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domenica, Dicembre 22, 2024
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L’infanzia dei Sotterraneo: la leggenda come predestinazione

sotterraneoNICOLA ARRIGONI | Che ‘essere una leggenda!’ assomigli più che a un privilegio, a una sorta di pre-destinazione, o forse – come dicono i Sotterraneo – «una sorta di profezia a ritroso»? Questo, forse, l’interrogativo sotteso alla nuova sfida di pensiero messa in atto da uno dei collettivi più intelligenti, acuti e spiazzanti del panorama scenico italiano. Be legend! Hamlet / Jeanne d’Arc / Adolf Hitler di Teatro Sotterraneo è infatti il primo tassello di una serie di incursioni  dedicate a figure importanti della cultura e storia occidentali: Amleto e Giovanna d’Arco, Hitler, altri ne seguiranno. A questi si affianca lo spettacolo Be-normal!, come dire una riflessione su l’anonimato, sulla normalità di chi vive il presente, ma comunque contribuisce a costruire la nostra storia, somma di una quotidianità conflittuale, a tratti assurda ed esilarante. Due produzioni che costituiscono il Progetto Daimon, dove il riferimento è ovviamente al daimon junghiano, alla naturale o forse innaturale predisposizione a essere, e magari anche alla ricerca del proprio to be, essere, delle proprie predisposizioni, della propria unicità, sullo scenario più o meno chiaro della storia. Ciò che indagano i Sotterraneo con Be legend! e Be normal! è la ricerca di quella voce, di quella pre-disposizione naturale che ci spinge ad agire, che a volte ci è chiara ed altre volte ci è sottratta dalle contingenze, dagli incontri e perché no dalla storia. C’è in gioco il libero arbitrio, ma anche la tensione a essere, c’è in gioco il nostro stare al mondo ed essere nel mondo nella riflessione che i Sotterraneo portano avanti.

Lo spettacolo Be Legend! inanella tre ritratti non da poco: Amleto, Giovanna d’Arco e Hitler in calzoncini corti, tre infanzie mostrate per frammenti, tre storie non scritte di Amleto, Giovanna d’arco e Adolf Hitler quando non erano ancora Amleto, Giovanna d’Arco e Adolf Hitler. In ogni piazza i Sotterraneo cercano tre bambini e in tre ore di training li preparano alla performance serale. I tre ritratti che attualmente compongono lo spettacolo sono destinati – fondi permettendo – a crescere con l’indagine di altre infanzie famose non a caso nel video che chiude lo spettacolo appare la scritta: Coming soon. La drammaturgia di Daniele Villa propone una sorta di format che viene adattato ad ogni personaggio, un format che permette di rendere sicuro lo svolgimento dell’azione e al tempo stesso consente ai bambini di essere più o meno a loro agio nel ruolo affidato. Non interessava ai Sotterraneo la spontaneità dell’infanzia – in questo caso -, ma piuttosto indagare a ritroso con immancabile ironia ciò che ha indotto ad essere quello che sono divenuti poi Amleto, nella finzione drammaturgica, Giovanna d’Arco e Adolf Hitler nella realtà storica. In scena una casetta bianca e null’altro. Parte Amleto affiancato da Claudio Cirri e Sara Bonaventura: l’iperprotezione a cui è sottoposto il principe, l’esilarante monologo di essere e non essere con un enorme orso di pelouche a cui il rampollo danese staccherà la testa, la consapevolezza che qualsiasi sia il suo sogno, il destino di Amleto sarà quello di essere orfano di padre, di vendicare la morte paterna con l’uccisione di zio e madre: sono questi alcuni tasselli di un Amleto di nove anni che diverte e disarma. Che dire poi di Giovanna d’Arco boccoli d’oro, sguardo da furba, bambina come tutte le altre, ma non proprio a vederla imbracciare lo spadone e a dover chinare la testa alla storia che la volle baluardo dell’onore francese e vittima sacrificale sul rogo della superstizione. Ma come forse è logico che sia il ritratto più inquietante è quello di Hitler, bambino violento – dicono i due attori narratori – offrendo al pubblico pezzetti della biografia del Fuhrer. Ad un certo punto il piccolo Adolf dice: «Io sono il male assoluto». Ma non c’è retorica in quanto agiscono i Sotterraneo, c’è la voglia di mostrare una predisposizione possibile al male, forse il punto che non tiene e che avrebbe cambiato il corso della storia. Se Adolf Hitler fosse stato ammesso all’Accademia d’Arte… forse… Ma la storia non si fa con i se, ma con le ipotesi sì. E allora è geniale il piccolo Hitler che vede un cartoon di Walt Disney e nei fotogrammi di topolino compaiono le immagini dei lager… Ha un certo effetto la danza su Heinz drein polizei con svastiche sventolate e il fumo che esce dal camino della casetta bianca, quella casetta che prima era stanza e rifugio dei bambini leggendari… c’è anche il non voler essere così del piccolo Hitler e – malgrado ciò – il sentirsi guidato da istinti pulsionali di violenza che lo governano…
Teatro Sotterraneo si conferma nei suoi tre animatori e fondatori rimasti: Daniele Villa, Sara Bonaventura e Claudio Cirri un gruppo di lavoro che sa osare, che frequenta con acume e complessità gli interrogativi del nostro stare al mondo e lo fa condividendo, cercando di costruire una coralità di pensiero, che non vuole dire accettazione o passiva condivisione. E di questi tempi è uno sforzo non da poco…

«L’insonne» d’amore di Claudio Autelli

insonneVINCENZO SARDELLI | Una storia in bianco e nero l’Insonne di Lab 121, liberamente tratto da Ieri di Agota Kristof, regia di Claudio Autelli, drammaturgia dello stesso Autelli e di Raffaele Rezzonico, con Alice Conti e Francesco Villano, che abbiamo visto al Teatro dell’Arte di Milano.

