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mercoledì, Dicembre 25, 2024
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Mario Perrotta: la crescita di un teatrante solitario (e) in compagnia

PitùrRENZO FRANCABANDERA | Il percorso artistico di Mario Perrotta è senz’altro un percorso di fatica ma anche di successo. Parliamo di un professionista dal tratto istrionico e creativo, con un talento da solista non comune, maturato in anni di gioventù di mestiere rubato alla compagnia di famiglia e sviluppatosi poi, con onesto impegno artigiano, in una Bologna dove pian piano l’artista ha coagulato attorno a sé una compagnia con cui ha conseguito risultati nel complesso assai lusinghieri e non comuni, se pensiamo alle tante compagnie di emanazione familiare che da Nord a Sud popolano i teatri, ma per lo più con inclinazione provinciale.

Perrotta invece è un provinciale lanciato sul treno verso il Nord dei sogni, come racconta nello spettacolo “Emigranti Esprèss” di e con sé medesimo, di recente a Milano nella sempre ottima rassegna Stanze, curata da Alberica Archinto e Rossella Tansini, questa volta ospite nello splendido giardino della casa museo di Alik Cavaliere. La pièce è ricavata da una serie di puntate per la radio che narravano proprio l’emigrazione attraverso l’esperienza del viaggio in treno vissuta con gli occhi del giovane meridionale. Il primo pezzo, l’assalto al treno delle 21,05 verso la Germania dei terroni pugliesi, alla cui genia appartiene anche chi scrive, è un piccolo gioiello di metrica della narrazione: venti minuti da incorniciare e far sentire a chiunque voglia cimentarsi con questa forma di teatro. Uno slancio che non rimbalza con ugual forza nei due frammenti successivi, pur interessanti, ma a cui manca il propulsore autobiografico, come se nel passaggio dall’affresco soggettivo allo zoom del macrocosmo la lente si appannasse, lasciando il ritmo scenico un po’ fuori fuoco, restituendo meno vigore. Parliamo di un testo non nato per il teatro, e in un paio di circostanze si capisce, ma che l’istrionico attore domina. Perché Perrotta è una belva da palcoscenico, sente il pubblico in modo animale, lo capisci quando gode con gli occhi spiritati dell’attacco preciso di questa o quella base musicale, si asciuga le labbra con la mano, sorride compiaciuto e con il registro vocale e lo sguardo in giro per la platea inchioda tutti al suo racconto.

Questo stesso animale, nella dimensione plurale del secondo movimento del polittico teatrale dedicato al pittore Antonio Ligabue, dopo il grande successo del primo che recitava da solo, ritorna a proporsi come attore-regista con la sua compagnia in Pitùr, dove un Mario Perrotta un po’ Ligabue un po’ Kantor, fa da controcanto alla sua classe morta, al suo universo di disperati e soli, composto da Micaela Casalboni, Paola Roscioli, Lorenzo Ansaloni, Alessandro Mor, Fanny Duret, Anaïs Nicolas e Marco Michel. L’abbiamo visto l’altra sera in scena al Teatro La Cucina al Paolo Pini di Milano per Da vicino nessuno è normale, la rassegna estiva diretta da Rosita Volani, che ha ospitato il regista in residenza.

Tutti vestiti in pigiama bianco-manicomio, tutti soli gli interpreti, in alternanza fra momenti di fisicità teatrale, movimenti in sincrono con video proiezioni e giochi di luce, per raccontare gli esclusi. L’esperimento è un indubbia crescita rispetto a tutti gli ultimi lavori collettivi diretti da Perrotta, finalmente asciugato nella durata, coerente nel codice, sfidante e in alcuni momenti poetico. Ancora manca quel pizzico di costruzione drammaturgica collettiva capace di esaltare davvero i conflitti, di dare l’emozione costante, di non lasciare, come succedeva anche (e con più frequenza) nelle precedenti regie, in cui lo spettatore non di rado si trovava in una terra di mezzo dove la direzione appariva meno lampante di quanto non lo fosse nelle intenzioni artistiche. Tuttavia l’inizio e la fine dello spettacolo in particolare sono momenti assai intensi, con il finale che davvero lo porta ad una vetta poetica limpida. Nel mezzo ancora qualcosa da sistemare, forse in questo caso da aggiungere, per evitare di allungare troppo certe sequenze un po’ insistite.
Siamo, in ogni caso, ad un momento importante di maturazione di questo artista, sempre esaltante nell’uno contro tutti, che va perfezionando la sua capacità di direzione e lettura con la giusta cattiveria, e che sicuramente lavora a testa bassa, testardo, ma in realtà consapevole come pochi dei pregi e difetti dei suoi lavori, e capace di correggere il tiro, per indirizzarsi verso quell’essenzialità su cui forse anche l’esperienza genitoriale lo ha portato ora a riflettere con maggior consapevolezza.

