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lunedì, Dicembre 23, 2024
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L’Avaro di Cirillo: tra tradizione e contemporaneità in prospettiva centrale

original_l_avaro_1_600xfreeRENZO FRANCABANDERA | Illuminata di rosso fuoco. Su una scena complessa e particolarmente strutturata si apre il sipario del Teatro Carcano per ospitare le repliche de L’Avaro di Moliere di e con Arturo Cirillo.

Il lavoro nella sua struttura contempla una serie di riflessioni metodologico-filosofiche sul testo su cui vale la pena soffermarsi. Innanzitutto il tema della centralità del personaggio de L’Avaro rispetto alle altre figure, ancillari e quasi vuote di significato, indistinta massa di “servi di scena”. La seconda è sul concetto di inganno morale della ricchezza ma anche di tutto quello che le ruota intorno e di come il denaro falsi la percezione delle reali grandezze delle cose.

Sotto questo aspetto, l’elemento scenografico messo a punto da Dario Gessati, costruito da alcune sezioni di cubo in prospettiva centrale, spoglie e trasandate, appare un felice richiamo al gioco architettonico sostanzialmente coevo all’opera di Moliere, creato alla metà del 1600 da Borromini per Bernardino Spada, a Palazzo Spada a Roma.

Anche lì una finta prospettiva crea l’illusione che la galleria sia lunga oltre metri, mentre in realtà è lunga 8,82 metri, un’illusione dovuta all’unicità del punto di fuga, con il soffitto che scende e il pavimento che sale. Probabile lo stesso espediente ricorra in questa scena visto che l’effetto è sostanzialmente simile. L’operazione di modernità scenografica, e da molti punti di vista musicale (versioni distorte e acide di pezzi classici), pare di sentire in alcuni frammenti) non corrisponde a un altrettanto radicale lavoro sul testo, per il quale si preferisce la tradizione.

Cirillo a parte, in abito nero e parrucca, la compagine attorale, composta da Michelangelo Dalisi (Cleante), 
Monica Piseddu (Elisa), 
Luciano Saltarelli (Valerio), 
Antonella Romano (Mariana)
, Salvatore Caruso (Anselmo – Saetta – Fildavena)
, Sabrina Scuccimarra (Frosina),
 Giuseppina Cervizzi (Mastro Simone – Baccalà – Commissario), 
Rosario Giglio (Mastro Giacomo), indossa abiti slavati dalla cintola in giù (con quell’effetto varichina delle magliettine anni 90), che restituiscono un’atmosfera goticheggiante post punk. Quanto al recitato, 
preferiamo l’interpretazione misurata e non incline alla nota comica anche solo accennata, come ad altri purtroppo qui e lì capita, di Dalisi e della Piseddu. Proprio la sottrazione del codice comico dal testo infatti, potrebbe essere la maggior forza di questa lettura, che però non viene portata fino in fondo, cedendo di quanto in quanto ad una dimensione di fruibilità più allargata e facile, quindi meno radicale.

E questa questione della medietà della posizione registica fra possibilità interessanti di un allestimento audace e riproposizione capocomicale di un testo classico resta in piedi per tutta la recita. E’ indubbio che la scelta sia comunque quella di un Arpagone che mira ai grandi personaggi drammatici shakespeariani, qualcosa che ricorda perfino le interpretazioni cinematografiche di Shylock o Riccardo III di Al Pacino. L’operazione si ferma in una terra di mezzo, fra tradizione e sperimentazione, fra desiderio di rimanere vicini ad un pubblico abituato al classico “classico” e la possibilità di introdurre codici nuovi.

Cirillo restituisce un’interpretazione da capocomico d’un tempo, caricando il grosso dello spettacolo sulle spalle del suo Arpagone, allontanandosi concettualmente da letture, che pure non sono mancate, che aggiungevano pepe, ad esempio, alla figura di Frosina, presunta serva padrona, orditrice di chissà quali sofisticate trame. Arpagone qui è si sconfitto, ma in fondo teatralmente è chiamato a trionfare sul resto dell’umanità di cui si fatica a leggere uno spessore vero. Ma questa è d’altronde anche la grandezza del testo di Molière.

L’istantanea degli altri personaggi in posa, in bilico dentro una cornice che li spinge fuori dalla foto, la scelta di richiamare il codice della commedia dell’arte e dei pupi, e altre idee felici di leggere il testo oltre il testo, si fermano in un territorio dai confini indefiniti e troppo poco marcati. Sicuramente si poteva osare oltre, magari accontentando qualcuno in meno, ma spingendosi verso un ambito probabilmente più gratificante dal punto di vista della sfida. Nonostante qualche interessante incursione in territori di sperimentazione, il cui peso rimane tuttavia non tale da spostare l’equilibrio generale, il fulcro concettuale dell’esito scenico resta centrato sulla parola, mentre in questa messa in scena, a nostro avviso, le maggiori soddisfazioni arrivano proprio nei momenti in cui si passa dal codice verbale a quello non verbale.

Anni di piombo a teatro, 2a puntata: intervista doppia a César Brie e Aldo Cassano

60412_10151497429537042_1508152498_nELENA SCOLARI | Continuiamo il dossier su Teatro e anni ’70 in Italia aperto con l’intervista al giornalista Piero Colaprico. Abbiamo incontrato i registi César Brie e Aldo Cassano (Animanera), due generazioni anagrafiche a confronto. Abbiamo condiviso con loro alcune riflessioni sul rapporto tra cronaca e resa teatrale di fatti storici.

PAC: Credete che esista una responsabilità dell’artista nell’affrontare temi legati agli avvenimenti degli anni di piombo in Italia dal momento che sono fatti della nostra storia ancora “caldi” e relativamente vicini? Pensando anche alle vittime e ai loro familiari.

