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Morire in volo: Iacopo Braca fuori dal Sotterraneo, oltre il palcoscenico

iacopo bracaMATTEO BRIGHENTI | Fare, dire basta, lasciare, telefonate, testamento. Il 25 aprile scorso, giorno della Liberazione, Iacopo Braca si è liberato dei riflettori. “Da un anno sono fuori dalle nuove produzioni di Teatro Sotterraneo. Ho continuato a fare le repliche dei vecchi spettacoli, ho portato avanti progetti artistici miei, ma a ottobre dirò addio al teatro. Non andrò più in scena, con nessuno.”

Il regista, attore e performer fiorentino adesso vuole essere e fare altro. Morire in volo. 17 anni di teatro, alla Residenza per anziani “Il Giglio” di Firenze, è il primo passo: un “harakiri” condiviso per guardarsi dentro, elaborare i perché di una scelta, comunque definitiva, attorno a un tavolo con estranei e amici, poi maestri, colleghi, amori di una carriera sulla scena “presenti” al cellulare, via Facebook e Skype. Tutti o almeno quelli raggiungibili in 5 ore, dalle 11 alle 16 (poi diventate 18). Da Roberto Corradino a Laura Dondoli, da Giancarlo Cauteruccio a Benno Steinegger a Luca Camilletti.

“La mia non è una scelta di tipo economico, è di vita. Ho nuovi interessi, nuove visioni. Rimanere dov’ero mi è sembrato un limite, anche perché, secondo il mio punto di vista, l’ho già vissuto alla grande.”

Braca parla con serenità spiazzante, ha 34 anni, ma ha già raggiunto ciò che voleva: insieme al collettivo Teatro Sotterraneo www.teatrosotterraneo.it (fondato a Firenze nel 2004 con Sara Bonaventura, Matteo Ceccarelli e Claudio Cirri, ai quali si è unito in seguito Daniele Villa) ha vinto, tra gli altri, l’Ubu Speciale, ha diretto un’opera lirica, Il signor Bruschino di Gioachino Rossini per il Rossini Opera Festival, ha avuto insomma successo, di critica e di pubblico.

“A me è sempre interessato il pubblico. Prima di entrare in scena contavo le persone per capire a quanti arrivava il nostro messaggio. Il teatro è un ottimo mezzo per comunicare. Mi dispiace, però, per i contesti in cui l’abbiamo fatto, sarebbe stato bello andare in spazi con bacini di utenza più ampi.”

Forse è per questa sua “ossessione” di comunicare al maggior numero di persone possibile che anche la scelta di abbandonare il teatro è diventata teatro. L’occasione si è presentata con il progetto Esperimento deserto (http://esperimentodeserto.wordpress.com), liberamente tratto da Il deserto dei Tartari di Buzzati, un percorso di residenze in spazi teatrali e non che affronta il tema della passione, ideato, realizzato e condotto dal compagno d’avventure Alessio Martinoli (Braca l’ha diretto in Fight_tentativi di sopravvivenza dell’essere umano e in Fallo! Un omaggio a Lenny Bruce). Martinoli lo ha invitato a parlare del suo romanzo preferito, lui ha scelto Lo straniero di Camus e ha proposto di usare la giornata per riprendere in mano le tessere del puzzle della sua biografia teatrale e scrivere il libro di cui parlano da mesi. Hanno chiamato quindi il drammaturgo Lorenzo Garozzo (Premio Hystrio scritture di scena 2013 per JTB), con cui hanno collaborato per una delle declinazioni di Fight: sarà lui a sostenere, con Martinoli, lo sguardo e le domande di Braca, lui metterà ordine e darà forma a questa confessione-spettacolo. Così è nato Morire in volo. 17 anni di teatro.

Una telefonata dietro l’altra, Braca scorre i “grani” della sua formazione, gli inizi con Stefano Massini, l’incontro con Claudio Ascoli e la scoperta del teatro fisico oltre quello di parola, la prestigiosa collaborazione con il Living Theatre, finché un giornalista non gli dice: “Che fai? Questa roba è vecchia di 30 anni!” È l’estate del 2004. Deve decidere: partire con loro per New York o dedicarsi seriamente a Teatro Sotterraneo, che ha già fondato per “condividere un percorso con degli amici”. Braca sceglie di dare una possibilità al futuro. “Dobbiamo tutto alla nostra freschezza, all’immediatezza, al lavoro sul ritmo, sulla frammentazione totale come in Post-it e sull’opportunità di far entrare lo spettatore in maniera semplice, anche con una risata. Questi sketch, propri del teatro comico, ma virati sull’ironia, con la possibilità quindi di essere anche seri, erano una novità.”

Poi, finisce la spinta, il razzo perde propulsione, i giorni chiusi in sala-prove diventano un’astrazione dal mondo insopportabile, il sistema si mostra in tutta la sua falsità. Le vie d’uscita per Iacopo Braca sono state il suo matrimonio e la pedagogia: insegnare a dire una cosa e dopo farla, portare avanti obiettivi artistici che abbiano delle ricadute sulla propria vita. “Voglio utilizzare la mia esperienza nell’ambito della formazione. A fine giugno metterò online la mia nuova attività. A ottobre saluterò per sempre il palcoscenico.”

Braca, dunque, dice addio al mestiere del teatrante, non alla disciplina, alla quotidianità, non alla convinzione di stare facendo qualcosa per gli altri, con gli altri, attraverso di sé. Il suo allora non è un abbandono: è la ricerca di una nuova forma di fare teatro. Libera, vera, concreta. Altrimenti, come dice Kostja ne Il gabbiano di Čhecov, meglio niente.

Orphans, una ragnatela che trattiene anche le emozioni

orphansVINCENZO SARDELLI | Orfani di genitori. Orfani soprattutto di valori. Sono i protagonisti di Orphans, pièce teatrale di Dennis Kelly che abbiamo visto allo Spazio Tertulliano di Milano, con Alice Redini, Dario Merlini e Umberto Terruso. Lo spettacolo, con regia di Luca Ligato, presenta le nevrosi di due fratelli verso la trentina legati da un rapporto disfunzionale, un’infanzia trascorsa all’orfanotrofio, chiusi in quel che resta della loro famiglia d’origine. Complici, fino alla collusione.

