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lunedì, Dicembre 23, 2024
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Nessun Vizio Minore e la provincia violenta

8717482862_2a70d47f3dGIULIA MURONI| È la storia di una ventiduenne trovata morta dopo una serata in discoteca.È la storia dell’uso strumentale che i dispositivi mediatici (giornalisti), giuridici (magistrati) e repressivi (polizia) fanno di un corpo femminile e del suo tragico esito colposo. “Natura morta in un fosso”, dal testo di Fausto Paravidino, messo in scena dalla compagnia Nessun Vizio Minore, visto allo spazio Il Cubo a Torino presso le Officine Corsare, apre dei varchi di senso su molteplici direttive: l’uso giornalistico della cronaca nera che, vertendo prima sul pruriginoso e poi sul determinismo sociale (sono i soggetti “a rischio” quelli a cui succedono le cose brutte) denuclearizza la violenza di genere; l’apparato giudiziario preoccupato soltanto della percezione che dà di sé, la famiglia borghese mina inesplosa di conflitti e dinamiche malate. Sebbene la narrazione abbia un andamento ritmato e l’ironia faccia da contrappunto, la trama è tragica e non soltanto per l’assassinio violento di una donna, elemento centrale della storia, ma anche per il sottotesto di solitudine a cui sembra destinata l’umanità, intrisa e intristita nei propri piccoli affarucci e interessi. Un’umanità senza scampo quella del testo di Paravidino, laddove nemmeno la vittima sembra essere esente dall’antropologia impietosa che aleggia su tutti loro. Come ne “Il capitale umano” di Virzì o “La giusta distanza” di Mazzacurati, l’atmosfera della provincia nel Nord Italia appare opprimente, le piccole comunità borghesi, dietro facciate rassicuranti e ordinate, celano esistenze miserabili, anestetizzate dal fatturato, dalla fabbrichetta e dalla sembianze consone. 8716362063_90ca4a4155 Pregevole il lavoro della compagnia Nessun Vizio Minore, una trama noir su una resa scenica efficace e briosa. Non un monologo, come fece Serena Sinigaglia nella prima rappresentazione del 2001, bensì un racconto corale in cui i sei personaggi ricostruiscono tassello per tassello l’intreccio che ha condotto alla morte di Elisa Orlando, mostrando da angolazioni ogni volta differenti le molteplici facce del perbenismo, dell’ipocrisia borghese e della bassezza. Un quadrato di nastro bianco fa da perimetro alla scena, sul proscenio lo stesso nastro disegna la sagoma della vittima. Molto semplici le luci: i puntamenti caldi nei momenti di monologo, lo sfumato blu nei cambi di scena e le lampade al neon, accese in sincrono e spente a canone fendono l’oscurità come per dare rilievo a certi accadimenti.
Se da un lato il contrasto tra un registro leggero e un soggetto drammatico risulta efficace, d’altra parte la recitazione sembra talvolta ammiccare al pubblico con le stesse mimiche e pause rubate dal medium televisivo. (Di rilievo Monica Iannessi, convincente nel ruolo di madre e moglie). La compagnia torinese sembra avere i presupposti per una ricerca che si confronti con la contemporaneità, sia nell’approccio con i testi, sia nell’uso di un linguaggio non ingessato e fruibile, senza sottrarsi ad un materia teatrale densa di significati. Penultimo spettacolo della rassegna teatrale Schegge, a cura della compagnia il Cerchio di Gesso, conferma il principio guida che sottosta alla rassegna: lavori accessibili ma di qualità.
La rassegna, giunta alla quarta edizione, non perde la sua venatura civile e l’attenzione alle giovani compagnie. Quest’anno, grazie alla vittoria del bando Da Giovane a Giovane, può permettersi di ospitare ben 4 compagnia under 35 con la possibilità di almeno una replica.Qui Beppe Casales ha festeggiato la centesima replica del suo “La spremuta”, e ancora “L’Italia è il paese che amo” di ReSpirale Teatro, “La protesta” de La Ballata dei Lenna, “I am Leto”di Rita Pelusio, solo per citare parte del cartellone. Quest’edizione vuole essere “Per un teatro felice”, nel senso della felice unione tra una qualità alta e dei costi accessibili per il pubblico (intento riuscito), ma nel dispiegarsi dei caratteri drammaturgici emerge un teatro incazzato, che non si adagia nell’esercizio di stile rassicurante, ma si sporca le mani nel confronto vivo con una materia che palpita.

La Frida di Brunella Andreoli: biografia o narcisismo?

fridaVINCENZO SARDELLI | «Il desiderio è quello di radunare la mia esperienza di autrice, cabarettista, attrice e regista. Mi appassiono alla vita di una donna eccezionale. La traduco sulla carta e sulla scena. Ma, incalzata dall’autenticità di Frida, mi accorgo che manca qualcosa. Inutile resistere, il qualcosa sono io e mi tocca».

Non l’avesse mai detto. Uno spettacolo su Frida Kahlo, la sua arte, la sua poesia, i suoi tormenti? Macché. Brunella Andreoli non riesce a trattenere l’ego. In presenza di un tramonto mozzafiato non frenerebbe l’autoscatto, sovrapponendo la propria effigie a madre natura.

Erano tante le aspettative per Inseparabili, pièce teatrale ispirata alla vita di Frida Kahlo, che abbiamo visto al Teatro Leonardo di Milano. Aspettative che non sembravano deluse: bella scenografia, con un’altalena-trapezio e un coreografico ramo rosso. Luce diffusa, cielo cobalto.