CASSANO: Penso che l’artista abbia sempre la responsabilità di ciò che vuole rappresentare e del messaggio che veicola. Deve farlo con intransigenza e coraggio, evitando le trappole dell’ideologia, conoscendo i fatti, immaginando quello che non si sa o si tace. Assumersi la responsabilità nei confronti delle generazioni che non hanno vissuto quel pezzo di storia e nei confronti di chi c’era e di chi ha pagato caro. Una responsabilità che dovrebbero avere tutti quelli che cercano di capire cosa ci sta accadendo, tutti quelli che si interrogano sulle trasformazioni della realtà e sulle spinte che le determinano, tutti quelli che non possono accontentarsi delle spiegazioni di un potere che è stato in Italia corrotto, inetto e degradato.

Lo spettatore attraverso lo spettacolo teatrale deve poter avere la possibilità di elaborare, riflettere, immedesimarsi, analizzare la storia e trarne le proprie conclusioni anche in netto contrasto.

BRIE: Credo che ci sia sempre una responsabilità degli artisti. Se poi si occupano di temi ancora attuali, se devono dire qualcosa su dolori ancora presenti, quella responsabilità è maggiore. Possono “inventare” soltanto se colgono l’essenza di ciò che è accaduto. Non è lecito spettacolarizzare irresponsabilmente il dolore degli altri.

E quindi qual è la funzione che il teatro può avere nel mettere in scena questi fatti? Che peso ritenete debbano avere la componente di cronaca e quella di interpretazione?

C: Quella teatrale è la formula di comunicazione più arcaica, pretende la presenza dal vivo, è un luogo di ascolto collettivo che coinvolge tutti i sensi, crea le condizioni che permettono al cittadino di sentirsi costruttore della sua società. Che la persona diventi ascoltatore e possa riflettere su dove vive e come vive è un fatto politico, e un teatro che prende la parola in questo senso è un teatro disturbante. Il teatro può e deve reinterpretare gli eventi, raccogliere testimonianze, acquisire e diffondere nuovi elementi di informazione e controinformazione, dimostrare che c’è chi non accetta l’oblio e indurre le nuove generazioni a prendere coscienza e non cadere negli stessi errori.

B: La cronaca racconta le cose come sono state, la finzione rende esemplari gli elementi affrontati

L’elemento emotivo era fortissimo nelle azioni degli attivisti e di chi poi ha scelto la lotta armata, nonostante la maschera freddamente ideologica. Ritenete che questa sia stata una delle cause del loro distaccamento dalla realtà?

cassano

C: E’ a mio parere impossibile scindere l’aspetto emotivo da quello ideologico in una persona colta da “stato nascente rivoluzionario”. Penso che chi ha abbracciato la lotta armata, spinto inizialmente da un vento di ideali puri di ribellione che in quegli anni soffiavano sulle coscienze contro ogni genere di ingiustizia economica, politica e sociale, conseguenze di un capitalismo fagocitante, sia caduto in un’esaltazione eroica di trasformazione del mondo ad ogni costo; un processo che però, come dice anche la protagonista di Figli senza volto, ha una concausa nelle reazioni repressive della società capitalistica di quegli anni.

B: Non lo so. Chi ha fatto la scelta della lotta armata spesso apparteneva a realtà alle quali noi appartenevamo, ma non era più  capace di lottare senza vedere frutti immediati. La conseguenza è stata una scelta violenta che ha portato a commettere crimini, sparso sangue, seminato lutti e contribuito ad annientare e criminalizzare un movimento di opposizione che era molto più democratico, vasto e pieno di vita di quanto si vuole far credere. La lotta armata ha chiuso spazi a chi nel sociale cercava alternative a un modello consumistico, subalterno e servile con la propria azione e il proprio lavoro culturale, sociale e politico.

Avete un approccio diverso quando affrontate un lavoro su un “classico” che parla di fatti storici (le tragedie storiche di Shakespeare, per esempio) e uno spettacolo che affronta la Storia più vicina a noi?

C: L’approccio per me è molto simile e coincide con il mio modo di fare arte. Forse nell’affrontare i classici si deve avere una visione artistica molto soggettiva e originale, anche perché sono stati già rappresentati in milioni di modi ed è inutile ripetersi. Le storie contemporanee, sono spesso inedite teatralmente, create insieme all’autore, vanno a toccare nervi scoperti, pongono domande di schieramento, spingono a valutare le reazioni, entrano nel campo dell’impegno civile.

B: Non mi sono mai posto il problema. La distanza permette maggiori interpretazioni. La storia più vicina a noi merita di essere portata in scena, gli artisti sono in grado di cogliere gli aspetti che la storia trascura e quindi gettare sugli eventi una nuova luce.

Quella volta tanto che esci contento, convinto, e che hai capito: La società di Musella Mazzarelli