La scena è racchiusa in un cubo diafano, che separa spazio drammaturgico e platea. A turno i protagonisti (lei più di lui) lo aggirano. Escono dal guscio, passano dal limbo alla luce. Per poco, però. Ripiombano subito nell’ombra, di una vita solitaria e dimessa.

La struttura architettonica rispecchia le fondamenta del nostro essere. Siamo travi di un edificio che evoca l’essenza di esperienze vissute. Siamo la somma di quello che è successo prima di noi, che è accaduto davanti ai nostri occhi, o ci è stato fatto, o abbiamo fatto.

Una storia in bianco e nero sotto vari aspetti l’Insonne. Tra rimpianti e speranze. E destini, dalle radici marce.

Protagonista è Tobias, ramingo in un paese straniero dopo aver tentato di assassinare il maestro del villaggio, uno dei tanti uomini che se la spassavano con sua madre, donna bellissima che si prostituiva. Quel maestro era suo padre. Quel maestro era anche il padre di Line, sua compagna di scuola. Altra famiglia però, colta e altolocata. Tobias era innamorato di Line.

Amore perduto. Tobias è fuggito. Ha cambiato nome, paese, esistenza. Lavora in una fabbrica d’orologi. Movimenti in serie scandiscono i giorni della sua vita, cristallizzata da anni: si chiama alienazione. Tobias prova, con una passione salvifica, a scardinare il tempo, scrive poesie. E ha un’utopia, rivedere Line: si chiama ossessione.

I giorni di Tobias sono uno uguale all’altro, l’autobus all’alba, la routine in fabbrica, il ritorno, la cena, i libri, la scrittura. Il sabato sera lo passa accanto a una donna che non ama. Ma ecco, un bel mattino sull’autobus, Line si materializza.
Bel testo Ieri, nudo, denso di suggestioni. E tratti edipici, incestuosi, che avrebbero fatto la gioia di Freud.

La scena dietro il velo comprende un tavolo da lavoro e un letto. E una carrozzina per bimbi, il cui senso si comprende solo nella seconda metà degli ottanta minuti dello spettacolo. Assistiamo a vari espedienti scenici, teatro d’ombre (ricorda Wozzeck di Claudio Morganti) voci fuori campo registrate, didascalie “a vista” (recitate a turno da lui su azione di lei e viceversa), una danza in controluce, foto proiettate su suoni stranianti. Una lampada traforata ruota su se stessa, trasformando lo spazio in camera delle meraviglie.

Tante cose buone in questa regia rivelano in trasparenza il talento in divenire di Autelli, la scena, la buona chimica tra attore e attrice, l’intensità con cui sono resi i sentimenti, l’odio, l’attesa, l’amore, il contrasto, la delusione. Ma non è che lo spettacolo decolli. Non subito, almeno. Tanto che L’insonne sembra titolo beffardo, perché t’avvolge una pennichella di contrappasso, specie durante i monologhi. È più che altro la trama che ti prende, anche se avevi letto il libro o visto il film, Brucio nel vento, che ne ha tratto Soldini. Perché la Kristof era scrittrice di postura, e gli attori sono bravi.
Dopo lo stallo anche Autelli si sveglia, usa la quarta parete come filtro per storie nella storia, separé tra passato e presente, per ammiccare al futuro, scremare prospettive e ricordi da un confine indistinto.
I protagonisti colgono l’attimo per il loro amore. Ma la loro felicità è effimera. Come le nostre sensazioni più belle su questo spettacolo. Qualcosa di più si poteva osare (ad esempio nel dosaggio delle musiche e degli effetti audio in generale, sfruttando le doti canore di Alice Conti, limando qualcosa dal testo) perché quelle sensazioni non si fermassero in testa solo lo spazio di qualche ora.

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L’Italia cambia verso? La tv mica tanto. Il caso Sanremo

operai

ALESSANDRO MASTANDREA | Non è riuscito il bis a Don Fabio quest’anno. I dati Auditel non hanno premiato la sua seconda conduzione consecutiva del Festival di Sanremo. Forse mancando una novità, una cesura, rispetto all’edizione precedente (la scorsa segnava l’esorcismo da spacchi vertiginosi e farfalline varie), che neanche il matrimonio tra lui e Luciana Littizetto, con Don Matteo guest star celebrante, è servito a colmare.
O magari è mancato l’abbrivio iniziale delle polemiche scatenate dall’intervento di Maurizio Crozza in apertura, come lo scorso anno. Eppure, gli elementi più cari al suo sacerdozio televisivo erano tutti presenti, così come la varia umanità di cui ama circondarsi durante i sereni week-end trascorsi nello studio-eremo di “Che tempo che fa”.
Lasciata sola la bella Filippa a rassettar la casa in sua assenza, nella trasferta di Sanremo non poteva non mancare la compagnia della perpetua Luciana Littizetto, sua croce e delizia (e, appunto, futura sposa) senza la quale, tra un battibecco e l’altro, i rituali liturgici a noi tanto cari non avrebbero ragion d’essere.
Si, perché, a questa strana coppia televisiva piace muoversi su di uno stretto crinale, ciascuno a rintuzzare le mancanze dell’altro. Don Fabio è così preso da quell’aria di sacralità istituzionale che la manifestazione impone, che è sempre sul punto di cedere alle sue due nature: l’una, assai spirituale (che lo spinge a lanciare messaggi di carattere universale, per noi spettatori assetati di risposte) e l’altra, tentazione di genere più mondano, che lo vede innescare la polemica che giovi all’auditel e al proprio ego mai del tutto sopito.
L’aspirazione mondana al successo, quest’anno era tutta riposta in un possibile intervento fuori programma di Beppe Grillo, andata tuttavia delusa (eccettuato il piccolo comizio fiume da imbonitore di strada, tenuto fuori dal teatro Ariston). Ma non sono mancate sorprese. Dapprima la mancata apertura del sipario, poi il fuori programma dei due lavoratori disoccupati del consorzio del bacino di Napoli che minacciavano il gesto estremo. Sebbene la situazione sia stata ben presto recuperata dal Nostro, memore anche della lezione dell’esimio predecessore Baudo, da quel preciso momento, forse perché tramortito dall’inaspettata successione di eventi, il demone della predicozzo si è impossessato di lui, e giù a parlare del valore della bellezza per quattro puntate consecutive, interpellando chiunque sull’argomento: anche passanti e sprovveduti avventori al bar del teatro.
Nel breve volgere di qualche ora, la voglia di predicozzo, o “pippolotto” – come lo ebbe a chiamare un Claudio Baglioni anch’egli caduto nella rete – avrà modo di contagiare tutti gli ospiti del festival, con la perpetua Littizetto incapace di porvi rimedio. Così è stato per le gemelle Kessler, ma anche per un ignaro Yusuf Islam Cat Stevens la cui straordinaria performance canora da sola non è bastata per metterlo al riparo da una domanda sul senso universale delle religioni. E giù fino alla Carrà,che nella sua attillatissima mise da pantera, non ha potuto non rivolgere un appello per i due Marò trattenuti in India, non prima, almeno, di aver cantato un paio di volte il ritornello “ciao, ciao, ciao, muchacho ciao”. Le migliori soddisfazioni, come al solito, sono giunte da Massimo Gramellini, discepolo prediletto di Don Fabio, che di Bellezza e di prediche se ne intende alquanto, forse più del maestro.
Magari saranno state le canzoni, non proprio dei capolavori, o la sensazione di aver assistito da una domenica all’altra a un intera settimana di “Che tempo che fa”, fatto sta che una buona parte di telespettatori, quelli che per visione sono più distanti dalla sinistra, è fuggita altrove. Con buona pace delle larghe intese tanto care anche in queste ore di colloqui istituzionali.
Un tempo, almeno, c’era Antonio Albanese che sapeva argomentare in maniera più trasversale, catturando l’attenzione anche, metti, del pubblico berlusconiano più intransigente, allorquando uno dei suoi personaggi più popolari prometteva: “cchiu pilu pe’ tutti!”. Oggi invece, solo predicozzo. Un bel passo indietro, se permettete.

