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lunedì, Dicembre 23, 2024
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La tv, il successo e l’importanza di non saper far nulla

Img: Mister Solo_www.giuseppecolarusso.it
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EMANUELE TIRELLI | Ne “La terra desolata” T.S. Eliot scrive “tu, Tiresia, se lo sai, lo sai dannatamente bene, altrimenti non lo sai”. Questa frase contenuta in uno dei capolavori del postmodernismo può essere usata come sprone per ogni cosa. Se lo sai, se lo fai, se lo conosci, se… dovrà essere solo dannatamente bene.

Lunedì 3 marzo è andata in onda la prima puntata della tredicesima edizione del Grande Fratello. 5,4 milioni di telespettatori con share del 24,6% per quello che oramai non è fuori luogo definire un grande carrozzone. Alla conduzione c’è ancora una volta Alessia Marcuzzi affiancata da due opinionisti di spessore: una Manuela Arcuri al settimo mese di gravidanza e tale Cesare Cunaccia.
I concorrenti sono quindici e resteranno chiusi negli studi di Cinecittà che ospitano la “casa” per tre lunghi mesi. Cosa sanno fare? Quali abilità hanno? In cosa sono chiamati a distinguersi?
Purtroppo le risposte sono negative o non pervenute. Come ci hanno abituati in tutti questi anni, i concorrenti del Grande Fratello non devono saper fare nulla di particolare. Molti di loro non sanno articolare le parole in italiano e dimostrano di non avere grande dimestichezza con i ragionamenti più semplici e con le nozioni basilari di cultura. Questa volta hanno un’età compresa tra i 25 e i 36 anni. La Marcuzzi sostiene si tratti di persone che hanno “storie importanti da raccontare”. Naturalmente non sarà solo per questo motivo, per le loro storie, se esiste il programma, altrimenti per quanto possano essere interessanti non durerebbe affatto 90 giorni.
È indubbio che il trash abbia il suo fascino e una certa fetta di pubblico, ma il Grande Fratello non si presenta come tale. Vuole invece vestire i panni dell’intrattenimento da prima serata. Un intrattenimento leggero e, in questo caso, lento, privo di qualità e di comicità, se non nella misura indicata da Henri Bergson nel saggio in cui spiega chiaramente come possiamo ridere degli altri solo quando siamo separati da un certo distacco. Il problema è che invece un’altra fetta di pubblico televisivo, forse la più consistente, si ritrova in alcuni concorrenti e crede che questo programma sia uno strumento per diventare famosi, avere visibilità, cambiare vita e magari essere anche un po’ più ricchi.

Senza voler scomodare completamente un articolo dello scorso 15 febbraio, in cui il filosofo e docente universitario Umberto Galimberti scriveva che i genitori italiani e, naturalmente, i loro stessi figli sono più preoccupati dei risultati raggiunti, della promozione, del diploma, della laurea, a prescindere da quanta cultura sia stata realmente acquisita e di quale impatto abbia poi sul mondo del lavoro e nella competizione internazionale… Ecco, senza volerlo scomodare completamente, potremmo riflettere su quanta importanza abbiano i titoli e quanta le competenze. E nel caso del Grande Fratello quanta importanza non abbiano affatto nemmeno le competenze come invece accade ultimamente nei programmi di cucina che impazzano in tv e che almeno mettono realmente in campo talenti concreti.

C’è chi la chiama tv spazzatura e chi si domanda perché il format non abbia ancora chiuso i battenti. Ma se 5,4 milioni di italiani hanno visto la prima puntata vuol dire che c’è ancora interesse nei confronti di un prodotto come questo. Vuol dire che Thomas Stearns Eliot, il postmodernismo, Henri Bergson e Umberto Galimberti sono importanti e per alcuni necessari, ma che forse sarebbe altrettanto necessario fare in modo, innanzitutto, che il numero di potenziali spettatori diminuisca. Magari partendo dalle famiglie e dal rapporto con la scuola come suggeriva Galimberti, nell’idea che dietro un risultato ci sia uno sforzo, un percorso o quantomeno un progetto. Senza finire per forza con il dover conoscere “La terra desolata”, ma almeno con la possibilità di riconoscere importanza alla sostanza delle cose e di sapere realmente ciò che si fa, senza improvvisarsi continuamente in ruoli per niente calzanti, lamentandosi poi di non essere riusciti ad ottenere dalla vita tutto quello che si desiderava.

Medea e Pasolini alle Olimpiadi: lo sport fra passione e lacci arcobaleno

Vladimir-Luxuria-attimi-di-terrore-a-Sochi-per-gay-è-okEMILIANA IACOVELLI | “La parola barbarie è la parola al mondo che amo di più”: è evidente che Putin ha letto Pasolini e non l’ha capito. Cala il gelo sulle Olimpiadi invernali di Sochi quando il Premier russo Putin si rivolge alla comunità gay: “Siete i benvenuti, ma lasciate stare i bambini”. La situazione si complica quando Vladimir Luxuria decide di esporre non solo un’orrenda acconciatura modello paraurti dell’Alfasud, ma anche un cartellone con la scritta “Gay è Ok”. L’arresto è immediato e, direi, irresistibile per un ex agente segreto. A discolpa di Luxuria c’è da dire che Putin non aveva specificato che oltre ai bambini, bisognasse lasciare stare anche i giocatori di hokey.
A gettare benzina sul fuoco interviene poi Ecclestone, padre della formula 1 e di svariati altri figli nel mondo: dopo uno slalom gigante tra i bar di Londra prende le difese di Putin e apriti cielo!

Pasolini aveva detto di Giasone: è “la mens momentanea che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone questioni del genere. È il tecnico abulico la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo” senza sapere che sarebbe stato profetico: non è bastato, infatti, spargimento di sale e tintinnìo dei gioielli di famiglia per evitare, in sequenza, caduta del muro di Berlino, elezione di Putin a Presidente della Federazione russa e organizzazione delle Olimpiadi invernali a Sochi (più Crimea e Kamchatka con un unico lancio di dadi).
Ci rispediscono in Italia Luxuria “barbarica come una gitana”, che si gode la ritrovata libertà dopo aver sfoggiato, nelle patrie galere russe, il suo fascinosissimo e sobrio vestito arcobaleno D&G, preoccupata dal calo delle borse per l’intervento russo in Crimea “questa volta nulla potrà il fondotinta super coprente”.

