCINA
dal romanzo di Antonio Moresco
narratore Giovanni Balzaretti
musiche dal vivo Andrea Pellegrini

ore 21.15, Lari, Teatro – prima nazionale
Fondazione Pontedera e Teatro Minimo
RICCARDO III
di e con Michele Sinisi
collaborazione scrittura scenica Michele Santeramo

ore 22.15, Lari, Castello
Orto degli Ananassi/Achab
TESTA DI RAME
di Gabriele Benucci e Andrea Gambuzza
regia Omar Elerian
con Ilaria Di Luca e Andrea Gambuzza

Giovedì 31 luglio

Ore 19.15, Lari, Teatro -prima nazionale
Fondazione Pontedera Teatro e Teatro Minimo
RICCARDO III
di e con Michele Sinisi
collaborazione scrittura scenica Michele Santeramo

ore 20.30, Lari, CollinArea Restaurant
Le Canaglie
NONTAZZARDARE
illustrazioni e animazioni di Ambè2 – Federico Bassi e Giacomo Trivellini
musiche di  Massimiliano Setti
maschere di Annamaria Giacomelli

ore 21.15, Lari, Piazza del Teatro
La Ballata dei Lenna
CANTARE ALL’AMORE
di e con Nicola Di Chio, Paola Di Mitri, Miriam Fieno
produzione La Ballata dei Lenna
con il sostegno di Fondazione Campania dei Festival – E45 Napoli Fringe Festival
Presidenza Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù – Regione Piemonte – Provincia di Alessandria – Regione Puglia – Fondazione Live Piemonte dal Vivo – circuito regionale dello spettacolo
in collaborazione con Teatro Minimo – Teatro Bottega degli Apocrifi
Vincitore E45 Napoli Fringe Festival – Selezionato In-Box 2014

ore 22.15, Lari, Teatro – prima nazionale
Fondazione Pontedera Teatro
PERCHE’ NON BALLATE?
liberamente ispirato a racconti e poesie di Raymond Carver
drammaturgia Gabriele Di Luca
regia Anna Stigsgaard
con Michele Altamura, Roberto Capaldo, Catia Caramia, Silvia Tufano

Venerdì 1 agosto
ore 19.15, Lari, Teatro – prima nazionale
Fondazione Pontedera Teatro
PERCHE’ NON BALLATE?
liberamente ispirato a racconti e poesie di Raymond Carver
drammaturgia Gabriele Di Luca
regia Anna Stigsgaard
con Michele Altamura, Roberto Capaldo, Catia Caramia, Silvia Tufano

ore 20.30, Lari, CollinArea Restaurant
Le Canaglie
NONTAZZARDARE
illustrazioni e animazioni di Ambè2 – Federico Bassi e Giacomo Trivellini
musiche di  Massimiliano Setti
maschere di Annamaria Giacomelli

ore 21.15, Lari, Teatro – studio integrale
OFFROME e Bottega Rosenguild
THREE WISHES TRE DESIDERI
di Ben Moor
regia Mauro Parrinello supervisione Ben Moor
con Mauro Parrinello, Elisa Benedetta Marinoni

ore 22.15, Lari, Teatro
Centro Teatrale Umbro
L’ARCHIVIO DELLE ANIME. AMLETO
da William Shakespeare
di Naira Gonzales e Massimiliano Donato
con Massimiliano Donato

Sabato 2 agosto ore 21.30 , Lari, Borgo
InArea – Il Volo
Evento teatrale con le Compagnie Civilleri/Lo Sicco, Teatro Dei Venti, Carrozzeria Orfeo, LeVieDelFool, Ammonia Danza Corrosiva, Compagnia dell’Ordinesparso, Neapolis, Uthopia/Ciro Masella, Scenica Frammenti, i partecipanti ai laboratori e gli abitanti di Lari.

Ispirato alla poetica di Hayao Miyazaki da un’idea di Sabino Civilleri e Emanuela Lo Sicco,

LABORATORI

25 -29 luglio
Francesco Niccolini/ Fabrizio Saccomanno
DA GRAMSCI E LE SUE LETTERE A UN RACCONTO TEATRALE
Laboratorio di narrazione 

28 luglio – 1 agosto
Augusto Timperanza
Il SAMKHYA

28 luglio – 2 agosto
Teatro Dei Venti (Stefano Tè)
TEMPO PERSO

28 luglio – 2 agosto
Carrozzeria Orfeo
IL SOGNO 

29 luglio – 2 agosto
Uthopia (Ciro Masella)
VOLO INVERSO

30 luglio – 2 agosto
Compagnia dell’OrdineSparso (Giovanni Berretta)
LA PREGHIERA

31 luglio – 2 agosto
Ammonia Danza Corrosiva (Valentina Gallo)
URBAN CONTAMINATION DANCE

