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domenica, Dicembre 22, 2024
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Equilibrio Festival: la sensuale danza dell’immagine di sé

k5BRUNA MONACO | Eccoci arrivati al decennale di Equilibrio Festival della nuova danza. Sidi Larbi Cherkaoui, direttore artistico ormai da cinque anni, propone per quest’anno un’edizione più composita, forse meno brillante del solito, ma sicuramente gli spettacoli interessanti non mancano. C’è Asobi, per esempio, di Kaori Ito, oggi danzatrice della compagnia belga Ballet C de la B diretta da Alain Platel. L’avevamo già vista in scena proprio nell’eccellente e sconcertante Out of context di Platel, nel corso del FestiVAl di Villa Adriana del 2011 (che fu purtroppo l’ultima edizione). Oggi a Equilibrio la trentacinquenne giapponese porta invece uno spettacolo di cui, oltre che danzatrice, è regista e coreografa.

In un’ampia parete di plastica posta in mezzo alla scena si specchia il pubblico in sala. Una quarta parete che riflette anziché separare e pone lo spettatore nella situazione che vive quotidianamente il performer: sotto osservazione, messo a nudo dagli sguardi. Kaori Ito, Csaba Varga, Jann Gallois e Péter Juhász sfilano davanti allo specchio, vestiti di tutto punto. Ma a ogni passaggio perdono un pezzo d’abito fino a lasciare nudo un lato del corpo, e ancora coperta l’altra metà. Nel contempo nudi e vestiti, i danzatori vogliono farsi simbolo di una condizione, quella che viviamo nella società dell’immagine: sempre attenti a rimandare agli altri l’immagine di noi che preferiamo, o che crediamo preferibile, sempre più artificiale e distante dell’autentico “noi”. Il tema dello sguardo dell’altro e della percezione di sé è al centro dello spettacolo: gli interpreti si esibiscono in pose standard, da foto d’adolescenti su facebook, da selfie. Pose esasperate fino ad essere irriconoscibili, ripetute e distorte a un ritmo incalzante, come fossero/fossimo automi, specializzati nella riproduzione in serie di false raffigurazioni di noi stessi.

Ma Asobi è anche altro. In giapponese il termine Asobi indica i giochi erotici degli adulti, degli uomini soprattutto. Kaori Ito li vuole mostrare e ribaltare: sono le due donne in scena a dirigere i giochi a essere determinanti nella scelta dell’immagine che di sé daranno i due uomini. Ma il rovesciamento dei ruoli sarà continuo, in un incessante susseguirsi di figure di danza da kamasutra, di atti sessuali che scivolano dallo stupro all’atto d’amore.

Tanti i temi abbordati e i riferimenti. Probabilmente troppi e troppo articolati per uno spettacolo di danza in cui tutto è affidato al gesto e all’espressività degli interpreti e della coreografia. Kaori Ito non contamina la sua danza, la voce “drammaturgia” non figura fra i crediti dello spettacolo, diversamente da ciò che accade, invece, in spettacoli complessi, più riusciti e semanticamente stratificati come per esempio l’Out of context di Platel.

Ciò che trionfa nello spettacolo, ciò che lo spettatore si porterà a casa e conserverà nella memoria, sono soprattutto le coreografie ritmate e incalzanti,  simmetriche ma scomposte. I movimenti inquieti e inquietanti, vibranti, dei corpi dei danzatori. E un’ironia agghiacciante, straziante quasi. Una comicità nervosa che ricorda un certo cinema muto con i suoi bruschi ed efficaci passaggi dal pianto al riso, dal buffo al tragico.

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AUT aut: la scelta di Impastato a teatro

