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mercoledì, Dicembre 25, 2024
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Il teatro italiano vola a Parigi e New York

OrigineDelMondofotoLAURA NOVELLI | Volentieri segnalo due iniziative che danno respiro internazionale al nostro teatro esportandolo in due importanti capitali della cultura come Parigi e New York e regalandogli quella meritata visibilità che in patria, di questi tempi, non gli è facile ottenere. Alludo alla rassegna “Face à Face. Paroles d’Italie pour les scènes de France” che si apre il 18 giugno al Théâtre National Le Colline (con eventi anche all’Istituto Italiano di Cultura della capitale francese e allo Studio 105 de la Maison de la Radio di France Culture) e alla vetrina “In Scena! NY” che è stata inaugurata il 9 giugno con un omaggio al grande Eduardo De Filippo (quest’anno ricorre il 30° anniversario della sua scomparsa) svoltosi presso l’Arthur Avenue Market, in pieno Bronx.

Giunta alla quinta edizione, la felice iniziativa franco-italiana (che, come è noto, prevede una manifestazione gemella in Italia) presenterà al pubblico parigino sette autori italiani particolarmente significativi della nostra drammaturgia contemporanea. In effetti, sfogliando il programma, vi si intercettano nomi che, pur con stili e linguaggi molto diversi tra loro, negli ultimi anni hanno rappresentato degli snodi vitali in fatto di scrittura, creatività, invenzione scenica. Ad aprire i lavori sarà la lettura di “Primo amore” di Letizia Russo (regia di Isabelle Mouchard, interprete Mathieu Montanier), autrice molto apprezzata oltreconfine (tra l’altro non è la prima volta che questa pièce viene inserita nel programma di Face à Face) che si rivelò giovanissima con il corposo affondo nell’atrocità della guerra descritto in “Tomba di cani” (Premio Tondelli nel 2001). E’ invece alla sua prima tournée parigina la coppia Deflorian/Tagliarini, impegnata a presentare le sue ultime tre creazioni: lo spettacolo “Reality”, la performance-installazione “rzeczy/cose” e il recente “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”. Così come è al suo debutto in Francia il pluripremiato “L’Origine del mondo. Ritratto di un interno” di Lucia Calamaro, arguta indagine sulle storture della famiglia splendidamente interpretata da Daria Deflorian e Federica Santoro (tra l’altro, sia detto per inciso, proprio al duo Deflorian/Tagliarini e alla Calamaro sono state dedicate due puntate del programma “La nuova drammaturgia”, a cura di Graziano Graziani, andate in onda su Rai5 le scorse settimane). Altra presenze emblematiche saranno poi quella di Fausto Paravidino, atteso a Parigi con l’anteprima assoluta del suo nuovo testo “Il macello di Giobbe” che vedrà in scena tre attori italiani e quattro francesi, e di Mimmo Borrelli, regista e interprete (lo affiancherà Antonio Della Ragione) di una storia di camorra e rifiuti tossici intitolata “Malacrescita”. Esperimento molto curioso si preannuncia infine la lettura radiofonica in francese dello straordinario monologo “Dissonorata. Un delitto d’onore in Calabria” di Saverio La Ruina, in scaletta domenica 22 giugno in chiusura di rassegna. A latere, si svolgerà l’incontro “Ecritures souls les planches. La dramaturgie italienne des années zéro” nel corso del quale gli autori coinvolti, coordinati da Attilio Scarpellini, dialogheranno con il pubblico.

iaiafortefotoPiù eterogeneo appare invece il carnet delle proposte sceniche esportate nella Grande Mela. Segno ovviamente di un esplicito bisogno di accontentare pubblici e gusti diversi e di offrire eventi di generi non affini. Anche qui però è forte la presenza della nostra drammaturgia contemporanea e, soprattutto, si prediligono lavori italiani a sfondo sociale che affondano le radici nelle crepe più profonde della nostra storia e del nostro Paese. Molti, inoltre, i luoghi coinvolti in questa ricca festa del teatro italiano e tante anche le location inconsuete, divise tra i quartieri di Manhattan, Queens, Brooklyn e Bronx. Madrina d’onore della serata inaugurale è stata Iaia Forte, cui è spettato anche l’onore di aprire la rassegna (il 10 giugno) con un monologo tratto dal romanzo “Hanno tutti ragione” di Paolo Sorrentino. Sempre in area partenopea si muovono poi Mario Gelardi e Giuseppe Miale di Mauro, invitati a New York con l’adattamento di un racconto di Roberto Saviano, “Santos”, tradotto per l’occasione da Dave Johnson e Laura Caparrotti e inserito in un progetto di sensibilizzazione alla poesia indirizzato ai condannati in libertà vigilata. Lavoro che, inoltre, introduce il filone del teatro dedicato al calcio; filone che il festival newyorchese abbraccia con entusiasmo ospitando altri due testi di autori contemporanei: “L’Italia s’è desta” di Rosario Mastrota con Dalila Desirée Cozzolino, e “Storia d’amore e calcio” di Michele Santeramo. Alla figura di Don Pino Puglisi è invece ispirato il lavoro “Mutu” di Aldo Rapè, anche in scena con Marco Carlino (Miglior Spettacolo ad Avignone Off 2012). E c’è ancora spazio per una pièce sul lavoro e sulle morti bianche a firma di Mauro Santopietro e Tiziano Panici, per un’incursione letteraria nelle parole dell’Amore a cura di Carlo Loiudice e Vito De Girolamo e, cambiando decisamente genere, per il “Rugantino” di Enrico Brignano. All’interno della vetrina – da quest’anno anche “sorella” del Fringe Festival di Roma con cui condivide una serie di interessanti progetti comuni – si svolgerà, infine, la consegna del Premio Mario Fratti a Carlotta Corradi, giovane drammaturga romana con all’attivo testi come “Lipstick” e “Peli”, e al suo atto unico “Via dei Capocci”, storia di prostituzione nella Roma delle case chiuse. L’opera verrà letta presso l’Istituto di Cultura Italiana di New York il 24 giugno, durante la serata conclusiva del festival.