The Apprentice: Dio perdona, Flavio no

sei fuori

ALESSANDRO MASTANDREA | Capita a volte che anche la TV dimostri di possedere uno spirito manifestamente progressista. In quelle particolari occasioni, anche una categoria generalmente vituperata come quella dei loser sembra passarsela piuttosto bene, sempre che possa dimostrare doti artistiche fuori dal comune, magari nel canto. Ne sanno qualcosa Suor Cristina, il coach e talent scout J-Ax, e il format The Voice alla sua seconda edizione su Rai Due.
Nel resto della programmazione, purtroppo, le istanze più comuni non paiono discostarsi da modelli marcatamente conservatori. Con buona pace dei loser, tornati a vestire i panni di minoranza mal vista, rassegnati nel vedere le proprie legittime aspirazioni al riscatto eternamente frustrate.
Ma quella del perdente è anche una figura romantica, eroica fino al martirio se occorre. Indubbiamente dotata di una genuina propensione al masochismo e, soprattutto, diffusissima tra i telespettatori. Nel novero, di buon diritto, troviamo spazio anche noi, gli spettatori della seconda visione. Quel più o meno nutrito gruppo di persone, che non potendo permettersi la pay-tv è costretta ad attendere mesi per guardare il format del cuore, evitando come la peste tutte le possibili tentazioni da spoiler che il mondo dei media convergenti offre. Dolore, ma soprattutto rinunzia, queste le parole d’ordine dei “perdenti”della tv generalista, che per quell’insana attrazione per la propria immagine distorta, il proprio doppelgänger televisivo, è magari “The Apprentice” che attendono con ansia.
Poiché, celata dietro regole piuttosto semplici ( partecipanti divisi in due squadre, prove di management sempre più selettive, fatidico giorno della finale, premio), questo peculiare talent dispiega una carica rivoluzionaria irresistibile. Flavio “il Boss” Briatore, per esempio, da icona e prototipo della persona vincente, del self-made man, assume su di sé la valenza di vero e proprio premio di cotanta trasmissione.
Per non parlare delle innate doti di paziente mentore, utili per tenere a bada gli scalpitanti allievi, per consigliarli e istruirli sulla difficile arte del management. E’ noto, infatti, che “la testa è molto più importante delle mani” e che “un mazzo così se lo fanno anche gli operai”.
Non è più solo questione di riscatto o rivincita, i giovani aspiranti “apprendisti” sono lì perché animati da una salutare sete di ambizione personale, per dimostrare di essere i migliori: “il secondo classificato è il primo degli sconfitti”, chiosa a fine di ogni puntata “il Boss”. Non inganni il tono alla Gordon Gekko, qui non siamo in un revival di cliché di serie televisive anni ’80, qui non si vedono nostalgici degli Yuppies, e non è solo questione di amore per l’edonismo. Il fatto è che nell’Italia contemporanea, che Flavio conosce bene in quanto assiduo frequentatore dei salotti televisivi à la page, difficilmente vincono il merito e le capacità del singolo. I giovani faticano ad affermarsi, attorno a loro trionfano raccomandati e figli di papà. E’ tutto un “magna, magna” insomma, e mentre quella di Flavio si configura come una lotta di civiltà, quella dei suoi apprendisti è invece una cesura esistenziale rispetto all’Italia dei propri padri.
Poco importa se anche loro (i padri) abbiano lottato per affermare le proprie personali rivendicazioni a un miglioramento della propria condizione. Questa delle nuove generazioni televisive è una lotta post-idelogica. Alle pastoie della politica, con tutto il loro pesante carico di eminenti e ingombranti figure di intellettuali del passato, si è andata sostituendo una mitologia molto più smart, agile e schietta. Donne e uomini di classe, imprenditori (giornalisti a volte) che in TV la sanno lunga su ogni cosa, ma che non si sentono necessariamente obbligati ad argomentarla.
Largo dunque alla meritocrazia in TV e nel resto della Penisola. Ma largo anche a una buona dose di autostima, caratteristica che al Nostro piace molto. Oltre la bravura, infatti, è “quella scintilla” che Flavio cerca negli occhi dei suoi pupilli. Tanto peggio per loro se non ce l’hanno, poiché, in tal caso, per l’insondabile mentore esistono solo due parole: “SEI FUORI!”.

Il solito Crozza alle prese col “Boss” Briatore:

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«I Luoghi dell’Adda» alla decima edizione, tra teatro, musica e natura

olesenVINCENZO SARDELLI | Affascinante il connubio fra poesia, natura e storia offerto dalla rassegna I luoghi dell’Adda, giunta alla decima edizione, che anima attraverso il teatro luoghi già per se stessi attraenti. L’arte è esperienza conoscitiva capace di trasfigurare l’ambiente in cui si manifesta.

L’Adda è il principe degli affluenti italiani. Scorre interamente in Lombardia. Il corso dell’Adda segna approssimativamente il confine linguistico tra i dialetti lombardi occidentali e orientali. Ma i ricordi storico-letterari hanno un che di evocativo in più. Sono legati ai Promessi Sposi, a Manzoni che descrive il tentativo di Renzo di raggiungere Bergamo per fuggire dal Ducato di Milano (dove era ricercato) fino alla Repubblica di Venezia.

L’Adda come salvezza, insomma. La salvezza che qui è proposta è meno impegnativa, ma non meno impegnata: è quella dalla routine cittadina, dagli stress di fine anno, in vista delle vacanze. Ed ecco, allora, una serie di appuntamenti organizzati dai lecchesi di Teatro Invito.

Miglior aperitivo non poteva esserci, tre settimane fa, della fisicità surreale di Jacob Olesen, di scena a Calco con Il mio nome è Bohumil, dal testo di Hrabal. Olesen, svedese con esperienze dalla Danimarca a Parigi, da oltre vent’anni di stanza in Italia, ha preceduto altri interessanti appuntamenti: dalle conquiste temerarie di Walter Bonatti di Teatro Invito, con In capo al mondo, all’ironia del Cappotto di Gogol. Fino alla poetica fantastica di Saramago con Riconoscersi isola di DelleAli teatro.

Il mio nome è Bohumil, tenue e poetico testo di Hrabal, narra le vicissitudini di un minuscolo e sagace cameriere ceco assunto all’Hotel Parìz di una Praga che, al crepuscolo del 1936, si accinge, con quel senso d’angoscia e precarietà, ad essere invasa dalle truppe naziste. Bohumil, umile e poetico, intelligente e ironico, attraversa anni e personaggi, incontri e tragedie. Notiamo nell’interpretazione di Olesen tutta l’abilità clownesca appresa nel suo tirocinio artistico a zonzo per l’Europa: la capacità di raggiungere il pubblico al di là del linguaggio verbale.

Bohumil è uno spettacolo minimalista. Un modo artigianale, eppure nuovo, di fare teatro. Emozioni che nascono da smorfie, suoni, gesti. Occhi e sorrisi leggeri, dolci, sofisticati. Microstorie, narrate con genialità, attraverso il controllo totale dei tempi comici e la capacità di riempire lo spazio scenico. Sorridiamo quando assistiamo alla vendita di wurstel ai passeggeri di un treno in partenza, che non riescono a ottenere il loro resto che rimane impigliato nelle tasche del cameriere. O quando, all’Hotel Parìz, viene data una sontuosa cena a base di cammelli ripieni di antilopi, a loro volta ripiene di tacchini, a loro volta ripieni di pesce, quest’ultimo ripieno di uova.