UnknownRENZO FRANCABANDERA – ELENA SCOLARI | ES: Hai capito che bel Peppino Impastato abbiamo visto? E fammi dire, per una volta, qualcosa di superficiale! Proprio un bell’attore Stefano Annoni. Eravamo in prima fila, l’ho visto bene. E siccome è pure piuttosto bravo sono già contenta. Ti spiace?
RF: No no, figuriamoci. Ho visto che la storia, il dramma dell’uomo Impastato, ti ha soggiogato. Ho visto con quanta attenzione lo guardavi recitare. Di fronte e di schiena… Mai voltare le spalle alla legalità!
ES: Il rischio della retorica quando si parla di mafia è sempre in agguato, ma mi pare che stavolta l’abbiano ben aggirato. Impastato era un coraggioso sfacciato e in teatro il personaggio ne guadagna.
RF: Stiamo parlando di AUT – un viaggio con Peppino Impastato, produzione ArteVOX e Linguaggicreativi, spettacolo ispirato e di fatto per larga parte ricavato dagli scritti di Impastato, progetto di Stefano Annoni, Marta Galli, Roberto Rampi e Paolo Trotti, interpretato dal primo con la regia dell’ultimo.
ES: La regia che appunto sceglie di far raccontare la sua vita a lui medesimo, come se la vedesse scorrere dal finestrino di un treno, idea che ci piace, anche per il tu-tum ripetuto delle rotaie: un ritmo ferroviario “accelerato” per un’esistenza che va di corsa. E finisce per schiantarsi.
RF: Bello e dannato. Tipo James Dean. Che un po’ l’attore ricorda…E poi qualche espediente scenico con il gioco delle ombre, tra l’altro bello deciso, con immagini e parole che difficilmente 25 anni fa sarebbero state ospitate in un teatro di chiesa come quello che ospita la replica, il Teatro Arca con la collaborazione artistica del Teatro della Cooperativa. Potenza bergogliesca? O forza cooperativa? Comunque sia una bella prova di ecumenismo. La chiesa di oggi sta davanti. A certa bacchettonaggine sicuramente.
ES: Personalmente avrei preferito un minor uso di ammennicoli di richiamo circense e western, che mi hanno ricordato un po’ il look di Rino Gaetano e un po’ le parodie facili… Non tanto per il circo o il western in sé, ma perché credo che una delle due metafore sarebbe stata sufficiente per descrivere il paesello Cinisi e le sue gerarchie di potere criminale.
Molto va letto in chiave simbolica, come direbbe un buon critico: Annoni ha imparato anche un buon accento siciliano e ci cala credibilmente in un territorio dove le faide si combattono anche nelle vie centrali del paese, quelle lunghe strade con il saloon dove ci si sfida, il bordello dove si balla e ci si può anche innamorare, e la piazza per i duelli. Arroganze ed eroismi. Manca il mare. Quello nel west non c’è.
RF: LO specifico scenico dello spettacolo, quello che la regia aggiunge alla parola di Impastato, è di fatto un impianto di narrazione dove qui e lì scorrono apprezzabili idee per dare ritmo, idee nel complesso positive e ben pensate, mai lunghe e in generale non pretenziose. La drammaturgia rispetta Impastato, il suo percorso di vita.
ES: Dobbiamo dire qualcosa della radio di Impastato, non credi? Eh, sta pure nel titolo dello spettacolo. Radio AUT come autonomia, dice il testo, ma anche come AUTentico strumento di libertà, una voce OUT nel senso di fuori dal coro, ecco, forse la centralità della radio come scelta di lotta da parte di Peppino e dei suoi poteva essere ancora più presente, cosa ne pensi?
RF: Non so, per un verso l’avrei capito, ma sarebbe stato anche scontato. Così è un’altra storia, ed è giusto fosse così. Anche perché di fatto racconta anche in maniera un po’ onirica, nulla è schiacciato sul meramente cronachistico. Devo dire, ero un po’ prevenuto e invece mi sono dovuto nel complesso ricredere. Niente rivoluzioni, sia chiaro, ma un pulito lavoro di artigianato affidato ad un interprete con la faccia del ragazzino, ma all’altezza.
ES: Io la cronaca degli avvenimenti l’ho seguita abbastanza bene, mi è sembrata ben montata. Fino alla fine. Che per me doveva arrivare con la bella descrizione dell’esplosione fatta direttamente da Impastato, la vittima, che descrive – con la sordina – la sua morte “col botto”. Sai che io ho un po’ la mania dei finali ad effetto.
E invece la vocetta fuori campo del bambino che ci dice che cos’è un atteggiamento mafioso a scuola, no, nun ce la dovevano mette!
L’ultima battuta “E’ tutto, gente” con la pioggia di coriandoli dal cilindro? Un peccato.
RF: D’accordo al mille per cento. Mi è crollato mezzo gusto. Doveva finire cruda. Com’era, com’è stata. Senza intenti finto pedagogici e conigli dai cilindri che alla fine non escono. Il vero coniglio, giocato peraltro benissimo in quelle parole finali era l’esplosione. Lì lo spettacolo raggiunge il massimo. Dopo il piacere, il resto sono inutili chiacchiere. Meglio il silenzio. E il calore, o il freddo, delle grandi emozioni.
ES: E noi come finiamo? Al ristorante giappo per chiudere la serata nippo-sicula?
RF: Guarda, facciamo che se non vogliamo i finali posticci degli altri non ne mettiamo neanche noi negli articoli. Dove andiamo a mangiare, in fondo, sono fatti nostri. Andate a vedere questo spettacolo, se e quando vi capita.