Nel cous cous ci vuole il peperoncino. E qualche riga di Camus

COus COus con CamusRENZO FRANCABANDERA | Forse perché giocavo pure io in porta, vabbè, a calcetto, che così almeno se alzavo le braccia la traversa riuscivo a toccarla. Forse perché Camus ha detto delle verità profondissime sull’animo umano che non possono non lasciar innamorare, di quell’amore struggente e doloroso per le sue parole.

Forse perché è un tempo così passato ma così presente, di incertezze e memorie di orrori ed errori, quello che si respira nella sala dai drappi rossi, così innaturalmente teatrale.

O forse semplicemente perché nel brodo del cous cous ci vuole il peperoncino. Secondo me. E anche secondo loro.

Insomma sarà per tutte queste cose o per le semplici scelte che le Ariette pongono in essere per raccontare una storia di vita, di anni Settanta, di baschi in testa e discussioni fra anarchici e comunisti nella campagna francese, storie di primi amori, mescolate alle parole di Camus, sarà per tutto questo, ma TEATRO NATURALE? Io, il couscous e Albert Camus di Paola Berselli e Stefano Pasquini, (per la regia di quest’ultimo e recitato, oltre che dai due sodali della tenuta delle Ariette, che festeggiano in questi giorni i 25 anni insieme (auguri grandissimi!), anche da Maurizio Ferraresi) è un’operazione, secondo me, riuscita.

In primis perché forse più e meglio che in altri loro lavori, sempre centrati sull’autobiografismo e sull’atmosfera conviviale, si rinuncia per gran parte a questi due elementi per cercare un corpo a corpo con il letterario che, pur con qualche “gancio emotivo” rimane sempre in un territorio di grande onestà rispetto allo spettatore, che kantorianamente vede chi alza il volume della musica, vede l’attrice immergersi davvero nella tinozza d’acqua, e vede i protagonisti, nella loro maturità e nei segni degli anni, ritornare con i propri corpi ad un tempo e ad un mondo di idee che non sono più.
Ma proprio perché non sono più, quelle parole diventano letterarie e sono di nuovo, nuovamente politiche, la tinozza sembra un mare sconfinato, e la Berselli che ci nuota dentro per poi andarsi a sdraiare su un asciugamano di frasi sottolineate dello scrittore franco algerino, con il suo corpo magro stretto in un vestitino rosso bagnato, diventa icona imperfetta, immagine di poesia fragile ed essenziale, come il pensiero di Camus e quel conflitto tra uomo naturale e uomo sociale che la società borghese ha vissuto e quella digitale sta misconoscendo, in nome di un uomo antisociale e neodigitale, chiuso nel suo doppio, nel suo avatar personaggio da cui sempre più fatica ad uscire.

Il cibo dopo lo spettacolo è un pretesto per restare da Olinda al Paolo Pini di Milano, dove abbiamo visto lo spettacolo e dove sta per ripartire “Da vicino nessuno è normale”, a chiacchierare con gli artisti, e in quest’ottica è un gesto di lotta al paradigma antisociale e dunque anche questo, politico.
L’interogativo che questo spettacolo del 2012 pone è se anche il teatro, come Mersault, il protagonista de “Lo straniero”, che rifiuta di mentire e obbedisce soltanto alle leggi della natura, possa vivere in francescana semplicità, sfuggendo agli obblighi delle convenzioni sociali, sincero fino alle estreme conseguenze. Ecco quindi il contrasto di quel drappo rosso, innaturale e così rituale, con un recitato che prova, in alcuni casi con successo, ad andare oltre la narrazione per approcciare fondamentalmente il postdrammatico.
La natura, per chi la vive davvero, non è idillio. E’ spesso anche crudeltà, verità, sofferenza del debole. E in questo spettacolo questa verità forse viene per paradosso maggiormente fuori rispetto ad altri lavori delle Ariette, pur non essendo mai qui la natura protagonista, ma solo sfondo, ambiente, sciabordare di onde in lontananza. Viene maggiormente fuori perché  gli artisti abbandonano il lato più romantico del loro codice di scrittura, per concentrarsi su alcuni quesiti scenici che, pur con qualche altalena di intensità durante la recita, ingaggiano lo spettatore e lo portano pienamente in un tempo e in un luogo letterario, immaginario ma profondamente reale. In cui a comandare è il libro, le sue pagine stampate in formato gigante. Fardello sulle spalle dell’uomo contemporaneo, piegato sotto il peso dei suoi inconfessabili perché.

Il malizioso immaginifico Orlando del Buratto

orlandoVINCENZO SARDELLI | Quante suggestioni in“…E scrisse O come Orlando”, regia di Jolanda Cappi, ritorno in gran spolvero della compagnia milanese Teatro del Buratto, impegnata da quarant’anni nel teatro di figura e animazione su nero.

Si chiude in bellezza l’IF, Festival internazionale di teatro di Immagine e Figura, vetrina che da sette anni porta al Verdi di Milano le migliori produzioni di teatro visuale e di figura: da Familie Flöz ad Ananda Puijk.