Ritmo incalzante e pause oniriche, malinconiche, tragiche. Come sono le pagine della storia, della guerra. Guerra che, come una fiumana, fagocita le vite degli individui, inghiottendo indistintamente il talento come la colpa

La “collezione” primavera/estate 2014 dei Luoghi dell’Adda si conferma ricca di appuntamenti. Compagnie giovani come Barabao Teatro con il suo thriller VII non rubare, o comicità musical/demenziale degli JashGavronski Brothers che in Trash! realizzano un vero e proprio concerto con oggetti di riciclo.

Poi gli appuntamenti dedicati alle famiglie: dall’Acciarino magico di Teatro dell’Orsa, a Cappuccetto Blues di Teatro Invit, fino alle avventure di Tom Sawyer con Anfiteatro.

La musica dal vivo ha avuto come protagonisti gli chansonnier francesi e belgi Brel e Brassens con la compagnia Santibriganti. Invece il duo jazz Colombo/Pedeferri ha allietato il pubblico navigante su Addarella, con la formazione dei Dadaiko Project ad accompagnare il racconto Il tacchino farcito.

Imbersago ha ospitato la coloratissima Parada di Faber Teater, tra le vie del centro storico, con gli spettatori parte della performance.

Una nota particolare va allo spettacolo itinerante che si terrà lungo l’alzaia dell’Adda a Brivio: Sogno di una notte di mezz’estate di Shakespeare, coproduzione di Teatro Invito con ScarlattineProgetti e Piccoli Idilli: 14 attori guideranno il pubblico in un viaggio tra elfi e fate, nel mistero del bosco fluviale.

Qui il calendario complete della rassegna, con tutti gli appuntamenti ancora da vivere

http://www.facebook.com/l.php?u=http%3A%2F%2Fwww.teatroinvito.it%2Fi-luoghi-dell-adda%2F&h=DAQGSzNBe

 

“Anton”, il debutto di Vanessa Korn con un Cechov intimo

antonVINCENZO SARDELLI | In un teatro giovane che in Italia sembra a volte percorrere schemi registici triti e drammaturgie insipide, gorgheggi con qualche parolaccia-tormentone, si affacciano sulla scena, ogni tanto, perle di bellezza. Come Anton – Scherzo in un atto. Dalle lettere, le opere e i taccuini del dottor Cechov, monologo con Stefano Cordella che abbiamo visto allo Spazio Tertulliano di Milano, drammaturgia e regia di Vanessa Korn. Pregevole racchiudere ogni tanto in una parentesi le cinque S (sport, spettacolo, sesso, sangue, soldi) che imperversano dalla cronaca allo schermo, per dirottare verso la poesia.

Anton, liberamente ispirato alla vita di Cechov, è la storia di un amore che è respiro. Senza il gusto della provocazione. Senza retroscena morbosi, o la ricerca ammiccante della risata. È un’oretta di monologo. Non la classica biografia. Neppure un sunto della poetica di Cechov. È un percorso nell’anima di un uomo logorato dalla tisi, al crepuscolo dell’esistenza. È un atto di fedeltà alla vita e alle sue piccole cose. Alle illusioni, che danno consistenza ai sogni: l’amore e la bellezza; l’eternità, le donne; la speranza in una guarigione.

La scena sfumata, da vecchia foto ingiallita, rinuncia ai colori sgargianti. Punta all’intimità. Sembra un quadro di Guido Reni, con luci delicate da pittura d’interno. Musiche senza tempo dialogano con i sentimenti: il repertorio malinconico dei Penguin Cafe Orchestra, le sfumature ipnotiche di René Aubry, il pianoforte raffinato di Giovanni Bomoll con Wild Flower. Per finire con le atmosfere oniriche di Vinicio Capossela. Anche l’attore, in canottiera e mutande, si presenta essenziale, in una quotidianità che ne svela l’umanità. Piccole miserie e slanci autentici. E quel senso di precarietà sospeso nell’aria, illuminato dall’interiorità. Luci blu. Poetica dell’alienazione. Decadenza, che non è rinuncia.

E un’arte che non tollera la menzogna. Anton è un uomo solo, alle prese con la salute che se ne va all’alba dei 44 anni. I panni sospesi ad asciugare, nel ristretto ambiente domestico. La bacinella per lavarsi. La scrivania. L’accappatoio. Mucchi di libri, carte sparse. È il disordine degli artisti, brainstorming spaziale e mentale, che precede l’atto creativo. Anche l’amore non esibito, che ristagna nella sfera muta, è atto poietico. «Abbiamo un solo difetto in comune – scrive Anton alla moglie – ci siamo sposati tardi». Arte, intelligenza, incertezza: «Il cervello batte le ali, anche se non sa ancora dove andrà a volare». Affiora l’anima di Cechov, tra bisogno d’ozio, per assaporare ciò che resta della vita, e urgenza di scrivere, per lasciare tracce di sé. Mistero e domande: meglio appassire lentamente nel buio, o rinascere un tempo effimero, nel tripudio dei colori? Aleggia un’aria di leggerezza, con il riferimento a quell’umorismo capace di conferire toni buffi all’esistenza.

In questo testo Vanessa Korn, alla sua opera prima, condensa un anno di studio e letture: l’Epistolario raccolto in Vita attraverso le lettere, con il profilo biografico di Natalia Ginsburg; la biografia scritta da Irène Némirovsky; il teatro, i drammi, i racconti, gli atti unici e i taccuini. Pagine di appunti, catalogati per argomenti: amore, viaggi, medicina, natura, famiglia, letteratura, corpo, malattia. E poi la fatica di scegliere, di calibrare: la voce del poeta; la propria e altrui rielaborazione. La regia, misurata, mai invasiva, entra con delicatezza nella vita di un uomo.

Anton ci rappresenta tutti, grazie alla recitazione pacata, leggera di Stefano Cordella. Attraversiamo l’umanità di Cechov. Come da un treno, osserviamo tutti lo stesso paesaggio. E ognuno porta a casa un dettaglio diverso.