Gipo Gurrado centellina note misurate, mai pervasive, commento sonoro inalienabile degli spettacoli di Grock. Note come piogge, evocative del Messico. Atmosfere selvagge e calde. Mare, cielo, sabbia. Istanze sociali. Aria di rivoluzione. Ballo e poesia. Anche immagini di straordinaria bellezza, proiettate sullo sfondo: gigantografie, in movimento, dei dipinti dell’artista messicana; foto in bianco e nero, ingiallite dal tempo. Epistole. Pensieri autografi: «Cada tic tac es un segundo de la vida que pasa, huye, y no se repite. Y hay en ella tanta intensidad, tanto interés, que el problema es sólo saberla vivir. Que cada uno lo resuelva como pueda».

Tra la recitazione nivea di Gaia Barbieri e le danze leggere di Rossella Guidotti, che intercalano i monologhi di Brunella Andreoli, affiora il personaggio di Frida: ribelle, intrigante, ironica, appassionata. Determinata, su tutti e su tutto. Capace d’inseguire, con tenacia femminile, amore e arte. Sfumando nel sublime pittorico le esperienze più dolorose della vita: dal terribile incidente che la segnò a 18 anni all’abbandono dell’amato Alejandro Gòmez; dalla storia tormentata con Diego Rivera agli aborti; fino al corsetto in gesso che la ingabbiò negli ultimi anni. Sappiamo molto dell’intreccio tra vita, poesia e arte che caratterizzò l’esuberante “Frida-barra-dritta”, donna e artista trasparente, la cui iconografia si fuse con la storia e lo spirito contemporanei.

Il realismo magico dell’arte di Frida traspare dalle atmosfere dello spettacolo, attraverso le luci sopite di Claudio Intropido, con un faro-scrigno puntato in ogni direzione da una Guidotti eterea. Coriandoli luminosi e sfere colorate animano scene di giocoleria, mentre una luminaria si innalza sul palco e, spegnendosi, proietta sui dipinti dello sfondo un’ombra come un filo spinato.

Brunella Andreoli ironizza sugli aspetti paradossali della vita di Frida. Cerca di stemperare la tensione, con iniziale misuratezza. Con incursioni metateatrali nel proprio passato, nella proprie buffe paturnie esistenziali.

Tuttavia il gioco le sfugge di mano. Lo spettacolo da biografico diventa autobiografico. L’arte si trasforma in cabaret. La poesia degenera in quotidianità dozzinale, troppe parolacce gratuite.

Una serie di deviazioni pippologiche fanno deragliare la pièce. Che diventa guazzabuglio: dalla rivoluzione messicana agli spogliatoi di Pordenone o di Arcore, da Silvio a Marina Berlusconi, dalla Pascale alla cagnetta Dudù, da un ragazzotto infingardo, capelli ricci e occhi marroni, oggetto dei desideri adolescenziali di Brunella, alla ginnasta Nadia Comaneci, fino alla personale idiosincrasia per matematica e fissione dell’atomo. Il tutto affoga nell’esercizio narcisistico di parlare alla pancia degli spettatori. Si cercano l’applauso e la risata facile, accenni di comizi che neanche Beppe Grillo.

Frida teneva la barra dritta, Brunella no. Possibile che nessuno gliel’abbia fatto notare?

Non ci resta che riesumare, come esorcismo contro le esagerazioni venate di sussiego, la battuta capolavoro di Dino Risi a proposito dei film di Nanni Moretti: «Brunella, levati che voglio vedere lo spettacolo».

Frida a Roma: l’artista fra collane di spine e colibrì

01EMANUELE TIRELLI | Non è cosa da tutti allestire mostre personali di respiro internazionale grazie al sostegno di André Breton. Non lo è nemmeno accogliere Lev Trotsky in fuga dalla Russia di Stalin e diventare poi sua amante. Non lo è anticipare il femminismo e fare di se stessi un’icona. Le opere di Frida Kahlo e, di conseguenza, tutta la sua vita, sono in mostra a Roma nelle sale delle Scuderie del Quirinale dallo scorso 20 marzo e ci resteranno fino al prossimo 31 agosto. Un allestimento che non è affatto ingiusto definire “necessario” per calarsi in un’atmosfera altra e senza tempo. 160 opere in totale tra dipinti, disegni e fotografie, dalle prime esperienze giovanili ai suoi quadri più emozionanti e comunicativi che, spesso e volentieri, sono proprio gli autoritratti che ne hanno fatta un’icona. Una vita complessa quella di Frida, vissuta tra il 1907 e il 1954, vittima di un incidente stradale devastante a soli 18 anni al quale forse il mondo deve il suo percorso artistico sul quale si concentrò abbandonando l’idea degli studi di medicina. Un incidente al quale lei stessa dovrà, insieme alla spina bifida diagnosticata invece come poliomelite, un’esistenza sempre profondamente debilitata. Messicana di corpo e di pancia, espressione chiara ed evidente della sua terra, parte del movimento comunista, sposa, due volte, del famoso pittore murale Diego Rivera e amante di molti uomini e altrettante donne. Artista ispirata, modernista, simbolista, surrealista per attribuzione, originale, naif, vicina ai colori della sua terra, dotata di una sottile ma pulsante vena umoristica, profondamente concentrata sul proprio corpo che era stata costretta ad osservare tanto a lungo durante il suo primo infinito ricovero. Con le sue opere ha descritto se stessa e i profondi cambiamenti politico-sociali del Novecento. Sul suo diario c’è scritto: “Sono nata con una rivoluzione. Diciamolo. È in quel fuoco che sono nata, portata dall’impeto della rivolta fino al momento di vedere giorno. Il giorno era cocente. Mi ha infiammato per il resto della mia vita”.
Forse il pregio maggiore di questa mostra alle Scuderie è proprio quello di riuscire ad accompagnare anche il visitatore più a digiuno nella vita di Frida Kahlo che coincide necessariamente con la sua produzione artistica. Manca “La colonna spezzata” che può essere definita una delle sue opere più suggestive, ma ce ne sono molte altre altrettanto fondamentali come “Autoritratto con collana di spine e colibrì”, “Autoritratto con abito di velluto”, “L’amore abbraccia l’Universo, la Terra (Messico), Me, Diego e il Signor Xólotl” e altri 40 lavori che riescono a colmare con grande pregio l’assenza di una personale di Frida nel nostro Paese. Grazie anche a due contributi audiovisivi, chi ha visto il film diretto da Julie Taymor e interpretato da Salma Hayek e Alfred Molina (Diego Rivera) ritroverà volti e fisicità, qui più spigolose e naturalmente meno cinematografiche, che forse insieme ai lavori esposti sostituiranno nella mente le immagini della pellicola o magari spingeranno qualcuno a vederla. Di sicuro accompagneranno tutti nel mito, suggerendo ai meno informati di saperne ancora e ancora di una donna che ha fatto di se stessa, e con la ragione di esserlo, una vera opera d’arte.
Dopo l’appuntamento alle Scuderie, dal 20 settembre al 15 febbraio sarà possibile trovare un nuovo allestimento al Palazzo Ducale di Genova con un nucleo di opere comuni, ma diverso per sostanza e struttura.