Due brani di Cetto La Qualunque

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E la protesta degli operai:[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=RRlDQQTMazo]

Inquietanti quegli anni: i «Figli senza volto» di Animanera

animaneraVINCENZO SARDELLI | Starebbe bene come spazio performativo in una mostra sugli anni Settanta Figli senza volto, messo in scena dai milanesi Animanera, bel testo di Ida Farè, regia di Aldo Cassano, con una Natascia Curci di forte impatto. Una storia calata negli Anni di Piombo. Una militante della lotta armata, tra quotidianità e anonimato, affetti e ideologia. Tre quarti d’ora di monologo, in uno degli spazi angusti della Triennale-Teatro dell’Arte.

Ma qui tutto è angusto, il movimento, la parola, l’anima: «Ho seguito il filo della ribellione pura, l’acqua della vita. Sono state le vostre mani a intorbidirla di morte, ma eravate più forti e ho dovuto raccogliere le armi che mi avete consegnato. Sono diventata come voi. Ho bevuto l’acqua della ribellione amara».

Casermone popolare di una città del Nord, appartamento come tanti. Una donna sola, volto smunto, sottana, maglione a trecce. Moquette, sedia. Elettrodomestici dal design postmoderno: tv, ferro da stiro, videocamera. Borsa, scarpe. Giradischi, note su vinile: la struggente Ultima neve di primavera di Franco Micalizzi, l’acid rock di White Rabbit dei Jefferson Airplane, Rain and Tears degli Aphrodite’s Child, colonna sonora del Maggio francese: a volte sono i figli a tradire i padri.

Portacenere, cicche, fumo: gli oggetti (spazio scenico Valentina Tescari, costumi Lucia Lapolla) hanno contenuti emozionali. Ritagli di giornale, Polaroid, pistola, parrucca: travestimenti, anche della sfera affettiva. Patimenti, pentimenti. Anche le luci da interior design (di Beppe Sordi) sono emozionali, la progettazione dell’epoca era così spiazzante. Le luci dilatano ombre, le ombre i gesti. Gesti di mani intorpidite. Mani che tremano, sparano, uccidono.

Un velo sottile separa una vita dalle nostre. Due mondi, due epoche. Siamo in intimità, a volte in empatia, persino. Dietro la quotidianità di un uomo e di una donna, gesti e azioni banali, si cela l’angoscia di due terroristi.

La scelta della lotta armata. L’esistenza nell’ombra. L’ansia di nascondersi, dalla polizia, dai vicini, dal letturista del gas. Anche noi ci sentiamo braccati. Dall’urgenza di trattenere il tempo. Dalla giovinezza che vola. Da passato e futuro intrecciati, sospesi, nell’emozione dei silenzi.

Figli senza volto ce li ricorda bene quegli anni: le sigle di fine programmazione della Rai, il meteo di Bernacca, Kraft-cose-buone-dal-mondo, Bontempi e la musica a portata d’infante. C’è questo nello spettacolo, e anche il resto: le armi, l’isolamento, le atmosfere livide e profonde. Gli effetti audio (di Antonio Spitaleri) s’intersecano in uno straniante climax: borbottio di caffettiera, ticchettii di macchina da scrivere, sveglia, bomba a orologeria, spari di mitragliatrice, rombo di terremoto.

Suoni meccanici. Come la voce della protagonista, fredda e metallica. Come i colpi delle P38. E sangue, a fiotti.

C’è un climax anche olfattivo: sigarette, fumo, barricate, molotov. A squarciare il grigio dilagano, proiettati sul velo, effetti caleidoscopici, a creare un acquario psichedelico che è fuga, fantasia, filtro per una danza nell’ombra della protagonista. C’è un contrappunto, cose di un altro mondo: E se domani di Mina, l’intervista a una donna siciliana che prova a emanciparsi tra una fuitina d’amore e un paio di aborti, all’epoca clandestini anch’essi.

Brandelli esistenziali, ideologie perdenti, amori (e valori) smarriti. Nostalgia, disperazione.