La scena è una tavola imbandita, sedie e tavolo bianchi. Bianchi come l’intreccio di corde sullo sfondo, intrico, intrigo, ragnatela mortifera. Come la patina di rispettabilità che avvolge il loro tranquillo milieu borghese.

Danny ed Helen, una giovane coppia in dolce (con una punta d’agro) attesa, si accingono a cenare. Irrompe Liam, fratello di lei, agitatissimo, la maglietta sporca di sangue. Qualcuno è ferito, potrebbe essere morto. Che fare? Prestargli soccorso? Chiamare la polizia? Far finta di niente? Soprattutto: qual è il ruolo di Liam nella vicenda?

Inizia un estenuante scaricabarile, un palleggio di ricatti morali che cristallizza la situazione allo status quo. La maglietta di Liam scaraventata in lavatrice, con tanto d’occultamento delle prove del reato, è metafora di una realtà ipocrita avvitata in se stessa. Liam nasconde scheletri nell’armadio, ma anche sorella e cognato non scherzano: i suoi sono solo più smaccati.

Ognuno cela un lato sordido. Ognuno si adegua al cinismo altrui. È un “armiamoci e partite” della moralità. Anche il cibo è allegoria di rimorsi da soffocare: una mangiata li seppellirà.

La coscienza abbrutita porta i protagonisti alla quiescente accettazione del peccato: si chiama omissione. Ognuno delega, tutti lasciano la palla a tutti. Danny prova a uscirne, ma è uno slancio morale velleitario. Rinuncia: per quieto vivere, per tiepidezza, perché assorbito negli ingranaggi al ribasso dei due fratelli. Prevale la scelta di non osare. L’adeguamento è resa, è colpa. La verità viene a galla, con un retroterra di violenza, qualunquismo, sospetti e razzismo. In questa famiglia mettere al mondo un figlio non sarebbe dono ma coazione a ripetere.

Questo testo ha qualcosa della catarsi delle tragedie classiche: rifiutiamo l’abiezione, l’ipocrisia, il cinismo mascherato da pietas familiare. Ma la qualità globale dello spettacolo non convince. I dialoghi saranno pure realistici, ma anche ripetitivi, soprattutto ai fini di una drammaturgia. I protagonisti sono schematici, privi di sfumature, prevedibili. Tipi, più che personaggi: il contrario della bugia non è la verità, ma la complessità. La stessa recitazione, i gesti, sono meccanici. Non emerge questo grande amalgama tra gli attori, che ogni tanto provano a regalare la vibrazione di pancia, con accessi d’ira inconsulti e scoppi passionali che appaiono però premeditati, poco spontanei. La regia è senza sussulti, partendo dai suoni e dalle luci.

C’è spazio per la catarsi, riflettiamo su una società contemporanea in via d’implosione. Le emozioni, però, sono un’altra cosa.

Un metodo errante per l’infanzia: Conversazione con Chiara Guidi/Socìetas Raffaello Sanzio

Chiara guidi FRANCESCA GIULIANI | Terminata la quarta edizione delle giornate di puericultura teatrale a Cesena, Chiara Guidi ci racconta “Puerilia”, un festival che nasceva con l’intento di dilatare la visone che sta attorno alla concezion del teatro dell’infanzia.  

PAC: Partiamo dal termine “teatro dell’infanzia”. 

CHIARA GUIDI: Ho sempre utilizzato il termine “infanzia” perché indica non tanto una tipologia di età, una generazione, ma una predisposizione a vedere le cose sospendendo l’uso immediato della ragione. Nel bambino la distanza tra la percezione e il ragionamento è breve. A guidarlo nell’esperienza del mondo è la logica della sensazione, la stes
sa che dà voce al movimento messo in moto dall’opera. L’infanzia, è, per me, parte integrante del lavoro artistico perché mette in campo quello sguardo che sento la necessità di riacquistare: lo sguardo dell’immaginazione.

PAC: Da festival a giornate di puericultura teatrale: com’è avvenuto il passaggio?

CHIARA GUIDI: “Puerilia” si è inserito come una presenza anomala all’interno del programma teatrale che il comune di Cesena organizza per le scuole. Volendo scardinare la logica del teatro cosiddetto “per ragazzi”, sentivamo la necessità di azzardare una forma che facesse scaturire una relazione diversa tra l’arte e l’infanzia e ci chiedevamo come il teatro di ricerca potesse soddisfare le richieste di un teatro rivolto ai bambini. Ho invitato gruppi teatrali contemporanei, tra i quali i Pathosformel, i Santasangre, e ho inscritto i loro spettacoli di ricerca in una precisa cornice all’interno della quale si potesse scatenare un racconto. Questo perché il rapporto con l’infanzia, oltre ad avermi ricordato l’urgenza di verità di cui necessita il racconto, mi ha fatto comprendere che l’unico modo possibile per creare una relazione con il bambino è attraverso la narrazione. Da festival “Puerilia” si è, poi, cambiato in giornate di studio dedicate all’infanzia in relazione al teatro e, in generale, all’arte. È questo il momento in cui ho cominciato a riflettere su quale sia il metodo che mi ha guidato e mi guida, tutt’oggi, nel lavoro con l’infanzia.

PAC: Com’è avvenuta la strutturazione del Metodo Errante?

CHIARA GUIDI: Sentivo che per parlare della nostra ricerca teatrale dovevo mettere a fuoco il metodo che sottende la nostra pratica artistica che già dalla fine degli anni Ottanta si è rapportata con l’infanzia. La nostra attenzione è rivolta a un tipo di spettatore che non è il bambino ma uno spettatore che accetta di vedere nella forma teatrale un principio di movimento. La forma teatrale, l’arte in generale, mette in moto l’immaginazione di chi guarda. L’arte ci chiama a entrare dentro e questo è ciò che noi le chiediamo, di entrare in un’altra visione possibile della realtà. È da questa condizione che parto per interrogarmi sul chiamare i bambini all’arte. I bambini non ci chiedono arte, ma una relazione d’arte, che porta a un vedere e percepire la realtà da un’altra prospettiva.