La società musella mazzarelliRENZO FRANCABANDERA | La triste considerazione del potere di coercizione e di demolizione sul sogno individuale e creativo di gioventù che può avere il consesso sociale ha in questi giorni a Milano non solo la declinazione imponente dell’allestimento di Marthaler al Piccolo Teatro, ma anche la coraggiosa, economica e avvincente lettura che Lino Musella e Paolo Mazzarelli hanno costruito con La società, in scena al Filodrammatici fino a domenica 13, di cui firmano drammaturgia e regia.
Ad un appassionato di teatro scapperebbe la battuta che alla badante esteuropea si addice il flashback, ricordando un altro esito scenico felice di qualche anno fa, per la regia di Cesare Lievi, che raccontava di come una badante si costruiva la fiducia della sua signora e le restituiva in vecchiaia un rapporto di umanità assai più intenso di quello che le avevano riservato i figli.
Qui la badante c’è, e lo stesso è presente uno schema drammaturgico di flashback fra i tre atti in cui il lavoro è diviso, ma il focus è altrove e i due lavori, se non per le due coincidenze, non hanno elementi di comparazione se non questo se souvenir des belles choses.
Qui la vicenda è su tre giovani (Fabio Monti nella parte del sognatore poverilluso, Paolo Mazzarelli il neo-arrivista, Lino Musella l’opportunista) spinti dallo zio di uno di loro, dal mitologico nome di Omero, quindi fondamentalmente da nessuno se non da loro stessi, da un pretesto invisibile, a condividere la gestione di un locale, impresa che in questi tempi si fa interrogativo anche nel mondo dell’arte, con un revival di autogestioni, beni comuni, e spazi di socialità talvolta in bilico fra il think tank e il beer shop.
I tre devono decidere come governarlo, e l’età, la società, le esigenze, spingeranno uno di loro ad allontanarsi dalla originaria missione sognatrice, per abbracciare un ideale più manageriale e commerciale. Il dissidio sarà estremo e travolgerà tutto e tutti, compresa la badante (Laura Graziosi), figura ancillare ma non secondaria, che diventa silenzioso metronomo per tutta la recita.
La parola ad incastro, il ritmo scenico travolgente e senza momenti di stanca o intellettualismi inutili, la vicenda pulita e mai banale, l’umorismo felice e non sforzato, non cercato negli occhi del pubblico da far abboccare all’amo, sono le vere ricchezze di una creazione felice, che si anima di un respiro quasi eduardiano, vivificando quella tradizione del teatro italiano che per fortuna, scopriamo non essersi dispersa del tutto.
Che poi che significa tradizione oggi a teatro? Fondamentalmente è quando la storia si capisce, quando la vicenda arriva alla fine senza perdersi in derive onirico-pulp, senza intingersi in quel sughettino, che ormai fa molto anni 90, quella guazza esteticheggiante di movimenti performativ-incomprensibili che ti fa uscire di sala senza sapere che ne sarà del tuo personaggio a cui per mezz’ora – tre quarti ti eri affezionato, e che poi hai visto scomparire dietro una parrucca viola o una maschera di carnevale, sommerso da confessioni ansimanti al microfono, magari con un po’ di scenografia che cade a pezzi e una luce che abbaglia il pubblico.
Non che si voglia banalizzare, ma santiddio, è una goduria uscire di sala avendo assistito ad un lavoro che porta in sé la  ricerca drammaturgica, con un testo cesellato alla battuta, l’onestà di un impegno attorale di primo livello, che lo spettatore gode con la perizia raffinatissima di Musella, con la concentrazione e l’equilibrio ostinato della Graziosi, e con l’esperienza viva e opposta di Monti e Mazzarelli. E non manca persino la bizzarria, la trovata geniale, come il coro grammelot nell’ultimo atto, vera e propria chicca che vale da sola il biglietto, e che ricollega La società alle riflessioni dolci-amare in stile Monicelli, Amici Miei, quei pensieri su come la vita ti cambia e può portarti, di risata in risata alla canna del gas, andata e ritorno.
Da vedere, sostenere, e segnalare per qualche premio, se ne avanzano a quelli della Società.

L’anatomia del corpo sociale: Marthaler e il pensiero autoptico sulla società omicida

Foto Walter Mair
Foto Walter Mair

RENZO FRANCABANDERA | Sogno di sconfitti fra Kafka e Dostoevskji, incubo sonnolento, al ralenty, dove l’umanità disegnata del regista travolge lo spettatore. Marthaler, in questi giorni al Piccolo di Milano con il “Glaube Liebe Hoffnung” (del 2012) dal testo Ödön von Horváth, è un artista con un codice netto, che trova nei suoi lavori una variazione su una serie di temi di fondo che restano forti e costanti, soprattutto nei suoi spettacoli corali e sulla società.

Non possono non venire in mente, angosciati dalle mattonelle e dalle strutture architettoniche decadenti e vecchie di “Glaube Liebe Hoffnung”, le reclusioni in garage o in ufficio di “Riesenbutzbach, eine Dauerkolonie (Riesenbutzbach, une colonie permanente)” (del 2009) o le sonnolenti passeggiate turistiche nella monumentale e ripetitiva quotidianità borghese di “Papperlapapp” del duo Marthaler – Viebrock (presentato nel 2010 ad Avignone).
E Anna Viebrock è in realtà molto presente anche in questo allestimento e nel respiro non solo scenico ma anche emotivo, in cui il colossale, ancorché fatiscente, universo di muri gialli e legni da case anni Sessanta, sovrasta i protagonisti miserabili.
Che umano ci racconta Marthaler, che convinzione personale pare venir fuori anche attraverso il lavoro affidato a un gruppo di attori sempre all’altezza, come in questo caso Olivia Grigolli, Sasha Rau, Ueli Jäggi, Jean-Pierre Cornu, Ulrich Voß, Bettina Stucky, Irm Hermann, Josef Ostendorf, Thomas Wodianka e Clemens Sienknecht?

E’ un umano di una tediosità e di una viscidezza soffocante, schiacciato in rituali esibizionistici e preconcetti. In Riesenbutzbach, sempre in una scena di uffici vecchi e d’antan, questi corpi fastidiosi facevano addirittura passerella. Qui l’esibizione è dello stato cadaverico, per una vicenda che è quella di una povera disperata che prova a mendicare un lavoro, ma per sfortune varie non riesce a galleggiare, ad entrare nel sistema e viene schiacciata dalla pietra sociale, dal suo meccanismo ripetitivo, sordo, asfissiante. E si suicida. Un personaggio già sdoppiato, che pare moltiplicarsi ancora nel finale, quando dal canale in cui si è suicidata non uno, non due, ma cinque cadaveri di ragazza vengono ripescati.