Il corpo-martire di Frida dentro uno specchio

ImageLAURA NOVELLI | Un corpo di donna seduto su una poltrona girevole come fosse sospeso tra la pienezza di certi colori vivaci, sfoggiati con caparbia energia, e il vuoto di due gambe offese dal destino, malate, adagiate su un mantello rosso sangue che le chiama al di là della vita. Gonna ampia, collana vistosa, tre fiori in testa a incorniciare un volto inconfondibile, sensuale e insieme selvaggio: vediamo la sua immagine riflessa in un grande specchio che, incastonato nella splendida sala del Teatro di Documenti, ancor più sembra suggerire quest’atmosfera di limite, sospensione, passaggio, lasciando altresì intuire l’idea di un indiscreto, ennesimo, autoritratto destinato a suggellare ancora una volta la sublimazione di una perdita.

Si intitola semplicemente “Frida K” il monologo in cui Enrica Rosso – regista e interprete, su drammaturgia di Valeria Moretti – racconta la celebra pittrice messicana Frida Kahlo (1907-1954), proponendo al pubblico capitolino un lavoro debuttato nel 2007 ad Orvieto che, in concomitanza con la ricca esposizione di opere in corso alle Scuderie del Quirinale e in attesa della mostra “Frida Kahlo e Diego Rivera”, prevista al Palazzo Ducale di Genova da settembre, cavalca quella Frida-mania di cui così tanto si scrive e si parla nelle ultime settimane.

La sentiamo prima cantare e poi parlare con un accento spagnoleggiante dove vibrano le note malinconiche di una lingua quanto mai musicale e ritmata. Quella che abbiamo innanzi è una donna solenne, quasi altera, ma vicina alla fine che, come spesso capita nei testi costruiti intorno alla biografia degli artisti (penso, ad esempio, a un lavoro come “Non sentire il male” che Elena Bucci ha dedicato ad Eleonora Duse), si affida ai ricordi per ricostruire il puzzle della propria vicenda umana e creativa, e per cercare conforto in un’altra sé immaginaria (Nina Bonita) che – illusione estrema – sia in grado di farla sentire libera dalle sofferenze e dai rimpianti più acri.

Intensa, mutevole malgrado la posizione pressoché immobile, delicata e poi improvvisamente violenta, forte ma di una forza fragile e contraddittoria, Frida/Rosso ci regala una figura femminile immensa: sfogliando un album di vecchie foto, la pittrice leggendaria e stravagante di quel Messico rivoluzionario che ha rappresentato per lei molto più di una nazione e di un’appartenenza geografica, pesca brandelli di sé nella memoria. Procede per lampi, accostamenti, ossessioni ricorrenti: l’incontro con Diego Rivera, il matrimonio, i tradimenti subiti, il figlio mai avuto (tradotto nell’immagine ricorrente del feto morto), le cene e gli incontri con Trotzky, i riferimenti agli artisti coevi (in particolar Picasso e Breton), il Messico comunista, le cameriere del popolo cui “rubava” i vestiti, fino al terribile incidente in cui rimase coinvolta a diciassette anni e che le costò una vita di ricoveri, busti, degenze a letto (da dove dipingeva), operazioni, dolori terribili alla schiena. Il cerchio si chiude appunto con l’amputazione della gamba sinistra che l’attenderà da lì a poco. La calza nera che copre uno solo degli arti dice tutto da sé e ricapitola, in un dettaglio solo all’apparenza minore, quell’immaginario fisico, barocco, luttuoso ma insieme primitivo e naïf che contraddistingue le opere della Kahlo. Se il terreno di battaglia – e di ispirazione artistica – privilegiato è stato, nella sua produzione, proprio il suo corpo sofferente e martoriato, in questo lavoro, quello stesso corpo, pur se fermo e statico, si fa quadro. Restituendo, al contempo, tutto quell’anelito di libertà e di passione che ha trasformato l’artista in un’icona di stile. Ed è la bravura della Rosso a garantire questa complessità di livelli interpretativi. La sua egregia prova d’attrice ci fa dimenticare anche il fatto che il monologo, sebbene ben scritto, risenta di un eccesso di letterarietà e a tratti sfiori il didascalismo, diventando troppo illustrativo e monocorde. In questo caso, dunque, il corpo in scena supera la linearità della scrittura e, un po’ come succede nei dipinti della Kahlo, spalanca orizzonti emotivi al di là delle parole stesse.

