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lunedì, Dicembre 23, 2024
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Ridere al femminile: il teatro, l’umorismo, le donne

escortVINCENZO SARDELLI | Littizzetto docet. E magari la Lucianina nazionale è fin troppo gettonata. Ma ormai la comicità femminile dilaga: che l’umorismo nello spettacolo sia essenzialmente maschile, è stereotipo definitivamente tramontato.

Altra cosa sono gli stereotipi dei personaggi femminili che scatenano la risata: dalla casalinga repressa alla bionda mozzafiato tutta curve e niente cervello, dalla segretaria ingenua alla zitella inacidita, finendo con la mamma iperprotettiva di figlio bamboccione.

Ecco perché vanno accolti positivamente spettacoli meno convenzionali, come La metafisica dell’amore con Le Brugole, oppure Stasera non escort con Rita Pelusio, Alessandra Faiella, Margherita Antonelli e Claudia Penoni.

Le Brugole Annagaia Marchioro e Roberta De Stefano, che abbiamo visto a Milano al Teatro della Cooperativa (testo di Giovanna Donini) sono brave a sorridere dell’amore lesbico, tema fino a qualche tempo fa scottante, oggetto di curiosità morbosa oppure soggetto di trattazione seriosa.

Crescono le due attrici di scuola Paolo Grassi. Diverte il loro cavallo di battaglia, premio Scintille 2011, che già aveva riscosso successo nel 2013 all’Elfo Puccini. Il titolo ha sapore esorcistico e in qualche modo paradossale: La metafisica dell’amore (sessuale) è opera di Arthur Schopenhauer che delinea l’eros come passione tirannica e totalizzante: l’istinto ci illude che l’amplesso con una persona ci procurerà felicità infinita, poi scopriamo che ci eravamo sbagliati. Intanto la natura ci ha “ingannato”, usandoci per la (sua) riproduzione.

Non così per le Brugole, che propongono un amore saffico ugualmente divorante ma senza prole, in un Paese come l’Italia dove le leggi inibiscono matrimoni e adozioni gay.

C’è un riferimento ai limiti che impediscono ai gay di accedere anche alla sala di rianimazione di un ospedale. Ma la polemica resta sullo sfondo, in questo spettacolo dai toni cabarettistici e dalla messinscena tradizionale, sgabello, chitarra, luci da piano bar. Buona la recitazione, con la De Stefano lanciata anche in un paio di gag canore che valorizzano la sua voce potente.

Sul palco viene sviscerato l’amore come sentimento universale, oltre gli steccati di genere. Le protagoniste raccontano e si raccontano. Danno vita a una carrellata di personaggi esilaranti alla ricerca di un amore: la psicopatica, la milanese rampante che tra un impegno e l’altro riesce a infilarci un orgasmo, l’artista, la fricchettona, la ex. C’è tanto di outing, o meglio di coming out, quando una delle protagoniste deve svelarsi alla madre bacchettona.

Bei dialoghi frizzanti, empatia e sincronismo tra le attrici, che hanno limato qualche cliché dalle prime versioni di questo copione sospeso tra stand-up comedy e rivista. Qualche stereotipo resiste, ma va interpretato come autoironia, che spazza rigurgiti autocommiserativi.

Meno artigianale, registicamente impeccabile, Stasera non escort, cavallo di battaglia del Teatro della Cooperativa, quest’anno approdato nientemeno al berlusconiano Teatro Manzoni. Come se Vendola facesse quattro salti ad Arcore. Però l’operazione ci sta, il titolo rende l’idea.

Marco Rampoldi, il regista, ci sa fare anche con il marketing. I suoi mentori sono gente come Fo, Strehler e Ronconi. Ha diretto attori come Lucia Bosè, Valentina Cortese, Sandro Lombardi e Franca Nuti. Potremmo continuare. Qua guida il meglio della satira femminile: Pelusio, Faiella, Antonelli e Penoni.

È cabaret, diciamolo: però d’alta scuola. Si ride dello stato delle donne italiane oggi. Presupponendo che per una donna contemporanea l’unico lavoro sicuro e ben remunerato sia quello della escort, le protagoniste posano uno sguardo impietoso sulle disparità tra i sessi, tra vita di coppia, mass media, e lavoro. La società odierna offre un’infinità di spunti comici, sebbene il riso si faccia a tratti amaro di fronte a certi scenari desolanti. Le attrici si alternano sulla scena tra monologhi e canzoni. Si soffermano su temi cari al mondo femminile: dall’autostima all’incomunicabilità tra i sessi, dalle fiabe alla pubblicità. Convincono i tanti personaggi sulla ribalta: le velone sgraziate, anchilosate da reumatismi e sciatica; la moglie zerbino che riesce a irrigidire di tutto, dal collo delle camicie al filo del ferro da stiro, tranne la sessualità intirizzita del marito; l’antropologa; la patita della chirurgia plastica.

Qualche scivolata nel pecoreccio? Tutto sommato no. Persino la Faiella versione vagina (compare travestita da vulva di gommapiuma) presenta lati della sessualità femminile credibili e originali.

Un Sex and the city teatrale all’italiana. Le protagoniste offrono un affresco sornione dell’universo femminile, sorridendo di tutto, a partire da se stesse.