25 luglio – 2 agosto – CollinArea Restaurant
dalle 19.30 al CollinArea Restaurant di Via Dante sarà possibile cenare
dalle 23.30 Empatica: incontri con artisti condotti da Andrea Cramarossa del Teatro delle Bambole

Info: www.collinarea.it – info@collinarea.it – Tel. 0587.350668

Ufficio Stampa leStaffette lestaffette@gmail.com

Raffaella Ilari, mob. +39.333.4301603

Marialuisa Giordano, mob. +39.338.3500177

 

Ufficio Stampa Fondazione Pontedera Teatro ufficiostampa@pontederateatro.it

Micle Contorno, mob. +39.349.6759575

 

 

D’Elia, l’amore per il teatro e quel genio di Strehler

konradVINCENZO SARDELLI | Un monologo capace di testimoniare l’amore per il teatro, arte che è strumento totale per conoscere la realtà e la vita, per sondare l’animo umano, rivelandone emozioni e sentimenti.

Non chiamatemi maestro è il tributo a Giorgio Strehler con cui Corrado d’Elia ha chiuso la stagione del Teatro Libero di Milano.

«Racconterei anche muto. Racconterei anche immobile,ad occhi chiusi, voltato di spalle, dietro una tenda, chiuso in un ripostiglio o in fondo al mare. In qualsiasi modo io racconterei, perché l’importante per me è raccontare … raccontare le storie di altri, ad altri … ad altri che ascoltano». Strehler esprimeva la propria urgenza di un contatto con il pubblico. Anche nel teatro, il cuore conta più delle parole.

Scalzo, camicia e jeans, D’Elia ricostruisce la poetica di Strehler staccandosi dall’impersonalità. Non mostra vita e arte: ne propone l’essenza. «Io so e non so perché lo faccio il teatro ma so che devo farlo, che devo e voglio farlo facendo entrare nel teatro tutto me stesso, uomo politico e no, civile e no, ideologo, poeta, musicista, attore, pagliaccio, amante, critico. Me insomma, con quello che sono e penso di essere e quello che penso e credo sia vita. Poco so, ma quel poco lo dico».

Poco so, ma quel poco lo dico. Deve aver pensato la stessa cosa di Strehler Corrado d’Elia quando ha messo mano agli scritti e all’opera del fondatore del Piccolo Teatro per evocare un uomo, un’anima, un’epoca.

Un format collaudato in altri monologhi, come Beethoven o Notti bianche. Uno sgabello. La propria presenza scenica. Le luci intime, dosate da Alessandro Tinelli.

Gli album di d’Elia sono racconti di passione. Sono percorsi poetici, eventi quasi privati. Lo spettatore percepisce aspetti frammentati della realtà: la memoria che ognuno ha della propria vita è parziale, tronca. Come quando si guarda un album fotografico, i ricordi affiorano in modo aleatorio, con salti temporali. Le sequenze riproducono l’intreccio irruente dei pensieri.

Nei suoi assolo d’Elia normalmente si trova sul palco vuoto, con un oggetto simbolo prescelto ribadito all’ennesima potenza: lampadine in Notti bianche; pannelli come spartiti in Beethoven. Qui lo sguardo si allarga. Non oggetti ma persone. La solitudine diventa spazio per un incontro che è condivisione. Ecco la scelta di far sedere un po’ di spettatori sul palco. In fondo il vero protagonista dello spettacolo è proprio il teatro. Il pubblico vive l’emozione di essere centrale, di sentir vibrare voce e respiro, di farsi lambire dalle luci. Di scrutare quello che percepisce della sala, il silenzio, il buio, gli umori.

È un clima raccolto. In scena c’è anche un microfono, un leggio, metafore di uno spazio ideale, infinito. Per raggiungere tutti. Per aggiungere quel tanto di enigmaticità.

Il sonoro non è intermezzo ma partitura narrativa. Musiche scelte come gli ingredienti per cucinare quando si aspetta un ospite. Una selezione curata che crea un tempo sospeso: opere di Mozart di cui Strehler ha curato la regia, Don Giovanni, Le nozze di Figaro, Così fan tutte; Ma mi, scritta per Ornella Vanoni. E poi, ancora, Concertino-Allegro dei Madredeus, Les choristes di Bruno Coulais, e il valzer finale Cries and whispers del coreano Cho Young-Wuk.

Corrado d’Elia evoca Strehler e il suo mondo di passioni e solitudini, sogni e tenacia. La Milano antica dei lampioni, della nebbia e del dialetto. Il sogno del Piccolo Teatro realizzato con Paolo Grassi, strana coppia di un triestino e un pugliese. Donne significative della sua vita privata e artistica, la madre, Valentina Cortese, Giulia Lazzarini, Andrea Jonasson. E frecciate, attualissime, su una politica che in Italia considera superflue le spese per la Cultura.