Un teatro artigianale, che raramente fa ricorso alla tecnologia. Eppure capace, poiché supera la parola, di aprirsi a un pubblico ampio. Codici espressivi tradizionali, per niente lisi, anzi, proiettati nel futuro: il senso della contemporaneità, nelle arti e nella comunicazione, sembra affidarsi alle immagini, più che alle parole.

Quest’Orlando, tratto dal libriccino che Virginia Woolf scrisse nel 1928, esprime il valore metatemporale dei classici. È un mito moderno. È una metafora brillante e nostalgica del desiderio di fama e d’amore, delle illusioni, dell’immortalità e della caducità insite nella vita umana. Ambientato tra età elisabettiana e Novecento, il libro attraversa con ironia oltre tre secoli di storia.

Giocato sull’intercambiabilità e l’interazione dei sessi del protagonista, incarnazione dell’androginia cara alla Woolf, Orlando è simbolo della libertà interiore e della completezza creativa della scrittrice londinese. Qui è un ragazzo che ama la poesia. Grazie alla propria versatilità conquista la regina. Da giovane incontra la principessa russa Sasha (evocata da una sinuosa pelliccia bianca) e se ne innamora. Rifiutato, si rifugia a Costantinopoli. Dopo un lungo sonno ,si risveglia come donna, amante della vita e della letteratura.

Lo spettacolo, tra scherzo e fantasia, metamorfosi e magia, attraversa i molteplici tratti di un personaggio ambiguo. Vediamo materializzarsi nel buio, animato da un raggio trasversale, un cancello trasparente. Di là da quello compare, maestosa, irraggiungibile, una bambola-regina, cui un ragazzo saltellante offre una coppa d’acqua di rose. Dal nulla si materializzano specchi, in movimento rotondo come un valzer. Assecondano una musica da epopea rinascimentale, di liuti e clavicembali, che lasceranno via via il campo a fortepiano, pianoforte, arpa, fino all’oboe suonato da Mario Arcari.

La colonna sonora di Roberto Andreoni è anch’essa proteiforme. Seguendo il viaggio ineffabile di Orlando, si piega ad antichi stilemi inglesi o turchi, russi o francesi. Partitura drammaturgica essenziale del teatro di figura, questa musica-carillon varca i limiti spazio-temporali. Duetta con la drammaturgia ipnotica di Rocco D’Onghia, affidata a voci fuori campo, accompagnamento leggero, mai pedante.

La parola è centellinata: pochi momenti di riflessione e di narrazione, fantastici, a volte scherzosi. Come quando quattro bastoni misogini bacchettano, con insolenza, Orlando-donna.

Il protagonista sperimenta, si perde e si ritrova, in un percorso ciclico di morte e di rinascita. Orlando è animato dalle illusioni della bellezza e della poesia. Ingurgita ogni effluvio vitale. S’innalza, come i libri aperti che svolazzano intorno a lui, o le valigie che galleggiano nel buio come forme di Chagall. La scenografia di Marco Muzzolon è un castello delle meraviglie. Tagli di luce mutevoli, lampeggianti, evocano, ad esempio, il rigido inverno di Londra.

Tutto si tiene. Questo spettacolo è un calibrato gioco a incastri. Ci consegna evocazioni pulite del genio di Virginia Woolf. È armonia di luci (Marco Zennaro), musica, voci (Silvia Orlandi) e animazione (Giusi Colucci).

Le maschere di Andrea Cavarra svelano le varie identità di Orlando, sviscerando il tema del molteplice insito nell’unico. Complesso e intrigante il lavoro dei quattro animatori (Elisa Canfora, Marialuisa Casatta, Nadia Milani, Francesca Zoccarato) capaci al buio di decriptare materiali eterogenei, e trasformarli in forme e relazioni.

“Che cosa ci resta?”. Pictures from Gihan

foto gianluca camporesi
foto gianluca camporesi

FRANCESCA GIULIANI | Come entrare nella vita di una persona per raccontarla? Come guardare e narrare una realtà della quale non si fa parte? Quali tracce seguire per raccontare e raccontarsi, trasformando il quotidiano, la cronaca, il particolare in universale? Come narrare il presente? Sono queste le domande che risuonano negli ultimi lavori artistici del gruppo romano Muta Imago. Dal progetto Una settima nella vita al progetto collettivo Art you lost?, che vedrà termine al prossimo festival di Santarcangelo, fino a Pictures from Gihan, visto a Forlì al festival Ipercorpo, le domande e i tentativi di risposta si rincorrono. “Che cosa dovrebbero togliere a me per fare una rivoluzione?”, si chiedono Riccardo Fazi e Claudia Sorace alla fine di Pictures, chiudendo, non a caso con un interrogativo che risuona così forte, una risposta che sembra non trovarsi.

Buongiorno Cairo. Semibuio e inizio. In scena due corpi, due persone insieme in un unico spazio che è separato, in un tempo dove il passato e quel che resta di un recente presente, si mescolano nell’atto performativo. Due vecchi banchi scolastici che fanno da scrivania alle due camere separate dei due artisti, divisi tra Roma e Bruxelles, posti ai lati della scena, uno a destra e l’altro a sinistra. Computer, microfoni, videotelefoni, lavagne che dall’Europa all’Egitto, dal fuori al dentro proiettano paesaggi trasfigurati da fasci luminosi. Le mail che dal passato si raccontano attraverso la voce narrante di Riccardo Fazi e le immagini che si susseguono sulle lavagne che delimitano il luogo scenico mostrando le persone che hanno acceso piazza Tahrir.