Per Viviani e Arias siamo tutti circensi in bilico sul mondo

Circo SguegliaLAURA NOVELLI | I primi ad entrare in scena sono gli orchestrali: quattro musicisti che prendono posto nella buca sottostante il palcoscenico e si apprestano ad accompagnare, con un tappeto sonoro che è e dà sostanza, le dolenti acrobazie esistenziali di quei disgraziati artisti di strada che Raffaele Viviani descrive in “Circo equestre Sgueglia” (1922). Gli ultimi ad uscire di scena saranno invece i due personaggi principali, Samuele e Zenobia: clown ormai vinti dalla sorte ma ancora capaci di ricominciare, essi daranno le spalle al pubblico e, dopo aver cantato e cantato ancora, si incammineranno tra i vicoli di una Napoli crepuscolare come due Charlot dall’andatura barcollante. Tra incipit ed epilogo la cesura è forte ma inevitabile. Alla miseria – sembra volerci dire l’autore – probabilmente non c’è riscatto ma vale sempre la pena adattarsi alle capriole del destino, sperare in un domani migliore.

Opera quanto mai complessa e quanto mia stratificata nella sua partitura drammaturgica, questa “commedia in versi, prosa e musica”, sebbene negli ultimi decenni assai poco frequentata dal nostro teatro, ha preso vita la scorsa estate nel cartellone del Napoli Teatro Festival grazie alla visionarietà trasbordante e barocca di Alfredo Arias, agli arrangiamenti musicali di Pasquale Catalano e all’indubbia bravura di un folto cast dove figurano, tra gli altri, Massimiliano Gallo, Monica Nappo (nei ruoli già citati), Mauro Gioia, Tonino Taiuti, Lino Musella, Giovanna Giuliani, Gennaro Di Biase (che fa Bettina en travesti). In questi mesi, lo spettacolo gira la nostra Penisola (repliche all’Argentina di Roma fino al 23, poi Genova e Parma) e rinsalda un legame con la grande tradizione teatrale partenopea offrendone però una lettura votata a declinazioni sotto molti versi espressionistiche. L’epopea amara di questi fragili circensi alle prese con la fame, il pericolo, la mancanza di pubblico, le tempestose passioni extraconiugali che ne scompaginano l’equilibrio diventa (entrambi i protagonisti saranno lasciati dai rispettivi coniugi con sequela di disavventure gravissime) dunque lo spunto simbolico per raccontare le contraddizioni della vita tout court; e per raccontarle attraverso un varietà dei sentimenti che molto somiglia al montaggio delle attrazioni di Ejzenštejn (tornano in mente alcune sequenze del geniale filmato  Il Diario di Glumov), al grottesco di Mejerchol’d quale accostamento stridente dei contrari, di pianto e riso.

E se il regista franco-argentino non dimentica di delineare, nella sua felliniana visione d’insieme (con rimandi che vanno soprattutto a La strada), toni da farsa popolare e da commedia realista, lasciandoci gustare qualche assaggio di Commedia dell’Arte, Scarpetta, Eduardo e di sceneggiata carica di vibrazioni mediterranee e “viscerali”, tuttavia sembra prediligere la strada del cabaret di ascendenza tedesca, del café chantant, dell’opera in musica brechtiana. Ovviamente questo percorso interpretativo sospeso tra immedesimazione e straniamento gli viene suggerito dal testo stesso: basti considerare il ruolo nevralgico del Narratore che si aggira tra i detriti di questa sofferta vicenda e ne isola certi passaggi raccontandoli o cantandoli (un ottimo Mauro Gioia in frac e cilindro); ma si consideri pure il ruolo riepilogativo o esplicativo che hanno tante canzoni eseguite dagli interpreti stessi (emblematiche in tale senso le scene finali, che certo non sfuggono ad un eccesso di didascalismo), le gustose rotture della quarta parete che infarciscono la pièce e, soprattutto, la pluralità di voci, di sguardi, di giudizi che Viviani mette continuamente in gioco per parlarci di quel senso del limite, dell’essere in bilico, di quelle funamboliche peripezie quotidiane con cui tutti noi, volenti o nolenti, abbiamo a che fare.

Anche il variopinto disegno scenografico di Sergio Tramonti e le splendide luci di Pasquale Mari accondiscendono le diverse sfumature di un lavoro estremamente ricco di elementi (a tratti forse fin troppo ricco): la veduta iniziale di piazza Mercato si popola di due modestissime roulotte di legno (quella del proprietario Don Ciccio e quella di Roberto e Zenobio) che, insieme con un tendone realizzato alla buona, un cavallo di pezza dal sapore infantile, pentole, spaghetti e acqua messa a scaldare, rappresentano tutto il mondo di questi domatori, acrobati, pagliacci, giocolieri, ammaestratori sofferenti. Alla fine ci sarà un’altra veduta, un altro vicolo. Samuele (un Pulcinella ingenuo e benevolo cui Gallo offre una toccante interpretazione) e Zenobia (anch’ella anima candida affidata a un’attrice di estremo talento quale la Nappo, qui volutamente melò ma capace di scarti espressivi molto incisivi) si ritrovano dopo un anno. Entrambi soli. Entrambi affamati. Entrambi disperati. I colori sono cupi. Le canzoni hanno perso in passionalità e vigore per toccare corde malinconiche e lunari. Ma quella città così teatrale e così imprevedibile li accoglie ancora e dà loro la forza di cantare. Ancora. E ancora. E ancora.