D’Elia, una sedia, un leggio, un microfono. Forse un maestro, e una storia da raccontare. Perché a teatro, quando le luci si spengono, per emozionare basta un bravo attore. E parole con un’anima.

Harvest, grottesca denuncia del traffico d’organi

harvestVINCENZO SARDELLI | Quali sono le dinamiche che assoggettano il Sud al Nord del mondo? Sono i giochi politici o è l’economia a definire gli assetti del pianeta? E sul piano personale, che cosa saremmo disposti a cedere pur di assicurarci un benessere effimero?

È un format interessante Harvest, spettacolo di Teatro MA & Compagnia Delle Furie che era stato già presentato in forma di studio al Piccolo Teatro nel Festival Internazionale Tramedautore 2013. In forma rifinita la pièce, drammaturgia e regia di Matteo Salimbeni e Fulvio Vanacore (con Cecilia Campani, Giacomo Marettelli Priorelli, Michele Mariniello, Beppe Salmetti e Carla Stara) ha debuttato nei giorni scorsi allo spazio Tertulliano di Milano.

Harvest – Quanto costa un uomo al chilo? di Manjula Padmanabhan, traduzione di Alice Spisa, è la storia di Om Prakash. Om è un indiano che vive in un appartamento fatiscente con la moglie, la madre e il fratello. La sua casa è in un condominio-ghetto. I servizi sono putride latrine in comune. Poco cibo, molta miseria. Om non lavora. Il fratello si prostituisce. Un giorno il benessere arriva imprevisto. L’InterPlanta Services, fantasmagorica struttura professionale di raccordo fra primo e terzo mondo, ha selezionato Om per un trattamento. Il castrante ménage familiare viene ribaltato. La miseria lascia il posto a bagno interno e TV satellitare, comodi divani e cibi multivitaminici. A Om viene chiesto solo di mantenersi in forma fisica e preservare il buonumore.

Uno spettacolo futurista sulla compravendita d’organi. Il conformismo global ha gli aspetti autoritari e oppressivi di un Grande Fratello orwelliano. Attraverso uno schermo, infatti, l’InterPlanta Services controlla ogni movimento in casa Prakash.

Harvest denuncia un Nord del mondo luccicante e ipocrita, ammiccante e cinico. Ma condanna altresì lo strapotere del dio denaro, che trasforma i rapporti anche tra i poveri. I comfort inquinano i sentimenti tra consanguinei, partendo dall’anziana madre (interpretata da un istrionico Beppe Salmetti) disposta a barattare il cuore di mamma con mamma TV.

In questa messinscena che mescola teatro d’attore e audiodramma, con casse, amplificatori e consolle a vista sul palco, emergono le qualità di un copione ritmato e vivace. Solo l’ultima parte ha delle angolosità da levigare: alcuni passaggi drammaturgici sono dati per scontati, montati in modo sbrigativo. Giocata sul registro burlesco, la regia fa uso di iperboli e ribaltamenti comici che smorzano i contenuti cruenti. Alla riuscita narrativa concorrono gli effetti sonori fuoricampo, atmosfere da night ed escursioni noir. E un linguaggio paradossale, allusivo, che scivola sarcasticamente nell’inflessione lombardo-veneta.

Gli attori sono bravi ad animare le perversioni di questa singolare umanità disperata, alla ricerca di un’occasione che ne accresca le tasche: individualisti che speculano sulle disgrazie altrui; una vecchia in cerca di un’identità che la aiuti ad ammazzare il tempo prima che il tempo ammazzi lei; sprovveduti che vendono il proprio corpo in cambio di un benessere materiale fittizio. È un mondo caotico, dove aleggiano macchiette sgraziate dall’incedere nevrotico.

Una performance scanzonata, dissacrante. Il pensiero soffoca, muore. La libertà entra in un vicolo cieco. La vita stessa non ha più vie per esprimersi.