In Italia, intanto, si gioca la partita Inter-Cagliari. Sul rettangolo verde Dessena, “ingenuo, generoso, disponibile alle cose nuove” soprattutto se migliorano il look, decide di indossare lacci colorati simbolo di una campagna contro l’omofobia. L’intervento appare ai tifosi non “in asse”, un po’ come la spina dorsale del funambolico Hübner sotto porta. Riceve una valanga di insulti sul web perché, si sa, il calcio è sacro e “la sacralità è un bene collettivo”.
Il centrocampista del Cagliari si difende: “Nello schema ad albero di Natale mi sembrava che mancasse qualcosa”. Certo Dessena in quella partita di palle ne ha toccate un’infinità. Alla domanda di una insistente giornalista sui motivi del suo gesto, lui, con il petto gonfio come un tacchino il giorno del Ringraziamento, fiero risponde: “Mio padre Bachisio, operaio a Parma alla società acqua, luce, gas, mi ha insegnato certi valori: ho fatto un gesto normalissimo, mi sono solo allacciato le scarpe”. Lui, ignora che, per dirla con Pasolini “la passione non ottiene mai perdono”.

L’algida denuncia grigio-gialla di Fanny&Alexander

f&aVINCENZO SARDELLI | All’Accademia di Firenze si conservano sei opere michelangiolesche definite Prigioni. Sono statue apparentemente incompiute: uomini che sembrano emergere dolorosamente dalla pietra. È il tormento dell’uomo, di liberarsi dalla corporeità per avvicinarsi all’ideale.

Abbiamo la stessa sensazione di lotta tra materia inerte e anima della materia (nella fatica di farsi carne) vedendo Fanny&Alexander al Teatro I di Milano. Sia in Discorso Grigio sia in Discorso Giallo, i due monologhi in scena, assistiamo a questa dialettica tra persona, attore e personaggio.

C’è addirittura una compresenza di figure nell’atto stesso di presentarsi al pubblico. L’attore è in crisi, in dissidio con le molteplici identità dei suoi personaggi, in una lotta che è caos e trasformazione.

La drammatizzazione è algida, robotica. Avete presente quando si dice di un attore che entra nel personaggio, o che persona e personaggio sono una cosa sola? Bene, con Fanny&Alexander è tutto il contrario. Il loro teatro è un’allegoria delle infinite dimensioni che ci contrassegnano, maschere che indossiamo. Ognuna autoreferenziale e indipendente, eppure in relazione con le altre. Ritagli dell’identità frammentata e parossistica cara a Pirandello. Ma con una resa, indifferente e apatica, che ricorda Moravia.

In Discorso Grigio (ideazione Luigi De Angelis e Chiara Lagani, drammaturgia Chiara Lagani, regia Luigi De Angelis) Marco Cavalcoli, andatura caracollante, microfono in mano, si presenta sul palco con cuffie alle orecchie con cui mostra di interagire, quasi eterodiretto. La sua performance è intrisa di un’ulteriore presenza dunque, stavolta fuori scena. Il che spiazza ulteriormente il pubblico. Cavalcoli sciorina uno stock di parole futili, slogan, motti retorici, che dal fascismo al (post?) berlusconismo contrassegnano la scena politica italiana. Un sottofondo sonoro metallico s’intreccia a ovazioni e applausi (a cura di The Mad Stork).

È una fiera delle vanità verbali, accompagnata da schizofrenia, tic nervosi e gesti convulsi. Che ci sia uno studio, in quest’arte di comunicare viziosa e ammorbata, è palese. L’oratoria classica come sequenza di informazioni da trovare, organizzare, contestualizzare ed esporre, è mandata alle ortiche in questo puzzle fantomatico. Discorso Grigio caratterizza il politico trombone. Ma sulla denuncia prevale il chissenefrega. È lo schizzo di un governante fanfarone, Zelig camaleontico ipocrita e contraffatto, somma di vari stereotipi: Cettolaqualunque, il Divo, il Caimano. I cenni drammaturgici, lambendo Duce e Fuhrer, virano verso derive celoduriste verde-ramarro o eccessi tranchant da Grillo parlante. Inviti a “voltare pagina” e “dialogare con le parti sociali”, riferimenti alla Costituzione, alla coscienza democratica, alla civiltà di riconoscersi reciprocamente, alla dignità delle donne, ai bisogni dei giovani: sono tutte formule vuote, meccaniche, ripetute da un personaggio ibrido che chiude indossando un capoccione cavalcol-berlusconiano. E mani gigantesche, per meglio manipolarci.
Un bel lavoro, che esprime anche a livello mentale il nostro disappunto durante i comizi di chi governa: fastidio alle orecchie, nessun coinvolgimento emotivo.

È il presupposto anche di Discorso Giallo. Qui si riflette su quel megafono del populismo che è la televisione.
Tv cattiva maestra, diceva Popper. Alle origini non era così. La Rai pedagogica elevava le masse. Chiara Lagani si presenta in scena da scolara, grembiule nero, fiocco giallo. Giallo come il cartellino dell’arbitro, o i parcheggi a prova di tassametro. Come il semaforo, che non sai mai se arrestarti o accelerare.

Giallo borderline è anche la prova dell’attrice, bimba-adulta, allieva-maestra, concorrente-conduttrice. Posseduta da così tanti personaggi che ci vorrebbe l’esorcista.
Non abbiamo vissuto quell’epoca. Eppure rimpiangiamo Non è mai troppo tardi, il maestro Manzi, rassicurante e didascalico.
Lagani non entra nel personaggio. Ammicca a un’epoca. Restituisce ritagli ingialliti di quel pubblico, gli occhi sgranati sul futuro, la fatica e la voglia di crescere.

Non a caso quando si arriva agli anni Ottanta, ai piccoli fans catapultati sul palco da Sandra Milo con quel po’ di sottofondo commerciale, Lagani comincia a percuotersi il viso con qualche scappellotto. Con una voluttà masochista che ricorda le bottigliate sui testicoli di Tafazzi negli sketch di Aldo Giovanni e Giacomo.
Anche le luci diventano horror, tra sorrisi fatui e dialoghi nevrotici a più voci, risa sguaiate e atmosfere alla Hitchcock.
È il viatico all’ulteriore deriva patinata dei talent di Maria De Filippi, con codazzo volgare che fa leva sulle emozioni di pancia degli italiani. Ed ecco l’attrice indossare il faccione basito di Maria Montessori, madre di una pedagogia ormai dismessa, irriducibile al regresso culturale del Belpaese. Forse è vero, Non è mai troppo tardi. Però, si stava meglio quando si stava peggio.