Van Gogh alive: fra digitalità e divulgazione

van gogh digitaleGIULIO BELLOTTO | “Un interno con quasi niente dentro, di una semplicità alla Seurat”. Di fronte alla porta azzurra riaffiorano alla memoria le parole con cui nel 1888 Vincent descrisse a Gauguin il dipinto della sua stanzetta ad Arles. Un interno vuoto come quello in cui ci apprestiamo ad entrare; un interno sacrale, trattandosi della Cattedrale – il nomignolo magniloquente e forse un po’ compiaciuto di cui si fregia la Fabbrica del Vapore, “una parte importante del recupero industriale di Milano, una struttura sorprendente fatta di arcate e ambienti dotati di una propria personalità” ci dice Fabio Di Gioia, curatore della mostra multimediale Van Gogh Alive qui ospitata dal 6 dicembre scorso. “Si è voluto combinare lo spazio con le proiezioni quindi anziché sviluppare un progetto da “infilare” in una grande scatola architettonica, sono state sfruttate le pareti, il pavimento, le finestre, persino il grande portellone di carico della vecchia FdV. Questo non fa che sottolineare quanto l’arte, i colori e la magia di Van Gogh possano essere forti e non necessitino di elementi artificiali; il risultato è che ci si può trovare immersi i quest’arte in maniera molto semplice”

The experience, questa la didascalia della mostra, si basa sulla proiezione di un video della durata di circa mezz’ora; gli spettacolari effetti creati dal sistema Sensory4 e dagli schermi alti fino a sette metri non hanno di per sé altro scopo che quello d’intrattenere un pubblico il più ampio e diversificato possibile. In qualsiasi momento è possibile entrare nella stanza e nel mondo dell’artista, articolato attraverso movimenti che ripercorrono la sua vita e ripropongono le sue opere tramite animazioni e immagini digitali. “Si è cercato di rendere l’animo tormentato e l’eccitazione interiore dell’artista nella maniera più immediata e comprensibile possibile non solo attraverso le opere, prodotte in pochissimi anni, ma proiettando anche stralci delle sue lettere”.

Benché il filmato segua indubbiamente un percorso logico e temporale, la decisione stessa di non organizzare dei turni per la visione ma di lasciare la più ampia libertà di movimento allo spettatore indica chiaramente che lo scopo della mostra non è affatto didattico: non si vuole rendere edotto il pubblico su alcunché e ciò naturalmente significa anche che questa esperienza non richiede conoscenze pregresse. Molti dei visitatori sono in effetti giovani, numerosissimi sono i bambini accompagnati dagli insegnanti o dai genitori; per Di Gioia “questa è una conferma del fatto che durante l’esperienza ci si trova davvero sensorialmente avvolti dalle opere; non è solo l’idea di un adulto che ha acquistato nel corso della sua vita una certa sensibilità vuoi per i suoi studi oppure perché opera nel campo dell’arte, ma è proprio un fatto istintivo ed i bambini sono la “cartina tornasole” di questo fenomeno. Come si dice spesso, c’è un bambino in ognuno di noi e durante la visione della mostra quel bambino si trova piccolo piccolo al cospetto di questa meraviglia di colori”

L’arte di Van Gogh, fatalmente pervasa di misantropia, diventa così la maggiore espressione possibile della democraticità nella fruizione dell’arte: basta un solo passo per entrare nell’opera, per fare del proprio corpo una temporanea estensione dell’esperienza coloristica e della stessa essenza di un uomo geniale e tormentato come pochi altri negli ultimi due secoli di storia occidentale.

La presunzione di quest’operazione è tipicamente contemporanea quanto il mezzo multimediale che viene utilizzato per concretizzarla; la liceità del progetto non si basa su ragioni filologiche o antiquarie ma piuttosto sulla considerazione del pubblico come metro della riuscita dell’evento artistico. L’arte digitale non è romantica, questo è intuitivo; non è più espressione assoluta di un io lirico universalizzato, anzi è funzionale allo spettatore che ne diventa elemento tanto centrale da diventarne di diritto una parte fondamentale.

L’effetto che questa mostra può suscitare, al di là dell’innegabile impatto emotivo, è quello di un paradosso reso ancora più singolare dal fatto che i quadri che sono impietosamente mostrati nei loro dettagli più minuti, ingranditi e luminosi sui pannelli, furono dipinti da Van Gogh come consolazione della sua anima e non per vocazione o ambizione artistica – che infatti iniziò a dipingere solo a ventotto anni.

Si tratta di un’operazione lecita? “Lo ha chiarito lo storico dell’arte Flavio Caroli: l’opera rimane l’opera e il mezzo tecnico, multimediale o fotografico, non snatura l’opera ma è un modo per riproporla. In un catalogo non ci sono le opere ma le riproduzioni delle opere. Qui ci sono riproduzioni digitali di opere organizzate secondo un montaggio visivo e un’ampiezza di immagine che ci avvolge e ci fa sentire piccoli nei confronti dell’opera. Ciò non sminuisce ma anzi esalta la bravura dell’artista; è un megafono, non è assolutamente riduttivo. sono convinto che quando nella prossima stagione verrà a Palazzo Reale la mostra di opere di Van Gogh tutti potranno ricollegare ciò che hanno visto qui a quello che vedranno e saranno più pronti ad apprezzare gli originali

Anche l’assessore Del Corno ha fatto notare che l’esperienza non riguarda i quadri, che rimangono ad Amsterdam a ricordarci chi fosse Vincent Van Gogh, bensì le loro riproduzioni rielaborate.
Di fronte a questa obiezione anche il critico più tradizionalista deve ammettere che la scelta di porre l’accento su alcuni singoli aspetti dell’arte di Van Gogh, quella più coloristica e vicina all’impressionismo francese piuttosto che sulla denuncia sociale di tele quali I mangiatori di patate, può essere condivisibile o non condivisibile – al pubblico sta il giudizio, secondo la stessa filosofia dell’arte multimediale di cui Van Gogh Alive è solo un primo esperimento.