I costumi grigi e da Germania dell’Est, di Sarah Schittek, uniti alle tristi luci di Phoenix (Andreas Hofer), Johannes Zotz e alle creazioni musicali originali di Clemens Sienknecht, insieme a Marthaler stesso e Martin Schütz, conferiscono al gioco scenico una dimensione torbida, narcotizzante, lunga, finanche sonnolenta. Salvo poi, come accadeva in Papperlapapp, dove il regista aveva svegliato il pubblico facendo tremare le scalinate del Palazzo dei Papi ad Avignone con un rombo d’aereo di volume altissimo e un violoncellista stridente incastonato in un’ogiva del palazzo, costringere anche qui il pubblico a violenti e subitanei risvegli per distonie, volumi alti, frequenze informali, dissodamenti di brani fra il classico e il pop.

Succede anche qui. Con una gelida potenza che affascina ma allontana, vivifica e stordisce. Conoscere questo lato dell’opera creativa di Marthaler significa avere pazienza di leggere codici lenti. Lo spettacolo dura 200 minuti. In cui secche emotive fermano la nave della fantasia e paiono portare lo spettatore in una dimensione manicomiale e di lentezza esasperata da cui si vuol fuggire, ma anche gli squarci di illuminazioni feroci ed improvvise.
Al di là del più effimero “Mi è piaciuto: si/no”, nel lungo tempo questi spettacoli fissano alcune immagini nella mente che faticano ad andar via. Marchiano l’immaginario. Come la scenografia in decadenza che puzza di un vecchio che però è a tutti conosciuto. E riapre cassetti. Come le gelide battute di questo testo senza speranza “Cosa è successo?” “Niente”.
Come il monologo del triste musico direttore d’orchestra e pianista di piano bar, che a mezza luce, nel finale, con l’ostensione dei cadaveri, decanta la società perfetta.
Resistendo alla esasperante lentezza dello spettacolo, di tutte queste cose si arriva non diciamo a godere, ma a trarre amaro succo.
Ma in fondo, anche chi se ne va, che male fa? La sala alla fine era assai più vuota che all’inizio. Chi ha resistito, lo ha fatto con convinzione. Come chi è andato. Marthaler comunque spinge a scegliere. Tutto pur di non rimanere fradici cadaveri, come i cinque corpi di donna che vengono esibiti nella loro cruda e chirurgica assenza di vita ma forse, in fondo, più vivi di tutti gli altri corpi incapaci di scegliere un’esistenza tridimensionale, cadaveri ante mortem.

Quel pornografico desiderio d’amore fra cinema e scena

ninphomaniac-278834NICOLA ARRIGONI | Nymphomaniac incarna una tendenza, porta a sintesi, con la straordinaria e spaziante visionarietà di Lars von Trier, la disperazione del nostro tempo e il bisogno di sincerità. Accade nel film che annunciato come scandaloso, erotico, pornografico – versione tagliata nelle sale italiane con buon placet del regista – in realtà è film etico e puritano, casto nel suo approccio alla fisicità come veicolo per arrivare all’anima. Nel film di Lars Von Trier si intuisce un bisogno di verità e pensiero, ma al tempo stesso la disperazione del corpo come unico orizzonte possibile, come campo di gioco coercitivo e costrittivo in cui – volenti o nolenti – si gioca tutto il nostro stare al mondo.
Nymphomaniac è la storia di Joe, una ninfomane, come lei stessa si autoproclama, raccontata attraverso la sua voce, dalla nascita fino all’età di 50 anni. Una fredda sera d’inverno il vecchio e affascinante scapolo, Seligman, trova Joe in un vicolo dopo
che è stata picchiata. La porta a casa, dove cura le sue ferite e le chiede di raccontargli la sua storia. Il romanzo a capitoli di Joe passa dalla consapevolezza della fisicità all’esigenza di violare la verginità, violenza cercata nel corpo di Jerome, che rimane – almeno nella prima parte del film – l’oggetto del desiderio di Joe che si fa oggetto/soggetto del bisogno di sperimentare i meccanismi del sesso, metterne in tensione l’autenticità erettiva, la capacità di fare dell’organi sessuali una sorta di viatico carnale all’anima. Nymphomaniac alla fin fine – almeno nella prima parte in vision e nelle sale – è la disperata ricerca di sincerità, quella sincerità che può esistere solo nell’erotismo, nell’armonia dei corpi, nel loro unirsi e cercarsi in cui la polifonia di Bach si intreccia alla serie di numeri di Fibonacci così come la ricerca di corpi della protagonista è alla fin fine la consapevolezza che oltre il corpo non c’è nulla. E allora la menzogna è dell’amore: menzognero l’amore anafettivo della madre, menzognera l’arte medica del padre che muore di tumore davanti alla figlia. E si può – forse – intuire che nella richiesta di infrangere la verginità offerta freddamente a Jerome ci sia la possibilità dell’amore…
Nymphomaniac di Lars Von Trier non ha nulla di scandaloso, ma raccoglie una riflessione che da De Sade, passando per le Relazioni pericolose arriva fino a noi e fa del corpo la casa abitata dalla nostra disperazione, il tempio da infrangere e violentare in cerca dell’inconsistenza dell’anima. E dopotutto cosa fanno il marchese di Valmont e la marchesa di Merteuil in Quartett di Heiner Muller se non mettere alla prova la possibilità che l’amore vero, sublime non sia che corpo, che le menzogne delle relazioni amorose siano svelate dalla pericolosità degli intrecci di corpi.
Si veda con passione la splendida versione offerta da Valter Malosti e Laura Marinoni. Non è un caso che Valter Malosti ambienti il gioco dei due terribili libertini in una stanza di ospedale, fredda e asettica come solo lo sanno essere gli ambienti ospedalieri. Da fuori arrivano suoni di una guerra in atto, ma è dentro che si gioca il conflitto vero ed è conflitto di corpi e di sesso, è la consapevolezza che oltre il corpo non c’è nulla, che tutto si compie nella carne e in essa si attua il nostro essere. Di fronte a questa condanna a morte ogni etica cade, tutto è lecito e plausibile, salvo poi capire che alla fine Valmont e Merteuil sono mondo e urlano il loro straziante e viscerale amore. Valter Malosti costruisce uno spettacolo di rara raffinatezza in cui ogni elemento è pregno di significato e contribuisce a sciogliere, leggere, interpretare, esaltare la poesia del testo di Müller rendendola al pubblico chiara, un piacere da udire e vedere, esercizio erotico per il cervello. In questo lavoro, in questo dentro e fuori c’è il medesimo rispecchiamento della storia della nimfomane di Lars von Trier, in cui il suo essere al mondo diviene scenario del nostro mondo, un mondo mediato dal nostro sentore, vedere, percepire, amare, vivere e morire.
E ancora sulla scia di una pornomania disperata perché non recuperare il testo scottante e di conturbante bellezza, Pornografia di Gombrowicz – messo in scena da Luca Ronconi con un meraviglioso Paolo Pierobon – in cui lo sguardo e il meccanismo del potere molto devono alla riflessione di Foucault. I due protagonisti di Pornografia Witold (Riccardo Bini) e Federico (Paolo Pierobon) costruiscono non solo la loro relazione (omo-sessuale?) ma anche il loro sguardo sulla relazione indotta che vorrebbero legasse i due giovani Carlo (Loris Fabiano) ed Enrichetta (). La maturità anagrafica si scontra con un’immaturità della pulsione sessuale e del desiderio a possedere che i due adulti individuano nella coppia di adolescenti, sostituendo la realtà con la loro immaginazione, con la loro fame di giovane e inebriante sessualità. Pornografia – termine composto da ‘prostituta’ e ‘grafia’ etimologicamente – è infatti il racconto di uno sguardo affamato, è il confronto fra vecchiaia e giovinezza, è pulsione immaginativa, è rappresentazione di realtà che si fa vita reale, in cui il corpo è bastante a se stesso, lo spiarlo, il volerlo godere nell’atto sessuale sono segno di un desiderio di appagamento che proprio perché desiderio non trova mai soddisfazione e nella gestione di quei corpi va sempre oltre, cerca il limite fino alla distruzione. E ancora non è la stessa distruzione autolesionista della protagonista di Nymphomaniac che va in scena, un sado/masochismo volta alla necessità di rivelarsi a se stessa, da qui anche l’urgenza di quel racconto a posteriori che è il romanzo pornografico di Lars Voin Trier.
Nymphomaniac raccoglie un mondo, esprime un comune sentore, e una diffusa inquietudine e per questo è scandaloso, non per i primi piani a falli e vagine. Da Quartett della coppia Marinoni/Malosti a Pornografia di Ronconi fino al caso di Nymphomaniac di Lars Von Trier il corpo, il sesso, sembrano i mezzi entro cui nel disperante nichilismo contemporaneo cercare quell’autenticità dell’essere che può far sperare ancora in uno spirito bello, in un’anima bella da illudere e con cui illuderci di una felicità o amore possibili….