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Granata allo stomaco: lo spettatore faccia a faccia con la crudeltà

invidiatemi RENZO FRANCABANDERA | Ci sono gli spettacoli. E gli spettacoli di cui si parla, perché magari introducono temi, affrontano questioni complesse, di regia o di tematica drammaturgica, in un modo che divide.
“Invidiatemi, come io…” di Tindaro Granata è senz’altro fra questi. Affronta il tema della pedofilia partendo da un caso di cronaca.
I personaggi di fatto sono gli stessi della vicenda reale; i nomi nello spettacolo vengono modificati per renderli più immaginifici e universali. Lei (una sorta di Bovary di provincia, insoddisfatta e in cerca di meglio, M. Granelli), suo marito (ingenuo, incapace di vedere cosa gli succede attorno; T. Granata), l’amante di lei (e datore di lavoro di lui, il pedofilo, si scoprirà; P. Li Volsi), la madre di lei (lucida ma protesa nella difesa della figlia; B. Pesce), la sorella del marito (legata da un rapporto morboso al fratello F. Porrini), una vicina (G. Senesi), altri personaggi (il prete, passanti ecc). E la bambina. Che non è in scena, non compare, viene narrata dalla vicenda.
Ciascuno dei personaggi, bambina esclusa, ricostruisce la sua parte di realtà, in una struttura narrativa da inchiesta televisiva, che non porta quasi mai i protagonisti a dialogare tra loro, facendo piuttosto seguire micromonologo a micromonologo.
Il motivo è evidentemente esaltare la condizione di assenza di dialogo in questa micro società, per poi sviluppare il narrato nel finale con le risposte date da ciascuno al magistrato inquirente.
La scena è vuota, eccezion fatta per alcune finestre appese e dal cornicione deformato, che occupano l’anteriore sinistro e il posteriore destro dello spazio scenico. Sul fondo un mobiletto sovrastato da una piccola tv. Qualche sedia.
La vicenda inizia perfino con tono leggero e metateatrale, con Granata che recita le sue battute (unico fra gli attori, per verità, e anche questo è un tema non chiaro) in modo antinaturalistico, prima nella parte di un passante, e poi nella parte del marito tradito, accentuandone la dimensione intontita e paesana. Ben presto, però, la vicenda prende consistenza drammatica e si capisce che si parla di pedofilia.
Si registrano reazioni diverse del pubblico, che per certi versi ha persino difficoltà a poter lasciare senza dare nell’occhio la sala, ove mai intenzionato, per via della scalinata a ridosso della scena. Qualche risatina scarica-tensione su questa o quella battuta.
L’escalation sia di crudezza verbale che della vicenda culmina in un monologo breve ma deflagrante del pedofilo, che descrive in maniera netta, quasi chirurgica, la sua violenza, come avverrebbe in una chat fra appassionati del genere.
Sulla sala cala il silenzio, ed è evidente che il rapporto pubblico-scena diventa l’elemento cruciale dello spettacolo, per quanto si voglia parlare poi delle singole prove attorali (nel complesso buone, con la Granelli sempre ricca di quella modularità espressiva capace di farsi amare e odiare insieme nello stesso istante, con una semplice levata di sopracciglio).
Il tema è quello, perché l’approccio drammaturgico, a differenza di Hamelin di Mayorga, altro testo recente sul tema che ha avuto in Italia diversi allestimenti anche in questa stagione, è molto centrato sull’escalation di violenza delle parole in corrispondenza col climax della vicenda: lo spettatore, cui già lo stomaco va in subbuglio al pensiero, è costretto a sbatterci la faccia.
E’ poesia, non è poesia? Vale la pena esprimersi? In altra riflessione qui su PAC viene indagata la questione con ricchezza di argomento. In questa sede ci concentriamo su quanto questa scelta sia o meno funzionale al raggiungimento di un esito maggiormente alto, teatralmente parlando. E’ chiaro che la cosa è molto voluta dal giovane drammaturgo, che nel suo precedente spettacolo, Antropolaroid, aveva raccontato uguali crudeltà ma in assenza di parole, preferendo mimare le violenze. In sottrazione.
Si ricordano meno? Onestamente non mi pare di poterlo dire. E’ certo che la mazzata verbale, che non risparmia venute di qua e di là, orifizi, urla, scuote il pubblico, chiamato quasi a correità. Resterà “Invidiatemi” come momento di svolta del linguaggio teatrale? Sdogana la crudezza a teatro, come fece al cinema Tarantino, suscitando vespai sul fatto che fosse o meno arte?
Ecco, se il resto di “Invidiatemi” fosse grandissimo teatro e non solo buon teatro, forse la cosa sarebbe più facilmente accettata. Ma in “Invidiatemi” il contorno di quella scelta radicale non è segnato, in tutta onestà, da esiti letterari colossali, battute memorabili, dialoghi fulminanti fra killer a proposito del sistema metrico decimale parlando di panini fast food, o un pazzo folle che recita la Bibbia prima di trucidare tre ragazzi, dopo aver scolato mezzo litro di coca cola. Certo lì è magari la California e qui la provincia di Perugia ma lì le scene rimangono impresse insieme a tutto il film, in un susseguirsi di creatività che fa congruenza. In “Invidiatemi”, pur nel grandissimo ritmo della drammaturgia, nella prova di squadra e dei singoli, nella sostanziale riuscita del lavoro, la continuità altissima del crudele tale da farsi trucida poesia probabilmente non arriva fino in fondo, impedendo lo scarto verso l’universale del progetto di composito affresco dell’abisso umano, come era maggior intenzione del regista; la pièce rimane più vivamente impressa per il tema della pedofilia, che devasta certamente lo spettatore con una crudezza, nel finale, che resta martellante a lungo dopo. E non è male, come risveglio delle coscienze, se è vero, come è vero, che l’Italia è fra i paesi in cui il turismo sessuale verso località di prostituzione minorile raggiunge livelli molto superiori rispetto ad ogni altra nazione al mondo.
E’ su questo che potrebbe utilmente interrogarsi Tindaro Granata, per mettere con il suo talento nei prossimi lavori davvero sotto scacco concettuale lo spettatore, piuttosto che spingerne nei fatti la gran parte a puntare il dito su questo o quel personaggio, mormorando dissenso, come se i personaggi fossero le persone vere (nella nostra replica è capitato un unisono a mezza voce contro la vicina impicciona, ad esempio).
Ciò significa, infatti, che qualcosa della finzione scenica non ha funzionato, che in ballo era lo stomaco più che la testa: Brecht avrebbe avuto da ridire. E noi, su questo, pure. Certo con le dovute proporzioni. Come Granata e Tarantino.