Vi lasciamo al video reportage di Marcello Rotondella.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=0l6p-zfml_M&w=560&h=315]

Il Don Giovanni di Timi: un collage “hippie” che divide

Dongiovanni_timiMATTEO BRIGHENTI | Il sesso è un cannibale del tempo che fugge. Un torero che affoga dentro il toro, incornato da sangue sempre vergine, non ha pazienza, non sa aspettare. Vuole. Vuole tutto. Vuole subito. Nulla, però, stringe davvero. Si accende, ma non brucia. La giostra della seduzione gira ne Il Don Giovanni – Vivere è un abuso, mai un diritto, di e con Filippo Timi, gira e rigira, ma il panorama resta sempre lo stesso: il vuoto riempito di vuoto. Sbeffeggiato, deriso, comunque sdoganato, mitizzato.

Per 3 ore e più Timi compone un collage “hippie” di incontri, travestimenti, baruffe, intervallato da video scaricati da Youtube (virali come intende essere lo spettacolo), che si regge principalmente sulla bravura degli attori: Umberto Petranca, Alexandre Styker, Marina Rocco, Elena Lietti, Lucia Mascino, Roberto Laureri, Matteo De Blasio, Fulvio Accogli, ingabbiati nei costumi pirotecnici di Fabio Zambernardi, dimostrano adesione totale al progetto, per fatica, impegno, presenza scenica e partecipazione a ogni battuta, sguardo o lazzo. Devi credere in quello che fai e dici per arrivare in fondo a Il Don Giovanni. E loro ci credono. Ciecamente.

Il pubblico ride. Smette solo con la chiusura del sipario, dopo l’ultimo applauso scrosciante. Ride perché sono anni che, in mancanza di pane, gli vengono dati i chewingum, qualcosa da far rimbalzare tra i denti per illuderlo di mangiare. Timi lo sa a tal punto da cavalcarlo come una tigre. Per lui il vero uomo di successo non ha pudore né vergogna? Bene. Fedele al proverbio latino “cacare al mattino fa bene quanto una medicina”, appena alzato Don Giovanni si fa portare dal fido Leporello un cesso d’oro. Si cala i pantaloni, si siede sulla tazza, apre la “Gazzetta dello Sport” e discetta su quanto sia meglio fare la cacca intera invece che a pezzi.

Il Don Giovanni è quindi il vecchio presentato come nuovo, le gag delle vacanze di Natale sul piccolo o grande schermo spacciate per “ricerca teatrale”. Scontenta la critica, contenti gli spettatori (anche o soprattutto perché la critica è scontenta) che accorrono in massa. Al prezzo, però, non di un cinema, ma di un teatro di prosa. Questo è il genio di Filippo Timi.

248 kg: l’essere come insostenibile pesantezza per Esiba Teatro

h2-224x300RENZO FRANCABANDERA | Quanto il nostro tempo ha reso l’esperienza ponderale un drammatico riscontro della presenza dell’individuo nel sociale e misura dell’accettabilità o meno dello stesso entro parametri estetici che travalicano in giudizio etico e morale? Certamente fare di questo il fulcro di 248 kg di Esiba Teatro sarebbe anche fuorviante, nonostante l’incipit e l’explicit su questo si basino, e il titolo non lasci spazio ad equivoci. Ma nonostante la questione fisica sia tanto presente e viva, certamente essa funge da pretesto per un ragionamento capace di farsi ampio fra vuoti e silenzi, parole e violenze che, senza mai farsi concrete, senza mai travalicare il muro della didascalia, sanno donare in più d’un momento la tensione dei rapporti di forza e violenza fra universo adulto e bambino, e anche all’interno del mondo dell’infanzia stesso, che infine rivela le sue crudeli dinamiche.
Il lavoro inizia con una serie di immagini e simboli di grande impatto e potenza, con un’ostensione di un corpo imperfetto, i seni maschili ampi e villosi, il corpo largo di Angelo Abela che frantuma alcune uova, raccolte faticosamente in un percorso di equilibri precari. Un inizio davvero notevole, da cui si dipana poi una storia i cui interpreti sono quest’uomo fragile, Benno, che torna bambino, nel suo rapporto non facile e non innocente con suo nonno (Eugenio Vaccaro), e con un’altra bambina (Marco Pisano).
La vicenda si sviluppa negli intrecci torbidi fra i personaggi, fino ad un finale in cui il mostro obeso iniziale, in realtà lo sconfitto agnello sacrificale, inghiottirà i cocci della sua esistenza, i frammenti di un intero che non tornerà più, e che continueranno a lacerarlo dentro, come sempre accade per chi, più debole, deve subire.
La regia di Sebastiano Di Guardo sposta la messa in scena su un binario che pondera maggiormente l’elemento prosastico, a dispetto della potenza che sia in questo che nel primo esito della Trilogia della Sconfitta, Cianciana, i momenti di immagine e di lavoro sull’oggetto di scena propongono.
Sicuramente dove la parola non vuole diventare protagonista e dettare le dinamiche sceniche, il lavoro si fa più rarefatto, creativo e interessante, mentre dove il testo prende possesso dei tempi e delle relazioni fra le figure, qualcosa si appiattisce e si perde, anche nella ricerca di un ideale dialogo con il pubblico un po’ insistito.
La ricchezza visionaria delle immagini è per Esiba un terreno fecondo su cui continuare la ricerca, non a scapito della parola, ma a suo sostegno ed esaltazione.
In questo caso il complessivo drammaturgico che Tommaso Di Dio ha realizzato, stendendo i tre testi alla base della Trilogia, magari ha reso la parola, idealmente, assolutamente non sacrificabile.
Eppure l’allestimento in più d’un momento pare rivelare piuttosto chiaramente come una parte di testo possa restare non detta e resa attraverso i gesti che diventano metatesto nell’immaginario dello spettatore, cui sempre va il compito di completare l’opera d’arte, anche dove è silenzio  e solitudine. Questa sottrazione, e l’affermazione del silenzio scenico è sempre in ultima analisi una crudele scelta di cui deve farsi carico la regia.