Che cosa resta di quegli anni, delle battaglie, di chi sacrificò la vita, propria e altrui? Scorre sul velo-schermo-sipario, come titolo di coda, un bilancio di quelle ferite, curato da Giorgio Galli. A precederlo immagini della Tv contemporanea, Porta a porta, Il grande fratello, X-Factor, La prova del cuoco, Affari tuoi. Didascalia preziosa per alcuni, pedante secondo noi. Occorreva un finale, e forse è l’unica scaglia da limare di questa messinscena di grande intensità. Che ci ha trasmesso ricordi ed emozioni. E riflessioni, ancora nuove. Quarant’anni dopo.

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Chomsky, italiano e rotocalchi… trova l’intruso!

lin2BRUNA MONACO | Chi l’ha detto che le estenuanti file dal dottore non possano essere istruttive? E che i settimanali scandalistici siano solo collettori di idiozie? Ebbene, qualche volta, può anche capitare che fra un post-nozze di Belen e l’approfondimento sull’ultimo programma di Milly Carlucci, se ne stia quatto quatto un articolo in grado di dare un senso e un guizzo a quella che altrimenti sarebbe stata la solita improduttiva e noiosa attesa. Parlo di un inaspettato articolo divulgativo sui mutamenti della nostra lingua, con tanto di intervista a Nicoletta Maraschio, presidentessa dell’Accademia della Crusca. Lo spazio che il rotocalco scandalistico Di Più dedica all’argomento non è neppure esiguo: i vari aspetti della vexata quaestio dell’italiano che cambia sono scandagliati in una serie di puntate da più di tre pagine l’una. C’è da credere che il Sig. Sandro Mayer, direttore del giornale, abbia ponderato bene la scelta, ritenendo il suo pubblico potenzialmente attratto dal tema. Avrà ragione?

Non è nuovo l’interesse per i cambiamenti della lingua: ogni cittadino italiano di media cultura ha un’opinione sul destino del congiuntivo o del passato remoto. E si interroga sulla giustezza di egli rispetto a lui come pronome soggetto. Di le, rispetto a gli se l’oggetto indiretto in questione è femminile. Ma Di Più non è esplicitamente destinato a un pubblico di cultura media. L’interesse per argomenti linguistici si sta dunque allargando, o si allarga solo quello per il destino della lingua italiana? No, non solo quello, parrebbe.

Sul numero di gennaio de La mente & il cervello è uscito un dossier sui misteri del linguaggio in cui si affronta il tema dal punto di vista delle neuro-scienze. E nello stesso periodo si è svolto a Roma il Festival delle Scienze 2014, organizzato dal Parco della Musica: quest’anno il titolo dell’evento era i Linguaggi.

Il folto pubblico che ha popolato l’Auditorium in occasione del Festival delle Scienze è di certo diverso da quello di Di Più e infatti le questioni linguistiche affrontate in quella sede sono state di alto livello: si è discusso, fra l’altro, del rapporto tra il successo di una società e la sua struttura linguistica, della diffusione delle lingue indoeuropee e della teoria della povertà dello stimolo. Tutto l’evento ha fatto perno sulla figura del grande linguista e attivista americano Noam Chomsky, fortunato fondatore della grammatica generativo-trasformazionale, presente con due appuntamenti e nella duplice veste di attivista e linguista. Come prevedibile il pubblico è affluito numerosissimo, l’Auditorium ha dovuto predisporre degli schermi nella hall affinché, nonostante il sold out in sala, tutti potessero sentire le parole del maestro americano. La hall, come la sala, era gremita di pubblico.

Ma dicevamo: Chomsky non solo star e protagonista, ma perno dell’evento, gli intervenenti essendo tutti americani o quanto meno tutti della “scuola americana” che fa capo a Noam Chomsky. Eccezion fatta per Tullio de Mauro, presente da programma con una conferenza sull’incomprensione linguistica nel Bar dell’Auditorium, nessun esperto italiano o francese o tedesco, che pure sono all’avanguardia nelle discipline linguistiche. Perché? Se è vero che le questioni linguistiche si stanno facendo largo nell’interesse degli italiani, forse non sono ancora in grado, da sole, di conquistare il pubblico. E allora un personaggio noto e carismatico come Chomsky fa da specchietto per le allodole, sicuramente più accattivante di altri pur insigni studiosi, magari meno avvezzi al mondo mediatico.

E il caso Di Più, allora? Anche lì, seppur celato, uno specchietto per le allodole c’è: nell’articolo Nicoletta Maraschio mostra come le mutazioni linguistiche siano naturali in una lingua viva e sostenendo ciò, di fatto, rilascia una patente di correttezza alla lingua parlata dai lettori dei rotocalchi, facendo rientrare nell’italiano standard tratti specifici del parlato che la vulgata normalmente addita come errori. Nicoletta Maraschio dice al lettore di Di Più che non deve vergognarsi di dire “se venivi, ti divertivi” perché questa è un’espressione accettabile, semplicemente appartiene a un registro familiare della lingua. E implicitamente, dice anche, che non esiste una norma rispetto a cui riconoscere degli errori, bensì un ampio spettro di registri e varietà di una lingua.

Così il pubblico aumenta e aumentano i temi linguistici a cui è disposto a interessarsi. Ma dall’altra parte, dalla parte di chi deve informare, qual è l’atteggiamento nei confronti del vasto pubblico? Affinché sia accessibile, di una scienza occorre fare un’opera di divulgazione. Lo stesso Chomsky, nonostante la predisposizione a parlare alle folle, quando entra nel merito di questioni linguistiche diventa ostico: a chiunque non avesse letto almeno un manuale di linguistica generale, la conferenza dell’Auditorium deve essere parsa incomprensibile. E Chomsky non è l’unico ad avere problemi con la divulgazione: paradossalmente i linguisti parlano poco, e solo con addetti ai lavori. Anche in Italia la differenza di conoscenza fra gli esperti e il resto della popolazione è altissima. Fatto comprensibile, da cui non sono immuni neppure le altre scienze, dure o morbide che siano.