Il palazzo senza scale della critica teatrale italiana

vecchi_pugiliMICHELA MASTROIANNI | Una volta conoscevo un ragazzino in Inghilterra che chiese a suo padre: “I padri sanno sempre più cose dei figli?” e il padre rispose: “Sì”. Poi il ragazzino chiese: “Papà, chi ha inventato la macchina a vapore?” e il padre: “James Watt”. E allora il figlio gli ribattè: “ma perché non l’ha inventata il padre di James Watt?” La breve citazione tratta dal metalogo di Gregory Bateson “Quante cose sai?”, pubblicato nel volume “Verso un’ecologia della mente”, dovrebbe far sorridere e in un certo senso rassicurare i giovani e appassionati critici teatrali, dovunque essi scrivano, che la questione del dialogo tra generazioni a proposito di saperi e conquiste intellettuali è di vecchia data e di difficile soluzione. Anche la Chiesa Cattolica, nella figura illuminata di Papa Francesco, si è posta il problema del confronto aperto tra vecchie e nuove generazioni di fedeli e ha di recente spronato a non emarginare gli anziani, portatori di saggezza e di esperienza, e ad investire sui giovani, a “non spegnere il loro entusiasmo”, perché essi “ci aprono al futuro, impedendo di chiuderci in noi stessi”. Sante parole! E per illustrare meglio il triste destino di un mondo che chiude le porte ai giovani utilizza l’immagine di una casa senza scale e senza ascensori.
Andiamo invece al Piccolo Teatro Studio Melato il 18 febbraio per cercare di capire quanto, se e come il teatro italiano abbia voglia di aprirsi al confronto con una nuova generazione di critici, che fatica a trovare spazio e credito nelle rassegne “stampa”.
Ma che la faccenda non sarebbe andata come era stata presentata sull’inserto La Lettura (Corriere della Sera – domenica 16 febbraio) lo si era capito dall’annuncio lanciato sul profilo facebook del Piccolo Teatro di Milano: il forum, un dialogo tra Luca Ronconi, Franco Cordelli e il giornalista e scrittore Paolo Di Stefano, viene trasformato, nella comunicazione social ed informale, in un “ring della critica” e l’hashtag utilizzato su twitter è #duellosullacritica. Tuttavia, a dispetto dell’aggressività delle parole scelte, quello a cui il pubblico ha assistito è stato un tenerissimo, ma a tratti noioso, amarcord dei due grandi del teatro italiano, il regista e il critico, che tra nostalgia, rimpianto e cauto ottimismo, si lanciano qualche garbata schermaglia di circostanza. Nulla di più.

La sala del Piccolo Teatro Studio Melato è buia, silenziosa; i fari sono puntati sulle sedie, al centro della scena, dove restano seduti per tutta la durata della conversazione i protagonisti dell’evento. Ma gli spettacoli “di sedia”sono difficilissimi da gestire, ci vuole vera maestria d’attore per avvincere e muovere gli animi degli spettatori: ci riesce Saverio La Ruina in Italianesi ad evocare potenti immagini e vive emozioni con la sua fredda sedia di metallo; ma qui no: qui tutto è statico, prevedibile, spento. Tiepidamente si applaude alla fine della lunga conversazione e ci si scalda quando viene finalmente e per pochi minuti lasciata la parola agli interventi liberi dei partecipanti.
La sensazione che si ricava alla fine della liturgia è che la questione oggetto di discussione sia stata abilmente evitata. Non sappiamo indicarne le ragioni. E non vogliamo azzardare ipotesi. Si esce delusi, perché un’occasione è stata mancata, ancora una volta, per capire e farsi capire. A lasciarsi sfuggire l’occasione è stato in questo caso il Piccolo Teatro, una realtà d’eccellenza assoluta nel panorama teatrale italiano, che oggi deve essere contemporaneamente centro di produzione artistica e di promozione culturale. stessa ineludibile funzione che spetta a tutti gli altri teatri, più o meno stabili, così come a tutte le altre realtà che hanno individuato nel teatro la forma privilegiata di espressione artistica. Perché, ancora oggi e nonostante tutto, il pubblico esiste e chiede comunicazione, informazione, riflessioni, giudizi, critica. Un primo passo in questa direzione, dell’ascolto, del dialogo e delle risposte alle esigenze di una fruizione degli spettacoli sempre più “esperta” e partecipata, potrebbe essere la trasformazione degli uffici “stampa” in settori addetti alla comunicazione, la divulgazione, la promozione culturale, l’organizzazione di iniziative volte alla formazione di un pubblico consapevole.
senza scaleLa critica non è morta, né è in via d’estinzione, se non nella forma che il recente passato ha conosciuto e codificato. La critica teatrale è semplicemente in fase di evoluzione e di adattamento alla contemporaneità. Il tempo presente, complice la pervasività, la velocità e la potenza della comunicazione digitale, ne sta elaborando forme nuove. Scritti ingenui di riflessione personale si affiancano su internet a messaggi promozionali spacciati per recensioni, ma anche a serie prove di scrittura critica, appassionata, lucida e ben documentata. Non è più possibile ignorare il fatto che le recensioni latitano sulla carta stampata (e spesso non è possibile distinguerle da celate operazioni di marketing), ma fioriscono sul web. E il pubblico, quello reale e quello potenziale, le legge. Il problema, del resto un problema generale dell’informazione sul web, è quello di riuscire a stabilire dei criteri di rilevanza, di pertinenza e di affidabilità diversi dai semplici algoritmi di ricerca di Google. Il Piccolo Teatro, così come molte altre istituzioni teatrali, ha la forza e l’autorevolezza di guidare e orientare (almeno per quanto riguarda la critica teatrale in Italia) la wisdom of crowds di cui parla James Surowiecki, che in mancanza d’altro governa il canone della conoscenza sul web.