È la genesi del progetto, il tentativo di comprendere una rivoluzione in atto dall’altra parte del mare, quella rivolta iniziata in Egitto nel gennaio del 2011, che si è trasformato nella necessità di raggiungere un contatto reale con quel presente tramite Gihan, la giovane blogger egiziana che ha attraversato con il suo corpo la rivoluzione e ne ha tracciato con i suoi tweet di parole, immagini e video un racconto. Il suo sguardo per i due artisti è diventato necessario, affiancandosi al racconto dell’amico Giuseppe, il giornalista che dal Cairo guardava e viveva direttamente gli eventi egiziani, nel momento in cui, dopo un silenzio lungo un anno, gli eventi sono di nuovo precipitati nel giugno del 2013. È il momento in cui l’inseguimento di Gihan non è più volto a ricostruire il passato ma è presente e s’inserisce attivamente all’interno delle vite dei due artisti e delle loro ricerche: l’osservazione delle tracce lasciate da Gihan nel web, l’osservazione dell’Egitto attraverso i suoi occhi, si capovolge in un guardare alle proprie vite e alle proprie azioni presenti nello stesso momento in cui quelle di Gihan sono di nuovo presenti nella rivolta.

È questo scardinarsi di tempi che fa di Pictures from Gihan, che vede non a caso di nuovo in scena i due fondatori del gruppo, non solo un’immersione nella frantumazione di suoni, voci, immagini che ricostruiscono le tracce seminate nel web da quella lunga primavera egiziana, ma anche una sorta di messa in discussione degli stessi Riccardo Fazi e Claudia Sorace, come artisti, e del loro lavoro scenico. Pictures è un ritratto mobile dei due artisti che, aprendo le finestre dei loro studi, mostrano i loro mondi e le domande che li popolano, per agganciarsi con più forza a quella vita che pur non essendo la loro, li aggrappa più fortemente al loro presente.

Ogni azione in scena è tesa ad aumentare la visione dei dati che provengono dall’Egitto quasi come per appropriarsene con più forza. Il Cairo, le sue piazze e i suoi quartieri accesi dalle proteste sono ingranditi attraverso una lente fatta scorrere su una mappa della città impressa sulle lavagne. I suoni delle piazze sono aumentati attraverso l’uso di microfoni e la reiterazione di alcune azioni, come accade per lo scalpiccio dei passi dell’attrice che insegue la corsa di Gihan tra le vie del Cairo o per la lenta attraversata verticale di una piscina di parole che gridano Where is the future in your past?. Alla fine, un aereo da Roma parte per il Cairo; i due attori, immobili, lo riprendono con il videotelefono. “Che cosa resta?”, sembrano domandarsi. Dall’altra parte del Mediterraneo solo il silenzio. Da questa parte una visione: il tentativo di ricostruire lo scenario e la serie di azioni prodotte dal foro di uscita di un proiettile.

 

Faiella in «Sesso? Grazie, tanto per gradire». Un cult per ricordare Franca Rame

sessoVINCENZO SARDELLI | Un cult capace di parlare di temi scottanti legati alla sessualità, senza banalizzare o cadere nella volgarità. È con Sesso? Grazie, tanto per gradire che Alessandra Faiella, con la regia di Milvia Marigliano, ha ricordato al Teatro della Cooperativa Franca Rame a un anno dalla scomparsa. E forse è giusto che l’attrice di Parabiago, morta il 29 maggio 2013, sia stata celebrata con un testo che parla di donne, sesso e amore. «Sono anni che porto in giro spettacoli sulla condizione della donna – diceva Franca Rame – lo sfruttamento sessuale, i problemi con i figli, i tradimenti, la coppia chiusa, la coppia aperta. In questi anni il mio camerino è diventato come lo studio di un analista: uomini, donne, giovani mi confidano storie che non racconterebbero al confessore. Con tutto questo dialogare, mi sono convinta che la causa di ogni pena amorosa, di legami che si sfaldano, è la mancanza d’armonia tra i sessi». Di qui l’idea di mettere in scena uno spettacolo, scritto con il marito Dario e il figlio Jacopo, che parlasse d’amore e sesso. Che raccontasse il vuoto della conoscenza del proprio corpo: tabù, paure e inibizioni. Il monologo affrontava temi delicati e intimi. Con contrappunto di commenti comici e grotteschi. Ma anche con delicatezza e pudore. Sesso? Grazie, tanto per gradire fu messo in scena per la prima volta nel 1994. Berlusconi prometteva un milione di posti di lavoro, l’Aids impazzava e terrorizzava, dal dischetto Baresi e Baggio sparavano alle stelle il sogno mundial. Eppure, per quanto riguarda l’educazione sessuale, vent’anni sono passati invano. «Rileggendo questo testo – spiega Faiella – mi sorprendo ancora per la sua forza comunicativa e per l’attualità dei suoi temi. Al progresso tecnologico e scientifico non si è accompagnato un altrettanto profondo rinnovamento etico e spirituale. L’amore non riesce ancora a fare da antidoto alla violenza. Parlare di sesso, diceva Franca Rame, è parlare d’amore. Perché fare bene all’amore migliora la comunicazione e l’armonia tra le persone». La strana coppia Faiella-Marigliano (più comica la prima, più attrice classica la seconda) aveva già aperto la stagione della Cooperativa con La versione di Barbie. Sesso? Grazie, tanto per gradire è un’allegra terapia di gruppo. Se Franca Rame si limitava alla propria presenza scenica per affrontare il tema, caricandolo di sfumature politico-sociali e quel po’ di vetriolo anticlericale, una Faiella dall’ironia più soft e casalinga si esibisce davanti a una tavola di ortaggi (zucchine, melanzane, carote, peperoni) dalla forma ammiccante, armata di coltello per tagliarli a pezzettini. Faiella rivisita l’originale quel tanto che basta. Aggiunge una vecchia radio da cui partono estemporanee lezioni di sesso, che danno il la a una sfilza di gag salaci. Proprio durante queste buffe lezioni, che caratterizzano le irriducibili differenze psicologiche e comunicative tra uomini e donne, Faiella scopre l’essenza del proprio talento, con una mimica facciale che, da Franca Valeri alla stessa Franca Rame, da Anna Magnani a Sofia Loren, attinge al meglio del teatro e dell’avanspettacolo. Anche senza parole, Faiella esibisce un campionario di pose esilaranti. Si mostra sconcertata, sexy, perplessa, disincantata, rassegnata; complice, rilassata, contratta; irritata, incerta, seducente. Lo spettacolo deplora la sovraesposizione che ha degradato la sessualità a pornografia. Ironizza sull’ignoranza che attribuisce potere spermicida alla coca cola, o confonde lo scroto con l’urna elettorale. Evidenzia i piani differenziali attraverso cui la donna comunica: «decidi tu» vuol dire: «la soluzione è ovvia», «fa’ come ti pare» significa «prima o poi la pagherai». Un’ora di monologo, e un bis a furor di pubblico, è sufficiente per la Faiella. Perché «si dice che chi parla tanto di sesso, è perché ne fa poco. Ed io sono qua da oltre un’ora».