Luoghi comuni 2014 a Mantova: e pubblico sia!

ELENA SCOLARI | 20140315_181406A Mantova, il festival Luoghi Comuni 2014 ci ha portato dappertutto, per vedere e fare teatro: al bar, in un pulmino, in un camerino, a tavola, pure a letto! E noi ci siamo stati, volentieri. L’edizione di quest’anno, intitolata Play with us, è stata dedicata al pubblico e le residenze teatrali lombarde hanno mostrato le loro declinazioni sul tema.

Facciamo un diario di viaggio per raccontarvi brevemente i lavori visti. Cominciamo con Hamlet Private di Scarlattine Teatro, a nostro avviso tra le cose più interessanti: sono seduta al tavolo di un bar del centro, presenti altri avventori casuali, con l’attore cartomante (Marco Mazza) che legge me attraverso le mie scelte tra un mazzo di tarocchi ispirati alla tragedia di Shakespeare, le carte guidano 45 minuti di morbida conversazione a metà tra introspezione e dubbi, i dubbi di Amleto e la sua difficoltà di scelta e azione diventano anche i miei, Amleto sono io! Un bel modo, pensato, di rivolgere l’attenzione a chi assiste e modella la creazione, insieme all’attore.

Uscita dal bar vengo bruscamente caricata su un pulmino, la Ilinx Machine (compagnia Ilinx), con altri tre compagni d’avventura, la procedura richiede la carta d’identità prima di salire a bordo e l’identità mi verrà prima cancellata e poi sostituita, scoprirò di essere creduta morta e in procinto di diventare un’anima da traghettare, trasportata per la città fino al trapasso. Un’idea inizialmente buona ma poi lasciata cadere in maniera irrisolta.

Giù dal pulmino mi infilo, ancora da sola, di soppiatto, in un camerino del Teatro Sociale, ci posso restare solo dieci minuti e assisto, come invisibile, al riscaldamento vocale e fisico dell’attore (Alessandro Pezzali di Teatro Magro) prima dello spettacolo. Che non so se avrà luogo. La mia presenza è ignorata, osservo un frammento Privato di una lunga performance che sarà diversa per ogni spione, ne esco attraversando il palco del bellissimo teatro all’italiana, e per un attimo sono protagonista davanti al vuoto della platea. Solitudine più forte dell’indifferenza subita.

Salto anche la cena e ora mi siedo, in una normale platea piena di altre persone, per vedere Brainstorm! (Residenza InItinere). Il “mentalista” Lorenzo Baronchelli è una specie di prestigiatore della mente, cerca di sorprenderci con alcuni trucchi sulla lettura del pensiero, vorrebbe avere un approccio anche scientifico, ma il personaggio macchietta sbilancia il tutto su un tono comico banale. C’è da lavorare.

Il secondo giorno di festival inizia ancora in un teatro con una gioiosa prova di ATIR, Tutti in scena! è una dimostrazione dell’ottimo lavoro che la compagnia fa con i disabili adulti, tutti si divertono, non c’è pietismo ma anzi un’ironia uncorrect a rendere davvero godibile – e a tratti esilarante – la prova del gruppo, ben guidata dall’attrice Chiara Stoppa e dall’educatore Max Pensa.

Di nuovo fuori, nel centro storico della città, vediamo ora teatro delle Moire che con Elvis’ Stardust si mette nella vetrina/acquario di un negozio di mobili, il corpo eccessivo di Alessandra De Santis veste i panni della rockstar e noi scrutiamo dalla strada, per una mezz’ora, le movenze rallentate di Elvis the pelvis, icona per sempre fissata nell’immaginario, e osservata nella sua consumata desolazione. Un tempo più breve ci avrebbe dato la stessa sensazione, crediamo.

Residenza Idra/Teatro Inverso prova con Molti un esperimento che vorrebbe scardinare i cliché del teatro di ricerca, coinvolge il pubblico chiedendo di dividersi tra chi crede che Dio esista e chi no. Nella fattispecie il divino uscirà da una lavatrice. Perché non è dato sapere. L’esperimento non è riuscito, purtroppo il risultato è approssimativo e pretenzioso. Inutile.

Al Circolo degli Ufficiali andiamo a letto con gli attori di Animanera, che con Bed inside ripetono un modello già utilizzato: un performer-uno spettatore per pochi minuti di stretta intimità con qualcuno che ha un handicap legato alla sessualità. Una fulminea e scioccante relazione che avvolge, anche fisicamente. La formula ci aveva divertito con Try Creampie, dove i testi sussurrati erano letterari, qui abbiamo l’impressione che l’aggiunta di un elemento psicologico molto complesso sia difficile da affrontare con un gioco.

La serata si conclude con l’ascolto del montaggio audio (Vox Pop) delle brevi interviste fatte a sorpresa a tutti noi durante le giornate da Nudoecrudo Teatro. Domande sul teatro, risposte più o meno interessanti. Confessiamo di non aver capito perché gli attori reporter circolassero per Mantova in abiti del Settecento. Dame e cicisbei che ci interrogano? Laissez faire.