Ma la lingua non è solo il prismatico oggetto di una scienza, è anche la forma attraverso cui si esprime qualunque discorso scientifico, qualunque discorso. Non si parla solo di lingua, ma con la lingua parliamo. Venire incontro al nuovo pubblico è forse doveroso.

Speriamo che questo boom di interesse verso la materia linguistica sia foriero di una divulgazione sistematica. E, sembrerà strano, ma forse affinché questo avvenga, gli accademici dovrebbero imparare Di Più e non aver paura di farsi capire.

Passato batte presente a mani basse? Dopofestival al digerseltz

sanremo-2014EMANUELE TIRELLI | La vera prima donna del Festival di Sanremo 2014 è il calo vertiginoso di ascolti accompagnato da una lentezza soporifera. Per il resto, parlando di canzoni, Arisa è la prima dei big e Rocco Hunt vince nella categoria Giovani. La conduzione di Fabio Fazio e Luciana Littizzetto fa registrare una perdita di quasi quattro milioni di telespettatori rispetto al 2013 e, ancora di più, al 2012. Quindi gli italiani criticano il festival e poi lo guardano, sì, ma in pochi.

L’edizione 2014 si apre con due dipendenti del Consorzio di bacino di Napoli e Caserta che minacciano di lanciarsi da una balaustra se Fazio non leggerà una lettera nella quale spiegano qual è la loro situazione. Qualcuno si chiede come potrebbe fare un Consorzio di Bacino ad avere 800 dipendenti senza evidenti problemi economici. Qualcuno ricorda che il problema è stato affrontato pochi anni fa. Per altri versi, invece, i fan del festival e di Pippo Baudo hanno un déjà-vu.

Per quanto riguarda la gara, funziona così: ogni cantante interpreta due canzoni che esegue una dopo l’altra. Il televoto decide quale debba essere esclusa e quale continuare. Un leggero spunto di riflessione sulla distanza tra il pubblico e gli addetti ai lavori è nel Premio della critica Mia Martini assegnato a Cristiano De Andrè per “Invisibili”, il suo brano scartato.
Le canzoni non sembrano destinate a passare alla storia. Forse solo a durare una stagione o, alla meglio, un anno radiofonico. Giuliano Palma con i ritmi in levare del suo “Così lontano” porta sul palco almeno un po’ di verve interpretativa. Poi i Perturbazione (“L’unica”) si aggiudicano il riconoscimento di sala stampa e tv, mentre Raphael Gualazzi e Renzo Rubino mettono in tasca secondo e terzo piazzamento generale. Il resto è poca roba. C’è Francesco Renga, grande favorito e con un certo appeal per il pubblico femminile, ma poco interessante artisticamente. C’è Riccardo Sinigallia che viene escluso dalla gara perché il suo brano non era inedito, chiede scusa e annuncia che non presenterà ricorso. Ci sono Noemi, Ron, Francesco Sarcina, Giusy Ferreri, Franki Hi-NRG e Antonella Ruggiero ancora meno pervenuti. Tutti in una grande media che si fa più o meno interessante a seconda dell’ascoltatore e soprattutto di chi li segue già, festival o non festival.
Ancora meno pervenuti risultano tutti i partecipanti dopo la serata delle cover. Venerdì ogni candidato introduce all’Ariston un omaggio alla canzone italiana d’autore. Ed ecco che Arisa rifà, in modo imbarazzante, “Cuccuruccucu” di Battiato, Renga presenta “Un giorno credi” di Edoardo Bennato, I Perturbazione “La donna cannone” di De Gregori, Ron “Cara” di Lucio Dalla, e così via. Gino Paoli, tra gli ospiti della serata, canta Tenco, Bindi e se stesso.
Allora la domanda è: tra venti anni quali canzoni potranno sostituire o quantomeno affiancare quelle di venerdì sera?
La risposta è in una riflessione puntuale di Red Ronnie di qualche mattina fa. Ci ricorda che Lucio Dalla, Vasco Rossi e tanti altri oggi non potrebbero esistere, perché quando hanno iniziato a fare dischi non vendevano quasi niente. Se le case discografiche non avessero creduto in loro per i primi anni, sarebbero finiti impiegati in tutt’altri mestieri. E, ancora, se quelli che oggi vendono e sono un po’ più interessanti vanno poi a riempire le giurie e gli staff dei talent show, quando trovano davvero il tempo per fare il proprio lavoro?

a_sanremo_una_serata_amarcord_sul_palco_kessler_valeri_e_baglioni-330-0-392133La stessa riflessione va fatta per la maggior parte degli ospiti: Raffaella Carrà, le Kessler, Franca Valeri, Renzo Arbore. Fanno all’incirca quattrocento anni, più o meno.
Passato batte presente a mani basse?
O quantomeno passato batte valorizzazione del presente. Che forse è ancora meno diverte e più angosciante.

Poi una serie di ospiti nazionali e internazionali accomunati dal tema della bellezza scelto per il festival, ma, considerando tutto, senza un reale appeal.
Sul versante giovani, sette nuove proposte che poi diventano quattro. Zibba, Diodato, The Niro, Rocco Hunt. Relegati in terza serata, quando invece avrebbero bisogno di maggiore visibilità. Vengono liquidati in poco tempo anche nel momento della premiazione. Peccato.
Rocco Hunt si commuove quando riceve il premio e viene invitato a cantare di nuovo la sua “Nu juorno buono”, un pezzo di speranza soprattutto per quella parte della Campania che soffre la politica dell’abbandono e dei rifiuti. Una canzone solare e fresca che, complice una serie di indizi, fa dire a tutti: bravo il giovane napoletano. E invece no, è salernitano. E Salerno non entra neanche nella Terra dei Fuochi citata nel brano. Quindi via con le polemiche. Ma almeno il pezzo si distingue, non è appiattito dall’orchestra e funziona. Funziona sì, al contrario di tutto il resto che invece fa molta fatica e chiude una settimana di kermesse sotto tono, poco incisiva e che darà un gran da fare agli organizzatori della prossima edizione per non ripetere il flop. Anche perché è vero che almeno hanno smesso di vincere i cantanti usciti dai talent e dai programmi della De Filippi, ma questo non basta ancora.