MK e l’alba di un nuovo Venerdì

GIULIA MURONI| «Tutta l’opera di Roussel ruota intorno ad una esperienza singolare: il legame del linguaggio con questo spazio inesistente che, al di sotto della superficie delle cose, separa l’interno della loro faccia visibile e la periferia del loro nocciolo invisibile. E là, fra ciò che c’è di nascosto nel manifesto e di luminoso nell’inaccessibile, che si crea il compito del suo linguaggio».

©Luca-Trevisani

Queste le suggestioni di Michel Foucault (1963) a proposito di Raymond Roussel, il cui Impressions d’Afrique ha costituito il riferimento di una delle più recenti performance di MK, vista a novembre alla Galleria Comunale di Cagliari, nel cartellone di Autunno Danza. A partire dall’Africa come orizzonte immaginifico, la disamina dei rapporti coloniali in un contesto esotico (“una donna destinata al sacrificio, una pattuglia di marines in avanscoperta, dei guerrieri esperti di tecniche di ipnosi”) rinvia a una continua astrazione il compito del proprio linguaggio corporeo.

In quello stesso iato tra il nascosto nel manifesto e il luminoso nell’inaccessibile, che in Roussel si esercita in un linguaggio paradossale e metalinguistico, si situa anche l’ultima creazione Robinson, vista alle Fonderie Limone a Moncalieri, all’interno della rassegna Interplay. Qui il rimando è a Michel Tournier che, con il suo Venerdì o il limbo del pacifico (1967), ha sconquassato la vicenda di Robinson Crusoe per dare voce al bistrattato Venerdì e rimodellare, in un’ottica novecentesca densa di nozioni dell’antropologia strutturalista, i concetti di selvaggio e di civiltà. Leone d’argento per la danza alla Biennale Danza di Venezia 2014, Robinson vede deflagrare il protagonista di Defoe, morto di solipsismo, per assumere un nuovo personaggio errabondo e sperduto, costretto a ridimensionarsi nell’inaspettato incontro con l’alterità. Il processo di astrazione coreografica spinge all’analogia per giungere a definire la danza ciò che è soltanto nell’incontro e che si mantiene in vita grazie ad esso.

Sul candore del fondale e del tappeto si definiscono le figure dei danzatori, ma la prima apparizione spetta a Philippe Barbut in mutande, dipinto di nero e giallo, che con un lungo bastone flessibile rivela l’elemento scenografico di rilievo: una sorta di vela fluttuante e iridescente, gonfia e metallica, su cui si rifrangono le luci. A partire da questa apparizione perturbante si susseguono le presenze in scena dei danzatori, coperti da pochi indumenti dal colore neutro. I loro movimenti vanno ad amalgamarsi, fino a esplicitare la dinamica ripetitiva che compone le diverse combinazioni nello spazio. Di tanto in tanto una sospensione: è l’ingresso di quella stessa figura anomala che, toccando con l’asta qualcuno dei performers, cambia l’atmosfera. Poi la danza riprende il suo corso, in questo loop di incontri e addii, foriero di indefinite possibilità. L’idea di fondo è condotta con coerenza e metodo nell’arco di tutto lo spettacolo, senza ammiccamenti ma anzi con un rigore formale notevole e uno sguardo registico determinato e presente. L’estetica, resa forte da un tappeto sonoro costante e un disegno luci ricchissimo, a tratti risulta ostica ma rappresenta una tappa razionale del percorso iconoclasta e destrutturante degli MK.

 

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Andrea Cigni: la mia favola con il Festival Orizzonti

Andrea CigniMATTEO BRIGHENTI | Dal primo al 10 agosto a Chiusi, in provincia di Siena, l’orizzonte sarà l’incontro. Dal teatro alla danza, passando per l’opera e la musica, fino alle mostre, alle presentazioni, ai laboratori e alle proiezioni. Otto campi dell’arte per riscrivere il Festival Orizzonti. “In piazza del Duomo c’è un pozzo ottagonale – racconta Andrea Cigni – la gente ci passa accanto e spesso non si rende neanche conto che c’è. In realtà è un piccolo monumento nel centro della città. Con Orizzonti vogliamo dimostrare che la cultura è la chiave di volta per la crescita di questi luoghi.”