PAC: Il Metodo Errante mette in gioco tre figure: i bambini, gli insegnanti e gli attori. Partiamo dai corsi di aggiornamento per gli insegnanti delle scuole di Cesena.

CHIARA GUIDI: All’inizio della cultura umana, era per intuizione immaginifica che l’uomo poteva conoscere. Quest’immaginazione, oggi, non è più l’oggetto della nostra conoscenza. Pensando, ad esempio, alla scuola, è difficile che un insegnante si rivolga a un bambino da un’angolazione immaginifica, anche se, per attirare l’attenzione sul bambino, è necessario utilizzare il suo sguardo e quindi accettare che l’immaginazione diventi una forma di conoscenza. Questo è ciò che ho proposto agli insegnanti: una visione di arte che mettesse in relazione la reazione del bambino rispetto all’oggetto artistico. Ho iniziato con il Potere analogico della bellezza, quindi la metafora; poi, il Potere analfabetico della fantasia, quindi la sospensione del ragionamento, e quest’anno, il Potere anacronistico dell’anima.

PAC: Che cosa intendi per anima? 

CHIARA GUIDI: L’anima è difficile da poter circoscrivere come definizione, se non ricorrendo agli antichi, ai filosofi, eppure ci riguarda. Rispetto a una sensazione che nasce spontanea all’interno del proprio corpo, l’anima è l’innamoramento, la scintilla che guida l’espressione attraverso delle rappresentazioni, delle immagini, degli inseguimenti, dei contatti, delle sospensioni. Si tratta di un atto d’amore, com’è un atto d’amore che lega l’artista all’opera d’arte, com’è un atto d’amore quello che porta un bambino a giocare scoprendo nella forma della sedia un cavallo.

PAC: Che tipo di rapporto creativo instauri con gli attori?

CHIARA GUIDI: Con gli attori c’è una fase preliminare d’incontro. Mi presento davanti a una quindicina di attori il venerdì prima dello spettacolo, racconto una vaga traccia di quello che vorrei realizzare e attraverso di loro individuo dei ruoli. Gli consegno l’incipit di uno spettacolo di cui non conosco il corpo. Poi il venerdì notte lavoro, il sabato si prosegue, la domenica mattina nasce il finale e nel pomeriggio si va in scena. La preparazione è velocissima e c’è il rischio di incontrare attori che non hanno quella capacità di cui ti aspetteresti, ma qui sta l’abilità, nel poter far emergere una verità.

PAC: Come organizzi lo spettacolo in previsione dell’ingresso dei bambini in scena? 

CHIARA GUIDI: Ho assunto nella forma di preparazione degli spettacoli le caratteristiche del gioco infantile e il gioco, quando nasce, è spontaneo. La struttura che scrivo concepisce la reazione del bambino e so, grazie all’esperienza, alla maternità, che il bambino è una figura d’arte che va a completare la struttura che metto in moto. La struttura è in potenza, è la geografia del luogo, è la messa a fuoco dello spazio entro il quale poter agire e suscitare l’azione. Non creo lo spettacolo per il bambino ma con il bambino che viene a completare una struttura che lo attende.

PAC: “Non possiamo creare osservatori dicendo ai bambini: “Osservate!”, ma dando loro il potere e i mezzi per tale osservazione, e questi mezzi vengono acquistati attraverso l’educazione dei sensi”, scriveva Maria Montessori. Se per insegnati e attori, gli adulti, il Metodo Errante è un andare verso, con i bambini si tratta di un errare per, a favore di uno spettatore futuro, anche?

CHIARA GUIDI: Perché dobbiamo dire “Osserva!” se lo sguardo lo mettiamo già in atto vivendo in un ambiente che ci invita, costantemente, all’osservazione? La distanza che creiamo tra la parola e l’azione non fa altro che ritardare una responsabilità personale rispetto alla realtà e alle cose che ci circondano. Se noi ritorniamo a una visione personale della realtà, se torniamo all’autorevolezza della persona e a una personalizzazione della cultura, allora possiamo creare non solo uno spettatore futuro, ma anche un uomo in grado di vedere, nella realtà, quello che la realtà nasconde. C’è un processo metaforico tra me e l’oggetto che guardo, che anche la scienza riconosce attraverso la sistematizzazione di leggi che rivelano uno sforzo per vedere oltre la realtà. Questa è, anche, la capacità dell’arte: dire cose che diversamente non si potrebbero dire. Come potrei parlare della morte al bambino se non avessi l’arte? Come potrei parlargli delle relazioni litigiose tra famigliari, che magari vive, se il teatro non mediasse sublimando questa separazione con il gioco? Come la favola, l’arte diventa una proposizione interessante da rivolgere al bambino per evitare di dirgli “Osserva!”, ma perché quell’osservare diventi una pratica.