Wittgenstein, immagini di filosofia prendendo ad esempio la scena

copertinawNICOLA ARRIGONI «Immaginiamoci un teatro: si alza il sipario e noi vediamo un uomo solo camminare su e giù per la sua stanza, accendersi una sigaretta, mettersi a sedere e così via. Improvvisamente noi lo vedremmo come lui non potrebbe mai vedere se stesso, vale a dire dall’esterno. Vediamo con i nostri occhi, per così dire, un capitolo di una biografia – tutto questo è inquietante e mirabile al tempo stesso. Più mirabile di tutto ciò che un poeta potrebbe mai far rappresentare o dire sul palcoscenico. Noi vedremmo la vita stessa», così scrive Ludwig Wittgenstein il 22 agosto 1930. Questa citazione non solo apre il ricco e bellissimo volume a cura di Michael Nedo, Wittgenstein. Una biografia per immagini (Carocci editore, 75 euro), ma offre una chiave di lettura del volume stesso. Come scrive il curatore: «L’intento è quello di gettare uno sguardo il più possibile diretto e imparziale sulla vita e sull’opera di Wittgenstein. Il lettore è chiamato a rintracciare i legami tra la sua biografia , il suo ambiente spirituale e personale e la sua opera, e farsene una propria idea». Il lettore assume il ruolo dello spettatore del teatro citato all’inizio, gli spetta il compito di osservare, sfogliare, rubare la vita di Ludwig Wittgenstein, offerta dal documento muto eppure loquace di una serie di fotografie che ne raccontano la vicenda biografica, le origini aristocratiche, la storia familiare, il contesto culturale e sociale in cui il filosofo nasce, cresce e da cui cerca una distanza eremitica, enigmatica, assoluta, intensa, spiazzante.

«La forma del libro esprime il concetto di album che era proprio di Wittgenstein – scrive nella prefazione Michael Nedo – Egli lo applica alla descrizione tanto della sua opera quanto della sua vita: nel 1943 paragona i suoi scritti filosofici, le Ricerche filosofiche, che non contengono immagini, a un album di schizzi paesaggistici: negli anni trenta mette insieme un album fotografico in cui racconta la sua vita attraverso immagini». In questo stretto legame fra il filosofo e la biografia per immagini, raccontata da Nedo, si sviluppa il racconto iconico del filosofo austriaco, rampollo di una delle famiglie più in vista della Vienna fin de siècle, ingegnere aeronautico, volontario nella prima guerra mondiale, maestro di scuola elementare, giardiniere, architetto, professore a Cambridge. Basta questo elenco di ruoli e perché no di identità per dare conto della personalità e della biografia di Ludwig Wittgenstein che dicendo di sé nella prima pagina della biografia per immagini con la foto di lui neonato scrive: «Il mio nome è ‘L. W.’ E se qualcuno dovesse contestarlo, stabilirei immediatamente innumerevoli connessioni che lo renderebbero sicuro», 21 aprile 1951 e ancora più sotto si legge: «Perché il proprio nome dovrebbe essere sacro per l’essere umano? Se da un lato esso è lo strumento più importante che gli viene dato, dall’altro è come un gioiello che gli viene messo addosso alla nascita», 20 giugno 1931.

Ed è proprio nel coniugare immagini a frammenti del pensiero di Ludwig Wittgenstein che la lettura e il semplice sfogliare il volume di Carocci si fa un’esperienza dello spirito, un viaggio nel tempo, un racconto per ossimori che spazia dall’elegante palazzo viennese della famiglia Wittgenstein, alla casa ad Skjoden in Norvegia che assomiglia alla realizzazione di un sogno, la casa sull’albero che ogni bambino desidera, casa che è al tempo stesso rifugio ma anche possibilità di vedere la realtà e il mondo da un’altra prospettiva e dopotutto si legge nel testo che accompagna la riproduzione del primo tentativo di scrittura del bambino Ludwig: «I filosofi sono spesso come bambini piccoli che prima scarabocchiano con la matita su di un foglio di carta dei disegni qualsiasi e poi chiedono all’adulto: ‘Cos’è questo?’ – E’ andata così: l’adulto aveva più volte disegnato qualcosa per il bambino e gli aveva detto: ‘Questo è un uomo’, ‘Questa è una casa’ e così via. E allora il bambino fa anche lui dei segni e domanda: e questo cos’è?». Questo interrogativo è presente sempre e comunque nell’indagine filosofica di Wittgentein, un chiedersi ‘che cosa è questo?’ andando in cerca della pluralità, delle connessioni che costruiscono la realtà e il senso, il linguaggio e il nostro essere nel mondo. E allora appare illuminante quanto il filosofo scrive rispetto alle sue Ricerche filosofiche: «Ma perché, quando scrivo di filosofia, mi sembra di scrivere una poesia? E’ come se in ciò risiedesse un dettaglio che ha un significato grandioso. Come un fiore e una foglia», 31 ottobre 1946. In queste parole si specchia la foto scattata da Ben Richards nel settembre 1947 a Swansea in cui Ludwig Wittgenstein guarda in macchina con uno sguardo in cui dolcezza e distanza, in cui melanconia e assenza sono un tutt’uno su uno sfondo che è astratto e in cui a confondersi sono gli stessi abiti del filosofo.