C’era una volta un re: Facchetti e la follia del potere

facchettiVINCENZO SARDELLI | «Triste è quell’allievo che non supera il maestro», diceva Leonardo da Vinci. In C’era una volta un re, di scena al Teatro Leonardo di Milano fino al 23 febbraio, non si può dire che l’allievo Gianfelice Facchetti abbia superato il suo insegnante di teatro Claudio Orlandini. Però sorprende la capacità di entrambi di prestarsi al ribaltamento di ruoli, con Facchetti regista e Orlandini efficace protagonista in scena. Un gioco portato alle estreme conseguenze. Perché Orlandini da regista è solito muovere gli attori come trottole impazzite: predilige una recitazione convulsa, a tratti schizofrenica. Invece qui, da attore, è ingessato e introspettivo. E si lascia dirigere senza interferire. Paradossi della scena. E anche dei ruoli in scena. Perché proprio la schizofrenia è la condizione esistenziale del suo personaggio, Giorgio III d’Inghilterra. Dichiarato pazzo irreversibile nel 1811, rinchiuso nel castello di Windsor gli ultimi anni di vita, re Giorgio, ormai cieco, sordo, affetto dai reumatismi, alcune settimane prima di morire fu capace di parlare in maniera sconclusionata per 58 ore di fila. In questa messinscena, però, a colpire sono i suoi silenzi, il suo impaccio comunicativo. Lo stallo dei suoi pensieri, che tuttavia interroga il pubblico. Paradossi, appunto.

C’era una volta un re mette in luce il contrasto tra la corte, dove il sovrano è riverito e temuto, la debolezza dell’uomo malato e il mondo della politica, dominato dai cerimoniali pomposi e convenzioni rigide. La salute del re è al centro di giochi perversi. Alla famiglia reale, di fatto esautorata, resta il dovere di salvare l’etichetta. Il bizzoso sovrano, in fondo tenero nelle sue manie, è strumentalizzato da chi, dietro le quinte, complotta per alterare gli equilibri della nazione. Il burattinaio è l’insolente medico di corte (Pietro De Pascalis) supportato da due servitori muti (Umberto Banti e Luca Ramella).

Il passaggio dai fasti al delirio è reso da una scenografia semplice (di Vittoria Papaleo) prima di drappi e veli, poi di materassi che creano una parete-muro di gomma. Luci monocrome (di Claudio Intropido) ritraggono un’umanità disanimata, ipocrita e abietta.

Con musiche che spaziano dai Pink Floyd a Jimmy Fontana, da Tom Waits al Requiem di Mozart, lo spettacolo evidenzia la pericolosa contiguità fra potere e follia. Il potere logora, chi ce l’ha e chi non ce l’ha.

La forma dell’apologo fa riflettere sulla nostra realtà politica, sulla coltre di nebbia che tiene il popolo a distanza debita: pochi eroi, tante vittime, una folla d’ombre.

Ma la rottura dell’illusione scenica messa in atto da Facchetti va oltre. L’intreccio tra finzione e realtà diventa gioco metateatrale. Incrocia il presente. Apre lampi in direzione del passato. Gli attori si spogliano dei personaggi, scavano alle proprie radici, in una confessione che sa di outing e psicoterapia. Riaffiorano ricordi, schegge di vita vissuta, anche crudeli. E non finisce qui. Perché l’operazione rimbalza sul pubblico, con dei volontari che salgono sul palco a raccontarsi a propria volta.

Gli ingranaggi di questa sequenza finale dello spettacolo vanno oliati, ma l’idea è buona: riflettere su noi stessi, sul nostro impatto con il potere, sia quando l’abbiamo subito, sia quando l’abbiamo esercitato. Misurarci con il nostro passato. A costo d’imbatterci in qualche spettro, per elaborarlo.