Masterpiece, il talent da esportazione e le seconde opportunità

masterpiece-620x350 ALESSANDRO MASTANDREA | Chi ha detto che l’Italia è incapace di innovazioni? In campo televisivo lo è eccome, pur non rinnegando, come nel caso della RAI, la propria tradizione di servizio pubblico. La TV nutre da sempre un forte interesse per le tragedie ma si dimostra assai sensibile anche alla vita e le opere dell’uomo comune, meglio se specializzato in attività buone per il genere tanto in voga dei talent show. Una televisione delle arti e dei mestieri, purché presentabile all’interno della cornice televisiva.
Ed è sotto questa luce che va letta l’esperienza, conclusa da qualche settimana, di Masterpiece, il primo talent show pensato per scoprire il caso letterario del decennio. Idea tutta italiana, nella quale autori del calibro di Edoardo Camurri e Massimo De Cataldo, hanno tentato di conciliare l’anima pedagogica di Alberto Manzi, allo spirito televisivo del tempo, concedendo qualcosa ai format di consumo, sempre buoni per l’esportazione. In fatto di innovazione MP è una sorta di fusione a freddo, di assemblaggio di parti anatomiche provenienti da corpi (media) differenti, applicando le regole dell’uno alla materia dell’altro. Una fusione tra i caratteri a stampa di Gutenberg e la TV del nuovo millennio, quella delle prove a tempo e degli stress test. Poco importa se, nel caso specifico, l’esito di queste prove salti fuori da una stampante digitale – sorta di monolite kubrickiano da cui dipendono i destini dei concorrenti – ben lontana dalle analogiche macchine tipografiche, o magari i complimenti per la trasmissione viaggino via Twit alla velocità della luce, anziché per posta cartacea.
Nel villaggio globale di questi giorni post-moderni, la TV è soprattutto contaminazione, anche tra media caldi e media freddi, per citare McLuhan. Gli esperimenti, tuttavia, soprattutto quelli dalle pretese troppo ardite, tanto più interessano gli addetti ai lavori, tanto meno gli spettatori: con lo share che a fatica ha raggiunto la soglia del 3%.
Essere o non essere? Popolare o colto? Dilaniata dal dubbio, la trasmissione è sembrata indecisa se abbracciare la propria vocazione alta e letteraria, oppure quella meno pregiata, ma più spettacolare, dei talent. Con l’ambizione per i grandi ascolti, capita ad esempio che Masterpiece saccheggi topos televisivi a piene mani: partendo dal nome del programma dal retrogusto così culinario, fino ad arrivare all’impianto liturgico e al tris di giudici, vero e proprio codice espressivo di genere. Ciascuno dotato di una propria specificità, Taye Selasi, Andrea De Carlo e Giancarlo De Cataldo, alquanto ricordano i tre pistoleri dei western di Sergio Leone, con la parte del cattivo appannaggio del solo De Carlo. Sempre uniti e solerti nel giudizio insindacabile sulle fatiche dei concorrenti, magnanimi e comprensivi se l’occasione e l’umore del momento lo concedono, ma anche incondizionatamente spietati nei confronti di coloro che peccano di una certa alterigia. Pare, inoltre, che i format declinati all’italiana abbiano una peculiarità in più: quella cioè di dotarsi di un giudice che non abbia particolare dimestichezza con il lemma nostrano, mentre invece si trovi particolarmente a proprio agio nel lancio di artefatti, segno inequivocabile di massima disapprovazione nei confronti del concorrente.
Sono le motivazioni dei partecipanti, tuttavia, a definire il nocciolo primario anche di questo talent. Solitamente divisi in due categorie, da una parte vi sono coloro che sono spinti dalla necessità di colmare una mancanza, un disequilibrio esistenziale, di avere una seconda opportunità per cambiare la propria vita, come dall’altra vi sono quelli spinti da una sorta di vocazione al successo, di vera e propria predestinazione. Se in MP il numero degli appartenenti al primo gruppo è maggiore, forse per l’età media non proprio bassa ma anche per la mancanza cronica di opportunità di cui soffre il nostro Paese, quelli del secondo compensano per determinazione e tensione agonistica. Tra tutti però l’ha spuntata l’outsider Nicola Savic, che non si è lasciato sfuggire l’opportunità del nuovo inizio, vincendo la puntata finale col suo “Vita Migliore”, romanzo stampato in centomila copie da Bompiani. Per un ragazzo di origine serba, in un’Italia con un tasso di disoccupazione giovanile al 41%, una bella dimostrazione di integrazione. Peccato si tratti solo di TV.

Una nuova vita: oggi i 100 anni di Malamud

Bernard Malamud - L'uomo di KievEMANUELE TIRELLI | Un incidente devastante all’età di diciotto anni fece di Frida Kahlo uno degli artisti più famosi al mondo. Per Bernard Malamud iniziò invece tutto all’età di nove anni, quando convalescente per una polmonite ricevette in dono dal padre “Il libro della conoscenza”. Quell’enciclopedia per ragazzi rappresentò il suo primo contatto con la letteratura, primo e mai ultimo. Studente attento e appassionato, lettore instancabile e poi autore sorprendente, uno dei migliori che la narrativa abbia avuto. Nato e cresciuto a Brooklyn da un bottegaio e da sua moglie, entrambi ebrei e ucraini emigrati in America, porterà la sua vita e le sue origini nelle pagine che scriverà insieme all’importanza dell’esperienza. Quell’esperienza che insegna e permette di migliorare, cambiare e concedersi una seconda opportunità, “Una nuova vita”. Ma è anche e soprattutto l’autore del destino contrario, degli inciampi continui e dei ceffoni presi da una vita con le mani bagnate. Uno dei narratori che con i suoi personaggi ha saputo descrivere meglio le condizioni umanamente più difficili del suo tempo.
Il 26 aprile Malamud avrebbe compiuto 100 anni e la Mondadori lo celebra con il primo volume di un Meridiano che contiene romanzi e racconti scritti tra 1952 e il 1966, mentre Minimum Fax ha già deciso di applaudirlo con affetto e riconoscenza da qualche anno pubblicando tutte le sue opere, oramai fuori catalogo con Einaudi. Pochi mesi fa è stata la volta de “Il commesso”, mentre da aprile è in libreria “L’uomo di Kiev” che valse un Premio Pulitzer e un National Book Award.
Schivo, riservato e poco avvezzo a interviste e conversazioni sul proprio mestiere, Malamud visse sempre con la stessa donna, madre dei suoi figli, nella stessa casa e pubblicò sempre con lo stesso editore. Dalla sua opera prima The Natural (tradotto in italiano come “Il Migliore” e “Il fuoriclasse”) fu tratto un film con Robert Redford poco apprezzato dagli amanti di Malamud e dallo stesso autore. E poi The assistant (in Italia “Il commesso” e “Il ragazzo di bottega”) nel quale trae chiaramente ispirazione dalla figura di suo padre per creare il personaggio di Morris Bober. “Una nuova vita”, meraviglioso romanzo di cambiamento e possibilità, molto vicino a “La fine della strada” di John Barth e a parte della produzione di Richard Yates. E poi ancora “Le vite di Dubin”, “Gli inquilini”, “Ritratti di Fidelman” e le raccolte di racconti “Prima gli idioti” e “Il barile magico”, ancora disponibili in Italia in nuove edizioni, mentre “Dio mio, grazie” e “Popolo” non sono più rintracciabili se non a prezzi consistenti su ebay. A 100 anni dalla sua nascita, forse l’augurio più grande è che l’attività di Minimum Fax e Mondadori riesca a puntare nuovamente i riflettori su uno degli autori più interessanti e dei maestri delle storie brevi che la letteratura abbia mai avuto e che nel nostro Paese, come molti suoi colleghi americani, è ancora pressoché sconosciuto al grande pubblico che legge.