Ma diamoci pure del lei: quelli che in tv fingono di non conoscersi…

Valerio jovine a The voiceRENZO FRANCABANDERA | Alessandra Moretti del Pd è ospite del programma “L’arena” condotto da Massimo Giletti. I due si danno del “lei”, ma pochi mesi prima sono stati anche al mare insieme. A testimoniarlo ci sono fotografie già pubblicate che li ritraggono in costume, al mare, fuori dal mare, in riva al mare, al sole vicino al mare, vicini al mare e sotto al sole e blàblàblà.

Su Rai 2 va in onda un programma chiamato The Voice. È un talent per cantanti ed è alla sua seconda stagione. Ci sono quattro giudici (Raffaella Carrà, Piero Pelù, J-Ax e Noemi) che ascoltano il concorrente di spalle. Se durante l’esibizione sono catturati da quello che sentono devono pigiare un tasto e la loro poltrona si gira. Se a scegliere il candidato è più di un giudice, sarà poi il candidato stesso a decidere di quale squadra far parte.

Qualche giorno fa, sul palco di The Voice, arriva il cantante Valerio Jovine con una versione molto personale di Like a Virgin di Madonna. A girarsi sono tutti tranne Noemi. Pelù gli chiede “come ti chiami e da dove vieni?” Valerio Jovine, Napoli. J-Ax gli domanda “zio, hai una band? Suoni in una band?”. Due band, risponde Jovine, una prende il nome dal suo cognome e un’altra sono i 99 Posse. A quel punto, l’ex Articolo31 fa alzare il pubblico in una standing ovation per i 99, aggiungendo poi un saluto ai suoi amici 99 Posse. Si sa, spesso e per fortuna, molti artisti si conoscono e sono amici tra loro, ma in questo caso la vicenda è un pelino più estesa.
Consideriamo solo per un attimo che la presenza di una band impegnata e militante contro il “sistema” come i 99 Posse, contro il potere, contro il capitalismo, radicale, nata e cresciuta nel centro sociale Officina 99, strida un po’ con un talent in prima serata su Rai 2. Ma certo, Valerio Jovine non è i 99 Posse, è una parte del gruppo, o almeno si presenta ufficialmente come tale e quindi tira automaticamente dentro la band napoletana e tutto il suo percorso. Anche perché gli spettatori, o quantomeno non tutti, non sanno chi ne fa parte, chi l’ha fondata, chi è andato via, chi è arrivato e ha passato il testimone. Valerio è fratello di Massimo Jovine, uno dei fondatori della formazione che dal 2010 ha incluso come collaboratore e seconda voce anche Valerio. Sì, ma J-Ax, Giletti e la Moretti? Poco più di un mese fa, i 99 Posse hanno dato alle stampe una versione 2.0 del loro album di debutto “Curre curre guagliò” che in questo caso presenta numerosi contributi di artisti campani e non. Nel brano “Rappresaglia Rap” il featuring è di J-Ax. Quindi J-Ax conosce bene i 99 e visto che c’ha fatto una canzone insieme (uscita una quarantina di giorni fa), si suppone che conosca anche quello che si presenta come componente della band. Però tutto questo, su Rai 2, non viene detto.