La stilizzazione del pozzo, che rimanda agli otto ambiti artistici del programma, è il nuovo luogo della manifestazione, l’impronta dell’inedito passo dato da Andrea Cigni. È arrivata alla 12esima edizione, ma è come se fosse la prima, iniziata un anno fa con il bando della Fondazione Orizzonti d’Arte di Chiusi (organo voluto dal Comune, oggi sostenuto principalmente da soci privati di rilevanza territoriale) per trovare un direttore artistico con il preciso intento di inserire il Festival nel panorama italiano delle kermesse teatrali estive. Su una rosa di oltre 40 candidati, da tutta Italia, è risultato vincente il progetto di Cigni. “Facevo segreteria artistica e direzione di produzione a Cremona quando ho ricevuto per e-mail notizia del bando. Dopo dieci anni lì si stava chiudendo un ciclo e allora mi sono detto: provo. È stata una sfida con me stesso.”

40 anni, toscano, laureato al Dams di Bologna, tra i registi più apprezzati nel panorama lirico italiano ed europeo, Cigni è stato scelto principalmente per la “forte motivazione dimostrata”. “La motivazione mi viene dall’affetto per un territorio che conosco (la mia famiglia viene da qua) e poi dalla volontà di far nascere in una città come Chiusi, che ha delle tradizioni culturali molto forti, una manifestazione che si ritagli un suo spazio nel panorama contemporaneo delle arti performative.”

I dieci giorni del Festival Orizzonti 2014 saranno densi come un mese intero: 71 eventi coinvolgeranno in totale 103 artisti di campi differenti per invogliare il pubblico a transitare da un genere all’altro. “Tra mito e favola”, come recita il tema di quest’anno, con riferimento al mito dell’identità di questa terra, alla sua storia e alle sue tradizioni, punto di partenza per uno slancio creativo che tenga insieme arte e spettacolo. Si comincia con la danza di Col Tempo di Virgilio Sieni, in prima nazionale, si prosegue con il teatro e lo studio su Macbeth della Socìetas Raffaello Sanzio, i Sacchi di Sabbia di Piccoli suicidi in ottava rima – volume 1 e volume 2 e di Marmocchio una specie di Pinocchio di marmo, un’altra prima nazionale, poi la Compagnia Simona Bucci, Teatri di Vita, Fortebraccio Teatro; la produzione operistica (insolita per un festival estivo come questo) di Gianni Schiacci di Puccini e Pierrot Lunaire di Schönberg, affidata tramite concorso al regista Roberto Catalano, mentre l’esecuzione sarà dell’Orchestra da Camera del Maggio Musicale Fiorentino. “Sono molto sincero: nessuno conosceva il Festival. Gli artisti che vengono lo fanno per fare un piacere a Chiusi e a me, rientra in un percorso di amicizia e stima che ho costruito con loro in questi anni. Offriamo l’ospitalità (vitto e alloggio), un simbolico rimborso spese, le strutture tecniche e una città intera per sperimentare i loro linguaggi. Se poi un giorno, ad esempio, i cantanti mi chiedessero di fare una regia d’opera gratis, non mi tirerò certo indietro.” Altre novità sono la costituzione del Premio Orizzonti, un riconoscimento ai meriti artistici e intellettuali che verrà assegnato ad Ascanio Celestini, e la nascita di una Compagnia Festival Orizzonti, con l’obiettivo di darle gambe che la portino ad affacciarsi anche in altre manifestazioni.

Il Festival, dunque, si sposa con il borgo e la sua gente: l’immagine sui manifesti è La Sposa di Carta, ovvero il performer Davide Francesca, fiero e struggente, vestito da sposa per le strade di Chiusi, un teatro di produzione a cielo aperto. “Orizzonti è un luogo sano e pulito a livello di intenzioni e di persone che ci lavorano. Chiarezza, trasparenza sono sempre più rare in teatro. È bello vedere che qualcosa può ancora nascere.” C’è tutto il tempo di vederla anche crescere, dal momento che il suo contratto con la Fondazione Orizzonti d’Arte è triennale. “Chiamiamolo “impegno” più che “contratto”. Anch’io, come tutti, lavoro praticamente gratis, ma va bene così, siamo appena partiti, se poi dimostreremo quanto valiamo magari il prossimo anno ci sosterrà il Ministero o la Regione Toscana.” Quindi fare il direttore artistico qui, come dice il titolo del Festival, è più un mito o una favola? “Con queste condizioni è più una favola. Stiamo cercando di realizzare un sogno. Il mito spero di farlo in teatro, mai io no, non lo sono.”

Comunicazione, elezioni e l’irresistibile tentazione del salotto all’italiana

grillo da vespaALESSANDRO MASTANDREA | Venti di cambiamento soffiano forte sopra la vecchia Europa. Proprio in queste ore si va consumando lo psicodramma dell’intero establishment europeo, messo sotto assedio dai movimenti antieuropeisti di tutto il continente: la vittoria in Francia di Marin Le Pen, così come, nella Grecia commissariata dal fondo monetario, quella di Alexis Tsipras. Da questo trambusto generale, l’Italia non poteva certo uscire indenne, e la TV, nonostante le astruse regole della par-condicio pre-elettorale, ha svolto il proprio ruolo di cassa di risonanza sia degli umori dell’elettorato, che delle ansie e paure della classe dirigente. Così, come se si trattasse di una enorme seduta terapeutica di gruppo, politici nostrani (poco avvezzi a gestire la tensione agonistica per un appuntamento ritenuto tutto sommato secondario) ed europei hanno avuto modo di condividere le rispettive “ansie da prestazione” in attesa dei risultati dello scrutinio. In questo stato di disorientamento generalizzato, neanche uno psicologo coi fiocchi del calibro di Giovanni Mari (“In Treatment”, martedì in prima serata su LA7), riuscirebbe a ridare le giuste coordinate a un ambiente emotivamente provato e in lotta per il riposizionamento e la sopravvivenza.