Venti donne, settemila bambini e Antigone: Parole e Sassi

parole e sassi locandina

LAURA NOVELLI | Puglia. Due anni fa. Mentre sono in vacanza, Letizia Quintavalla e Rosanna Sfragara maturano l’idea di dare vita ad un progetto femminile che traduca l’Antigone in uno spettacolo adatto a bambine e bambini di età compresa tra gli otto e i dieci anni. Nasce così “Parole e Sassi (la storia di Antigone in un racconto-laboratorio per le nuove generazioni)” e nasce così il Collettivo Progetto Antigone che, coagulando intorno a sé diciannove attrici di Regioni diverse, inaugura una nuova modalità di pensare e di agire il teatro-ragazzi e, nel contempo, disegna i lineamenti di una piattaforma artistica di sole donne chiamate a lavorare insieme su e per uno spettacolo che è molto più di un semplice spettacolo. Tra le promotrici e artefici dell’iniziativa vi è anche Patrizia Romeo, attrice della compagnia romana Psicopompo Teatro, calabrese di nascita e studi al Piccolo di Milano, che in questo progetto figura nel team deputato all’ideazione e alla drammaturgia (insieme con le stesse Sfragara e Quintavalla, anche direttrice artistica, Agnese Scotti e Renata Palminiello) ed è interprete “incaricata” per il Lazio. “La nostra iniziativa – racconta – cuce insieme diversi obiettivi: innanzitutto si tratta di mettere in sinergia tra loro attrici per lo più precarie e di accogliere l’invito rivolto dal Movimento l’Italia non è un Paese per donne facendo un atto culturale che risponda a questa provocazione con una tragedia. Una tragedia, appunto, che si interroghi sul femminile, sul rapporto tra donna e potere, sulla relazione tra fratelli e sorelle, e che sia proposta nelle scuole primarie come arricchimento dell’offerta formativa ed educativa dei giovani alunni”.

Nel primo anno di vita (maggio 2012/giugno 2013), lo spettacolo è stato infatti presentato a ben 360 gruppi classe di tutta Italia (restano ancora escluse l’Umbria e il Molise) ed è stato visto da oltre 7000 bambini, anche da quelli che vivono in paesi molto piccoli o che frequentano le pluriclasse delle località di montagna. Sono poi arrivati gli inviti a partecipare a diversi festival, a replicarlo nella Casa Circondariale di Montorio, nella aule di Filosofia dell’università di Verona, fino all’importante riconoscimento dell’Eolo Awards 2013 come migliore Progetto Creativo. Ma certamente il vero successo di un progetto di questo tipo si misura proprio nel lavoro a scuola: in ciò che suscita nei piccoli, nelle opportunità che esso offre di ragionare insieme su temi “enormi” quali la fiducia, la sfiducia, l’obbedienza, la disobbedienza, la vita, la morte, il femminile, le relazioni familiari. “Il lavoro – riprende l’attrice – si presta ad un gruppo classe composto al massimo da 25 bambini e prevede 45 minuti di teatro e poi altrettanti minuti di laboratorio. I piccoli spettatori riflettono, fanno domande, ci aiutano ad aprire nuove prospettive sulla tragedia stessa. Per me è stata ed è un’esperienza eccezionale. Non avevo mai recitato per un pubblico di bambini e devo riconoscere che essi sono degli ascoltatori formidabili. All’inizio ero molto preoccupata di come potessero reagire di fronte a tematiche forti e invece mi hanno stupita. Sono più maturi emotivamente di quanto pensassi e fanno emergere aspetti che non sono poi così scontati”. E sono così tanti e belli e significativi i pensieri dei piccoli spettatori raccolti a margine delle numerose repliche di questo lavoro. Così tanti e belli e significativi che sono stati anche inseriti in un diario di bordo a firma di Marina Olivari. Leggendone alcuni, si nota chiaramente come i bambini abbiamo apprezzato in primo luogo la semplicità dell’allestimento, la forza di un racconto che, come indica il titolo stesso, fa leva essenzialmente sulle parole e su dei sassi, usati come personaggi ed elementi scenici. Le parole che li colpiscono e li affascinano arrivano da Sofocle ma non solo. “Lo spunto per lavorare su questa tragedia ci è venuto dalla pubblicazione del libro per ragazzi La storia di Antigone raccontata da Ali Smith, ma poi siamo tornate a Sofocle, tanto che buona parte del testo rimane fedele all’originale, con inserti di Anouilh per il prologo. Ma ci tengo a dire che è un lavoro in continua evoluzione e che a questa evoluzione concorre l’apporto di tutte le partecipanti al Collettivo. Crediamo molto nel progetto e in questa modalità di lavoro, e non potremmo aderirvi senza una condivisione totale degli obiettivi. Quando ci ritroviamo insieme per delle residenze laboratoriali mettiamo a fuoco cose sempre nuove e c’è tanta voglia di crescere”. Così tanta che nei prossimi mesi il Collettivo potrebbe aprirsi anche all’estero: “Parigi è già entrata nella rete, e forse presto potrebbero entrarci realtà portoghesi, rumene, belghe. Abbiamo dei contatti ma è ancora prematuro parlarne”. Ovviamente, in estate l’attività si ferma, mentre non si ferma il “pensiero” intorno al progetto (e, anzi, ben vengano vacanze feconde come quelle pugliesi di due anni fa) e non si ferma l’attività personale delle singole attrici. Romeo, ad esempio, sta lavorando con Psicopompo Teatro (regista Manuela Cherubini) all’allestimento di “Breve racconto domenicale” dell’argentino Matias Feldman, mai rappresentato da noi e forse degno successore, nel cuore della compagnia romana, di Rafael Spregelburd. “Psicopompo – conclude l’attrice – ha un legame molto forte con la drammaturgia argentina. Questo è un testo sorprendente che racconta una domenica in cui sembrerebbe non succede nulla: quattro persone, due coppie, parlano semplicemente dei loro pensieri, dell’amore che finisce, e lo fanno in modo disincantato, ironico, nuovo, preparando un finale a sorpresa che non svelo. L’idea distributiva sarebbe quella di fare delle tournée cittadine portando lo spettacolo una volta a settimana in spazi diversi della medesima città. Ma, anche qui, aspettiamo l’autunno”. Tutto può cambiare. Tanto più a teatro.