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La fast ironia “suicida” dei Sacchi di Sabbia

Sacchi di Sabbia Piccoli SuicidiMATTEO BRIGHENTI | La fantasia è una maschera di legno che canta. Si fa con le mani, il disegno, riscoprendo uno stare insieme arcaico, occhi aperti e testa sgombra. Nel Maggio drammatico l’Appennino tosco-emiliano celebra in ottava rima e in quartine di ottonari la primavera, cioè la sconfitta del gelo della morte. I Sacchi di Sabbia (www.sacchidisabbia.com) recuperano quella tradizione e la rileggono come somma esilarante delle differenze che ci rendono ugualmente sconfitti, oggi, dal gelo della vita. Piccoli suicidi in Ottava Rima – Volume I, presentato in anteprima nazionale al Teatro Studio di Scandicci (Firenze), frutto di una collaborazione tra Giovanni Guerrieri e Dario Marconcini, con la consulenza di Enrico Pelosini, Andrea Bacci ed Enrico Baschieri, è un musical a cappella, un match di recitazione vernacolare, un divertimento in quattro tempi veloce, pulito, leggero.

Un quadrato di luce rossa, la musica degli stornelli, cinque sedie. Lo spazio che accoglie la nuova indagine sulla parodia di Guerrieri insieme a Giulia Gallo, Gabriele Carli, Giulia Solano, Enzo Illiano è l’alba di un tramonto strascicato. Gli attrezzi  di scena e i semplici costumi sono in delle scatole ai piedi degli attori. Non c’è altra scenografia che il corpo e le sue voci. Seduti, poi in azione, su e giù, i Sacchi di Sabbia sono i pistoni del racconto di quattro “rievocazioni storiche” dell’immaginario cinematografico pop/olare: western, horror, commedia, fantascienza.

In Pat Garrett e Billy the Kid, dall’omonimo film di Sam Peckinpah, le ferite da arma da fuoco sono gocce di tintura su una camicia bianca. Billy non vuole morire, preferisce cantare mentre rovina a terra. Le pistole a salve dell’immaginazione sono cariche di pianto trattenuto. Le armi della finzione ti lasciano solo di fronte ai tuoi sogni realizzati. Il teatro non può rappresentare la morte, è finzione, serve unire le volontà di tutti per riuscirci. Fare comunità.

L’accettazione del gioco dei ruoli, della necessità di fare squadra, si fa avanti a passi rumorosi nell’episodio The Wolf, che stravolge il tema di Wolfman, pellicola di Joe Johnston. L’uomo, anche se trasformato in lupo, resta un poeta. Dedito alla bellezza. Uccide quando si riempie gli occhi di tre Cappuccetti rossi, la femminilità in un giro di spalle, un cestino di cartone e il sorriso idiota.

Questi Piccoli suicidi sono lenti di ingrandimento puntate sulle ovaie dell’impegno a non lasciarsi vivere. Che cos’è l’amore, da Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere, il Woody Allen del 1972, prende tre spermatozoi e li mette a godersi lo spettacolo del concepimento. Non c’è democrazia dentro l’utero, la Natura non è uguale per tutti, i forti vanno avanti, gli indecisi restano indietro, e lo spermatozoo riluttante fa la fine del cuscino sulla sedia. Schiacciato.

Il lavoro dei Sacchi di Sabbia è trasformazione, passaggio, confine, una maschera per incontrare gli altri dentro di sé e far divertire il pubblico. Nel quarto e ultimo suicidio, il più riuscito e divertente nella sua fulminea semplicità, L’invasione degli Ultracorpi, dall’omonimo film di Don Siegel, l’alieno che s’impossessa dell’umano è un sacco nero con gambe, braccia e testa. Sembra Grillo incappucciato che scappa alle domande dei giornalisti sulla spiaggia di fronte alla sua villa di Marina di Bibbona (Livorno). Non si capisce chi sia più alieno, se l’extraterrestre o il padrone di casa che lo accoglie in calzini e canottiera, anestetizzato da La gatta sul tetto che scotta su un minuscolo televisore, costruito con niente, come tutto lo spettacolo. Entrambi, comunque, spaesati, senza posto, fuori da questa realtà sorniona e incomprensibile.