Victor Ullate Ballet a Milano: dedicato a Maurice Béjart

victorVINCENZO SARDELLI | Coralità, icasticità, molteplicità. Una danza rapida e briosa. È lo stile del Victor Ullate Ballet – Comunidad de Madrid, per la prima volta a Milano al Teatro Manzoni con Jaleos, Y, Après toi (omaggio a Béjart) e Bolero. Quattro coreografie, quadri narrativi diversissimi per genere. Un acuto senso del teatro e dell’utilizzo dei suoi strumenti. Saggezza, umanità. Balletto popolare. Libertà fisica e morale. Il tutto innestato su una solida base di scuola di repertorio. Sulla scorta del suo maestro Maurice Béjart, cui lo spettacolo è dedicato, Victor Ullate realizza uno show totale, senza tutù o fondali di cartapesta. Gesti e parole scelti, scene, musiche ed effetti speciali curati nei dettagli, rendono intrigante la performance: ballare è una virtù del cervello. Jaleos (musiche Luis Delgado) è una danza ritmata, elegante. A muoversi sono non soltanto ragazze in body e danzatori a torso nudo, ma anche le loro ombre geometriche, coreografie in alabastro. Si alternano movimenti dalla pulizia classica e mosse da ballo moderno. Questa danza si affida alla consapevolezza della propria corporeità. Come in una sorta di Tempi moderni della coreografia, gli ingranaggi si combinano calibrati. Creano gesti rotondi, ben orientati nello spazio-tempo. A ritmo tribale si animano fondi monocromi color pastello, fino all’epilogo pirotecnico.

Y, pax de deux maschile, è ispirato al Lieder eines fahrenden Gesellen di Gustav Mahler. Il direttore artistico della compagnia Eduardo Lao dà forma all’umanità e al destino con un brano dove virtuosismo e perfezione s’inseguono. rappresenta l’incontro fra gli influssi positivi e negativi dell’essere umano. Un pessimismo di fondo accompagna l’oscillare dei sentimenti. La visione ironica e amara dell’esistenza è contrapposta a un sommesso lirismo, che tende a sciogliersi in un canto di speranza malinconico. L’anelito romantico a una natura incontaminata, la ricerca di un’armonia perduta, sono ben resi dai due ballerini, uno in rosso, l’altro in blu, premurosi nel risollevarsi dopo ogni caduta. In questa danza solenne si rispecchiano i caratteri più sofferti della personalità romantica di Mahler. Più che l’originalità, ammiriamo la felicità espressiva, caratterizzata non solo dall’introduzione di nuovi timbri di movimento, ma da un insolito utilizzo degli strumenti espressivi tradizionali. La vigorosa danza a due è un tentativo di esorcizzare i presagi di morte tipici dell’alienazione e del tormento romantici. L’ipertrofia dei linguaggi esprime un rapporto “totale” con il mondo. L’esigenza di rapporti comunicativi oggettivi con lo spettatore non intacca l’alone d’ambiguità. Questo ballo didascalico rivela la convinzione che l’arte debba mantenere un contenuto morale estraneo al formalismo della danza pura. Mira al suono della natura, a una condizione primordiale di purezza espressiva che qui s’identifica con il mondo degli umili.

Après Toi (Omaggio a Béjart), è un assolo in cui la luce crea la forza e la forma. Il vigore poietico caravaggesco si coniuga con lo spirito rarefatto del Secondo movimento della Settima Sinfonia di Beethoven. Eppure i conti sembrano non tornare in questa danza magnificente, brillante, a tratti inafferrabile nella sua meravigliosa doppiezza. Emerge la tendenza all’equilibrio, fondato su un ordine che via via si ricompone e, quasi tirando le somme, riconosce i propri valori, legandosi ad atteggiamenti spirituali più contenuti e sereni: come di chi, lasciate le tenebre alle spalle, s’immerga con gioia nella luce aurorale di un nuovo ciclo. L’esuberanza ci trascina attraverso gli spazi della natura. La Sinfonia è l’apoteosi della danza nella sua suprema essenza, l’attuazione del movimento del corpo quasi idealmente concretato nei suoni. Victor Ullate viaggia verso un modo nuovo di concepire il balletto, fondandosi sul contrasto nel fluire del tempo degli elementi musicali organizzati al loro stadio primario: essenzialmente, come successione e opposizione di ritmi. Il balletto è sublimazione del ritmo musicale. È un tripudio luminescente, una sensazione di vitalismo, di gioia strappata ai fantasmi interiori.

La quarta coreografia è quella più teatrale, anche per la scenografia anni Trenta: tavolini neri, luci da night, ragazze in tenuta da charleston, atmosfere fumose da café chantant. L’iniziale brano Paris è spiazzante: poi parte il Bolero di Ravel. Una coppia in primo piana dà il via al rituale di corteggiamento che si farà sempre più vigoroso, aggressivo, fino al climax dell’amplesso. Ad accompagnarla gli altri ballerini, di cui danzano sguardi, mani, braccia. L’allegria è contagiosa. La sensualità esplode colpendo nel mucchio. L’amore è sentimento atavico, possessione che colpisce a prescindere dall’identità di genere. Victor Ullate con il suo balletto si fa antesignano di un messaggio di tolleranza. Trascina palco e platea in un crescendo d’intensità tipicamente spagnolo, rovente, forse però un po’ distante dalla sobrietà intimistica, sopita, spirituale (e pertanto più poetica) del suo maestro Béjart.