Le OFFicine di Dominio Pubblico – 3^ puntata (Da Napoli lo studio migliore)

officinegaetanobrunofotoLAURA NOVELLI | Mercoledì 11 giugno. La terza serata di OFFicine Festival si svolge all’Argot. La piccola sala trasteverina è gremita di gente; c’è chi spera di entrare confidando nella lista di attesa; c’è chi suggerisce di aggiungere qualche sedia; c’è chi resta in piedi. Molti ovviamente gli addetti ai lavori, ma è pur vero che in occasioni del genere non c’è da stupirsene. Stavolta, a fare da padrone di casa, ci pensa Tiziano Panici: qualche parola introduttiva, qualche spiegazione sullo svolgimento dei quattro studi previsti in scaletta (molto diversi l’uno dall’altro e nel complesso più interessanti rispetto a quelli del 9), un doveroso saluto alla giuria popolare attinta a “La Casa dello Spettatore” coordinata da Giorgio Testa. C’è aria di festa. Di vivace curiosità.

Si inizia con “La Moda e la Morte” della compagnia milanese Animanera, primo abbozzo di un lavoro ispirato al “Dialogo tra la Moda e la Morte” di Leopardi su testo di Magdalena Barile (studi alla Paolo Grassi e importanti collaborazioni con diverse realtà) e regia di Aldo Cassano. Due donne vestite di nero (una delle interpreti è Benedetta Cesqui che ricordiamo in “Tumore” di Lucia Calamaro) siedono ai lati di un tavolo come fossero Moire intente a prendersi gioco degli Umani. Ma siamo solo all’inizio di un viaggio nella Storia e nella (in)civiltà occidentale contemporanea che innesca un doppio binario linguistico: da un lato, una scrittura molto alta, simbolica, colta, per certi versi affine ad un Morality play di stampo medievale; dall’altro, la presenza viva di una donna “diversa” e fragile (Barbara Apuzzo) che, chiamata a personificare proprio la Storia dandole la vis ribelle di una bambina impavida e capricciosa, riconduce il lavoro a quell’impegno nel sociale che Animanera porta avanti da sempre. E dunque si avverte, in questo breve studio, la trama di un disegno progettuale che ha chiari i confini e gli obiettivi entro cui intende muoversi, sebbene certe atmosfere dark, certi simbolismi portati all’estremo non giovino all’insieme e, anzi, ne affievoliscano l’energia.

L’energia invece non manca al secondo studio della serata, il migliore secondo me: “Io, mia moglie e il miracolo” di Gianni Vastarella, anche regista e interprete insieme con Christian Giroso, Valeria Pollice e Sefora Russo. Premessa necessaria: questo lavoro nasce all’interno di Punta Corsara, e cioè di una compagnia di giovani che, diretta da Emanuele Valenti e Marina Dammacco (a loro volta “eredi” di Marco Martinelli e Debora Pietrobono), ha preso vita grazie al laboratorio di formazione permanente attivato a Scampia con la felice (ed encomiabile) esperienza di Arrevuoto (oggi trasformata in Arrevuoto Teatro e Pedagogia). In seno al gruppo, vincitore del Premio speciale Ubu 2010 (e vale la pena riportare uno stralcio della motivazione: la scena dei ragazzi di Scampia alla riprova di un teatro di apprendimento vissuto assieme alle persone di un territorio difficile, che hanno potuto trovare nelle forme dell’esperienza artistica occasioni di vita ulteriore e strumenti di restauro morale […]), Vastarella vanta già la scrittura di precedenti testi e senza dubbio possiede, pur con delle ingenuità presumibilmente “generazionali”, un piglio drammaturgico originale e senso del ritmo. Qui fotografa in modo grottesco e surreale un matrimonio in crisi e, ancor meglio, un uomo e una donna (silenziosa, cauta nei gesti e negli scarti espressivi, volutamente robotizzata dalla brava Valeria Pollice) che non nascondono certi lineamenti un po’ televisivi e cartoonistici (penso soprattutto ai Simpson) ma che, nel contempo, si impongono come personaggi molto teatrali. E il meccanismo farsesco, a tratti “cirilliano”, funziona perché lontano dal naturalismo e perché – come preannuncia il titolo – sorretto dall’ambiguità di una figura soprannaturale che scompagina il quotidiano.

“Vieni più vicino” di e con Gaetano Bruno (noto attore siciliano di collaudata esperienza teatrale e cinematografica) mi ha invece lasciata perplessa. C’è un Lui che vive in un vaso. E’ una pianta (?) in giacca e cravatta e non vediamo il volto dell’attore perché coperto da una maschera a foggia di chioma cespugliosa. E poi c’è una Lei, una danzatrice molto leggiadra, che da bruco chiuso dentro un telo bianco diventa poeticamente farfalla. Un incontro quasi impossibile. Un gioco di avvicinamenti e allontanamenti. Un’alternanza di silenzi e parole. Fino all’abbraccio finale. Francamente mi sfugge il senso di un lavoro che, più lungo di così, non capisco dove potrebbe o dovrebbe arrivare.

Stesso discorso per lo studio “Actarus”, ispirato al romanzo omonimo di Claudio Morici, proposto dalla compagnia toscana Bàrbaros su regia di Giacomo Bisordi: tra birra, tv e divano si consuma la crisi di mezza età del celebre pilota di Goldrake (Fausto Cabra), mentre una sua appassionata fan (Camilla Semino Favro) ne segue il meschino declino fiduciosa in una necessaria riscossa ai danni di Vega. A dire il vero, mi è parso un lavoro molto acerbo, ingenuo, ripetitivo. Ho fatto insomma difficoltà ad intravedere una forma di ŏpus in fondo a questa fase di opificīna.

Che altro dire? Mentre scrivo queste righe, non conosco l’esito della kermesse e dunque non so quale compagnia abbia vinto. Ma credo che una riflessione generale si possa fare a prescindere. Certamente ben vengano operazioni di questo tipo, soprattutto in quanto danno visibilità a gruppi che altrimenti troverebbero difficile farsi conoscere. Ma c’è un “ma”. Perché, se da una parte, il vuoto istituzionale rispetto alle realtà indipendenti del nostro teatro è spaventoso, dall’altro, bisogna pur chiedersi se questa scena OFF giovanile non sia troppo affollata di artisti con le idee poco chiare. E’ vero: sono tempi duri, non ci sono soldi, si fatica da matti. “Ma”, a mio modestissimo avviso, anche la creatività, la formazione, la profondità di analisi, la capacità di (re)invenzione drammaturgi, la sintonia con pubblici reali e diversi non se la passano poi granché bene.