Non possono farlo davvero così, con quella furbizia trasognata da start up in garage, eppure lo fanno, finché non ridi completamente, con tua bella sorpresa. Una ridda di impasse comiche che fanno di Piccoli suicidi in Ottava Rima – Volume I una canzone orecchiabile per sorrisi in cerca di respiro.

Il tentativo di coesistenza fra bellezza e crudezza: la fatica di Kronoteatro

Un disegno di Renzo Francabandera
Un disegno di Renzo Francabandera

RENZO FRANCABANDERA | Cinquanta persone siedono in silenzio attorno ad un rettangolo di dodici metri per cinque riempito di terra. Buio. Qualche goccia d’acqua all’inizio fa arrivare l’odore della terra nelle narici. Luci fioche e di intensità calda illuminano a mala pena. Come invisibili candele. Arrivano prima delle bestioline in apparenza inermi, poi il loro padrone.
Dopo una breve predica le aizza le une contro le altre. Il motivo è futile, potrebbe essere uno qualsiasi. La fame, la sete, il pensiero sui destini del mondo. Le bestie, dopo l’addestramento, saranno disposte a tutto, fino a sbranarsi l’un l’altra.
E’ così che può capitare di trovarsi a bordo ring, come in Amores perros, a guardare gli animali nell’atto finale dell’attacco per sfuggire alla propria morte.
Come in Salò di Pasolini; o in Orfani_la nostra casa, testo di Fiammetta Carena, atto scenico pensato da Kronoteatro. Gli orfani, uomini indifesi pronti ad imbestialirsi, sono Alessandro Bacher, Tommaso Bianco, Alberto Costa, Vittorio Gerosa, Alex Nesti, il loro gran sacerdote, in abito da sera e scarpe lucide, è Maurizio Sguotti (anche regia).
E’ davvero la lotta di uomo contro cani. E di cani fra loro.
Chiamare spettacolo questo interessante lavoro teatrale è inadeguato, come pure l’applauso finale che pure vorrebbe esserci, è duro da regalare. E non perché non meritato. Ma perché il lavoro di Kronoteatro è un atto d’accusa capace (magari non per tutti, o con alcuni distinguo e distanze) di arrivare al cuore di certe questioni sui rapporti di forza nella società, nel nostro tempo, di sempre.
Il fatto che la miseria, le valigie, gli elementi di scena, ricordino una povertà antecedente ad un qualsiasi boom economico contemporaneo, non fa passar di mente come quello di cui si parla possa essere un tempo eterno, di uomo lupo, potere, dominio.
Il cuore di una storia spesso non è la storia di per se stessa, ma come la si racconta.
E qui tutto converge, compresi gli studiatissimi movimenti pensati da Davide Frangioni, verso un’idea forte, coerente, efficace di uso del teatro, dove l’esperienza e la figura più adulta di Sguotti trovano un equilibrio interessantissimo con un gruppo di giovani attori dalle ricchezze e sfumature diverse, con qualche ridondanza, un retrogusto barocco che comunque amplifica l’estasi della crudezza, della carne selvaggia, dell’uomo belva all’uomo.
I ragazzi, all’inizio inermi e indifesi, ma diversi l’un dall’altro, subiranno un processo di alienazione dalla propria identità originaria, per trasformarsi in adepti di una setta, il cui valore, fra vaneggiamenti pseudo religiosi e di vuoto contenuto etico, sarà semplicemente l’espropriazione della personalità con l’unico fine di ridurre ad uno stato di cieca obbedienza, indistinguibile e indistinta.
Mi ha dato alla bocca dello stomaco, e per me, per il mio modo di intendere l’arte, la necessità di un suo profondo essere viscerale, totale, studiata e consapevole, ma sempre improvvisa, questo è un valore.
Ricordo, della visione fruita al Teatro dell’Elfo di Milano, anche l’efficacia delle scene e dei costumi di Francesca Marsella e le luci e i suoni di Enzo Monteverde, capaci di mettersi al servizio di un’atmosfera claustrofobica, difficile da scrollarsi di dosso, o meglio di dentro.