Bisogna avere l’ambizione e il coraggio di governare il cambiamento; non bisogna averne paura né evitarlo. Perciò, si incominci a segnalare, a diffondere, ad utilizzare come strumenti di riflessione e di feedback sulla produzione artistica il meglio della critica su carta stampata e il meglio della critica sul web. Si eserciti l’intelligenza della scelta sul merito dei contenuti e non sul mezzo che li veicola: si possono trovare sulla carta stampata, come sul web, contenuti altissimi e sciatti copia e incolla.
Ci si accorgerà che l’assioma di McLuhan, “il medium è il messaggio”, non si adatta a tutte le forme di comunicazione e sicuramente non è stato pensato per istituire gerarchie di valore tra le diverse forme di scrittura critica del nostro tempo.

Segnalo a titolo di esempio solo due delle recensioni dell’ultimo spettacolo di Ronconi apparse sul web
– dal blog ppbb.it
– dal blog del Corriere di Bologna

Oltre l’osceno e la censura nell’arte: intervista a Luigi de Angelis

photoFRANCESCA GIULIANI | Interno notte. Riviera romagnola, Cocoricò. Il tempio della trasgressione si intimidisce.
​Il corpo-soglia e l’artista-oggetto. Il tatto e la vista. La nudità e il pudore. Sei corpi, a coppia, uomo e donna, nudi, sostano immobili, neutri, su una soglia. Varcare quell’ingresso significa toccarli. Varcare quell’ingresso significa scegliere a chi rivolgere lo sguardo, scegliere quale territorio emozionale esplorare con il proprio di corpo. È questo che ha raccontato a PAC nell’intervista che segue Luigi de Angelis, fondatore e regista della compagnia ravennate Fanny & Alexander: una conversazione fatta a seguito della sconfortante vicenda avvenuta la notte tra il 22 e il 23 febbraio al Cocoricò di Riccione. La performance, che era un omaggio alla celebre “Imponderabilia” di Marina Abramovic, è stata presto interrotta dall’arrivo dei carabinieri che hanno smontato l’installazione vivente posta all’ingresso del locale. Quando “Imponderabilia” venne presentata dall’artista serba e dal compagno e performer Ulay alla Gam di Bologna era il 1977 e, nonostante la “rivoluzione sessuale” fosse già in atto, i due artisti furono arrestati e privati del loro passaporto. Perché, oggi, nel 2014, quando la nostra quotidianità è costantemente esposta alla visione della nudità sotto ogni sua forma più pornografica e volgare, attraverso qualsiasi dispositivo visivo, una performance del genere viene “censurata”? Tanto più in questo luogo, famoso per una trasgressione portata all’ennesima potenza?​
La richiesta.​
La notte del 22 febbraio il Cocoricò ha organizzato il “Memorabilia”, serate nelle quali si esibiscono dj e artisti che hanno calcato le scene della discoteca negli anni passati. La direzione artistica ha proposto a Fanny & Alexander di pensare a una performance per la serata. La mia idea è stata quella di riproporre una performance simbolica, che avevamo presentato il 31 dicembre 2003. Si tratta di una rielaborazione della performance “Imponderabilia” di Marina Abramovic, presentata alla Gam di Bologna nel 1977 e riproposta nel 2010 al Moma di New York all’entrata di ogni stanza che ospitava la retrospettiva dell’artista “The Artist is Present”.
Sulla ri-attualizzazione.​
A Fanny & Alexander interessano sempre le opere che riescono a porre delle domande. Questa performance pone una domanda che ha a che fare con l’entrare in un luogo. Obbliga a riflettere sul gesto dell’entrare e a mettere in gioco il proprio pudore. È possibile entrare in un luogo tramite due corpi nudi così vicini da obbligarmi a sfiorarli? Cosa mi succederà? Da che parte mi girerò automaticamente? Mi esporrò di più al maschile o al femminile? Quella nudità mi parla di qualcosa? È un limite o una possibilità? In un luogo come il Cocoricò, di solito dedicato alla libertà dei freni, passare da un tale sigillo iniziale agisce sul mio senso del pudore? Perché il nudo in pubblico crea oggi ancora un turbamento? È la sua vicinanza, la possibilità di toccarlo che crea turbamento? Non siamo bombardati su tutti i media da corpi nudi di donne e non solo? La differenza è che gli schermi dei computer creano un filtro e una lontananza, per cui sono di fatto luoghi di conservazione invece che di liberalità?
La performance.​
Tre porte-cabine, poste alla fine della scalinata, segnavano la soglia oltre alla quale era possibile vivere il Memorabilia. All’interno di ogni porta-cabina una coppia nuda, ogni performer posto davanti all’altro, si guardava negli occhi. Il visitatore si trovava a doversi mettere di profilo per entrare tra i due corpi nudi e in qualche modo a sfiorarli. Ma era libero di scegliere se sfidarsi, varcando quella soglia, oppure, optare per l’ingresso da una porta laterale del locale, dal Titilla.​
La sospensione.
Durante il pieno svolgimento della performance sono arrivati alcuni agenti in borghese che hanno fotografato tutto nel dettaglio e poi hanno portato in caserma i performer, il sorvegliante e uno dei titolari del locale. Il reato per cui sono tutti indagati è “concorso aggravato in atti e spettacoli osceni”. Credo che questa ipotesi di reato si qualifichi da sola, non c’è bisogno di commenti.​
Le sensazioni. Passato/Presente. ​
Nel 2003 era molto interessante vedere la reazione del pubblico, una sorta di indagine antropologica live: nessuno voleva passare tra due uomini e nessuno voleva entrare nella porta in cui c’era un ragazzo brasiliano, creolo, per questioni di pelle. Questa cosa mi colpì tanto. E mi colpì il freno inibitorio che una tale immagine istantaneamente provocava. Oggi, dal racconto dei performer, sembra che le persone fossero meglio disposte al passaggio.
Le provocazioni. Mossa pubblicitaria?
Sul web si scrive di tutto. Se qualcuno afferma questa cosa che lo faccia senza veli, a viso aperto, con nome e cognome, lo dica direttamente. Così magari lo portiamo in tribunale. Noi in questo momento desideriamo che i toni si raffreddino e la vicenda si esaurisca, in modo da non dover andare a processo. La nostra più grande preoccupazione è di tutelare i performer e chi si è occupato della cura della serata, perché c’è un’indagine in corso nei loro confronti, perché sono stati magnifici e si sono comportati sempre da professionisti.