Le OFFicine di Dominio Pubblico – 2^ puntata (il turbine aumenta)

Collettivo Jenny Pirate
Collettivo Jenny Pirate
Collettivo Jenny Pirate

ANNA POZZALI | Prosegue la riflessione a sei mani sulla Rassegna OFFicine all’interno della stagione Dominio Pubblico che unisce intenti e progetti dei due teatri romani, Teatro dell’Orologio e Teatro Argot. Sono stata spettatrice della seconda serata che vedeva succedersi le quattro compagnie: Collettivo Pirate Jenny, Teatrodilina, Proprietà Commutativa e Madame Rebinè con, rispettivamente, Pollicino 2.0, Banane, 3Q liberi esperimenti politici e Uno spettacolo comico.

La prima compagnia, come il celebre Pollicino dei Fratelli Grimm, continua la sua corsa disorientata nel cerchio vorticoso della scena che si ripete e dissemina movimenti e stralci coreografici che sono le speranze, le aspettative di un’intera generazione sulla soglia dell’età adulta: necessaria ma poco promettente. I protagonisti sembrerebbero i tre interpreti, peraltro molto bravi, e invece la grande privazione prende il sopravvento perché come tutti i giorni, fuori dal teatro (e anche un po’ al suo interno), i trentenni sono i fanalini di coda della nostra società e, senza lavoro né floridi orizzonti cui protendere, sono eretti a simbolo del “fuori tempo massimo”.

Per questo, non gli resta che girare e non fermarsi in quel bosco senza riferimenti che è la vita, incappando uno per volta in un reality show che li testa per l’ambita fama mediatica come ultima spiaggia possibile degli esodati sociali e, comunque, magra consolazione.

La voce fuori campo, occhio e voce del Big Brother, come un narratore onnisciente riveste la parte di questa politica attuale che sul terreno delle giovani generazioni si gioca promesse importanti che restano tali fino a quando  giovani crescono, oltrepassano la soglia dell’età adulta diventando troppo grandi per attendere i fatti.

E, come dice il programma di sala, “in bilico tra il mangiare e l’essere mangiati” la storia di molti si conclude sempre con l’ultima delle due opzioni: l’essere fagocitati dal sistema.

Il passaggio continuo tra i linguaggi della danza, del testo e delle immagini è così misurato ed equilibrato da far emergere chiari i significati e la direzione di questo esperimento drammaturgico, complice forse l’empatia di spettatori per la quasi totalità coetanei, ugualmente disorientati, troppo grandi per fare i giovani e troppo piccoli per essere adulti.

Al Collettivo Pirate Jenny segue Teatrodilina, compagnia che trova nel teatro un luogo di approdo per linguaggi e pratiche differenti. Lo rende evidente la drammaturgia di Banane che ha elementi di vivo richiamo cinematografico, si costruisce per sketch ed è proprio la concatenazione di queste scenette comiche a rappresentare il nucleo dello spettacolo: in questo caso, non è tanto la storia raccontata a lasciare il segno, quanto la capacità registica di narrarla per frammenti. Le storie dei quattro ragazzi fanno da sfondo al succedersi degli episodi narrativi che spingono al massimo punto di evoluzione la storia, per poi interromperla e ricominciarla in un altro luogo e in un altro tempo. Inizialmente spiazzante, questo meccanismo diviene, una volta compreso, atteso e ricercato dagli spettatori.

La terza compagnia, composta da Alessandro Federico e Valentina Virando, esordisce nella propria presentazione dichiarando che il nome Proprietà Commutativa si riferisce proprio alla formula secondo cui modificando l’ordine degli elementi, il risultato non cambia: così questa compagnia si è costituita garantendo massima flessibilità dei propri elementi e protagonisti. E se, spiegata così, questa teoria non convince pienamente, anche lo spettacolo “3Q liberi esperimenti politici” non decolla: una storia di cibo e politica, tre cuochi e una coppia di candidati al potere che attende per cena il Signor X, fantomatico ed essenziale finanziatore della candidatura; l’intendo dovrebbe essere quello di azzardare un’analisi delle relazioni umane, di ricette giuste in cucina come nella politica, uno sguardo alla realtà che si compone di “quelli che cucinano bene e quelli che hanno sempre fame”. Buono l’intento, bravissimi gli attori ma il testo è debole, non è ben costruito, troppo macchinoso e privo di composizione. In altre parole, nonostante la buona ricetta il piatto sfornato non è ben riuscito.

Ma è, infine, Uno spettacolo comico di Madame Rebinè a non chiudere in bellezza la serata: il titolo pretenzioso e la trama composita che mette insieme gli elementi senza darvi una contestualizzazione sono i carenti punti di partenza. A restare di quest’ultimo esperimento drammaturgico, è la performance circense perfettamente eseguita con un cerchio che rappresenta il limite che l’eroe in pensione Super Mutanda deve  superare per andare oltre le sue angosce e il suo divano. Ma Super Mutanda non ce la fa e con lui, nemmeno lo spettacolo, che ha ancora molto da lavorare sulla composizione drammaturgica.

E con questo si chiude la seconda serata di OFFicine Dominio Pubblico. E ne restano due!

 

Le OFFicine di Dominio Pubblico – 1^ puntata (Serata di apertura: per fortuna che c’era Clinica Mammut)