L’Orfeo e la Mite: César Brie tra Eros e Thanatos

brieVINCENZO SARDELLI | Non si smentisce, César Brie. Che presenta, attraverso la metafora del teatro, aspetti drammatici della vita in termini sfumati. Brie sospende il giudizio. Non impone un punto di vista. Piuttosto interroga lo spettatore, in uno scandaglio psicologico e spirituale.

È l’oggettività dei sentimenti. È un teatro dove si rimarca il potere dell’emozione sull’ideologia. Attori e spettatori partecipano a un rito. Esaminano se stessi, alla ricerca di una verità che riconosca le ragioni altrui, senza dogmatismo.

Sarà per questo che Brie tende ad affidarsi ad attori giovani, quelli della compagnia Teatro Presente, con cui ha proposto in successione, al Campo Teatrale di Milano, Orfeo ed Euridice e La Mite. Come se cercasse un codice comunicativo primordiale, oltre ogni sovrastruttura.

In entrambe le opere il tema è la morte, correlata a libertà e amore.

Orfeo ed Euridice intreccia mito e attualità, con riferimento all’eutanasia. Sono passati cinque anni dalla scomparsa di Eluana Englaro, e in Italia manca ancora una legge sul testamento biologico. Anche il cinema si è occupato della questione, prima con Bella addormentata di Bellocchio, poi con Miele di Valeria Golino.

Come Orfeo con la forza del canto prova a liberare Euridice dal Regno dei Morti, così in questa storia Giacomo (Giacomo Ferraù) prova a proteggere Giulia (Giulia Viana) dall’inferno di un incidente stradale che la inchioda a una vita senza nerbo.

Lo stile cinematografico della pièce introdotta da un Caronte siciliano, con la scena tagliata da un fascio di luce, si dispiega attraverso un flashback iniziale. Ecco l’incontro tra un ragazzo e una ragazza, il corteggiamento, le paure. Sogni, flashforward, il riconoscersi. L’amore, cresciuto al ralenti. Le promesse. I dialoghi al buio, delicati e dosati. La naturalezza dei piccoli gesti. Gli abbracci, i respiri. La luce, che blocca a più riprese il racconto in un fermo fotografico surreale, a immortalare una gioia effimera di fronte alla tragedia che incombe, di cui non perdiamo mai il senso. Fantasie e incubi, fino all’incrocio con la morte.

Il montaggio in parallelo enuclea varie situazioni. Confonde passato, presente e futuro. Contamina ricordi e speranze, timori, rimpianti e angosce. L’accudimento, la casa dei risvegli. L’attenzione a piccoli segni di ripresa, un alluce che si muove, un occhio che si apre. Il parere del medico, la routine del fisioterapista, la sentenza del giudice. Le crisi di coscienza, tra miraggi e delusioni. La meraviglia. La stanchezza. E il dubbio. Se porre fine a un’esistenza dimezzata. Se restare inerti di fronte a una vita-non vita che illanguidisce, illanguidendo a propria volta.

Qui la malattia è dramma, non bandiera. Su tutto c’è l’amore: oltre le illusioni e i crolli, i capelli che imbiancano, le decisioni laceranti. Regia essenziale, recitazione leggera e toccante. Nessun eccesso: basta la drammaturgia degli sguardi a inumidire gli occhi del pubblico.

Meno evocativa La Mite, tratta da Dostoevskij. Qui, a scanso di equivoci, la morte ci è sbattuta davanti, attraverso una bambola-mummia (di Tiziano Fario) che aleggia tra i due protagonisti. La Mite (in scena, intensissimi, Clelia Cicero e Daniele Cavone Felicioni) è la vicenda di un usuraio quarantenne che cerca di spiegarsi il suicidio della giovane moglie.

Anche qui, in flashback, un legame sentimentale che si sfilaccia inesorabile. L’originale di Dostoevskij marcava la freddezza e grettezza di lui, la fragilità e i tormenti di lei. Qui tutto è rarefatto, meno plateale.

Il racconto del protagonista, tra senso di colpa e desiderio di assolversi, diventa dialogo interiore a due voci. Lui cerca di razionalizzare. Anche qui c’è il rewind di un amore mancato. Ma non c’è nostalgia di momenti piacevoli in lui, solo l’angosciante discernimento della propria inadeguatezza, che ha scatenato la tragedia. Lei, timida e introversa, aiuta lui a riorganizzare pensieri e memorie. Ogni tanto rettifica. Quando tace, quel silenzio incrudelisce sulle ferite di lui.