Luoghi Comuni si dipana nelle tre giornate con numerose iniziative collaterali, convegni, incursioni teatrali a mo’ di flash mob, laboratori e altro. Si conclude con il Pinocchio Ready Made di DelleAli, ne parlammo su PAC: Lello Cassinotti costruisce insieme al pubblico una tombola Collodiana leggendo alcuni capitoli “chiamati” dagli spettatori e formando così una storia sempre diversa, colorata dalle mille voci che l’interprete dà con estrema cura ai fantastici personaggi del libro.

Non siamo riusciti ad assistere alla cena Saga Salsa di Qui e Ora, unico motivo per cui non ne parliamo.

Tanti modi di rivolgersi al pubblico, in ogni tipo di luogo, spesso in rapporti singoli, un teatro dinamico  che si fa spazio nella vita e nella città. Solo in alcuni casi però lascia una traccia significativa, auspichiamo che il rapporto diretto con gli spettatori abbia prodotto riflessioni che aiuteranno la profondità.

Il disincanto di Elisabetta Pozzi frena la Pulzella d’Orleans

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MATTEO BRIGHENTI | Giovanna D’Arco, nella versione letteraria di Maria Luisa Spaziani, sei canti in ottave di endecasillabi senza rima e un epilogo, regia di Andrea Chiodi, è la costellazione di una giovane donna che insegue un sogno: essere se stessa. La Pulzella d’Orleans, vista al Teatro Cantiere Florida di Firenze, ha il coraggio di ascoltare la chiamata divina della libertà e di praticare la fatica di condividerla. Elisabetta Pozzi incontra l’instabilità di quell’anima, cuore, spada e fede della riscossa francese nella Guerra dei Cent’anni, con movimenti piccoli e controllati, amplificati di rabbia limpida e sofferta dalle sferzate rock delle musiche di Daniele D’Angelo. L’elettricità, però, della nuova produzione Elsinor si fa presto affannata e il fervore emotivo iniziale cade nel passo indifferente della freddezza più distante.

Vestita di una tunica grigia color terra (minimali i costumi di Ilaria Ariemme), quasi un saio verginale, i capelli rossi tagliati corti e combattivi, Pozzi si aggira in una scena completamente vuota. È un fantasma tra i fantasmi delle “voci” che la accompagnano, due quante sono le anime di Giovanna D’Arco, una terrena e l’altra divina. Simonetta Cartia e Francesca Porrini, in lungo abito “talare” blu metallizzato, sono vestali che armonizzano a cappella le visioni della Pulzella, perché “la musica è l’anticamera di Dio.” Bocche divinatorie e mani creatrici dello spazio (efficaci le scene di Matteo Patrucco,accese di luci rarefatte da Marco Grisa): al dipanarsi dei fatti storici, più o meno potentemente filtrati dalla fantasia linguistica della Spaziani, Cartia e Porrini conficcano nelle assi del Florida quelli che sembrano squarci, ritagli delle grandi vetrate di una chiesa romanica con raffigurati l’Arcangelo Michele, eserciti, vittorie e sconfitte, tarocchi di un presente che cerca di diventare futuro, ma per il momento è monco di un braccio, uno sguardo o una direzione. Chi li completa, la metà di tutto, in questo mondo, è Giovanna D’Arco, il suo esempio dà parole e azioni alle tessere di quel puzzle di eventi altrimenti muto e inerte. L’identificazione con la Francia è completa, cellule e sensi sono un tutt’uno con la Patria irredenta.

Il popolo, però, non ha mai visto una forza così determinata e la rifiuta come disumana, al di là del bene e del giusto, e la manda al rogo delle sue paure. Da una posizione uguale e contraria, Elisabetta Pozzi aderisce agli slanci di Giovanna D’Arco con il riserbo di chi sa già come andrà a finire: c’è un vuoto d’aria, uno spazio tra attrice e personaggio, tra rappresentazione e verità, come quello che allontana la pedana su cui si svolge l’azione dal palcoscenico che, invece, la presenta soltanto. Per questo, più che impersonarla, sembra raccontare, in prima persona, la Pulzella. L’afflato visionario è appannato di algido distacco, la distanza, temporale e anagrafica, tra lei e la giovane eroina misura un disincanto incolmabile. A Elisabetta Pozzi rimane solo la compassione di una madre, avvilita e fiera allo stesso tempo: sua figlia voleva cambiare le cose e ha fallito. Ma ha rivendicato se stessa. Quello che lei, fino alla fine, non è riuscita a fare.

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Brigatismo e teatro: intervista a Piero Colaprico

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foto di Paolo Pedrizzetti

ELENA SCOLARI | Il teatro ripensa agli anni di piombo. Di recente sono stati in cartellone a Milano, contemporaneamente, tre diversi spettacoli di argomento legato a quel periodo: Aldo Morto di Daniele Timpano, Enigma Moro di Roberto Trifirò e Figli senza volto della compagnia Animanera. A fine aprile tornerà anche Viva l’Italia di César Brie sull’omicidio di Fausto e Iaio. Mi sono chiesta se è un caso. Oppure c’è un motivo per cui, proprio adesso, in questa congerie storico-politico-sociale italiana, gli artisti del teatro indagano e si interrogano sugli anni bui del terrorismo nel nostro paese?

Abbiamo provato a farci aiutare in questa riflessione da Piero Colaprico, giornalista di Repubblica esperto di quei fatti.

PAC: Perché crede che in teatro il terrorismo e gli anni di piombo “tirino” così tanto in questo periodo? E in particolare per artisti intorno ai 40 anni?