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Eva Braun e Rossella o’Hara: tra campi di sterminio e campi di cotone

ELENA SCOLARI | eva-sito-2A voi sarebbe mai venuto in mente di accostare Rossella o’Hara ed Eva Braun? Sì sì, proprio Vivien Leigh e la donna di Hitler. Adolf Hitler. A me no, confesso, ma a Massimo Sgorbani sì. E forse è per questo che io non scrivo testi teatrali ma sono qui comoda comoda a criticarli. Già.

Eva è una parte di Innamorate dello spavento, progetto di Renzo Martinelli su testi di Sgorbani interpretati da Federica Fracassi e dedicati alle donne di Hitler, o meglio alle “femmine” di Hitler, dal momento che anche di cagne si tratta (altro capitolo del pacchetto Führer è Blondie, il suo pastore tedesco).

Via col vento pare fosse il film preferito della Braun, Sgorbani e Martinelli provano a indagarne i motivi. Come mai una donna che si è messa al fianco del “malvagio” amava il simbolo della romanticheria cinematografica? Forse per lo stesso motivo per cui al kapò nazista piaceva Biancaneve e i sette nani? Per una sorta di rifugio positivo in ingenuo contrasto con la propria inqualificabile condotta?

Eva Braun amava Hitler probabilmente di un amore folle, folle tanto quanto lui, un amore sottomesso e fedele, accecato fino alla prostrazione. Fracassi, bravissima, recita una lunga scena erotica di pissing, che pare tanto eccitasse l’uomo, come dimostrazione di un’intimità perversa e quasi infantile, tra loro. Se possiamo capire e condiscendere al parallelo di fascinazione di una donna per il potere e per uomini che giocano alla guerra, fatichiamo però assai a paragonare seriamente la coppia Hollywoodiana con quella del Reich. Clark Gable è un’irresistibile canaglia e Scarlett è molto innamorata di lui, vero. Drammaturgicamente parlando, ci pare un po’ poco far esclamare spesso alla Braun “per dindirindina!” e proiettare le immagini del film per rendere giustificata l’idea teatrale.

La Sala Bianca del Teatro Sociale di Como ha ospitato un allestimento inusuale dello spettacolo: le immagini di Via col vento campeggiavano infatti tra stucchi, specchi, arredi antichi e soffitti decorati, l’utilizzo dei lampadari d’epoca hanno creato un bell’effetto, straniante e avvolgente, ma nonostante questa facilitazione visiva e nonostante l’indiscussa bravura di Federica Fracassi, capace di passare dalla gioia bambinesca alla peggior invidia femminile, dal ridicolo al tragico sempre con mirabile forza, abbiamo avuto la sensazione che l’operazione risultasse forzata, e che anche un’ottima attrice sembrasse al servizio di un esercizio non del tutto convincente, alla fine.
La governante Mami, grassa, nera, rassicurante nel suo grembiule a quadretti, compare nei fotogrammi che scorrono sulle pareti ed è la voce del buon senso che rimprovera di tanto in tanto Miss Braun per il suo discutibile comportamento. Magari quei due nazisti avessero avuto servitù decisa come quella!

Ma siamo sinceri: mentre scriviamo e descriviamo Eva, la scelta di avvicinare teatralmente la o’Hara e la Braun ci pare artificiale ma soprattutto poco foriera di pensieri interessanti.
Divi luccicanti e cupa opacità del male. Devozione in technicolor? Se in “Him“, performance del gruppo Fanny e Alexander che vedeva Marco Cavalcoli vestito da Hitler, in ginocchio (come nell’installazione di Maurizio Cattelan), davanti alla platea, impegnato a doppiare tutti i personaggi del Mago di Oz proiettato alle sue spalle, l’intento denigratorio e umiliante è dichiarato, qui il tentativo di entrare nella tragedia psicologica della donna fino al suicidio rimane, a nostro avviso, ambiguamente sospeso tra messa alla berlina e compassione.

Buchettino o della favola del teatro

Buchettino-Pasello2NICOLA ARRIGONI Buchettino della Societas Raffaello Sanzio non è solo uno spettacolo, è l’inizio della più accreditata compagnia di ricerca del teatro italiano, è un classico in cui il teatro si fa esperienza. Per questo motivo – forse – vive di una sua longevità che non è concessa facilmente al sistema teatrale e produttivo italiano. Buchettino è l’immagine metonimica della Societas Raffaello Sanzio, è la parte e il tutto di un estetica in nuce che chiede allo spettatore di essere autore, di essere parte dello spettacolo, qui realmente per l’annullamento delle distanza fra palco e platea, negli spettacoli proposti in questi decenni dalla Societas intellettualmente. L’allestimento – ideato da Romeo Castellucci e Chiara Guidi e Claudia Castellucci – è complesso e affascinante. Romeo Castellucci si è inventato una baracca con cinquanta lettini in cui altrettanti spettatori sono chiamati a distendersi. Lo spettacolo è pensato per bambini dagli otto anni ai 90: come dire vuole recuperare un antico rito: quello del raccontare le fiabe. Ed in fondo è quanto accade. Invitati dall’attrice/narratrice Silvia Pasello per una sera si è bambini prima della nanna, infanti che attendono il racconto notturno. La storia narrata non è delle più tranquillizzanti, si tratta di Buchettino di Charles Perrault, altrimenti noto con Pollicino. La vicenda di Buchettino e dei suoi fratelli, prima abbandonati dai genitori per troppa miseria ed egoismo, poi in balia dell’orco del bosco è nota, ma la curiosità e il coinvolgimento dello spettacolo della Societas Raffaello Sanzio sta nel tempo e spazio presente del teatro. Distesi sui cinquanta lettini si è ‘bambini’, il racconto della fiaba diviene realtà, incubo sonoro. I passi, l’aprire e chiudere le porte, il muoversi dei genitori di Buchettino sono raccontati da Silvia Pasello, ma diventano presenze ‘reali’ nel qui ed ora della scena grazie all’ambientazione sonora realizzata da Romeo Castellucci. La distanza del narrare si annulla, e il racconto diventa esperienza esperita direttamente. Si passa lentamente dall’assistere ad una storia all’essere nella favola. Pian piano la narratrice diviene personaggio, assume la voce dell’orco, si muta da raccontatrice a personaggio mimico/sonoro. Così gli spettatori/bambini da piccoli in attesa di addormentarsi, diventano Buchettino e i suoi fratellini. E’ questo accorciarsi delle distanze, sono le suggestioni sonore che circondano e invadono quella stanza/baracca di legno immersa in un’oscurità rotta solo da una lampadina a fare di Buchettino non solo uno spettacolo, un classico che è in tour da almeno quindici, vent’anni, ma a farne una bella esperienza e al tempo stesso una riflessione sulla forza della narrazione, sulla capacità del teatro di evocare e inventare la realtà, accorciando le distanze col mondo della fantasia e delle favole. E scusate se è poco.
Buchettino, da Le petit poucet di Charles Perrault, scene e ambientazione sonora Romeo Castellucci, adattamento del testo Claudia Castellucci, narratrice Silvia Pasello
regia Chiara Guidi; Produzione Socìetas Raffaello Sanzio, visto al Comunale di Casalmaggiore, il 10 aprile 2014.