Giletti e la Moretti, in verità, ci servivano come introduzione e basta. Sembrava una vicenda calzante e abbastanza divertente.

La puntata di The Voice, relativamente a Jovine, va avanti come in tutti gli altri casi. Noemi, che non si è girata, spiega perché non lo ha scelto. La Carrà, Pelù e J-Ax cercano invece di portarlo ognuno nella propria squadra, illustrandogli perché andare con ciascuno di loro sarebbe la scelta migliore. Il concorrente deve rispondere immediatamente. Con chi sceglie di lavorare Jovine?
Sì, la risposta è proprio quella lì, ma è pur vero che a pensar male si fa sempre peccato.

Qui il video

Pippo Delbono e Petra Magoni: due voci unanimi sulle tracce di Edipo

Petra Magoni
Petra Magoni

LAURA NOVELLI | E’ nel grido finale di Bobò, nel mistero del suo silenzio da sordomuto rotto da una voce che sembra issata tra cielo e terra come una straziante e poetica divergenza, che lo spettacolo/concerto Il sangue di Pippo Delbono e Petra Magoni trova il tassello più emblematico di un mosaico di emozioni e suggestioni dai richiami ancestrali e atavici. Il palcoscenico della Sala Patrassi dell’Auditorium di Roma apparirebbe fin troppo grande per questo duetto vocale e recitativo (accompagnato dalla preziosa maestria della strumentista Ilaria Fantin) se non fosse per quell’ometto piccolo e indifeso che se ne sta seduto di lato, nella semioscurità, fino all’epilogo. E che fino all’epilogo ci chiede di trovare una ragione della sua presenza/assenza. Quando si avvicina alla Magoni – anche qui straordinaria interprete del repertorio antico, rock e pop – e le si siede accanto, risuonano ancora le note di Disamistade di Fabrizio De Andrè e il coro si fa unanime bisogno di conforto. Forse, di accoglienza. Di riparo. Perché in fondo ciò che davvero Delbono (neodirettore artistico di Asti Teatro e impegnato in una serie di importanti progetti artistici, www.pippodelbono.it) esplora in questo recital dai lineamenti tragici, ma dalla sostanza malinconica e dolce, è proprio la ricerca di un “luogo” dell’anima dove approdare dopo aver vagabondato tra la vita e la morte, gli affetti trovati e quelli persi, le scelte giuste e quelle sbagliate, gli atti di coraggio e quelli di codardia.

Punto di partenza, l’Edipo a Colono di Sofocle. La cecità di un figlio/marito assassino (involontario) del padre e della madre (a sua volta madre dei suoi stessi figli) che, spogliato di quella necessità tragica di cui è intriso il mito greco, si trasforma in un cieco vagabondo di ogni tempo e ogni dove alle prese con il suo viaggio terreno, sofferente e carnale, verso il buio eterno. L’esule Edipo siamo noi. Siamo tutti noi.

Ma non c’è accanimento o rabbia in questa partitura antica di lamenti, domande, paure. Piuttosto, una lingua quasi soffice (merito ovviamente anche della traduzione e dell’adattamento), che ben si intreccia con altri riferimenti testuali e autobiografici (tra cui una canzone popolare che il padre cantava a Pippo bambino) e che cuce insieme con avvolgente armonia i brani canori: un’attenta selezione di melodie rinascimentali (a firma di quei geniali Peri, Caccini e Monteverdi che furono ingegneri di strutture melodiche a canone, di madrigali, di sperimentazioni proto-operistiche) e moderne (da Cohen alla O’Connor fino al nostro De Andrè) reinterpretate dalla Magoni con una tavolozza espressiva davvero superba. A cadenzare il tutto ci pensano poi il liuto, l’opharoin, l’oud e la chitarra elettrica della brava Fantin.

Dunque, la classicità si connette qui ad un respiro umano ampio, universale, empatico. Si avverte un’atmosfera composta di lamento funebre. Un raffinato gioco di rincorse emotive. Un voler ritornare su temi cari – la morte, il dolore, l’erranza – con uno sguardo pietoso e antiprovocatorio. L’unica provocazione forte è forse proprio il corpo/voce di Bobò finale; la sua diversità ancora una volta vettore di umanità, di “esilio” imperscrutabile ma eloquente. Una provocazione dolente e poetica essa stessa. Perché se è vero che “il dolore degli altri è un dolore a metà”, è anche vero che solo guardando la vita da altre prospettive, da storie “diverse”, da strade lontane, possiamo sopportare la fatica di essere sospesi tra cielo e terra.

Ranuncoli#10 Pornografia. La morte ti fa bella

balthus_008_golden_daysyCOSIMA PAGANINI | Lo abbiamo visto tutti o quasi.

Tutti o quasi siamo andati a recuperare i vecchi libri di Witold Marian Gombrowicz. Chi dalle doppie file delle librerie di casa, chi dai remainder. Tutti o quasi abbiamo detto come è intelligente questo autore che qualcuno di noi, più vecchio, aveva forse letto, ma poi, chissà come mai, dimenticato.

Era necessario che Luca Ronconi mettesse in scena Pornografia?

Se il senso era riportare l’attenzione su un autore troppo facilmente ignorato, sì.