COLAPRICO: Forse perché sono le ultime cose forti di cui si può parlare. Finiti gli anni del terrorismo – nel 1985 a Milano viene scoperto l’ultimo covo delle BR – dopo c’è stata la Milano della borsa. Di collettivo ed importante non c’è più niente fino a tangentopoli. Poi Berlusconi! Per 20 anni. Se sei un regista, un intellettuale, dove vai a pescare qualcosa di forte per capire le tue radici? Nel film di Sorrentino La grande bellezza la santa che mastica radici dice che lo fa perché le radici sono importanti. Le radici del 40enne di oggi sono negli anni ’70, tangentopoli non è appassionante perché di faccende di soldi si tratta, invece sangue e pistole sono materia scottante. La propaganda, certi principi da setta, la complicità molto stretta… è stata una  stagione irripetibile. Donne, armi, gli assalti al carcere! Emozioni forti. C’era chi ne aveva bisogno, però ora gli ex brigatisti le emozioni non le raccontano, parlano delle rivendicazioni, delle idee rivoluzionarie che inseguivano, tacciono e negano di aver vissuto queste emozioni.

P: O negano che queste possano aver avuto un peso superiore alle ideologie.

C: Esatto. Pasolini, Sciascia, Buzzati, Testori hanno raccontato gli anni del boom economico, l’Italia del dopoguerra, dopo di che c’è il terrorismo. Un giovane quindi pesca in quel grande conflitto. E’ un tema basilare.

Aldo morto alla Tosse 3P: Pensa che la situazione italiana di questi anni, con tanta rabbia confusa e mal espressa potrebbe portare ad una deriva violenta?

C: I giovani di oggi sono diversi, prima di tutto perché hanno il computer. Io prendevo il tram per studiare coi miei compagni di università, non usavo Skype. Mi muovevo, conoscevo la città per le sue puzze, quel rapporto corporale con la vita che aveva la mia generazione i ventenni di adesso non ce l’hanno. Noi siamo una generazione invidiata non tanto perchè abbiamo trovato lavoro – era difficile anche per noi, non c’erano soldi, le domeniche a piedi perché non c’era benzina, ecc. – ma per il nostro senso del gruppo, il nostro essere veramente insieme, per la fisicità della lotta, anche la nostra musica è invidiata! Credo che internet abbia tolto molto corpo alla vita dei giovani, che quindi, per fortuna, avrebbero paura a passare ai fatti, a usare il loro corpo per fare la rivoluzione che alcuni invocano.

P: I tempi sono maturi per affrontare i fatti di quegli anni o sono ancora troppo vicini per poterne dare letture lucide? Penso anche al ruolo dei familiari delle vittime e al loro dolore, spesso ancora poco considerato.

C: Sì, siamo ancora vicini e ci sono sentenze recenti come quella sulla strage di Piazza della Loggia a Brescia, chiusasi con un pesantissimo nulla di fatto, per esempio, i familiari delle vittime hanno raccolto una quantità di materiali e andrebbero consultati, quando ci si avvicina agli attentati e alle stragi della lotta armata. Esiste una tecnica investigativa, un metodo di ricerca storica, possiamo arrivare a picoli passi a stabilire alcune verità: Aldo Moro è stato sequestrato? Sì. Possiamo dire che è stato sempre in quel covo? No. I terroristi erano solo rossi? No. Ancora in molti vogliono rendere le acque torbide ma bisogna mettere dei punti fermi sui fatti di cui ci sono prove inequivocabili. Sarebbe già molto.

P: C’è una responsabilità “civile” degli artisti che affrontano gli avvenimenti degli anni ’70, legata anche all’attualità? 

C: L’arte può rileggere e stravolgere, come ha fatto Bellocchio in Buongiorno notte, nel quale alla fine Moro cammina per Roma e non muore. Il problema non è l’aderenza alla verità, è la conoscenza raffazzonata. Gli artisti sono individualisti e non si documentano, da giornalista ho visto operazioni sgangherate, per ego personale, in alcune discutibili fiction tv si vuole dare valore a tesi che non hanno rapporti con gli atti giudiziari. Nel campo della creatività ritengo che per un lavoro ben fatto si debba parlare coi vecchi, con chi c’era. Con chi ha letto gli atti giudiziari. In Italia i giornalisti non sono reticenti, e darebbero volentieri informazioni. Per esempio Aldo Morto è un’operazione interessante per la presa in giro delle manie dei brigatisti, della loro autoreferenzialità, ma poi Timpano eccede in cinismo e si mette in una posizione di superiorità. Per fare un bel lavoro artistico bisogna parlare con i brigatisti, con i parenti delle vittime, con chi è scampato agli attentati, ma ricordando che quegli anni avevano caratteristiche di grande complessità e che chi ha messo mano alle armi è stato sopraffatto da una profonda fragilità. Si sono innamorati di un cambiamento che non potevano avere.

La responsabilità è l’impegno nella ricerca della verità.

Chi va a teatro, anche se è una minoranza, compie un’azione, fa dei chilometri e merita che la cronaca storica sia rispettata, anche se interpretata.

«Home sweet home», angosciante finestra sulla violenza domestica

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VINCENZO SARDELLI | Le statistiche dicono che una donna su tre vive come vivo io, in bilico. È vero, io sono un’equilibrista, sono stata addestrata a farlo, cammino su un filo, procedo attenta per evitare i passi falsi perché so che se sbaglio, se non presto attenzione, mi faccio male».

Il Teatro della Cooperativa di Milano ha appena ospitato Home sweet home, produzione Quelli di Grock, spettacolo sulla violenza di genere. In Italia sono 6.743.000 le donne tra i 16 e i 70 anni che hanno subito vessazioni psicologiche o sessuali fuori o dentro le mura domestiche (fonte Istat 2007). Un dramma diffuso, eppure nascosto dietro una coltre di reticenze.