Lo spettacolo è fino al 16 marzo a Milano a Teatro della Contraddizione

Pathosformel: l’ultimo discorso su corpi gialli

ELENA SCOLARI | la-prima-periferia1De Chirico, il meccano, i corpi di plastica fusa di Pawel Althamer alla Biennale 2013, le riabilitazioni dopo un osso rotto, e siccome ho studiato un po’ anche Mejercho’ld, tiè! A tutte queste cose mi ha fatto pensare lo spettacolo “La prima periferia” di Pathosformel, visto al teatro Out Off di Milano in occasione delle ultime repliche prima dell’effettivo scioglimento della compagnia, che avverrà quest’estate a Fies, la cool factory di artisti che li ha visti nascere.

Mi devo spiegare un po’ meglio: niente scenografia, solo una pedana bianca, musica continua lenta e siderale, 3 fonti di luce livida, 3 fantocci di metallo giallo, accovacciati, 3 ragazzi di grigio vestiti, muti. Uno per volta si avvicinano con delicatezza infinita ai fantocci e li muovono, piano, con tenerezza, li spostano, li accompagnano. A tratti pare che insegnino loro a camminare, oppure che ricompongano le loro salme, con amore.

In cosa sta l’idea forte? Nel ragionare, anche dolorosamente, sul corpo, senza usare il proprio: i tre attori (forse dovrei dire performer) hanno corpi giovani e sani, che più giovani e più sani appaiono per il contrasto con i tre resti umani, vuoti e bisognosi, ma la loro presenza scenica è sempre funzionale ai fantocci. Li sorreggono, li alzano, li siedono, li ripiegano come camicie eleganti, li aiutano. Questo aspetto dell’aiuto è – a mio parere – altro punto focale del lavoro: è fortissimo un senso materno di protezione, una tenerezza nell’avvicinarsi a questi esseri fragili, che nulla possono con la loro inesistenza, Daniel Blanga Gubbay, Simone Basani e Giovanni Marocco (ideatori insieme a Paola Villani) vestono il loro grigiore e spariscono nell’attenzione chirurgica con la quale piegano le falangi, girano le teste o accomodano i piedi delle marionette metalliche, applicano a loro una vita trattenuta che non gli passano mai. Sicuramente siamo anche noi, quei corpi ridotti al minimo, in una vita dove tanta attenzione si dedica al corpo, qui la metafora è l’inutilità di tutti questi sforzi: alla fine a tutti abbiamo bisogno di tenerci su l’un l’altro. Ho pensato anche al perché del giallo, e mi sono detta che ricorda il colore dei mezzi da cantiere: benne, gru, scavatrici, sono quasi sempre gialle. Meccaniche e mosse dall’uomo, anche loro.

Ho sentito molta poesia in questi 40 minuti de “La prima periferia”, poesia nel senso stretto: dire una cosa profonda non con il minimo delle parole, in questo caso – completamente assenti – ma con il minimo dei gesti. Certo non c’è ottimismo, c’è anzi una certa desolazione ma sembra, o almeno io così voglio credere, che si veda molta fiducia nei rapporti, sembra un invito a fidarsi.

Per noi spettatori questo è l’ultimo spettacolo di Pathosformel, prima e ultima periferia, forse non ne avremmo retta un’altra, e anche il resto del pubblico stenta a lasciare la sala, salutiamo i tre gialli e i tre grigi pensando che la poesia può lasciare sfiancati. Ma ogni tanto fa bene.

Scheriani, diario intimo di Sarah Kane

sarahVINCENZO SARDELLI | A raccontare la vita di Sarah Kane, drammaturga inglese morta suicida a 28 anni nel 1999, si rischierebbe di banalizzare. Oppure di entrare nella sua intimità con quel po’ di voyeurismo e volgarità. Personaggio maledetto Sarah Kane. Come gli artisti che producono un’arte fervida, urtante, che racconta la malattia dell’animo umano. E muoiono giovani.

E allora è meritevole Io sono Sarah Kane, monologo a intreccio di Paolo Scheriani, di scena all’Out Off di Milano con Nicoletta Mandelli e Camilla Maffezzoli. Un testo intriso di poesia e moralità, capace di sublimare, in una sorta di elogio della bellezza dell’anima, una vita dai risvolti spietati. Un’operazione che ricorda La canzone di Marinella di De André: una ragazza reietta, trovata morta in un fiume, riscattata attraverso la fiaba.