Il pubblico ha assistito ad uno spettacolo lussuoso (di quel lusso un po’ fané degli snob), con attori che entravano e uscivano dal loro ruolo secondo le indicazioni di un Luca Ronconi ormai più Martial Canterel (Locus Solus di Raymond Roussel) che regista. Gli spettatori hanno apprezzato, hanno riso, si sono auto compiaciuti e hanno dormito un poco (solo verso la fine della prima parte). Inoltre, si sono auto giustificati dell’ignavia in cui vivono e si sono meglio accomodati alla finestra con vista sulla catastrofe. Infine, hanno creduto di riconoscere in Riccardo Bini/Witold il regista stesso. Un uomo vinto dall’età, che ignora il dramma storico e spende le sue ultime energie per ottenere piccoli piaceri personali.

Ronconi è un grande creatore di Wunderkammer (anche Ingmar Bergman lo era, ma più grande e più tragico) abituato a ricevere la visita (inconcludente) e l’approvazione di persone (il pubblico) costruttrici a loro volta, ma dilettanti, di Wunderkammer. Chiodo fisso dell’ultimo Ronconi è di raccontare le sue ossessioni personali attraverso il linguaggio del teatro, che certo padroneggia benissimo (è inutile soffermarsi su quanto siano sempre perfetti i suoi spettacoli, i suoi attori, le sue macchine, ecc.), ma ci porta a considerare reale solo una minuscola porzione di realtà, la sua. Il teatro di Ronconi piace, ma non emoziona più, perché il dolore ne è stato espunto. Proprio quel dolore che Ronconi nella presentazione di Pornografia dice essere la terza dimensione del testo: “tempo, spazio e dolore”. Nello spettacolo Pornografia, invece, il dolore è solo una parola presente nel programma di sala. Ronconi ha studiato, sa che Gombrowicz pensa che “Il vero realismo rispetto alla vita è sapere che la cosa concreta, la vera realtà, è il dolore”. Qualche volta succede che a furia di ripeterla una cosa diventa vera, ma questa volta a Luca il mago il trucco non è riuscito: nessuna traccia di dolore. Forse non è riuscito perché Ronconi, che ha studiato, sa anche che Gombrowicz è ricordato come quello che riteneva che il Mondo fosse dominato dalla ‘forma’, nel senso deteriore del termine: un insieme di relazioni sociali che ci impone di usare una maschera (lo racconta benissimo il film Persona di Bergman) e ci spinge al conformismo. Per questo Gombrowicz era ‘paladino dell’antiforma’. Ronconi invece nella ‘forma’ c’è rimasto invischiato e rimane un ‘paladino della forma’. Ordina (organizza) un mondo oggettivo, e chiuso, una Wunderkammer appunto.

Pornografia di Gombrowicz è la drammatica registrazione dell’impotenza della coscienza ad arginare il caos da cui alla fine è travolta. Pornografia di Ronconi è la distaccata registrazione del tentativo della coscienza di ignorare il caos.

Ma dunque era proprio necessario che Luca Ronconi mettesse in scena Pornografia?

Visto il risultato, no.

Ma lo ha fatto e così mi sento autorizzata a considerare Pornografia un lascito, Ronconi ci consegna un mondo, un “Locus Solus”, abitato da ‘attori’ addestrati a reiterare un gesto, in fin dei conti inutile, fino all’uscita dell’ultimo spettatore dalla sala.

Se a La7 funziona solo Mentana.

MentanaALESSANDRO MASTANDREA | “Siamo in guerra”, sono mesi che Beppe Grillo lo ripete, ed Enrico Mentana deve averci creduto, se, visti i tempi incerti, ha deciso di fare di necessità virtù, trasformando lo studio del proprio TG nel campo base da cui dirigere l’offensiva mediatica de La7.
Che la rete di Urbano Cairo molto debba al direttore e volto noto della sua testata giornalistica, è un fatto assodato: ma può il volto di maggior successo di una emittente, trasformarsi anche nell’incubo peggiore del proprio editore? In colui che poco a poco ne ha scalato i vertici imponendo la propria immagine a scapito del resto?
Se paragonassimo La7, con i suoi problemi nella programmazione e quella certa instabilità nel palinsesto, a una casa sfitta, Mentana ha in fondo rivendicato il proprio diritto ad abitare quegli spazi, occupandoli, in mancanza di proposte migliori, senza troppe cerimonie.
Si da’ il caso, infatti, che a parte i talk show politici, la satira di Maurizio Crozza e gli eventi televisivi di Fazio e Saviano in trasferta dalla RAI, nessuno dei format convenzionali tipici della TV generalista sia riuscito ad attecchire a La7. Dei molti tentativi fatti da La7 in direzione di un rafforzamento della propria posizione nel panorama dell’etere, altrettanti hanno prodotto sonori fallimenti, con un Mentana stakanovista chiamato a fare gli straordinari e a declinare se stesso – vero e proprio brand – per tutte le fasce orarie. In questa sua dipendenza da sovraesposizione catodica, il direttore Mentana con ghigno beffardo pare sussurrare tra se’ e se’: “ne rimarrà solo uno”, dopo che gli indici Auditel hanno decretato la fine prematura di una lista interminabile di nomi noti.
Una strage vera e propria, se vogliamo dar conto delle numerose vittime illustri che si sono succedute a ritmo incalzante, nelle più impensate fasce orarie: Antonello Piroso la domenica, Serena Dandini il sabato sera, Geppi Cucciari prima del TG serale, ma anche Sabrina Guzzanti e le sorelle Parodi.
L’ultimo grande flop, di Salvo Sottile e della sua “Linea Gialla”, ha poi generato una vera e propria slavina nel palinsesto settimanale, con “La Gabbia” di Paragone slittata alla domenica, il rientro in gioco di una Bignardi sempre meno barbarica e infine Crozza al venerdì sera, col rinforzo a seguire dell’immancabile direttore con il suo “Bersaglio Mobile”.
Forte di questa lenta ma inesorabile scalata alla guida di una intera rete, oggi nessun obiettivo pare troppo grande, nemmeno intervistare il leader politico più inaccessibile del momento. Così, venerdì scorso, è riuscito a Mentana quel che non era riuscito nemmeno a Matteo Renzi, ovvero far tacere per qualche momento il proprio interlocutore, evitando di schiantarsi contro il muro di parole dei suoi famigerati monologhi e riuscendo finanche a porre qualche domanda. Niente di eccezionale, per carità, ma tanto è bastato per scatenare un tripudio di commenti e rilanci nei giorni successivi, con Mentana che ancora gongola.
Come noto tuttavia, in ogni guerra che si rispetti devono esserci delle vittime collaterali. E le fortune del Mentana direttore, quello dipendente da estenuanti maratone in diretta, passano anche per le sofferenze altrui. In particolar modo per quelle di Alessandra Sardoni, inviato feticcio del direttore, colei che, trasferita la propria residenza in Piazza Montecitorio, armata di microfono, sacchi di sabbia e moschetto, felice vive la propria condizione di eterna inviata sul fronte più caldo della politica italiana.