Ranuncoli#9 Il limite fra cronaca, poesia e pornografia. Il caso Granata.

jean_louis_thc3a9odore_gc3a9ricault_-_la_balsa_de_la_medusa_museo_del_louvre_1818-192COSIMA PAGANINI | Questo scritto a proposito di Invidiatemi come io ho invidiato voi non è una recensione.

Tutti gli uomini possono diventare dei mostri. Non tutti gli uomini sono dei mostri.

Non è la stessa cosa.

In Invidiatemi come io ho invidiato voi (quasi un ribaltamento dell’evangelico “Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati”) Tindaro Granata sembra identificare il Male con il mondo umano, una visione gnostica.

Sono mostri i personaggi sul palco.

Noi spettatori/testimoni restiamo agghiacciati dal fatto di cronaca (un episodio di pedofilia e omicidio raccontato attraverso le voci di chi conosceva la vittima), ma indifferenti rispetto ai protagonisti. Indifferenti o divertiti (qualcuno riesce anche a ridere di quelle caricature mostruose). Lo stesso Granata sembra disprezzare i suoi personaggi, li deride: non c’è compassione nei loro confronti.

Forse si vorrebbe che ci si identificasse con quei personaggi – mai persone perché non hanno uno sviluppo negli 80 minuti dello spettacolo e sono cristallizzati nel loro ruolo, condannati alla prima apparizione – ma l’identificazione non scatta. Non scatta perché si usa il kitsch e questo crea prima di tutto un’apparente scissione tra il pubblico (più colto e più elegante) e i personaggi, e, soprattutto, fa dire a Tramonto (pedofilo e assassino) l’indicibile.

Nel momento in cui Tramonto descrive quello che non dovrebbe mai essere detto sul palco di un teatro, mentre ascoltiamo la confessione e siamo posti di fronte alla cronaca e all’osceno, istantaneamente anche noi perdiamo ogni possibilità di compassione e diventiamo tutti dei voyeur e complici del male. Susan Sontag scrive: “Una simulazione troppo convincente dell’atrocità rischia di rendere il pubblico passivo, di rafforzare sciocchi stereotipi, di confermare il senso di distanza e di affascinare”. L’esibizione di atrocità sia sotto forma di una ricostruzione narrativa, sia come testimonianza fotografica corre il rischio sempre di essere tacitamente pornografia, inoltre, comunica solo pochissime verità sugli eventi narrati senza mediarli.

E così torno all’inizio: sono mostri i personaggi sul palco, sono mostri anche gli attori che li interpretano, sono mostri tutti gli spettatori/testimoni e “siamo” mostri tutti, anche chi non vedrà mai questo spettacolo.

Portare a teatro un fatto di cronaca senza fare solo cronaca è difficile. Per questo i greci avevano inventato la categoria dell’osceno. Si può parlare di pedofilia (vedete Hamelin di Mayorga) restando compassionevoli, conservando l’umanità. Nello spettacolo di Tindaro Granata nessuno mai potrà piangere per quella bambina. Non c’è nessuna speranza per lei e per noi.

Il male non lo si può guardare negli occhi; devi guardarlo in tralice, usare una forma indiretta, devi travisarlo per poterlo vedere senza restare ucciso (Medusa) e per poter tenere aperta una via di salvezza.

Magazzino 18: Cristicchi tra le masserizie storiche istriane

c_e7f2550ee3ELENA SCOLARI | Nietzsche ci ricorderebbe che non esistono fatti, solo interpretazioni. Eccoci allora a vedere “Magazzino 18”, l’interpretazione dell’esodo giuliano-dalmata che Simone Cristicchi, autore del testo insieme a Jan Bernas, mette in scena con la supervisione registica di Antonio Calenda.

Si affronta il periodo successivo all’accordo di pace del 1947 in seguito al quale l’Italia perdette l’Istria e circa 350.000 persone decisero di andarsene da questa regione, non più italiana ma jugoslava, per poter vivere ancora in territori italiani, non da stranieri in patria. Gli esuli si sparpagliarono, alcuni andarono direttamente negli Stati Uniti, una buona parte di loro salì invece sul piroscafo Toscana che faceva la spola da Pola verso Venezia e Ancona.

Il magazzino numero 18 nel Porto vecchio di Trieste è il posto dove l’archivista romano Persichetti col suo trench (Cristicchi che ricorda la cialtronaggine pecoreccia di Alberto Sordi) viene mandato dal “Dottò” del Ministero a catalogare gli oggetti che gli esuli hanno portato lì abbandonando la loro terra con la speranza di tornare a prenderseli, un giorno. Nel magazzino, tra i sorci, ci sono sedie, armadi, fotografie di famiglie, valigie, e tutto porta un’etichetta con il nome del proprietario. Cataloga, cataloga, a Persichetti appare lo spirito delle masserizie (sempre Cristicchi ma senza trench), il personaggio che racconta la Storia.

La struttura dello spettacolo alterna monologhi di commento – anche ironico – quando è l’archivista a parlare o di tono informativo/storico quando il narratore è il fantasma – a canzoni inedite di Cristicchi stesso. Su queste spendiamo due parole da sinceri inesperti di musica: gli arrangiamenti ci sono sembrati stranamente tradizionali, con grande presenza di archi, un po’ d’antan, che non ci pare lo stile dell’autore. La scenografia è efficace benché non originale: vecchio mobilio, mucchi di ciarpame impolverato, cataste di carte e di ricordi, uno schermo sul quale sono proiettate immagini d’archivio dell’esodo. Un video mostra le riprese girate nell’autentico porto triestino e ci introduce nello spazio che da cinema diventa scena: un palco dove il Persichetti si muove tra telefonate al Dottò, sempre meno deferenti man mano che la vicenda si sviluppa, e scoperte di lacerti di memoria che lo spirito raccontatore fa rivivere. Poltrone che hanno accolto esistenze istruite e scatole custodi di passati umili. Anche il piano luci sottolinea la presenza dei due personaggi, per la verità in maniera abbastanza meccanica: trench-luce su Persichetti, non trench-luce sullo spirito narrante. Alcuni guizzi di maggior forza creativa arrivano in un paio di momenti emotivamente significativi, come l’illuminazione di taglio su una fila di sedie, in proscenio, ognuna una vittima, ognuna testimone di un vuoto.