Spettacolo intenso e straniante. Come i video su tre maxischermi di Luca Lisci che scorrono sullo sfondo, immagini cosmiche e ritratti sfumati in bianco e nero. Evocano l’amore per il teatro.

Le musiche da cinema giapponese svelano in controluce l’impostazione della regia. Una tecnica da Nouvelle Vague: staccarsi dall’impersonalità di un teatro stantio e fasullo, puntare sulla realtà. Mostrare la vita non così come scorre, ma catturandone l’essenza.

La scena è un lastricato di mele rosse. La mela è allegoria ambigua, dal pomo della discordia al giardino delle Esperidi, fino all’edenica seduzione del peccato. Perciò, nell’arte barocca, la morte è scheletro che tiene in mano una mela: il prezzo del peccato è la morte.

Sul palco anche dieci sedie, che le attrici scompongono e ricompongono come in un domino creando movimento scenico. Le sedie preludono all’abbattimento della quarta parete: il pubblico salirà sul palco, entrerà nell’anima del personaggio.

Il gioco metateatrale è il fil rouge della pièce. Personaggio, attrici e pubblico, siamo assorbiti in un rito identificativo. Le attrici s’intersecano nella recitazione, scambiandosi ruolo e abito, sdoppiandosi o specchiandosi. Rivolgendo agli spettatori continue apostrofi.

Il rosso, il bianco e il nero sono i colori chiave dei costumi: sangue, latte e grumi; passione, purezza e morte.

Anche le luci, coni strappati all’ombra, disegnano piani introspettivi. Rompono la continuità attraverso successioni statiche, con narratrice unica e lieve sottofondo sonoro. Lo spettatore percepisce aspetti frammentati della realtà: la memoria che ognuno ha della propria vita è parziale, tronca. Come quando si guarda un album fotografico, i ricordi riaffiorano in modo aleatorio, con salti temporali. Le scene sono montate in modo da riprodurre l’intreccio disordinato dei pensieri.

La pièce ci introduce nel tormento di un essere umano. Nicoletta Mandelli e Camilla Mazzefoli si fanno da contrappunto, voce calda e intensa la prima, acuta e convulsa la seconda. Due stili, metafore di una vita sognante e corrosiva.

Scheriani reinventa Sarah Kane. Scava nei suoi vagheggiamenti adolescenziali, nel dialogo interiore con la madre. Evoca la sua passione per il teatro, l’atto creativo come nevrosi e impotenza. Invoca il rapporto con il pubblico. Polemizza contro una critica accomodante verso gli stereotipi, aspra verso le novità.

Io sono Sarah Kane è un’installazione di corpi e pensieri, un continuo fuoriuscire dal personaggio. L’esito a questa follia di sentimenti è il silenzio. Le attrici fanno un mucchio delle sedie. Ci schiodano dalle nostre poltrone, dalla nostra vita tranquilla, accompagnandoci sul palcoscenico. Ci invitano a guardare il personaggio nella sua essenza, come Pinocchio in carne e ossa contempla il proprio burattino. Ma qui i burattini siamo noi. Entriamo in un altro essere umano. Lo abitiamo. Respiriamo con lui. Superiamo la nostra verità, parziale e autoreferenziale, contaminati da un flusso di emozioni che persiste fuori della sala.

 

Il drammatico impatto del vero: il finale “scotto” di Masterchef

finalisti di masterchefRENZO FRANCABANDERA | Come se ci fossero due che fanno sesso. Entra un gruppo d’amici nella stanza, li separa e dice: “ Per le urla finali e il piacere spostiamoci in un comodissimo open space, in un palazzo di periferia, con i colleghi a guardare”. Un po’ è successo questo alla finzione di Masterchef nell’ultima puntata. Persino a chi l’ha vista con gli spezzoni messi quest’anno in rete da Sky.

Andiamo ai fatti e riflettiamo sul tempo. Sky ragiona: certo sarebbe figo fare anche con Masterchef la stessa cosa che abbiamo fatto con X-factor. Visto che successo di ascolti per la finale in diretta in chiaro?
Si, ma la finale di Masterchef non può andare in diretta per un semplice motivo: anche solo un banale riso in bianco ci mette venti minuti a cuocere e senza suscitare brividi di sorta; figuriamoci una crema dolce agrumata, con fiorellini, croccante e tappeto di basilico “un vero tocco di classe”. Roba che ci vuole un’ora solo a pensarla. La verità è che il format di Masterchef e le puntate dal montaggio selvaggio hanno il grande pregio ma anche il colossale difetto di mistificare i tempi della cucina, che sono lunghi, di passione, di attesa della lievitazione.
Quindi la diretta non si poteva fare.
Va bene, allora facciamo solo la proclamazione.
Facciamo cucinare i due, magari ci buttiamo dentro pure l’incognita di essere aiutati da qualcuno degli eliminati, arriviamo con la busta con il nome del vincitore, a loro sudano le mani, tensione alle stelle. E poi “STOOOOP!!! -urla il regista- Fermi tutti. Ci spostiamo nell’open space”.
Fra la gente normale, in una sorta di paganissima festa di piazza.