officine9giugnofotoLAURA NOVELLI | “OFFicine”: dinnanzi al titolo di una variegata rassegna come quella che si è svolta le sere scorse al teatro dell’Orologio e all’Argot di Roma (e, ricordiamolo, frutto di un bando indirizzato alla creatività teatrale delle nuove generazioni cui hanno aderito numerose realtà) sembra inevitabile un’analisi che tenga conto del termine scelto come titolo (senza dimenticare quell’OFF marcato con le maiuscole) e, tanto più, della sua radice etimologica. Dunque: officina viene dall’antico termine latino opificīna (laboratorio)che a sua volta deriva ovviamente da ŏpus (opera). Sembra scontato e un po’ scolastico ma è un necessario punto di partenza per osare una riflessione a riguardo. Ragionando sull’etimologia, ancor meglio mi radico, infatti, nella convinzione che in un’officina si debbano prevedere una fase “laboratoriale”, e cioè di messa a punto di prodotti in fieri, ma anche un approdo – in questo caso artistico – in grado di costruirsi come “cosa” a sé, finita e, parlando di teatro, comunicativa alla testa (lasciamo perdere le emozioni, per carità) del pubblico. Ciò presuppone che nel lavoro in costruzione si possano già intravedere, allo stato embrionale o in forme più evolute, gli eventuali esiti scenici cui si aspira. O per lo meno delle idee, delle estetiche, delle provocazioni, dei puntelli intellettuali o stilistici che in qualche modo preannuncino l’ŏpus. Non è perciò facile giudicare venti minuti di spettacolo (questa la durata approssimativa dei singoli studi) e tanti anni di frequentazione teatrale e di esperienza come osservatore critico del Premio Dante Cappelletti (al cui format questa rassegna in parte rassomiglia) mi hanno allenato ad una certa cautela.

Ritorno rigorosamente ai fatti: ho partecipato alla vetrina romana la prima e la terza sera (il 9 e l’11 giugno) e debbo riconoscere che, soprattutto dopo la prima tornata di pièce, sono uscita da teatro alquanto perplessa. Fatte salve le buone intenzioni degli artisti e nutrendo il doveroso rispetto per chi lavora e crea, ho trovato estremamente noiosa e criptica la proposta di Mirko Feliziani, attore/autore con solide esperienze formative e professionali alle spalle che nel suo “Milk. Le Sembianze di Marion Llievski” costruisce un “musica tascabile” sul tema della diversità, con tanto di intarsi video funzionali alla drammaturgia e di canzoni eseguite dal vivo, dove intende indagare “le tante sfumature della diversità che è in ognuno di noi” (parole sue) mettendo insieme crisi identitarie adolescenziali, scenari bellici, rigurgiti rocchettari; ciò che ne deriva è un lavoro ibrido e molto poco empatico che, per ora e secondo me, non lascia intravedere un approdo significativo. Stesso discorso vale anche per “Legame” di Lara Russo, coreografa e performer milanese che l’anno scorso ha vinto il premio GD’A giovane danza autori con lo spettacolo “Allumin-io” e che in questo studio costruisce una partitura per cinque giovanissimi danzatori (tre ragazze e due ragazzi, non tutti propriamente agili e in forma, anche – presumo – per restituire l’idea di una normalità del corpo performativo che molto sembra mutuata dal lavoro di Virginio Sieni, con cui tra l’altro la Russo ha collaborato l’anno scorso per la Biennale di Venezia) dove essi si rincorrono, si sfiorano si intrecciano, si bendano gli occhi nel tentativo “di esplorare il complesso universo delle relazioni umane, di far emergere, attraverso il corpo, dinamiche di comportamento essenziali del rapporto con l’altro”. In realtà, a tratti, arriva una certa inconsapevolezza espressiva che non è tanto mancanza di perfezione o armonia (non è questo il punto) quanto difficoltà comunicativa, incapacità di trasformare i singoli pezzetti del lavoro in un “sovratono” di più ampio respiro. E questo stesso perimetro angusto, questa mancanza di spazio mentale altro l’ho riscontrato pure in “Elena di Sparta o della guerra” di e con Elena Arvigo, attrice tra le più apprezzate e apprezzabili della sua generazione, intenta a mostrarci qui una figura di donna moderna – ma per certi versi fuori dal tempo – che va girovagando con il suo baule dei ricordi come un guitto ottocentesco e racconta la vicenda mitologica della celebre moglie di Menelao da angolature e punti di vista diversi, avvalendosi anche di spunti letterari eterogenei. Se, da un lato, la presenza scenica della Arvigo garantisce un’indubbia qualità recitativa, dall’altro la drammaturgia sembra assai povera e ripetitiva e in questa fase del montaggio potrebbe portare ovunque o, viceversa, non riuscire ad andare oltre quanto (un po’ poco) già messo in campo. Dei quattro studi in scaletta, l’unico che mi abbia suscitato un autentico interesse è stato, insomma, “Dicembre” di Clinica Mammut (www.clinicamammut.it), la compagnia romana di Alessandra Di Lernia (drammaturga e attrice) e Salvo Lombardo (regista e attore) che ci ha abituato ormai da anni a lavori molto strutturati a livello ideologico ed estetico (“Col tempo”, “Il retro dei giorni”) e che qui accenna con estrema raffinatezza intellettuale al terzo movimento della trilogia “Memento mori – icone della fine”. Lavorando a più livelli sul tema del crollo della nostra società, sullo scollamento tra vecchio e nuovo, sulle responsabilità della politica (e in particolare della sinistra italiana), su uno stato di crisi e immobilismo, ci mostra in scena la figura di una donna con il volto coperto e i capelli biondi lunghissimi che parla seduta ad un tavolino e intanto toglie credibilità sostanziale al linguaggio. Dapprima monologante sospesa in un rituale di ironica (auto)decostruzione), essa poi interagirà con una seconda figura – anch’essa molto misteriosa – in uno scenario maggiormente apocalittico. Tante le suggestioni di partenza. Ad esempio? “Il Parmenide di Platone e cioè l’unico dialogo – mi racconta l’autrice – dove lo schema dialettico non è sempre presente; poi le poesie di Verlaine, il concetto di bizantinismo, il film “La leggenda della fortezza di Suram” dove i giovani, proprio come oggi, sono ostaggi di una società vecchia che non li rappresenta assolutamente”. Tanti i materiali cui dare ancora forma. Ma almeno in questo studio si intercettano pensieri e visioni generosamente protesi verso un coerente approdo finale.