Magazzino 18 è un lavoro lodevole per la materia delicata che tratta, utile per la diffusione di pagine poco frequentate e da molti pressoché sconosciute. L’esposizione delle notizie non appare faziosa ma l’incipit di Nietzsche ci dice che anche la scelta di ciò che diciamo (e che tacciamo) è un’interpretazione. Non crediamo ai maligni preconcetti di chi vede solo un intento politico nello spettacolo, il pretestuoso costume di una sciocca par condicio per la quale si strattonano i fatti a Destra e a Sinistra non ci piace. Però un problema c’è: un eccesso di contenuto, i troppi episodi raccontati costringono il testo a un po’ di partigianeria semplificatoria. Cristicchi non è un barricadero, siamo convinti che credesse doveroso dare spazio a questi avvenimenti ma rimane vittima di un sovraccarico di argomenti: le foibe, gli operai di Monfalcone che decidono di andare in Jugoslavia, gli esuli, i Rimasti, i partigiani titini, i fascisti, il campo di Goli Otok… Questa sovrabbondanza di temi produce un ingorgo, teatralmente assistiamo a quattro finali. Troppe prolunghe raggiungono le due ore di spettacolo, e non tutto si riesce a seguire con la lucidità dell’inizio. La complessità plurale delle forze in campo non consente di approfondire tutti gli episodi, rinunciare a qualcosa gioverebbe.

Ci pare infatti che si potrebbe ovviare ad alcuni difetti di fantasia scenica cui abbiamo accennato e nel contempo esaltare alcune buone idee se si dimagrisse la massa di materia trattata: meno manuale più teatro.

Cristicchi non è ancora un attore, lo sta diventando, e sul palco gioca bene anche una disinvoltura corporea che apprezziamo, la sua interpretazione riesce ad essere emozionante senza troppa enfasi, nonostante la durezza dei fatti raccontati. Però ci chiediamo: perché Antonio Calenda, che invece fa il regista di mestiere, non ha sciolto i nodi drammaturgici bisognosi di soluzione? Questo magazzino ha bisogno di più pulizia.

Il ‘nuovo teatro’ fra storia e memoria

teatroNICOLA ARRIGONI | C’è voglia di fare i conti col passato recente, di rileggerlo tenendo conto delle possibili eredità che questo può avere sul nostro presente. C’è voglia di documentare l’arte effimera ma non inconsistente della scena e di farlo con affreschi storici e memorie intime, assumendo categorie storiche consolidate: come la definizione di Marco De Marinis per il ‘nuovo teatro’ delle avanguardie della seconda metà del XX secolo e da queste partire per una narrazione che ci metta a confronto con una scena lontana ma che forse ancora ci appartiene. In questo senso si pone l’azione editoriale di Titivillus che in accordo col progetto di ricerca di Lorenzo Mango dell’Università di Napoli L’Orientale, dopo aver pubblicato il volume di Daniela Visone, La nascita del nuovo teatro in Italia 1959-1967 ora fa seguito il volume di Salvatore Margiotta, Il nuovo teatro in Italia 1968 – 1975, (Titivillus, pagine 472, 20 euro) la serie si concluderà col saggio di Mimma Valentino dedicato al periodo che va dalla metà degli anni Settanta a 1985. «L’aspirazione del progetto – scrive Lorenzo Mango – è tracciare una storia del Nuovo Teatro nel senso più puntuale e tecnico del termine si è evitato, cioè, di associare in discorsi unitari l’attività dei singoli artisti, preferendo incontrarla di volta in volta nei modi e nelle forme che assumeva nei diversi momenti storici». Nel secondo tomo si analizza il dopo Convegno d’Ivrea – atto fondante delle avanguardie italiane- con esponenti come Carmelo Bene, Carlo Quartucci, l’esperienza di Leo de Berardinis e Perla Peragallo, la Compagnia della Loggetta di Brescia, solo per fare qualche nome. Il sessantotto teatrale e le molteplici esperienze degli anni immediatamente successivi vengono passate al setaccio, così come il dibattito critico che ne scaturisce. In questa pur sommaria sintesi dei contenuti del volume si vuole mettere in evidenza la tensione a documentare, rileggere la memoria/storia del teatro attraverso un progetto editoriale e di ricerca condiviso che si affianca ad un persistente sforzo legato a attutire la natura effimera del teatro e a coltivarne la memoria prima e la storia poi.

Nell’ottica della memoria personale e d’artista si pone il volume di Pippo Di Marca, Sotto la tenda dell’avanguardia (Titivillus, pagine 326, 18 euro). Pippo Di Marca racconta la propria militanza artistica, lunga oltre mezzo secolo dal 1959 al 2011, siciliano di nascita e romano di adozione, appartiene alla seconda generazione dell’avanguardia teatrale italiana: quella di Nanni, Perlini, Cecchi, Carella fino ai Magazzini e alla Gaia Scienza. Nel volume Di Marca racconta la propria esperienza artistica e attraverso di essa media il mutare della scena italiana e al tempo stesso documenta l’azione dei protagonisti dell’avanguardia, una tenda in grado di riunire sotto di sé stili ed estetiche diverse, ma tutti ugualmente mossi da una voglia di rinnovamento del linguaggio del palcoscenico, di utilizzo della scena come strumento di critica sociale e politica.