In volo su MArte dalla Sardegna

1623710_10204025711068353_4945431254649640025_nRENZO FRANCABANDERA | Si e’ chiusa da poco la kermesse di arti performative MArteLive Sardegna, che si e’ svolta a Cagliari. Dopo la votazione da parte della giuria popolare e della giuria di qualità, formata da Ilaria Nina Zedda, Karim Galici, Marco Peri, Michele Sarti, Anna Brotzu, Enrico Lixia, Alessandra Menesini, Francesca Mulas e Pietro Olla, le diverse sezioni hanno i loro vincitori. Per la sezione Musica, vince Hola la Poyana!, progetto solista di Raffaele Badas. Nel Teatro Alberto Lorrai, con la performance “L’impulso dell’Amigdala” accompagnato dalla figlia Aurora, al debutto come attrice.

Nella fotografia, la vittoria a ben due fotografi, Laura Francesconi e Virgilio Zuddas, con i rispettivi progetti “Vita da cassintegrati” e “Simmetrie urbane”. Veronica Secci, peraltro la più giovane delle artiste in gara, ha vinto per la sezione letteratura con il racconto breve “Come nelle giostre”, mentre l’artista circense Adoliere (Ado Sanna) ha vinto per la sezione Circo, con lo spettacolo “Bersagli”. Premiata anche la compagnia DanzaLabor, che ha partecipato con il progetto fuori concorso “Colorscrostato”, per l’alta e indiscussa qualità del lavoro, offrendo anche a loro l’occasione di partecipare alle finali di Roma. I sette vincitori rappresenteranno la Sardegna a settembre alle finali nazionali MArteLive. Molti giovani artisti in lizza per presentare il loro lavoro e accedere a passi successivi di un evento performativo aperto all’autopromozione dal basso. Forse questa una delle chiavi del successo dell’iniziativa. A coordinarla Karim Galici con il quale abbiamo scambiato alcuni punti di vista ad evento concluso.

MArteLive in Sardegna, a giochi fatti cosa è stata? Una kermesse, un’opportunità, un festival, tutte queste cose o nessuna di queste?

MArteLive Sardegna è stato un festival perché ha richiamato tutte le caratteristiche che coinvolgono i partecipanti in una dimensione eccezionale, di grande coinvolgimento emotivo e percettivo. Gli artisti e il pubblico si sono ritrovati in quel modello wagneriano in cui festa e spettacolo coincidono.

Cosa hai potuto mettere in campo delle tue esperienza manageriali pregresse e cosa invece ti ha totalmente spiazzato e messo di fronte a cose nuove?

Ho messo in campo tutte le mie esperienze manageriali – a partire dai grandi eventi come La Notte Bianca di Roma – ma soprattutto le mie esperienze da regista. Mettere insieme 50 artisti e fare in modo che ognuno faccia emergere il proprio talento richiede un coordinamento creativo.

Dove sta il confine fra una buona e una cattiva organizzazione? Cosa si può migliorare?

Il confine è rappresentato dalle criticità. Una buona organizzazione le anticipa e le trasforma in opportunità, una cattiva le prova a risolvere al momento. Si dovrebbe investire più tempo nell’ideazione e nella pianificazione, per spenderne meno nell’attuazione.

Quanta gente ha condiviso questa esperienza e che pubblico hai avuto?

100 giovani artisti (compresi i tecnici al seguito) hanno coinvolto circa 400 persone di tutte le età. Un bel pubblico eterogeneo che ha unito famiglie e bambini, operatori culturali e autorità, appassionati e semplici curiosi, in un unico clima festoso.

La più grande soddisfazione?

Realizzare un grande evento in poco tempo e con scarsissime risorse. In pochi abbiamo creduto a questo progetto sin dall’inizio e in tanti sono poi voluti salire sul carro dei vincitori: sono soddisfazioni anche queste!