Il teatro la sua parte la fa. Nell’ultimo anno ci è capitato di vedere, oltre a questo Home sweet home (regia Valeria Cavalli e Claudio Intropido, in scena Giulia Bacchetta e Andrea Robbiano) anche Indolore di César Brie e Alice cara grazia di Filippo Renda e Valentina Picello.

Stili e linguaggi diversi, quasi antitetici. Per César Brie è immorale trattare la violenza se non in termini sfumati. La scena di Indolore è un ring di pugilato. Ma le percosse sono sugli oggetti, mai sulla persona.

In Alice cara grazia i simboli diventano orpelli metaforici tali da distogliere l’attenzione rispetto alla storia. Brie ha trovato lo spettacolo bellissimo, lui ha questa devozione per l’allegoria. Ma quante vittime di violenza che avessero visto Alice ne avrebbero tratto spunto non dico per denunciare, ma almeno per riflettere sulla propria condizione?

Home sweet home ha ricevuto il Patrocinio Ufficiale della Provincia di Milano ed è stato presentato nel giugno 2010 alla Camera dei Deputati. Chissà da dove nasce questo titolo inglese, che in italiano ha la sua traduzione naturale, «casa dolce casa».

Lo spettacolo vuole scuotere dall’indifferenza perché anche dal palcoscenico arrivi un messaggio capace di promuovere la cultura della non violenza. Una madre e un figlio narrano una storia apparentemente normale, che nasconde verità terribili. Teatro civile, dunque. Che ha la sua genesi nella cronaca, come dimostra la scelta di fare della scena un lastricato di giornali.

Meno scontato l’uso di un velo diafano come quarta parete, che taglia il palco quasi all’altezza del sipario. Di là da questo diaframma, illuminata da un raggio caravaggesco, compare una donna, madre e moglie. È Anna. Il nome palindromo invoca una reversibilità: dal vortice della violenza può esserci ritorno.

Di qua dal diaframma, in costante contatto con il pubblico, un figlio, sorta di narratore esterno. Anche lui è in bilico: tra la debolezza del padre, mascherata da potere annientatore, e quella di una madre incapace di reagire.

Dolore e fragilità oltre il velo, umorismo sopito vicino a noi: percepiamo che l’uscita dal tunnel è legata a quel figlio, alla sua capacità di schierarsi, librandosi oltre la meschinità: «E tu sarai ogni giorno più bella e ogni giorno più libera. Un giardino in cui è sempre primavera. Io non so volare. Ma se mi prendi per mano, mamma, possiamo provare a camminare insieme».

Tra cronaca, poesia e fiaba, storie d’ordinaria misoginia e qualche luogo comune, emerge l’insana complicità fra vittima e carnefice, il complesso rapporto tra chi fa del male e chi pensa di meritarlo, la fatica e la paura di riconoscere il nemico seduto accanto sul divano.

Convince il mix tra i due personaggi, sardonico e leggero Robbiano, tragica e solenne (un tantino impostata) Bacchetta: bel connubio di voci e di stili. La musica da film sentimentale di Gipo Gurrado è un valore aggiunto che fa da contrappunto alle vicende narrate, sostenute dalle belle immagini in controluce di Zoe Vincenti. Energico il testo, intriso di sfumature. Poi le luci di Claudio Intropido si fanno verdi, livide, rossastre. È il la all’escalation di violenza dell’ultima scena, che non vediamo sul palco, ma ci raggiunge attraverso immagini stilizzate, rumori sinistri, urla, suppliche, lacrime sospiri. La voce maschile fuori campo, ruvida, sfidante, insopportabilmente efferata, è di Pietro De Pascalis. I toni s’inaspriscono pletorici. Quasi sembra ci sia compiacimento nell’esibizione di una violenza torbida e ripetuta.

C’era bisogno di questa insistenza? Sì secondo l’autrice, Valeria Cavalli: «Tendiamo troppo a edulcorare la pillola della violenza contro le donne. Qualche giorno fa in farmacia ho visto la pubblicità di una crema per mascherare i lividi. C’era il viso tumefatto di una donna, e per confondere le idee, c’era anche il messaggio che quella crema potesse nascondere il tatuaggio di un uomo. Ad abbassare i toni, temo che il mio teatro assomigli a quella crema. Molte donne violate che hanno assistito allo spettacolo hanno ritenuto indispensabile la scena finale in tutta la sua crudezza. Proprio perché urta le nostre sensibilità quiescenti. E poi questo lavoro si vale della consulenza di una psicologa, Maria Barbuto».

Sarà. Noi abbiamo una visione delle tragedie più classica: quella per cui il pathos sublima in consapevolezza, per giungere alla progressiva e catartica mediazione dei conflitti. Come in Eschilo, Sofocle ed Euripide. Geni di venticinque secoli fa.