Così sfogliando il volume Wittgenstein Una biografia per immagini ci si può soffermare sui protagonisti della Vienna fine secolo che passarono tutti o quasi in casa Wittgenstein, ci si può soffermare sui volti degli alunni dell’ultima classe del maestro Wittgenstein e riflettere su quanto scrisse il 13 gennaio 1940: «Un maestro che, mentre insegna, mostri di avere delle conoscenze buone, o addirittura sorprendenti, non è per questo ancora un buon maestro. E’ infatti possibile che, mentre gli studenti sono sotto la sua diretta influenza, egli li porti ad un’altezza per loro innaturale, senza però curarne lo sviluppo che li ha portati a quell’ebbrezza, cosicché non appena il maestro abbandona l’aula essi precipitano. Ci ho pensato: forse vale anche per me». In questo intersecarsi di immagini e citazioni o testimonianze legate a Ludwig Wittgenstein sembra realizzarsi un bisogno più volte espresso dal filosofo austriaco e con grande senso del pudore allontanato sempre: «Qualcosa in me mi dice che dovrei scrivere una biografia. Vorrei una buona volta chiarire la mia vita e renderla comprensibile a me stesso e agli altri. Non per giudicarla, quanto per amore della chiarezza e della verità». E viene da pensare che il ricco e appassionante volume curato da Michael Nedo soddisfi forse questo bisogno di chiarezza e verità biografiche espresse dal genio di Ludwig Wittgenstein.

Michael Nedo, a cura di, Wittgenstein. Una biografia per immagini, Carocci editore, Roma, 2013, pagine 469, 75 euro.

Ranuncoli#8: Cheek to Cheek con l’Imperatore per un discorso grigio

downloadCOSIMA PAGANINI | Certi passaggi della colonna sonora di Nuovo cinema Paradiso, di Morricone,  somigliano a certi passaggi della Faust Sinfonia di Liszt. Cheek to Cheek di Irving Berlin richiama la Sinfonia n 4 di Gustav Mahler. Discorso Grigio sembra un lacerto di Hitler – Un Film dalla Germania di Syberberg.

È ovvio che per citare Liszt, Mahler e Syberberg bisogna conoscerli. È ovvio  che Berlin, Morricone e Fanny & Alexander sono bravi, colti e intelligenti. Mi piacciono Mahler, Liszt e Syberberg, mi piacciono meno Berlin, Morricone e Fanny & Alexander.

Nel caso di Syberberg e Fanny & Alexander preferisco l’ opera del primo perché non ho bisogno di leggere testi critici per capire quello che vedo. O meglio, quello che fa il bravissimo Marco Cavalcoli lo capisco benissimo ma non mi racconta niente oltre a quanto siano bravi e intelligenti  e inutili i Fanny & Alexander.

Discorso Grigio non mantiene quello che promette nel programma di sala: non riesce a strutturare un pensiero critico rispetto al discorso politico: non mi offre nessuna arma contro il processo di manipolazione del potere.

Qualsiasi discorso decontestualizzato è un discorso vuoto e retorico. Non c’è discorso politico (anche uno di Lincoln o Kennedy o Obama) decontestualizzato che non sia vuoto e retorico: funziona in un contesto preciso e per un pubblico preciso. Mostrare che un discorso politico è vuoto può addirittura alimentare la credenza che ci siano discorsi capaci di dire di per sé delle cose vere e autentiche, al di là delle loro particolari strategie retoriche. Fanny & Alexander si limita a dire che l’Imperatore è nudo ma ormai dire questo non abbatte l’imperatore. Anzi,  l’imperatore, che sa benissimo di essere nudo, usa la sua nudità. La usa per creare empatia e tranquillizzare.

«Pretty» e «La cantatrice calva»: amore e conflitto in scena

nigroVINCENZO SARDELLI | Conflitti coniugali, incomunicabilità, mancanza di empatia. Fino alla rinuncia totale al confronto, alla quiete dove un attimo vale l’altro, ogni parola il suo contrario.

A Milano due spettacoli teatrali mettono in scena il vuoto nella relazione di coppia. Vuoto al quadrato. Perché in entrambi gli spettacoli le coppie in crisi sono due. È quanto emerge in Pretty – Un motivo per essere carini, di scena al teatro Tieffe Menotti (di Neil LaBute, regia di Fabrizio Arcuri) e in La cantatrice calva, che abbiamo visto alla Cooperativa (di Eugène Ionesco, regia di Marco Rampoldi).

LaBute con più realismo, Ionesco nei consueti modi surreali, mettono la società contemporanea davanti allo specchio. Ne mostrano vanità e superficialità. Il tutto amplificato dal fatto che i protagonisti sono sovrapponibili, in un magma dove affiorano qualunquismo e ipocrisia. Il risultato sono due commedie brillanti, tra equivoci e satira, intorno ai temi dell’identità, del conformismo, della relatività dell’essere, e in fondo di ogni relazione umana.

In Pretty l’ossessione per la bellezza domina i rapporti personali, creando incomprensioni banali, eppure senza uscita. Al centro due coppie di amici, Greg e Steph, Kent e Carly. È Steph a scagliarsi contro Greg perché, tra una chiacchiera e l’altra, lui si è lasciato sfuggire che lei non è una Venere, eppure non la lascerebbe mai. Apriti cielo. Perché Carly riferisce (a modo suo) l’accaduto a Steph. È il via a un intrigo d’incomprensioni, equivoci, tradimenti e segreti. Tra edonismo e narcisismo, capricci e vendette, le coppie implodono, con buona pace (e insoddisfazione) di tutti.

Copione con qualche luogo comune, ruoli stantii, recitazione pulita ma piatta. Una pièce d’intrattenimento. Dove emergono una convincente Fabrizia Sacchi e un Filippo Nigro bravo sì, ma che a teatro è sempre la stessa pietanza, qualunque salsa lo accompagni. Cresce Davanzati, con una Roncione acerbetta, nell’occasione disperata perché bella, ma così bella che gli uomini non possono evitare di apprezzarne l’involucro anziché l’anima. Poveraccia.