Dove però di colpo questo format ha infranto la regola su cui è costruito, l’asettica dimensione di un luogo sacro, l’inquadratura della lingua al rallenty che accarezza il labbro di chi aspetta di diventare il vincitore, o dei denti dell’arcata superiore che mordono per tensione l’angolo destro del labbro inferiore mentre Cracco morde lo scalogno profumato al sale di Scozia. E dove si costruisce finanche una finzione credibile di questi concorrenti come persone e non come personaggi. Ma il finale in diretta svela che erano personaggi, il finto della tv, fra tempi morti e inquadrature incongruenti, con la regia che va in vacca, mentre una delle partecipanti per scaricare la tensione urla, non sapendo di essere sentita da qualche milione di persone, perché il microfono del vincitore che sta abbracciando è aperto, una roba tipo: “Ce l’abbiamo fatta, vaffanculo! VAFFANCULO!” E mentre nelle edizioni precedente il perdente ha taciuto, inghiottito dal finale della fiaba, questa volta, con il velo squarciato del vero che irrompe nella finzione tv, ecco il prode Almo, militare ferito, a dichiarare che si, è stata una farsa.
Qualcuno dovrebbe spiegargli che è così dalla prima puntata. Perché volendo cercare il significato più banale del termine farsa, troverebbe che è un genere la cui struttura e trama sono basate su situazioni e personaggi stravaganti, anche se in generale “viene mantenuto un certo realismo attraverso eventi, storie e atmosfere quotidiane, ma declinate in modo grottesco e nei loro aspetti irrazionali. I temi e i personaggi possono essere di fantasia, però devono risultare credibili e verosimili!.(cit. Wikipedia). Ma questa nel nostro tempo è solo e semplicemente la tv. E in particolare i format e i reality, che non sono altro che un telenovela 2.0, con il pubblico che da casa vota, manda sms e pensa di influire addirittura sulla trama. E magari sul finale di un Beautiful dove il tuo vicino di casa sta per baciare .
Si, è una farsa. Da decenni, diciamo. Chi non ne vuole prendere consapevolezza di questa cruda realtà, questa tartare dell’esistenza, deve restare tranquillamente a prestar servizio in qualche corpo dell’arma o in una pensione di lusso per animali di piccola taglia.

Quotidiana.com: se l’ironia sfida (e batte) la pennichella

ilariascarpa_quotidiana.com_2-300x199VINCENZO SARDELLI | Divertirsi e riflettere anziché morire dal sonno. Sorridere, attraverso una comicità che è sempre lì lì per consegnarti a Morfeo. Chi la vince tra humour e pennichella?

Tutto si può dire del duo (sul palco e nella vita) Quotidiana.com, tranne che non abbia una sua personalissima cifra. Grattati e vinci, in scena al Teatro della Contraddizione di Milano, è la terza tappa di una Trilogia dell’inesistente in cui Roberto Scappin e Paola Vannoni rivisitano in maniera sarcastica il rapporto di coppia. Giocandosela, scientemente, sul soporifero. Preservando un’amarezza di fondo.

Asettica la scena, con un paio di luci gialle al neon, un tavolo, cui sono appoggiate un paio di sedie, un vaso da fiori, con dentro carote e sedano. Se è vero che siamo ciò che mangiamo, anche il cibo di questa coppia è mesto e insipido.

Lo spettacolo: un uomo e una donna basiti e storditi stanno tiepidamente bene insieme. A modo loro si amano. Con toni che sono quelli che si possono trovare in tutto il mondo. Eppure qualcosa manca per rendere la loro vita più sapida. Perché il rapporto decolli non basta che i due si facciano da specchio riproducendo, alla velocità del bradipo, i medesimi movimenti “telefonati”.

Una comicità surreale, flemmatica, seriosamente spiritosa. Per interrogarsi sulla ricerca di una felicità sempre più difficile da trovare, da soli o in coppia. Freddure a gogò nei dialoghi che strizzano l’occhio alla vita reale: Siamo dei manichini viventi, e quando saremo rimbambiti, raggiungeremo la perfezione. Oppure, dal panettiere: – Mi dia un chilo di pane. – Ma così le diventa duro. – Allora me ne dia quattro.

Si parla del più e del meno, di tutto e di niente. Dalla religione alla politica, dal sesso all’alimentazione. Filosofia e frasi terraterra. Con un uso sapiente, complesso e articolato, della parola.

«Che pericolo la quotidianità, e la tranquillità» canta Fiorella Mannoia. Scappin e Vannoni hanno il gusto della sfida: divertire a ritmi slow. Sale e pepe q. b. Una volta al giro d’Italia c’era la maglia nera. Doveva arrivare ultima alla fine della competizione. Era premiata, ma stando attenta a non finire fuori tempo massimo. Ci volevano arte e calcolo.

Recitazione neutra, Grattati e vinci. Vita di coppia piatta. Cinquanta sfumature di grigio, nulla a che vedere però con il romanzo osé di E. L. James. Sarcasmo e indolenza dilagano. La luteolina nelle carote di cui i due si cibano non serve ad attivare neuroni performativi, né ad assimilare la loro vita coniugale a quella dei conigli: sul palco, come nella vita, fare l’amore può mancare, eccome.

Lui e lei, melanconici e ipocondriaci, temono la vecchiaia e la malattia. Troppo pigri perché continuino a vivere. Troppo pigri pure per ammazzarsi.

Una vita che è gabbia, divieti e obbedienze. Ci sarebbe da ribellarsi, da mettere il mondo a soqquadro: meglio dormirci su. Però Scappin e Vannoni un sussulto ce lo regalano, il duetto in cui imitano Stanlio e Ollio. Ma si fa più audience e meno fatica calandosi le braghe e tirandolo fuori, pensa Scappin.