Il dribbling è una prerogativa italiana che occorre esportare, ce lo chiede l’Europa

EMILIANA IACOVELLI | Oggi l’Italia si colloca, nel panorama internazionale, come Gresko nella difesa dell’Inter dell’anno calcistico 2001-2002: fuori posizione. Noi, popolo di poeti, santi, navigatori e calciofili, in questi anni non ci siamo fatti mancare niente: menestrello di corte, mutande verdi pagate con i danari dei contribuenti, corna immortalate nelle foto di rito a futura memoria, paragoni infelici in assemblee istituzionali con antieroi della storia, tentativi di eliminare, procurandogli un’angina pectoris, i competitors internazionali, patti scellerati con uomini di discutibile moralità.
Quanto è, in questi giorni agli onori della cronaca politica conferma come si sia trattato di questioni di cuore e di pancia, più che di cervello. Gli approvigionamenti di gas e petrolioa prezzi vantaggiosi ci sono costati ottantasette bottiglie di vodka, ventiquattro danzatrici del ventre, una partita ‘a soldi’ di Risiko finita a tarda notte, strazianti melodie del menestrello Apicella, faraonici banchetti di patate e cetrioli Kaka e Allegri.
Finita l’era Berlusconi, durata molto più del giurassico, diviene Presidente del Consiglio Letta che porta un po’ sfiga e l’Italia attraversa la peggiore crisi politica ed economica dal dopoguerra. Il Governo, tra buoni propositi e vari spropositi, galleggia fino all’arrivo del salvatore della patria, Matteo Renzi, il Renato Cesarini della politica italiana, riuscito in due giorni nell’impresa di rinverdire l’orgoglio nazionale e la passione per il tricolore: l’emiciclo di Montecitorio si colora del bianco delle deputate a difesa delle quote rosa, del verde di cravatte e fazzoletti da tasca dei leghisti e del rosso di uno sparuto gruppo di nostalgici garibaldini.
Il Presidente del Consiglio, con la riga fissa di Rivera nelle figurine panini e lo sguardo fiero di Jaun Alberto Schiaffino, ha cercato di restituire all’Italia un ruolo di primo piano nel panorama internazionale scegliendo tra quello goduto dalla Tour Eiffel nella gita fuori porta a casa Hollande e quello goduto dalla ruota panoramica prima di incontrare Frau Merkel a Berlino. Sceso dalla ruota panoramica Renzi ha dovuto fronteggiare una gravissima emergenza: aver erroneamente sostituito al cappotto, in valigia, il telo antipioggia per lo scooter. Pare sia stato visto vagare per la città farneticante alla ricerca di un negozio aperto, ma sfortunatamente l’unico che ha trovato aperto era per taglie forti.

Io ed E.E.: a cento passi dal mio decidere. Fra la vita e la morte

Veglia per E.E.RENZO FRANCABANDERA | Sul palco c’è una persona, Luca Radaelli, che ha raccolto le sue riflessioni sul finire naturale e innaturale della vita, a seguito del caso Englaro. E un musicista Marco Belcastro. Stop.
Per un’ora circa questa persona, che viveva a pochi isolati di distanza da casa Englaro, rilegge attraverso la sensibilità del teatro, della musica e le conoscenze della letteratura, le questioni e i dilemmi sul terminare del percorso umano che tutti abbiamo nel destino, sulla legittimità delle leggi e la supremazia del cuore e della ragione, come nel caso di Antigone, tragedia greca fra le pochissime giunte fino ai nostri giorni. Perchè sempre legge dello Stato e legge morale hanno avuto conflitto sui grandi temi della vita. E della morte. Stop.
Tutto, durante questa ora, si dipana con attenzione rispettosa, fra pubblico e artisti in sala. E’ un dialogo fra coscienze, non volgare, non ideologico. Perchè è un monologo dai toni non urlati, ma che lascia le pause e l’opportunità di pensare. Anche di dissentire. O di chiedersi: e se capitasse a me, o a chi amo? Che farei? Insomma è una roba veramente pulita, un’operazione di coscienza. Stop.

Mi chiedo, dopo quest’ora di pensieri sobri, poco artefatti, una via di mezzo fra una conferenza di tono non cattedratico, una recita non teatrale, un pensiero di tono non monologante, una laude non religiosa, cosa mai possa offendere in una riflessione così limpida, non neutra, certo, ma rispettosa e misurata, tanto da farne impedire, come da qualche parte è successo, una replica, senza prima aver visto o sentito. Comunque la si pensi. Stop.

Parlare con la propria coscienza è una ricchezza sempre. Anche quando si parla di Morte.
Veglia per E.E. non è dunque uno spettacolo. E’ un’occasione. Civile. Di capire Antigone. E il tuo vicino di casa. O il conoscente. O il campione di FormulaUno. O quel tuo familiare. O tu. Che non per un giorno, o una settimana, o un mese, o un anno, ma per diciassette anni, ormai deformato, con le unghie bianche di chi non respira vita se non artificialmente, schiavo delle macchine più che del volere di Dio, di qualsiasi dio creatore, comunichi al mondo attraverso un bip di una macchina, una macchina che ad ora certa spari nel sondino che risale dal naso nello stomaco un pastone di zuccheri e altro per tenere in vita. Stop.

Fosse che capiti a me, fosse che le creature che amo, per cui darei la mia vita, mi guardassero dai piedi di un letto con le sbarre di acciaio, ormai consapevoli che null’altro potrò dare loro, quell’amore che con ogni forza ora spingo nella loro direzione ogni giorno, e l’amore per la vita, e il rispetto di quella altrui prima ancora della loro. Fosse che avessero un dubbio. Voglio toglierglielo. Qui, ora. Con amore. Lasciate andare il mio soffio. E come chi dona gli organi, con la forza che ho cercato e cercherò di dare loro in ogni momento che mi separa da quel comunque inevitabile distacco, vadano a dare, a regalare questa forza, nella declinazione che dentro loro sarà maturata, ad altre vite, che abbisognano più che la mia, ove mai si trovasse in condizioni di irrimediabile degenza non più umana. Ferma, immobile, non più mia, in un letto di un gelido ospedale. La Vita. Stop.

Al Teatro Oscar fino al 23 Marzo e poi di certo ancora in giro in Italia.