Uno spettacolo più fisico: contrasti, teste che si strofinano, braccia che si serrano, s’aggrappano, si lasciano cadere. Come in Indolore o Viva l’Italia (stesse musiche soffuse – di Pietro Traldi – capaci di contrappunto drammaturgico, stesse luci venate) pochi oggetti scenici (di Roberto Spinacci, costumi di Elisa Alberghi) creano gli spazi dell’azione. Un tavolo è mensa, ma in verticale diventa porta, davanzale. Capovolto, diventa casa.

Nella Mite c’è il rimpianto di un uomo per un paradiso che era nell’anima. C’è l’amarezza di una donna per l’incapacità di superare il disprezzo, di dissipare l’inverno esistenziale.

Uno spettacolo in bilico tra male e bene, colpa e pietà, con l’insostenibile incapacità d’amare. E però qui la scelta di non schierarsi lascia allo spettatore un vuoto irrisolto, uno smarrimento troppo forte per soluzioni persuasive.

Non resta che naufragare nei pensieri. E, nel dubbio, sospendere il giudizio su quest’opera. Anche noi, alla maniera di Brie.

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Ranuncoli#7 Pillole di filosofia, un pesce di nome Wanda e Immanuel Can

6COSIMA PAGANINI| Mioddio è successo! Ho visto uno spettacolo e mi è piaciuto.

La pace perpetua di Juan Mayorga, e di Immanuel Kant, ma anche di Jacopo Gassmann e di Pippo Cangiano, Enzo Curcurù, Giampiero Judica, Davide Lorino e Danilo Nigrelli, ha operato un piccolo smottamento nel mio cuore di pietra.  

Ci sono tre cani in una gabbia trasparente. Devono superare tre prove (come Tamino del Flauto magico rievocato dalla musica che ogni tanto irrompe e disturba il terzetto). C’è anche, fuori dalla gabbia, un cane vecchio: mentore e giudice nello stesso tempo. Non conserverà per molto il comando nella squadra antiterrorismo. Insieme all’Uomo dovrà decidere chi dei tre  sarà ammesso a far parte della squadra. L’uomo non ha un nome e tace per tre quarti dello spettacolo. I cani hanno un nome che, seppur imposto, li definisce. Il giudice si chiama Cassius e i concorrenti Odìn, John-John e Immanuel (come Kant).

La pace perpetua è uno spettacolo semplice semplice, senza trucchi, senza citazioni criptiche. Uno spettacolo classico, antico e luminoso. Scorre per 80 minuti tra momenti comici (John-John, il cane più giovane, alle prese con Pascal e l’esistenza di dio è esilarante e ricorda il personaggio di Kevin Kline in “Un pesce di nome Wanda”) e l’incombente “sapere aude” kantiano. Il regista sceglie di  restare un po’ nascosto e di mettersi al servizio del testo e dei bravi attori. I temi sono potenti e possono scivolare via se non li si possiede. Il meglio è nemico del bene. Sono queste parole di Shakespeare che risuonano nella mia mente mentre assisto alle ultime scene dello spettacolo. Ognuno dei protagonisti de La pace perpetua ha una diversa idea di Bene. Il bene è il proprio benessere (Odìn), il bene è il dovere (John-John) e il Bene è scegliere di restare umano seguendo la ragione guidata dal cuore (Immanuel). Quale bene sta scegliendo ognuno di noi?

Infine, al momento degli applausi penso: nessuna bellezza salverà il mondo. Neanche la scelta dettata solo dal cuore, tanto auspicata dall’Uomo. Forse il mondo non si salverà. E se ci fosse una minima possibilità sarà data dalle molte scelte individuali di quelli che non verranno a compromessi con la propria umanità. Non si combatte il male con i suoi stessi mezzi. L’unica flebile possibilità di salvezza, anche se tragica, è data dalla non opposizione al male con il male.

Pillole di filosofia, un compendio della filosofia morale da Pascal, attraverso Hobbes fino a Kant: ha detto qualcuno seduto dietro di me.  Forse è così ma questo genere di pillola va giù anche senza zucchero. 