Collezionisti per caso: Reverberi e la sua raccolta informale ad Aosta

Shiraga collezione ReverberiFRANCESCA PEDDONI | Gian Piero Reverberi è un musicista, un compositore e un direttore d’orchestra, il suo mondo è la musica, si potrebbe pensare, ma… 
Gli schizzi di colore sulle tele, il gesto che è diventato ormai un simbolo di protesta e la materia, libera ed espressiva; sono questi gli elementi che raccontano la storia di una stagione informale, di un periodo difficile per tutti quegli artisti, europei, americani e giapponesi, provati da una guerra (la seconda mondiale) che ha lasciato più vinti che vincitori, in una collezione che mai prima d’ora era stata esposta al pubblico: la collezione Reverberi, in mostra ad Aosta al Museo archeologico regionale fino al 26 ottobre 2014.

Si, perché Gian Piero Reverberi è un musicista, un compositore e un direttore d’orchestra, il suo mondo è la musica, ma non solo; a metà degli anni 80’ compra la sua prima opera d’arte, per un motivo molto semplice, arredare. Da questa prima opera in poi scaturisce una collezione per motivi, se vogliamo ancora più banali dell’arredare, come dice lui stesso: “Ho realizzato che era l’unico movimento che capivo. Un’arte istintiva che interpretavo e sentivo senza bisogno dei consigli degli altri. Scegliendo l’arte informale, ho scongiurato in un solo colpo questi due pericoli: non rappresenta nessun soggetto riconoscibile e la tecnica viene spesso etichettata con un classico “potrei farlo anch’io”.

Partendo da questo presupposto le 90 opere scelte dai curatori (Beatrice Buscaroli e Bruno Bandini) si snodano nelle chiare sale del museo con il fine di mostrare nella diversità di stili un’unicità d’intenti degli artisti sia europei che internazionali.

Opere che non stupisce abbiano stregato Reverberi perché, come nella musica, c’è il rispetto delle regole e il loro superamento: opere pittoriche, quasi tutte incorniciate su supporti “classici” ma che parlano un linguaggio che con la pittura tradizionale ha poco a che fare. La protesta, quella di Hartung per gli inevitabili esiti della seconda guerra mondiale, quella di Vedova che sfocerà in violenza dei neri e dei grigi sulla tela. Il culmine pittorico però è raggiunto nella terza sala, in cui spicca un capolavoro di Kazuo Shiraga (tra i fondatori del gruppo Gutai) e la meraviglia è immensa. La forza del colore è travolgente, il rosso forte e violento vibra sulla tela procurando una ferita che è frutto di un gesto indomabile e inevitabile. Il fondo bianco ne converge e ne esalta la luminosità. Con la forza, la potenza della materia e del colore il visitatore diventa uno spettatore inizialmente inconsapevole di un gesto che si mostra già compiuto ma per chi ammira incantato pare avvenuto in quello stesso istante. E non è un caso se lo stesso Reverberi ammetta: “l’olio di Shiraga è il mio quadro preferito, andai a Parigi apposta. E’ il quadro che ho scelto in maniera più determinata e volontaria” .

Dopo la mostra del 2013 su Renato Guttuso e il realismo della seconda parte del 900’ ecco un’altra analisi molto ben riuscita dello stesso periodo dell’informale del museo valdostano, molto bella la collezione e tanti i protagonisti che con le loro opere hanno arricchito uno spaccato importante storia del contemporaneo.

Alle Colline Torinesi una trilogia sull’omosessualità firmata Dante, Malosti e Ricci/Forte

operetta-burlesca-2GIULIA MURONI | Le vite di tutti. Sottotitolo suggestivo per l’ultima recente edizione del festival delle Colline Torinesi, ha mantenuto le promesse. Lo sguardo sulle esistenze non si ferma su un soggetto privilegiato ma accoglie una gamma eterogenea e variegata di anime e soggettività.
L’omosessualità irrompe come tema scottante e straziante, in questa prospettiva che intende dare voce allo stesso tempo alle individualità e alle rispettive peculiarità per restituire uno sguardo lungo sulla collettività nel reale. La trilogia proposta dall’edizione 2014 delle Colline Torinesi comprende “Operetta burlesca” di Sud Costa Occidentale, “Thérèse et Isabelle” del Teatro di Dioniso e “Still Life” di Ricci/Forte, visti rispettivamente al teatro Astra, al Gobetti e al Carignano, in Torino.