In questa carrellata di volumi atti a documentare il passato recente di un teatro che si affida alle recensioni, alle fotografie in bianco e nero, alle memorie di chi ce’era e che assistette a spettacoli oggi considerati ‘storici’ si pone anche il saggio di Maria Fedi, L’archivio Andres Neumann. Memorie dello spettacolo contemporaneo (Titivillus, pagine 240, euro 16) in cui l’archivio donato da Andres Neumann – eclettico e vulcanico organizzatore culturale – al Centro Culturale Il Funaro di Pistoia diventa fonte per analizzare l’atto performativo, lo spettacolo come fase conclusiva di un processo lungo e complesso, quello produttivo e organizzativo, i cui protagonisti spesso non coincidono con chi sta in scena. Questo per dire che il volume attraverso gli exempla che prende in esame vuole mostrare e indicare come la storia e la memoria del teatro si nutrano sì nell’azione scenica, dell’esito spettacolare ma abbiano un aspetto non secondario anche in ciò che sta dietro l’estetica che spesso è la politica, l’organizzazione, la promozione, l’azione all’interno della comunità in cui spettacoli e forme d’arte prendono corpo. I materiali dell’archivio aiutano a leggere exempla della scena internazionale contemporanea da Mahabharata di Peter Brook a Palermo Palermo di Pina Bausch, da La classe morta di Tadeusz Kantor alle tournées internazionali di Dario Fo e Vittorio Gassman, prestigiose pietre miliari dell’attività di Andres Neumann, organizzatore e promotore di eventi culturali in tempi e spazi dove ‘fare cultura’ voleva dire movimentare coscienze, entusiasmi e voglia di cambiare il mondo. In questo senso recuperare la memoria di quel magistero è anche trovare un bandolo della matassa per consolarci dell’insignificanza del nostro presente.

Salvatore Margiotta, Il nuovo teatro in Italia 1968 – 1975, Titivillus, pagine 472, 20 euro.

Pippo Di Marca, Sotto la tenda dell’avanguardia, Titivillus, pagine 326, 18 euro.

Maria Fedi, L’archivio Andres Neumann. Memorie dello spettacolo contemporaneo, Titivillus, pagine 240, euro 16.

Educazione siberiana: fra testo, cinema e teatro

educazione siberianaRENZO FRANCABANDERA | Esiste un medium per tutto. A volte non è nemmeno detto che il medium per il quale il pensiero artistico è stato originariamente immaginato sia quello in cui trova poi il maggior esito.
Mettiamo un libro, lanciato da Saviano con un’accorata recensione, impropriamente catalogato alla voce romanzo, ma in realtà silloge di racconti di natura “etnico-antropologica”, come fu definito appunto Educazione siberiana, uscito nel 2009, su L’Indice.
Il libro, per molti esageratamente romanzato, a volte lento in affreschi ambientali, ha un ritmo discontinuo che divide i lettori fra meditativi appassionati e avidi delusi. I primi attendono e si lasciano prendere dall’affresco umano, i secondi hanno bisogno di un certo realismo, di ritmo, di vorace compattezza di stile.

Escono nel 2013 due riduzioni del libro per cinema e teatro: la prima, affidata alla macchina da presa diretta da Gabriele Salvatores, di fatto riporta il regista ad una cifra avvincente, superando finalmente il tunnel techno psichedelico in cui si era infilato senza scampo. La seconda è la versione per il teatro in cui Giuseppe Miale di Mauro cuce il testo di Lilin (insieme a Lilin stesso) in una trama dal ritmo serrato, affidando il ruolo del vecchio saggio criminale, a cinema magistralmente interpretato da Malkovich, a Luigi Diberti, attore di grande consistenza che non sfigura nel paragone, regalando al suo personaggio sfumature ulteriori e sincere.

La macchina scenica è interessante: grazie ad una tapparella mobile sul fondo della stanza da pranzo della casa di famiglia che fa da ambiente principale, la regia di Miale di Mauro può di fatto rompere l’unità spaziale cui il teatro obbliga, rendendo possibile il confronto fra il dentro, immutabile e carico di storia, della famiglia del vecchio criminale “onesto” e il fuori, un mondo che con l’avvento della perestroika di fatto lascia la Russia in mano alla violenza senza speranze e senza valori guidata dalla logica del profitto.

Elsa Bossi, Pippo Cangiano, Francesco Di Leva, Giuseppe Gaudino, Stefano Meglio, Adriano Pantaleo e Andrea Vellotti sono gli interpreti impeccabili di un lavoro prodotto da tre entità stabili che più stabili non si può del teatro italiano, ovvero Stabile di Torino, Teatro Metastasio Stabile della Torscana ed Emilia Romagna Teatro.

Non si direbbe giustamente abbastanza di questo lavoro se si tacesse delle luci di Luigi Biondi: sono queste l’elemento che, a tratti più dello spunto registico puro nel lavoro sugli attori, consente all’allestimento di cambiare temperatura e intensità, sviluppando penombre e anfratti, regalando un piglio cinematografico e veloce.

Del film di Salvatores fu particolarmente apprezzata la fotografia; a teatro questo elemento di per se stesso non è apprezzabile essendo una complessa combinazione plurisensoriale di elementi scenici che comprende oltre alle luci anche i costumi (di Giovanna Napolitano). E certo mai abbastanza si riflette sul fatto che a cinema la fotografia sia una e uguale fondamentalmente per tutti i fruitori, mentre a teatro sia una (quella pensata da regista/scenografo/costumista) e al contempo tante, perché mutevole in base al posto in sala, al taglio delle luci, a dove si posa lo sguardo dello spettatore perdendosi sul palcoscenico.

In questa complessità di dentro e fuori, avanti e dietro, che la regia ben sfrutta, in definitiva, si concretizza uno spettacolo che certo non è un’alchimia di pensieri neo avanguardisti sullo spazio e sull’occasione teatrale. Ma è un prodotto compatto e coerente, che sceglie bene il suo percorso nel testo e regala al testo stesso quella continuità di ritmo che al libro forse manca, e che i medium cinema e teatro gli hanno invece regalato. Dal che può forse desumersi che Educazione Siberiana è prima di tutto, forse, una grande drammaturgia, non nata come tale, ma di fatto diventata tale, capace di dare origine a elaborati mediatici diversi, ognuno suo modo riuscito in forma brillante. Il motivo è che il conflitto fra vecchio e giovane, antichi valori e nuove ambizioni, da Lear in avanti ha sempre funzionato. E il testo di Lilin su questo riesce a creare una suggestione che arma la pistola, pardon, fa scattare la lama dei coltelli affilati dei registi.
Non è rivoluzione, ma è uno spettacolo ben fatto, un meccanismo scenico che funziona, in cui perdersi per un’ora e mezzo, tempo che passa velocissimo in un pathos sempre vivo. A volte anche tenere le perestroike fuori dalla porta, come Educazione siberiana un po’ ricorda, sia nel testo che nella regia, non è necessariamente un male. Specie se non si sa cosa viene dopo. E il nostro è il tempo delle rivoluzioni sbandate.
Alla fine, lo confesso, ho applaudito.