In-Box 2014, dopo Amendola-Malorni il diluvio

MalorniMATTEO BRIGHENTI | I vuoti d’autorevolezza generano vite storte. Non ci sono padri né madri riconosciuti, non ci sono leggi condivise, non c’è neppure Dio nei quattro spettacoli finalisti a In-Box 2014. Ci sono i figli: a loro il compito di costruirsi una “famiglia” di valori in cui credere e vivere.
Per la prima volta dal vivo, al termine della due giorni al Teatro Cantiere Florida e al Teatro Popolare d’Arte/Teatro delle Arti, è così risultato vincente l’ “homo faber” al tempo della crisi, L’uomo nel diluvio “fortunae suae” di Simone Amendola, regista, sceneggiatore e autore teatrale, e di Valerio Malorni, attore, autore e regista. A loro i 37 giurati hanno assegnato 14 delle 39 repliche (finali escluse) messe in palio dai partner di In-Box, la rete di sostegno per la circuitazione del nuovo teatro ideata da Straligut Teatro. Dietro, i fratelli coltelli di Genesiquattrouno di Gaetano Bruno e Francesco Villano (10 repliche); poi le sorelle serpenti di Cantare all’Amore de La Ballata dei Lenna (8 repliche), compagnia formata nel 2011 da Nicola Di Chio, Paola Dimitri e Miriam Fieno; per ultimi, i coniugi trasformisti di Orfeo ed Euridice di Eco di fondo (7 repliche), gruppo formato nel 2007 da Giacomo Ferraù e Giulia Viana, guidati però dal non certo emergente César Brie, che ha scritto e diretto lo spettacolo.
Se tale è il risultato della selezione di 319 candidature, possiamo dire che In-Box ha quasi completamente mancato la sua stessa ragion d’essere: dare spazio alla “qualità artistica”. “Quasi” perché nella Rete è rimasto impigliato, a questo punto più per caso che per progetto, un piccolo capolavoro, che non poteva, onestamente, non vincere.

L’uomo nel diluvio

Tra il restare e l’emigrare c’è di mezzo il mare dell’umanità in tempesta. Se rimani puoi dire di non aver voluto combattere, se parti, invece, tutti capiscono che sei in guerra. E partire è già un po’ morire.
Forse per questo Valerio Malorni inizia stringendo a sé un orologio fermo: è l’istante in cui ha deciso di lasciare l’Italia per andare a sopravvivere a Berlino. Ha un completo scuro stazzonato, la pioggia è registrata e Bob Dylan canta “I want you”. Noè ha costruito l’arca per volere di Dio, Valerio, perché Malorni recita se stesso, si è fabbricato la sua salvezza da solo, in una vasca che in scena è una sagoma di cartone, come le valigie degli emigranti inizio ‘900. Però, per non sentirsi straniero in terra straniera, sia come personaggio che come attore, ha bisogno di te, di noi, del pubblico.
Un “one emigrant show” duro, ironico, schietto che ci restituisce ciò che di più importante la crisi ci ha portato via: l’umanità.

Genesiquattrouno

Un uomo è accasciato dentro un cerchio di pietre. Sopra la sua testa pende un albero spoglio a chioma in giù. Con un balzo entra nel cerchio un altro uomo. Si toccano, si annusano come animali, a gattoni. I rami dell’albero sembrano indicare tutte le possibili direzioni creative di un’indagine sul linguaggio fisico, della ricerca di una cifra poetica del movimento.
Questa costruzione d’intenti crolla quando i due escono dal cerchio e, in piedi, cominciano a parlare. Sono fratelli e quanto appena visto è ciò che si sono fatti l’un l’altro. Girano così in tondo al rapporto conflittuale tra loro, con il padre, con la società e lo stesso fa lo spettacolo, ma il cerchio non è una direzione, è un avvitamento.
Il faticoso “giallo” circolare per scoprire la macchia che li unisce porta a una fine che ha il suo inizio, come dice il titolo, nella Genesi, capitolo 4, versetto 1: Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino e disse: “Ho acquistato un uomo dal Signore”. Fisico e parole, dunque, per l’eterno ritorno della fratellanza del male.

Cantare all’Amore

Due sorelle, stavolta, divise da un vestito da sposa usato. Il matrimonio s’ha da fare per uscire dalla misera, ma quando il sarto varca la soglia di casa, un rettangolo di lucine da varietà, passa più tempo a pensare all’amore per la “brutta” che al matrimonio della “bella”. Ha rinunciato alla vita e adesso trova una ragazza che non sa di averne una. Sono legati da nervosismo, imbarazzo, inadeguatezza. A tal punto, però, da diventare insopportabili l’uno all’altra. Non va meglio alla sposa, nonostante conquisti l’agio sufficiente a nascondere la propria infelicità.
Gli attori sembrano dissociati da ciò che dicono, come se i pensieri fossero doppiati da una lingua che non è la loro. Fanno allora faccette e smorfie per suscitare il riso che arriva con il contagocce, situazioni che vorrebbero essere forti o poetiche risultano, invece, solo piccole e frammentarie. In tutto questo, tanto, troppo, manca il colore più importante per uno spettacolo sull’amore: la magia del non detto.

Orfeo ed Euridice

Non è un attore, è qui per caso. Si presenta come Caronte, ha gli occhiali da sole e un forte accento meridionale. Ha portato Orfeo all’altromondo per salvare la sua Euridice: lui ha cantato una canzone di Battiato, ma poi, sulla strada del ritorno alla vita, ha fatto ciò che non doveva: voltarsi a guardarla. Lei, così, è morta per sempre.
Questo siparietto introduce al racconto di un Ade molto terreno: lo stato vegetativo di una moglie a seguito di un incidente stradale. Il mito, oggi, è come accompagnare i propri cari a una “dolce morte”, quando la vita non è più degna di essere vissuta. L’incontro, l’amore, e poi lo schianto in macchina, l’ospedale e il vivere continuando a non morire sono raccontati con ricorrenti cambi di personaggi che rendono una storia verosimile irreale, meccanica, finta. Come la scenetta iniziale.
Un “caso Englaro”, dunque, sulla partitura di miseri trasformismi, condita con la saccenza di chi sa cos’è il dolore o la malattia. E non lascia a nessuno la libertà di farsi la propria opinione.

Cosmogonia di un’umanità in bilico secondo Lucia Calamaro

GIULIA MURONI| In fondo si tratta di cavalcare le asperità della vita per non farsi sopraffare da quel fondo oscuro e oceanico, latente in ogni inconscio, in grado di trascinare nel baratro. È in questo surf a occhi chiusi, in un equilibrio virtuoso tra il conscio e l’inconscio che il soggetto viene sbattuto e bistrattato nella conflittuale e vorticosa esperienza di sé e del mondo.