Emma Dante, che capeggia Sud Costa Occidentale, fa dell’omosessualità di Pietro, benzinaio, e della sua problematica accettazione nella provincia campana, il nodo cruciale di “Operetta burlesca”. Il protagonista vive il peso di una doppia vita, quella lavorativa e familiare in provincia e il finesettimana fatto di paillettes a Napoli, dove può finalmente dare sfogo alle sue più profonde inclinazioni e sentirsi libero di vivere delle relazioni amorose. Tematiche e motivi cari a Emma Dante, la dimensione del dramma domestico, il labile confine tra la vita e la morte, la meridionalità ingombrante, il tocco poetico della quotidianità sono presenti, sebbene in forma embrionale in una realizzazione scenica che sembra ancora arrancare nella sua completezza, manchevole di quella pienezza espressiva, anch’essa cifra della regista palermitana. Emma Dante, grande regista e acuta osservatrice, non assurge qui alle vette poetiche cui ha abituato, mantenendosi in un mélange colorato, in cui si intravede tra le righe il suo tocco, senza però riuscire a far decollare il pezzo sulla scia di una ispirazione decisa.

Valter Malosti, regista del Teatro di Dioniso, mette in scena “Isabel et Thérèse”, duo femminile, a partire dal testo di Violette Leduc, che racconta in prima persona la liason amoroso-sessuale di due adolescenti, costrette a viversi con il fiato sospeso durante le silenziose ore notturne in collegio, con l’orecchio sempre teso ad avvertire i movimenti della custode. Interpretato da Isabella Ragonese e Roberta Lanave, la narrazione sembra godere del compiacimento del pruriginoso, avvinghiarsi con intenzione in un quadro erotico stuzzicante che scende nel dettaglio dei loro incontri saffici, spinti da un amore ancora acerbo. L’abbandono della tematica in termini civili e politici lascia spazio a una lettura intimista e lasciva, suadente e libidinosa, che nella voce di Ragonese e nel corpo (in particolare la folta chioma) di Lanave trova la sua messa in atto. Una scena essenziale, immersa nel buio, concede cerchi di luce alle due protagoniste, una Ragonese immobile con il libro-diario in mano, e Lanave, perlopiù silenziosa, che affida a qualche movimento e alla sua bella presenza, il compito di sostituire le parole. Nelle file dietro la sottoscritta fioccano commenti triviali piuttosto espliciti, di coloro ai quali non sfugge il portato pruriginoso del lavoro su cui Malosti sembra in effetti calcare un po’ troppo la mano. La scena è affidata, diversamente dal riuscitissimo Quartett, a due interpreti ancora non nel pieno della maturità recitativa, che non risultano del tutto in grado di padroneggiare in toto un testo delicato, dalle mutevoli tinte poetiche, creando una composizione fragile, non efficace, benché contenga elementi di pregio su cui si potrebbe fare leva per dare più ampio respiro e una consistenza più rilevante.

ph: Antonelli

La trilogia sull’omosessualità si chiude con “Still Life” di Ricci/Forte, al Teatro Carignano. Il duo ritorna sul tema dell’omofobia, non per niente lo spettacolo è nato in occasione del festival Garofano Verde, e prende le mosse dall’episodio dell’adolescente romano vittima dl bullismo omofobo, impiccatosi con un foulard rosa,. La vis polemica anima tutto lo spettacolo, in un alternarsi di sentimenti sempre caratterizzati da un’energia dirompente, urlata. Ad esempio la bella scena di Anna Gualdo e Liliana Laera, a cavalcioni sul proscenio, le quali intervallano un dialogo di voci solitarie tra il serio e il faceto riguardo l’essere madri in modo non conformista, tale da far crescere figli non discriminati né discriminanti. Curioso che a proposito di omofobia si dia così con forza l’accento sulla responsabilità materna che pure esiste e ha un ruolo importante, ma che non può certo esaurire le cause dell’omofobia, in famiglia come nella società. Ad ogni modo la scena risulta davvero efficace, di alto livello recitativo. D’impatto la nudità di Giuseppe Sartori, preso a calci dal resto del gruppo e segnato dalle impronte delle loro sferzate. I cinque performers denunciano esplicitamente l’omofobia con l’uso della parola, dei segni del corpo e di un scenografia ricca. Non ci sono mediazioni, né eufemismi: è una guerra e siamo tutti chiamati a smuoverci dall’agio della comodità. I performers stuzzicano il pubblico con la rottura di cuscini enormi e la conseguente invasione di piume, sputando e schizzando acqua sulla platea, in una dinamica di gioco infantile che sfocia nel cameratismo. Scendono a baciare sulla bocca la platea, tra cui anche la sottoscritta. Il vertice emotivo risiede nelle immagini che il duo Ricci/Forte ha accortamente costruito e che costellano lo spettacolo. Scenari di violenza, dolore, amore e sofferenza in quell’inscindibile connubio di amore e morte che in tanti hanno raccontato. È un estetica molto facile, immediata, che non cala in profondità e saccheggia l’immaginario mainstream della moda e della televisione. Questa certa visione spettacolare e un po’ di superficie ha la sua forza nel tradursi in un’ immediatezza e efficacia comunicativa capace di arrivare al pubblico, forse perché sui binari di un ordine estetico già noto.