In quest’esibizione dall’ironia intima e sopita, dove la bocca dello spettatore se la gioca sul doppio registro del sorriso e dello sconcerto, emerge l’identità totale tra persona, attore e personaggio. L’autenticità guarda all’arte.

Grattati e vinci non è uno spettacolo per tutti i palati, ma è colto e originale. C’è una buona drammaturgia. Intelligenza. E uno stile. Se volevate ritmo e suspence, avete sbagliato serata.

Sarebbe curioso vedere questo copione recitato da attori classici, davanti a un pubblico più generalista. E vedere di nascosto l’effetto che fa.

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Mattia (che fu): un felice caso di serendipity

phTanya Velasquez
phTanya Velasquez

RENZO FRANCABANDERA | Ci sono molti motivi per suggerire uno spettacolo. Alcuni si riferiscono allo spettacolo stesso, altri a riflessioni che possono scaturire dalla visione. In questo caso entrambi, perché si tratta di uno spettacolo ben architettato e che mi ha lasciato un interrogativo.

“Mattia – a life changing experience” ispirato a Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello è un testo di Bruno Fornasari, portato poi in scena da Fornasari stesso come regista e interpretato da Tommaso Amadio, Marta Belloni, Matthieu Pastore, Valeria Perdonò, Michele Radice.

La drammaturgia è un meccanismo narrativo abile, intrigante, che parla di un ingegnere con moglie e figli, che ripercorre la sua vita e si ritrova di fatto in una gabbia di debiti, fallimenti e progetti mancati o non voluti. La sua fuga diventa così la sua prima vera opera d’arte, per la quale troverà complicità inaspettate.

In un soggiorno asettico e sufficientemente digitale per portarci da inizi Novecento a inizio Duemila (pensato da Erika Carretta) le vicende di questa esistenza e di quelle che le girano attorno verranno intrecciate in modo pirandelliano così da non dare l’idea di poter alla fine comprendere se si tratti di una, nessuna o centomila verità, e questo è elemento a favore dello spettacolo.
Come pure a favore gioca il fatto che ad un certo punto un po’ ci si perda, non si capisca se siamo di fronte a eventi realistici o fatti fantastici.
E gioca a favore il fatto che il testo -frammentassimo, per cui le battute girano ad un ritmo vertiginoso- inizi sulla bocca di un personaggio e finisca su quella di un altro, con un montaggio verbale molto televisivo/cinematografico, quindi con una vocazione a dialogare con il pubblico contemporaneo. E’ un dialogo che gli attori stessi non lesinano in scena, agganciando almeno due tre volte lo spettatore in sala in modo diretto.

Se poi lo spettacolo parli davvero del cambiar vita e di ciò che accade quando si sparisce, questo è l’oggetto dell’interrogativo di cui all’inizio. Infatti questo evento accade, nei 90 minuti dello spettacolo, a meno di un quarto d’ora dalla fine. così viene il dubbio che appunto l’esito drammaturgico sia un classico caso di serendipity, in cui lo spunto e l’idea originale poi incontrano un’altra inaspettata strada, magari più funzionale agli equilibri scenici, e che il drammaturgo/regista abbia poi costruito su questa occasionalità un edificio sufficientemente solido e consistente da testarne felicemente la navigazione. Di quella che è la vita di Mattia con la sua nuova identità vediamo pochissimo. Nè abbiamo spazio sufficiente per immaginarla. Lo troviamo letteralmente negli ultimi 2 minuti e mezzo di spettacolo in Sud America, e di lì, come il suo predecessore letterario, cerca comunque di ricontattare il suo mondo d’origine, ovviamente con le forme della contemporaneità.

La riscrittura è interessante, depura le morbosità pirandelliane relative alla capacità / incapacità di generare, e si adatta ad un allestimento in cui gli attori entrano ed escono dal personaggio, concedendo solo nel finale il pathos allo spettatore, con le frasi smezzate che cedono il passo a micromonologhi. A volte appare un po’ gioco, ma ci sta, nella leggerezza generale dell’impianto.

Ci si trova di fronte ad un castello ben costruito, all’uscita dai cui bastioni resta solo all’osservatore critico l’interrogativo sul fondamento, sul pensiero, sull’idea che lo spettacolo vuole comunicare: rimane davvero centrale, come Fornasari stesso dichiara in un’intervista, il tema del cambiare la vita che non senti tua? O magari il focus è altrove? O forse, e questo non riusciamo a dire se sia un pregio o un difetto, è solo una fotografia in un certo modo sfuocata (volutamente o no) delle vite contemporanee e prive di responsabilità, che quindi lascia quella sensazione di voler dare ad intuire senza far comprendere fino in fondo.
Resta solo il ragionevole timore che l’abilità nella costruzione drammaturgica e il meccanismo scenico rodato come una macchina, con gli attori tutti tecnicamente all’altezza di una prova non agevole nel porgere e ricevere battute smezzate nel loro portare senso proprio, abbiano poi spostato l’attenzione della regia rispetto al tema della vita desiderata e non avuta, o della fuga da se stessi; per incontrare un messaggio forse più casuale e sfuggente, e magari per questo scenicamente efficace e di pronta comunicazione col pubblico, che infatti esce di sala contento. Purchè non ci si crogioli troppo in questo gioco.