Che d’altro canto vi fosse nell’aria qualcosa di nuovo, ne avevamo avuto giusta anticipazione un paio di lunedì fa, nella “terza camera” di Porta a Porta. Il faccia a faccia tra “l’integrato” Vespa e “l’apocalittico” comico Grillo, non poteva certo passare inosservata, anche per un medium abituato alle più repentine metamorfosi.
Più che di metamorfosi, tuttavia, per la presenza di Grillo in Rai bisognerebbe parlare di vera e propria inversione esistenziale sulla strada delle proprie convinzioni; seconda solo, forse, a quella di chef Carlo Cracco, che per anni ce l’ha menata con l’alta cucina e le materie prime di qualità, prima di abdicare tristemente prestando la propria immagine a un sacchetto di patatine fritte.
In fondo, ormai, dell’assenza dal video del comico genovese e dei suoi penta stellati ce ne eravamo fatti una ragione, e tutto sommato, trattandosi di questione di principio, se ne potevano anche condividere le ragioni profonde. Per un movimento di rottura come il M5S, nato dal basso e dalla rete, decidere di non invischiarsi nel groviglio di parole dei talk show politici (dove conta solo l’effetto spettacolare e l’escalation drammatica), era il loro modo di dichiarare la propria diversità, anche nel modo di comunicare al proprio elettorato.
“Sono qui per dimostrare che in fondo sono un bravo ragazzo e non solamente uno che è capace di urlare” dice Beppe a Bruno, proprio lui che, all’indomani delle elezioni, i giornalisti avrebbe voluto processarli.
Dapprincipio entrambi in piedi, passeggiando nervosamente per lo studio, come duellanti nervosi prima del singolar tenzone, poi finalmente seduti cercando di controbattere l’uno all’altro. La prima fase è di studio, ma è anche la più interessante, dove il padrone di casa tenta di prendere le misure dell’avversario, mentre il secondo prova a decodificare, per noi spettatori, l’impianto liturgico e ideologico della trasmissione: il pubblico a pagamento ma senza diritto di parola, le poltrone, lo studio con la dominante bianca e rassicurante.
Ma è quando Grillo decide di sedersi che cambia qualcosa nei rapporti di forza tra i due e il padrone di casa segna un punto a suo favore, magari impercettibile, ma determinante nell’economia della sfida. Le parole del comico scorrono veloci e irruenti come al solito, quasi si trattasse di un fiume in piena, destinato tuttavia a infrangersi sulla comoda seduta di una comoda poltrona. Oggetto scenografico all’apparenza innocuo, eppure pericolosamente pregno del carico ideologico a cui prima si accennava. Il campanello che suona, il maggiordomo che apre la porta, l’ospite che entra e si accomoda non è forse la rappresentazione plastica della TV “in quanto strumento del potere e potere essa stessa”?.
A giochi fatti, verrebbe da dire che l’iniziale politica del movimento di tenersi alla larga dal medium televisivo aveva la sua buona dose di ragione, Grillo sa bene quanto la TV vada maneggiata con cura. Quel che forse non immaginava è che, all’interno della sua rassicurante cornice, anche le Vespe fanno male quando pungono.

Beppe Grillo visto da Maurizio Crozza

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Se i classici hanno ancora ragione d’essere

SILVIA TORANI | opera_la_bella_addormentata_nel_bosco_coreografia_di_chalmer_11498Ci domandiamo che senso abbia oggi assistere a uno spettacolo come La bella addormentata nel bosco, al Teatro dell’Opera di Roma fino al primo giugno. È solo uno status symbol? Una conferma autoreferenziale della nostra identità culturale? Un recupero nostalgico di un passato che non c’è più? Perché in questa versione del 2002, da allora riproposta ciclicamente ogni due, tre anni, il coreografo Paul Chalmer non si allontana dall’imponente e magnifica ombra di Marius Petipa?

Non siamo ancora stanchi dei principi stranieri stereotipati, con la pelle di leopardo sulla schiena seminuda? Delle principesse adolescenti, ingenue e fiduciose? Vogliamo ancora vedere teli trasparenti che calano atmosfere oniriche sul palco?

Eppure altre strade si sono tentate. Conosciamo l’Aurora disagiata e ribelle di Mats Ek, punta dal fuso della droga per cadere preda di un sonno senza sogni; ricordiamo le tinte gotiche della Belle di Jean-Christophe Maillot. Ma il problema delle rivisitazioni contemporanee è che spesso non ci dicono molto di più, non aggiungono latenze che non fossero già presenti nell’originale. Senza allontanarci dal canone del balletto classico, perfino un lavoro poetico, scanzonato e ironico come Swan Lake, della giovanissima (e bravissima) coreografa sudafricana Dada Masilo, in scena al Teatro Argentina lo scorso novembre, rende esplicite tensioni omosessuali già insite nell’amore “diverso” che porta il principe a rifiutare le belle pretendenti cui i genitori lo vorrebbero fidanzato per inseguire la chimera di un cigno.