 Origine del mondo. Ritratto di un interno di Lucia Calamaro ha raccontato la depressione di una donna sui quarant’anni, Daria, interpretata dall’omonima Deflorian, che si confronta nel corso dei 3 atti con la figlia, Federica Santoro, la psicanalista, sempre Santoro, e Daniela Piperno nelle vesti della madre. Visto alle Fonderie Limone, nel cartellone della corrente edizione del Festival delle Colline Torinesi, costituisce il terzo atto del Focus sulla creazione contemporanea, iniziativa a cura di Sergio Ariotti e Mario Martone, che ha portato in scena la maratona di Antonio Latella Francamente me ne infischio, l’ultima creazione di Emma Dante Operetta burlesca e infine, il pluripremiato e validissimo lavoro scritto e diretto da Lucia Calamaro nel 2011.

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Sono tre le direttive su cui si articolano i tre atti di Origine del mondo: in primo luogo la crisi individuale e esistenziale, motore, o meglio freno, delle vicende biografiche di Daria, i rapporti primari di parentela, quelle relazioni di dipendenza e oppressione, amore e egoismo tra madre e figlia, che vedono Daria prima nel ruolo di madre abulica,  incapace di rispondere alle infinite esigenze di una figlia, poi in quello di figlia, rimbrottata apertamente e di continuo da un genitore soverchiante. Infine c’è il rapporto con la cura che prende vita nella relazione fallimentare o comunque altalenante con una psicanalista, di fronte alla quale per lunghi periodi Daria, sebbene immersa in un flusso incessante di pensieri,  non riesce a proferire parola. Anche la figlia, che cresce nel corso dei tre atti, è una parte di questa ambigua relazione. Anch’essa dedica alla madre attenzione e affetto, senza però scalfire, arrivare ai nocciolo duro e insondato del dolore puro.

A un frammento di dialogo tra le due donne è affidato il finale. Amaro, restituisce il senso della profonda solitudine che permea i vissuti e ne è l’irriducibile essenza.

Nell’interno di uno spazio domestico o al limite nei confini dell’ufficio dell’analista, si svolge una narrazione ricchissima, fluente, in grado di dare respiro a verità gravi con l’alternarsi di registri, in un vociare costante che spazia tra idiosincrasie generiche e specifiche richieste d’aiuto. Lo spazio varia di colore ad ogni atto: il primo è immerso nell’oscurità, penetrato soltanto dalla flebile luce di un frigorifero, unico varco di conforto; nel secondo è l’arancione lo sfondo cromatico dell’acceso incontro tra Daria, sua madre e la figlia adolescente e in conclusione, nella scena abitata dalla poltrona da degente in psicanalisi e il tavolo della dottoressa, è l’azzurro ad occupare lo sguardo. Gli elettrodomestici, il frigorifero dell’inizio, l’armadio, la lavatrice e infine il lavello, assurgono a totem di uno scenario familiare disfunzionale. La regista ha ragione nel rifiutare l’etichetta di teatro al femminile, questo è un teatro che si assume la responsabilità di pungolare le viscere dell’esistente, di smuovere nel profondo laddove non per caso, ma per una fitta storia di potere e di sopraffazione, sono spesso le donne ad addentrarsi, a sporcarsi le mani, in un lavoro intrepido che non dà potere né gioia ma è il motivo per cui siamo umani. Menzionati nei dialoghi, gli uomini non compaiono mai, ma è un’assenza assai eloquente. La potente scelta registica sembra voler rinviare a un certo analfabetismo emotivo maschile colpevole di riprodurre ad libitum una irrimediabile e ineffabile distanza tra le due metà del cielo, sopratutto laddove si inverte il rapporto di maternage. L’espressione logorroica del pensiero affidata alle voci, ai lineamenti e ai corpi di queste donne non sfugge, con vitalità e sofferenza, al confronto con l’abisso e da esso trae ricchezza, nel perenne e inesausto tentativo di restare a galla.

MARTELIVE Sardegna: performing live and life per un mondo che cambia

Martelive Sardegna REDAZIONE | Quasi 50 artisti sardi, alcuni dei quali tornati sull’Isola apposta per l’occasione, competeranno per aggiudicarsi l’accesso alla BiennaleMArteLive (a fine settembre a Roma) e provare a vincere uno dei 150 premi che il più grande raduno artistico italiano mette in palio. Sono questi gli ingredienti, Martedì 10 giugno 2014 dalle ore 19 alle ore 24, al Centro Comunale d’Arte e Cultura EXMA’ della I edizione del FESTIVAL MARTELIVE SARDEGNA la cui cifra è la multidisciplinarietà: gli artisti si esibiranno contemporaneamente nella cornice dell’ExMà, così da regalare allo spettatore un’esperienza unica, uno “spettacolo totale”. La serata si aprirà con l’aperitivo letterario, poesie e racconti brevi di tre scrittori emergenti, seguiti dalle performance musicali di cinque band e due dj, intervallate dalle esibizioni degli artisti circensi e da brevi spettacoli teatrali, mentre si potrà assistere alla mostra fotografica di sette artisti, a installazioni e body painting e creazioni di artigianato artistico, tutto eseguito live, e tanto altro. La commistione delle arti, la possibilità di scambio e contaminazione fra tanti artisti, è ciò che determina l’importanza dell’evento, che rappresenta un modo concreto per superare la frammentarietà e, talvolta, l’autoreferenzialità dell’arte, per fare network, per creare un linguaggio ibrido di espressione e confronto.
Martedì 10 giugno a partire dalle ore 19 avrà luogo l’attesissimo evento che ha mobilitato artisti provenienti da tutta la Sardegna: le finali regionali del MArteLive all’ExMà di Cagliari. Il Festival, attivo a livello nazionale dal 2001, è stato organizzato per la prima volta in Sardegna dalla compagnia teatrale L’AQUILONE DI VIVIANA, con il sostegno del Comune di Cagliari.

MArteLive Sardegna è sostenuto dal Comune di Cagliari ed è realizzato e promosso in collaborazione con Radio X, CagliariApp, SardiniaPost, Scirarindi, Rumor(s)cena, PaneAcquaeCulture, Digital Performance, Linguaggio Macchina e l’Exmà Caffé.