In Pretty ogni personaggio si guarda allo specchio nel tentativo di analizzarsi, di chiedersi chi sia, dove vada, che tipo di relazioni stabilisca con i suoi simili. Tutti sono in balia dell’ambiente che li circonda, prigionieri delle opinioni altrui. Qui si contesta l’idea stessa che l’individuo sia libero di autodeterminarsi. I dubbi di Steph riguardo alla propria bellezza, di Greg riguardo alla propria profondità, per non parlare delle manie più superficiali di Kent e Carly, sono pretesti per affermare che siamo tutti un po’ complessati. Le gigantografie dei protagonisti immortalati in quattro monologhi in successione, proiettati in doppia interfaccia da una telecamera, sono l’unico sussulto della regia di Arcuri, insieme al palco girevole che consente varie soluzioni e cambi di scena, e rende lo spettacolo dinamico e in fondo grazioso.

Meglio l’anticommedia La cantatrice calva, fosse solo per il fatto di essere l’opera più rappresentativa di quel cataro malefico delle pseudopovertà borghesi che era Ionesco. La scena qui è soltanto il riflesso di un mondo interiore frantumato e disperato. Personaggi, parole e situazioni sono inspiegabili. Ecco i dialoghi vuoti, i monologhi inconcludenti, la rinuncia a interrogarsi sulle finalità della vita.

L’operazione del regista Marco Rampoldi è arguta. Della serie: studi il testo, definisci i personaggi, recuperi sulla giostra mediatica di Zelig i primi cabarettisti che fanno alla bisogna, e il gioco è fatto. Ed ecco tre primedonne del palcoscenico (Leonardo Manera, Diego Parassole e Max Pisu) più tre attrici d’impatto scenico e di buona scuola teatrale (Marta Marangoni, Stefania Pepe, Roberta Petrozzi). Il tutto è ben assortito in un colorato interno borghese intriso d’arte astratta contemporanea, con divano, poltrona, libreria. Ecco una pendola, le cui ore corrono come minuti, i minuti come i secondi. Giusto per schernire le unità aristoteliche di tempo e azione, e ogni pretesa normalità. È un mondo capovolto: come il giornale tra le mani di Manera: come il cruciverba sul giornale, dove definizioni e soluzioni s’invertono e s’accavallano.

Si dice tutto e il contrario di tutto. La verità? Sta nel mezzo. Dove? In nessun luogo.

Una buona prova corale. Gli attori sono professionisti e si vede. Sono disinvolti, ognuno calato nel proprio personaggio. Ognuno riproduce se stesso, come l’abbiamo visto cento volte a teatro, mille altre in tv: gli occhi allampanati di Manera, quelli strabuzzati da uccello spennacchiato di Parassole, quelli da pesce lesso di Max Pisu.

Nessuno si schioda: lo voleva il regista, faceva comodo agli attori, se lo aspettava il pubblico. Che corre in massa, con tanto di repliche straordinarie, sold out, e applausi. Va bene così.

Uno spettacolo dove Pisu non è Pisu, Manera non è Manera e Parassole non è Parassole? La prossima volta. Forse.

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Teatro fuori dal teatro: La Batracomiomachia sui campi di calcio

Preparativi per la punizioneEMILIANA IACOVELLI | “La stima è come un fiore che, pestato una volta o gravemente appassito, mai più non ritorna” lo ha scritto Leopardi e lo ha ribadito più volte Vierchowod quindi è vero.
Il confronto con la guerra delle rane e dei topi potrebbe sembrare quanto meno ardito. In realtà lo è soltanto per la durata della contesa e non per l’acrimonia dello scontro. Per trovare l’origine della diatriba che sta occupando la stampa specializzata e non solo tra i due Mister Fabio Capello e Antonio Conte, celebri allenatori di calcio, occorre andare a ritroso nel tempo e, precisamente, all’anno del Signore 2004.
Antonio Conte calca ancora i campi verdi e non in cerca di margherite, Capello è già un allenatore affermato e subentra a Lippi alla guida tecnica della Juventus. Il bell’Antonio è in scadenza di contratto e aspetta il rinnovo per un’altra stagione: farebbe lo straordinario, non retribuito, raccattando i palloni dopo gli allenamenti e, all’occorrenza, darebbe una ramazzata negli spogliatoi, ma l’accordo salta per volere di Capello. Il povero Conte, disoccupato, è costretto a rilanciare: oltre allo straordinario offrirebbe un efficientissimo servizio lavanderia in cambio di un posticino nello staff. Anche questa volta Capello dice no.
Dieci anni dopo, i protagonisti sono sempre gli stessi. Capello, allenatore della Nazionale russa, mentre sorseggia un tè e vi intinge una piccola madelaine, si ricorda di avere una missione nella vita: mettere il bastone fra le ruote e – non solo – al suo Conte, rispondendo alla domanda più intelligente mai posta nella storia dell’umanità dopo quella se sia nato prima l’uovo o la gallina: “Cosa pensa della decisione di Conte di revocare il lunedì di riposo ai suoi giocatori, dopo il pareggio con il Verona?”
Inizia un’estenuante sequenza di botta e risposta. Entra in campo il più grande di tutti (in tema di tinture di capelli color ocra tramonto nel deserto), il Trapattoni nazionale, il vero valorizzatore dell’antica lingua babilonese: “A ridosso del rettilineo sorridere è difficile. Anche io, in questi momenti, andavo ai 320 all’ora. Un fatto umiliante e deprecabile!”
Il tecnico salentino, effervescente come un metronotte dopo un turno di lavoro, per offendere il suo antagonista gli dice che del suo periodo alla Juventus ricorda due scudetti revocati, salvo poi accorgersi che si tratta della squadra di cui è attualmente allenatore: i posteri non lo ricorderanno come allenatore aziendalista e dovrà sperare che i tifosi non lo riconosceranno mai per strada.
Si sa, uno quando è nervoso dice cose che non pensa o pensa cose che non dice. Anche qui , come in ogni Batracomiomachia degna di questo nome, ecco un intervento soprannaturale e dirimente. Pesante come un macigno (sul corretto utilizzo della lingua italiana), da un’emittente televisiva locale giunge un’entrata a gamba tesa. Una formosa ed esultante conduttrice annuncia: “C’è astice nell’aria!”