La moda delle attualizzazioni, interessanti se intelligenti, e pur sempre lecite, rischia di togliere tutto il piacere al pubblico, la soddisfazione di leggere tra le righe, di costruirsi la sua storia, di andare oltre quell’apparente banalità del visibile. Certo, resta il piacere della danza. Ma quello rimane anche nel più classico dei classici.

L’Aurora delle prove generali è dolce, a tratti leziosa. Incerta nel difficile Adagio della Rosa, recupera durante il grande passo a due del terzo atto, preceduto da una sfilata esemplare di tecnica e virtuosismi: alcuni personaggi mancano, ma le ottime variazioni della principessa Florine e dell’Uccello Blu, della fata Diamante e delle sue compagne riescono a compensare la debolezza di un secondo atto un po’ fiacco. Degno di nota il vivace pas de caractère dei due gatti.

Mentre l’uso uniforme delle luci non valorizza abbastanza i passaggi coreutici e narrativi, costumi e scenografia ben caratterizzano i ruoli mimici dei cortigiani e della strega Carabosse, antagonista fiera e convincente nella sua intensa gestualità, moltiplicata come in un incubo dall’espressivo corteo infernale dei corvi.

L’allestimento potrà forse essere lo stesso di dieci anni fa, la coreografia simile a quella del secolo scorso, ma di certo non stiamo assistendo allo stesso balletto di allora. Non esistono ricostruzioni filologiche neutre, perché il passato non si resuscita e nessuna rievocazione di esperienze potrà mai dirsi assoluta: possiamo imparare tanto della vita di un falsario dal modo in cui crede di riprodurre fedelmente lo stile di un capolavoro.

La différence, il senso, è nell’incontro tra le storie, tra le persone: ballerini, scenografi, costumisti, tecnici, spettatori. Perché le persone eccedono ogni schema.

Interplay e la danza israeliana di Assaf e Fridman

ph: Andrea Macchia
ph: Andrea Macchia

GIULIA MURONI | Nello sterminato ventaglio di possibilità del corpo c’è la reazione creativa alla guerra e alla sofferenza. Il corpo umano in condizioni di guerra si dà come soggetto reale, strumento attraverso cui è vissuta l’esperienza bellica e quindi oggetto, bersaglio da abbattere, umiliare, annichilire. Luogo vivo della difesa e dell’offesa, porta i segni della mutilazione o i fregi di vittorie temporanee. Nel corpo sopravvissuto le cicatrici vi disegnano un luogo della memoria.

Abbozzo dello sfaccettato panorama su cui si staglia la danza contemporanea israeliana, ne abbiamo avuto due notevoli esempi alla serata inaugurale di Interplay al Teatro Astra. La prima parte è stata dedicata a The Hill, la nuova creazione di Roy Assaf, il quale ha preso spunto dalla canzone popolare Givat Hatahmoshetche. Il brano, con una base vivace e incalzante, racconta della presa da parte dei paracadutisti israeliani di un avamposto giordano durante la Guerra dei Sei giorni. Benché si sia trattato di una vittoria, l’esercito israeliano ha perso molti uomini e il testo della canzone sottolinea l’amarezza di un traguardo che perde esponenzialmente di senso. Il lavoro di Assaf ha visto un trio maschile, improntato su quella stessa leggerezza ritmica della canzone, mosso da una qualità fisica peculiare, energica e estroversa, capace di dispiegare il movimento in proiezioni importanti. Questo menage à trois maschile fatto di rimandi all’hora israeliana(danza tradizionale), inclusioni, esclusioni e giochi infantili ha costituito un ritratto di una maschilità che non rinnega il gioco e l’emotività. Lo spettacolo si è chiuso un attimo dopo aver raggiunto l’achmè emotivo, risultato finale di un crescendo drammatico inaspettato. Questo gioco, in grado di mutare registro con disinvoltura e di scorrere dal cameratismo ai toni drammatici, è connotato da una fisicità sapiente in grado di dare voce a vicende legate al proprio processo storico, astraendole in una narrazione antinaturalistica di segni del reale.

ph: Andrea Macchia
ph: Andrea Macchia

Alle 21 è stata la volta di Sharon Fridman, israeliano adottato in Spagna, con Caìda Libre in anteprima nazionale. Lo spettacolo ha portato in scena 6 interpreti della compagnia e 15 partecipanti al laboratorio con il coreografo, i quali hanno costituito una importante cornice entro cui si è sviluppata la drammaturgia. L’istanza centrale su cui si è imperniata la ricerca è quella della sopravvivenza e delle sue implicazioni, a cui viene conferito un continuo movimento dall’alto al basso e viceversa, in un perenne cadere e rialzarsi che intesse l’esistenza umana e che, in questa sua ripetizione costante, va a definirsi in un andamento circolare, lo stesso dell’hora israeliana e di molte danze rituali.  La danza di Fridman è giunta alle conseguenze estreme della contact improvisation, e come nel duo Hasta Donde…?, la tensione e il peso dei corpi raggiungono vette virtuose, ai limiti delle loro potenzialità. Dal momento che qui il focus è sulla sopravvivenza, quella qualità di movimento si presta ad essere collante e disgregante del gruppo nello stesso momento, materiale esplosivo e mastice, in un quadro, fatto di percussioni e tagli di luce calda laterali, che non disdegna i toni epici e vi arriva con potenza e pathos.

Interplay dà il via alle sue serate con il botto, la sala in standing ovation e il quadro di una danza, frutto di un proficuo melting pot di danza moderna americana, tradizionale araba e contemporanea europea, in stretto dialogo con un vissuto profondamente segnato dalle sofferenze inferte e subite.