Francamente me ne infischio e il tema del tempo

imagesRENZO FRANCABANDERA | E’ il terzo tempo il capolavoro. Quella sorta di barbarico yawp, quello della storia d’America fra Otto e Novecento, storia di schiavi e colonizzazioni, di libertà e tribù. Nessun colosseo, nessuna storia millenaria, un’eco lontana d’Europa, ma sullo sfondo, in una brutalità giovane, adolescente, testosteronica e ignorante. Dove comanda una sorta di legge del taglione.
Eppure è la stessa terra che combatte poi con se stessa, che afferma altri valori, che sbandiera un’identità fatta di indiani ed emigrati d’Africa. Insomma di sconfitti. Che piccola grande storia quindi quella di questa casa colonica nella prateria, fra amori, rapporti di forza, nostalgie, case di bambola e Alici nel paese delle meraviglie, mentre lontano i cannoni nemmeno si sentono. E la guerra è da un’altra parte.
Il Via col vento di Antonio Latella, che ha chiuso la trionfale tournee’ 2013-14 coronata di premi e grandi successi con la data al Festival delle Colline Torinesi, e’ forse uno dei grandi, forse pochi veramente imperdibili, spettacoli degli ultimi anni.
Un polittico nelle tinte dell’affresco ottocentesco ma con la capacita’ analitica del nostro tempo, l’epopea coloniale con l’occhio della societa’ postindustriale. Ma senza tecnologia, solo, drammaticamente, con il corpo degli attori, anzi delle straordinarie attrici Caterina Carpio, Candida Nieri, Valentina Vacca, visto che questo e’ un lavoro al femminile, che anche dove racconta il punto di vista maschile, lo fa con una sensibilita’ particolarissima e davvero bifronte, capace, come l’ultimo e più performativo atto, in cui la casa, i corpi, la Storia, si svelano e si ri-velano, prendono vita e si ri-mummificano nel tableaux vivent di una casa di bambole fuori dal tempo, fuori dalla Storia, che invece in altri atti della pentalogia, entra, irrompe, violenta i personaggi.
Raccontare nel dettaglio i cinque atti, la maratona e’ in realtà un compito che forse non ha nemmeno un significato, una portata adeguata a descrivere l’insieme di segni che Francamente me ne infischio regala allo spettatore. E fondamentalmente, anche nel confronto con le altre e più recenti creazioni di Antonio Latella, conferma la sua assoluta inclinazione e forse fondamentale predilezione per un tempo analitico lungo e possibilmente in più elementi. E’ qui infatti che Latella riesce a dipanare meglio la sua poetica, ed e’ una cosa che mancava dal 2008 con il progetto Hamlet, al quale il Festival delle Colline diede all’epoca un importante supporto produttivo.
E qui viene fuori il tema relativamente al conflitto poetica vs produzione che il nostro tempo sta vivendo. E’ vero, anche l’eta’ contemporanea ha avuto i suoi Tolstoj e Dostoevskij che hanno avuto lo spazio letterario delle 800 pagine per raccontare le nostre Borodino, ma sono sempre meno le possibilità e alcuni linguaggi hanno abdicato quasi del tutto a queste opzioni, a queste ampiezze. Il nostro teatro sempre meno offre tali possibilità produttive, pur conoscendo interpreti della poetica lunghezza di primo rilievo.
Il tema che Francamente me ne infischio, come anche L’origine del mondo e altri grandi cicli di affreschi teatrali del nostro tempo fanno emergere, e’ quella di una capacita’ del teatro e anche di una attrattivita’ per il pubblico, per l’approccio di durate analitiche e poetiche ampie. Ma il teatro e’ pronto? Puo’ reggere queste durate dal punto di vista produttivo? Proprio nel tempo i cui i fondi diventano scarsi, la probabilità di andare a teatro e non assistere ad un più o meno triste monologo si va riducendo via via. Ecco quindi che assaggiamo queste occasioni come quando una volta ogni tanto si va al ristorante buono, con quell’incoscienza che hai di fregartene una volta tanto del conto che pagherai alla fine. Ma e’ una possibilità rara. Elitaria. Che gia’ solo per concretizzarsi per i pochi abbisogna oramai anche di rivoluzioni di pensiero e di sistema, di nuove cooperazioni e di ripensamenti di modalità di circuitazione importanti. Siamo pronti a bombardare i campanili per permettere alla qualità di esprimersi? O i ricatti incrociati, la logica degli scambi e dei personalismi che hanno inquinato il nostro sistema negli ultimi anni bloccheranno i nuovi Tolstoj teatrali? Vedremo. Intanto per una volta francamente ce ne siamo infischiati. E abbiamo goduto. Evviva.