Doris Day, Herbert Marcuse e la donna a una dimensione

Doris Every Day
Fotografia di Alfonso Germanò

SILVIA TORANI | Doris non è nata bionda, ma sua madre sì, e anche sua nonna. Doris ha dovuto studiare per diventare quello che è. In suo soccorso arrivano i mille prodigi dell’industria: acqua ossigenata per schiarire i capelli; peeling chimici per levigare la pelle; botox per stendere le rughe e nascondere i pensieri. Prodotti di consumo che sono i suoi amici e le sue frequentazioni quotidiane. Perché creato il problema, trovata la soluzione… e il primo giro è gratis. Tutti possono essere felici con una tonalità di biondo adeguata e il giusto paio di scarpe.

Quella descritta in Doris Every Day, al teatro Studio Uno di Roma per la regia di Pietro Dattola, è una lotta senza fine, un campo di battaglia che non si può abbandonare senza perdere la guerra. Del resto se non si è disposti a spendere un impegno costante per raggiungere i propri obiettivi è “inutile pretendere di stare al mondo”, proclama la voce distorta di Doris, posseduta dal fantasma della madre ogni volta che le luci si spengono. Perché Doris vive dello sguardo altrui; quando nessuno può vederla smette quasi di esistere, nell’oscurità torna bambina in balia di un super-io perverso che la nutre col suo latte malato. Quando sulla scena torna la luce, la sorprendiamo a succhiare avidamente una fetta di limone, da cui sembra trarre la forza per emergere dal buio e vestire il contegno che la madre le ha insegnato. Nella sua personale casa di Barbie a dimensioni reali, una stanza tappezzata di abiti rosa appesi a un filo, Doris sposta le sedie, ruota le tazzine da tè sul tavolino, sistema i limoni su un vassoio in composizioni simmetriche, ma appena sotto l’illusione del controllo e l’ansia di perfezione giace una pulsione di morte negata e respinta a colpi di sorrisi tesi come smorfie.

Doris non può seguire il suo Ken fuori dalla scena, perché non vuole uscirne: il piccolo mondo artificiale che ha ricevuto in eredità da sua madre e da sua nonna è troppo bello, troppo perfetto, pulito e senza ombre per farne a meno. Finché continueranno ad arrivare scorte di botox e deodorante spray non ci saranno problemi e lo spettro latente che vorrebbe assalirla al primo cedimento potrà essere tenuto a bada. L’arco in muratura del proscenio diventa così la cornice invalicabile dello specchio in cui desidera restare rinchiusa. “Se guardi lo specchio, lo specchio ti guarda” è il mantra che la madre recita alla piccola Doris, e forse la bambola meccanica senza età che tende le mani verso gli spettatori, indirizzandogli uno sguardo implorante mentre il suo universo crolla, altro non è che il nostro riflesso. Siamo vittime dello stesso ricatto che soggioga e vampirizza Doris, ci nutriamo delle stesse sicurezze, degli stessi bisogni, delle stesse illusioni.

Nonostante una certa ambiguità di fondo, per cui la regia non riesce mai a risolversi del tutto tra superiorità derisoria e partecipazione, e su cui la stessa promozione gioca, offrendo a tutti i biondi (naturali o artificiali) una riduzione sul biglietto d’ingresso, l’opera ispirata, inquietante e ironica di Laura Bucciarelli è molto più di una semplice riflessione sui canoni estetici contemporanei. L’assenza di un vero e proprio sviluppo narrativo non compromette la vivacità del ritmo, calibrato sulle ripetizioni e rafforzato dai molti spunti di virtuosismo attoriale puntualmente colti da Flavia Germana De Lipsis, sensibile interprete di Doris; al contrario, permette alla descrizione dei meccanismi di oggettivazione del corpo femminile di diventare il pretesto per un acuto scorcio marcusiano sulla società del benessere che vuole metterci tutti in discussione, senza distinzioni di genere.