sardoniNon vi è infatti diretta dal Parlamento che non la veda presente e vigile, pronta a raccogliere testimonianze e interviste dagli attori protagonisti di questa perenne guerra di trincea. Nessun giorno di riposo per lei, che ha sacrificato la propria vita privata per la maggior gloria del suo TG. Complice, suo malgrado, della lenta metamorfosi dell’emittente per la quale lavora in una rete all-news, alla Sardoni non rimane che pregare perché scoppi improvvisa la pace, o, quantomeno, un armistizio che la salvi dalle continue fibrillazioni della politica. E’ forse chiedere troppo una serata da passare serenamente a casa sul divano, senza il terrore del telefono che squilla, con all’altro capo della linea il mefistofelico direttore?

L’intervista a Beppe Grillo:

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Crash Trōades, per Cauteruccio è il momento di andare oltre

crash troades_ ph Matteo BrighentiMATTEO BRIGHENTI | La guerra è un coro di donne strappate all’incendio del pianto. Giancarlo Cauteruccio cerca di arginare il rigurgito delle lacrime tirando su con il naso. Troia cade e gli cade in gola, i crolli sono continui, battenti, vivi negli accenti e schianti delle batterie, dei vibrafoni e degli xilofoni del gruppo “Flampercussion” della Scuola Media “Enrico Fermi” di Scandicci, diretto dal M° Luca Marino. La sconfitta totale della città inespugnabile non ha madri, figlie né sorelle, soltanto musica e parole sfinite di singhiozzi.

Dopo il duomo di San Gimignano, l’area industriale delle acciaierie di Piombino, il Teatro Studio di Scandicci “immerso nell’acqua”, le 150 donne contro il femminicidio nel nuovo ingresso dell’Ospedale di Careggi (Firenze), il regista e fondatore di Krypton sceglie di attraversare Crash Trōades, quindi Le Troiane di Euripide, in solitudine, faccia a corpo con la violenza vile dei conquistatori greci e la dignità disperata delle donne di Troia. Persa la città, uccisi gli uomini, la schiavitù è tutto ciò che rimane loro da vivere. Una performance o meglio una lettura musicata in cui la voce rotta e rauca di Cauteruccio diventa presto incomprensibile: colpi e suoni gutturali incrinati, spezzati, richieste di aiuto di un esploratore che sa dove vuole andare, ma non riesce ad arrivarci.

“Come posso fare? Non riesco. Come inizio?” chiede tra i singhiozzi, senza pace, mentre il pubblico sta ancora prendendo posto nella sala del Teatro Studio. Si è privato delle attrici, come a Troia sono state sradicate le donne, Le Troiane appunto, di cui in scena restano soltanto i vestiti bianchi sporchi del sangue della città morta, ombre di vite perdute impiccate al soffitto. Cauteruccio tocca quei lineamenti di stoffa, li accarezza come visi di famiglia, cerca di leggerne in controluce la storia, diventare lui stesso tragedia. Poi si siede sul “trono” al centro del palco, la poltrona di qualche Luigi di Francia, e, occhi sul leggio e cuffie alle orecchie, fa esplodere Ecuba, Andromaca, Cassandra e le altre nel microfono. Ogni volta così: vestiti, poltrona, vestiti, poltrona. Per ognuna di loro. Dall’inizio alla fine.

I “Flampercussion”, undici giovani dai tredici ai diciotto anni, sbucano qua e là tra cumuli di bancali in legno. Ogni musicista è chiuso nella dimensione del proprio strumento, eppure tutti vanno a tempo, insieme, in piena e rutilante armonia, come colpi di mortaio a distanza di chilometri: i soldati non vedono a chi sparano i loro compagni, ma sanno che è il nemico, perché combattono la stessa guerra.

Cauteruccio parla e i “Flampercussion” suonano preghiere di musica, quasi riti sciamanici attorno al fuoco, per dare al futuro una parvenza sopportabile. Infatti, Crash Trōadesin solitudine, secondo gli stessi organizzatori, vuole “metabolizzare una nuova possibilità del racconto”, perché “porre in essere tempo-luogo-azione di una vicenda già avvenuta […] rende possibile uno spostamento percettivo su un altro livello di relazione con lo spettatore.” La relazione, alla prova del palcoscenico, è di tipo “self-service”,“on demand”, nel senso che ciascuno prende ciò che capisce, singole parole o frasi intere, e ricostruisce, a ritroso, un senso. Più che al regista, allora, il sottotitolo in solitudine andrebbe riferito agli spettatori, lasciati soli a farsi il proprio spettacolo. Senza un tale sforzo, questa “edizione speciale” della rilettura kryptoniana de Le Troiane è unicamente suono, per giunta ad altissimo volume.

Ogni cosa sembra immortale. Poi arriva un giorno e tutto finisce. Il progetto Crash Trōades non fa eccezione. È svuotato come un armadietto l’ultimo giorno di lavoro. Ora è tempo di ricominciare diversamente e altrove.

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