La scena frantumata. Visioni da “Puerilia” 2014

La schiena di Arlecchino di Chiara Guidi, foto di Simona  BarducciFRANCESCA GIULIANI | L’atto del vedere non è mai ricettivo: è un processo di selezione di proiezioni di significati, di emozioni, che fanno si che l’atto visivo non sia per nulla un atto naturale, ma un atto di pensiero, afferma Stefani Chiodi, critico d’arte con il quale si è chiuso il ciclo di dialoghi tra spettatori e pensatori (Massimo Recalcati, Andrea Canevaro, Maria Rosa Sossai e Louise Ejgod Hansen) sull’arte nel nostro tempo, tenutosi al Teatro Comandini di Cesena durante “Puerilia”. Nel quarto anno di attività, Chiara Guidi/Socìetas Raffaello Sanzio, ideatrice e direttrice delle giornate di puericultura teatrale, si concentra sul suo Metodo Errante, un linguaggio d’arte che non cerca la scrittura di una regola ma la domanda che muove il pensiero. Il Metodo si sviluppa in tre movimenti: verso gli insegnanti, con dei seminari (Il potere anacronistico dell’anima, 2014, Il potere analogico della bellezza, 2013, e La potenza analfabetica della fantasia incentrati sulla creazione degli spettacoli, 2011), verso gli attori, con due laboratori (per 15 partecipanti) incentrati sulla creazione degli spettacoli, e per il bambino stesso.

Sulle azioni teatrali.
La schiena di Arlecchino e La tana dei lombrichi sono forme teatrali aperte, che accolgono la partecipazione dei bambini nel gioco teatrale per attivarlo. Chiara Guidi, presenza silenziosa che si muove sulla scena con sguardo registico e stupore per l’inaspettato, presta costante attenzione a ogni gesto, parola, azione.
Dal fuori prende forma La schiena di Arlecchino, spettacolo senza storia, dove l’intreccio si costruisce sulla ricerca della storia stessa. I bambini si avvicinano all’ingresso e una figura, addormentata, si sveglia. La porta si socchiude e qualcuno ruba il contenuto della scatola che l’attrice stringe in mano. È la storia, bisogna trovarla. Ha inizio, così, il viaggio all’interno del corpo del teatro. Come Pinocchio che percorre il ventre della balena per cercare il suo artefice, Geppetto, qui, troviamo ciò che dà origine all’artificio teatrale: Buio e Luce, in lotta. Un’attrice sola e in nero, la prima, moltiplicata in più attrici di bianco vestite, la seconda. Chi ha più importanza? Nel conflitto le scene si modificano continuamente sotto i nostri occhi e i nostri passi, fino a raggiungere il climax finale. Nel luogo che per definizione deputiamo teatro, dove scena e platea sono ben distinte, avviene il ritrovamento della storia: è il mondo di Arlecchino, un oscuro spazio, dove alcune figure femminili, come Parche, intrecciano con i bambini fili di lana.
In La terra dei lombrichi folgoranti immagini scenografiche trasformano la visione dello spazio. Il luogo del climax è lo stesso, trasfigurato in un sotterraneo immerso nella nebbia, abitato da una bizzarra figura pelosa. Nel foyer attrici e bambini sono intenti a strappare brandelli di stoffa bianca, attorniati da attori vestiti come maschere del teatro. Tra questi spicca la figura del maestro, al quale sono rivolte domande intorno ai sentimenti scritti sulle magliette dei bambini e di una delle attrici che, a differenza delle altre, veste di nero e indossa il sentimento amore. Da qui parte l’azione e lo spazio si apre: appaiono i lombrichi senza volto e il loro signore, Morte. Il viaggio, la ricerca dell’amica di Amore, rapita da Morte, si trasforma in una sorta di discesa agli Inferi, dove la giovane attrice, seguita da spettatori, attori e bambini, scende, novella Orfeo, senza alcun timore.
Sugli “oggetti-luoghi”.
Gli “oggetti-luoghi” assumono la stessa forza degli spazi aumentandone il significato. Il grande tavolo di legno, la vetrata che dà sul foyer, e il luogo del climax come accennavo sopra, assumono, si potrebbe dire, la funzione che avevano i luoghi deputati nel teatro medievale. Il tavolo è il luogo di partenza e di ritorno, la scena primaria, il tramite per intraprendere il viaggio. Là si riuniscono bambini e attori per attivare l’azione. È sotto quel tavolo imbandito di fiori e scatole che, in La schiena di Arlecchino, si nasconde Luce rapita da Buio, lì avrà esito il conflitto. È attorno a quel tavolo coperto di stoffa che, in La terra dei lombrichi, bambini e attori si riuniscono, lì che assistiamo all’abbraccio tra Morte e Amore. La grande porta a vetri è il luogo di passaggio tra le azioni iniziali e quelle finali. Attraverso questa zona liminare la scena si sdoppia in due azioni contemporanee. Se, in La schiena di Arlecchino, la vetrata assume la funzione di schermo riflettente attraverso il quale noi spettatori ci specchiamo nei bambini e nelle attrici, protesi a osservarci, in La terra dei lombrichi la stessa vetrata diventa un sipario che si apre su Morte, mentre noi spettatori siamo su un’altra scena con attori e bambini che interagiscono con la nuova azione.
Arlecchino / La Morte.
Arlecchino e Morte, figure centrali, causano l’azione teatrale attraverso un furto. Se Arlecchino, sempre di spalle nel suo abito tradizionale, è il ladro della storia e la causa del conflitto tra Buio e Luce, Morte, raffigurata dall’iconografia classica, ha rapito una vita. La richiesta li accomuna: per far si che ogni conflitto si esaurisca vogliono un bambino, quindi, rifacendoci alle parole di Canevaro, il futuro.
Sulla falsità.
Il giudizio dei bambini mette in crisi l’attore […]l’attore può interrogarsi sulla propria falsità. Citiamo Chiara Guidi per raccontare l’incedere dell’attimo che aggrappa al reale durante queste visionarie azioni teatrali. “Basta con la storia! Ascoltiamo cosa succede!”, grida una bambina; “Come facciamo a chiamare senza cellulare?”, chiede un’altra, “Ma, abbiamo la voce!”, le rispondono. I bambini con i loro gesti e le loro parole riportano, come nel gioco, all’esperienza dell’azione. E il lavoro degli attori, come guide, maestri di scena, che giocano attivando l’immaginario fanciullesco, si costruisce in modo da far vivere ai bambini le “favole”. E ciò accade.