Cauteruccio e la prigionia trentennale di un grande artista

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LAURA NOVELLI | Una delle eredità maggiori che si porta dietro chi come me abbia frequentato il Dipartimento di Discipline dello Spettacolo de “La Sapienza” parecchi anni fa, è l’insegnamento di grandi storici del teatro come Fabrizio Cruciani e Ferdinando Taviani sui cui saggi critici abbiamo trascorso appassionate ore di studio. La questione centrale era e resta quella della deperibilità del fatto  spettacolare (deperibilità delle opere così come delle operazioni) e, di conseguenza, della ricerca di percorsi storico-critici che ne garantiscano una ricostruzione per lo meno affidabile. Le parole di quelli che considero i miei due maestri mi hanno spesso illuminato a riguardo e mi hanno radicata nella convinzione che, sebbene il teatro sia scritto sempre sull’acqua, il modo giusto per poterlo raccontare c’è, e non può essere mai lo stesso visto che non sono mai gli stessi né  l’oggetto né il soggetto del racconto.

L’ho presa un po’ alla lontana per parlare di un libro edito di recente dalla Titivillus (www.titivillus.it) che, dedicato ad un grande maestro della nostra scena contemporanea quale Giancarlo Cauteruccio, indica una strada percorribile, un modo giusto per osservare il passato senza perdere di vista i suoi legami con il tempo presente. Si intitola “Teatro Studio Krypton. Trent’anni di solitudine” e l’autore è Simone Nebbia, (tra le firme di punta della rivista www.teatroecritica.net) che, attraverso una serie di conversazioni/interviste con lo stesso Cauteruccio, sa trasformare la curiosità in pensiero, parola avvolgente, riflessione allargata e trasversale. Un incontro generazionale dunque. Una conversazione tra ieri e oggi. Un outsider del nostro teatro confida e affida la sua solitudine, la sua posizione proficuamente periferica allo sguardo “accuratamente ingenuo” di uno studioso che non c’era, che non ha visto molti dei lavori di cui parla, e che proprio per questo sa interpretarli a posteriori, partendo dalla contemporaneità.

Architetto di formazione, calabrese di nascita, toscano di adozione (a Scandicci ha fondato e dirige uno spazio multiforme  e poliedrico quale il Teatro Studio), intriso di cultura artistica, filosofica e rinascimentale, sperimentatore indefesso e audace, Cauteruccio ha attraversato, con i suoi spettacoli (cito almeno “Eneide”, “L’ultimo nastro di Krapp”, “Finale di partita”, “Roccu u Stortu”, “Ubu c’è”, “Picchì mi guardi si tu si masculu”), generi, linguaggi, epoche, immaginari, autori, scritture diverse. E il libro di Nebbia accondiscende questi attraversamenti evitando la mera cronologia per prediligere, piuttosto, un taglio tematico che nel corpo centrale del saggio (intitolato “Visioni”) articola la trattazione in tre emblematiche sezioni: “Trittico troiano. Un’opera modulare” (dedicata al lavoro “Crash Tröades” e alle sue varianti), “Un Beckett di Calabria, o della solitudine” (che racconta il felice incontro tra Krypton e la drammaturgia beckettiana intesa soprattutto come impossibilità della rappresentazione) e “Il teatro e la città” (dove si ricostruisce il rapporto stretto tra spazio e corpo, tra visione architettonica e architettura delle parole, tra luogo teatrale e teatro urbano).

Due conversazioni con lo stesso Cauteruccio aprono e chiudono questa ampia indagine critica: la prima dedicata a “La parola politica”, la seconda a “La parola poetica”. Laddove – forse – l’una sembra imprescindibile dall’altra. Ne risulta un omaggio sincero, puro, profondo, che lascia intuire quella esemplare coerenza con se stesso e il proprio percorso artistico che è sempre stata una caratteristica della ricerca di Cauteruccio. La predilezione per l’arte visiva non ha mai, infatti, lasciato nel retrobottega del suo laboratorio creativo il lavoro sui testi, sui temi, sulla lingua madre, sulle grandi questioni umane ed etiche suggerite dai classici cosi come dalla realtà e dalla storia coeva (e anzi, il più delle volte i classici sono assunti a modelli archetipici dove risuona la contemporaneità). L’innovazione tecnologica iniziata negli anni ’80 (basti pensare all’uso del laser in scena), pur nei suoi accenti sfacciati e provocatori, non è mai sganciata dalla riflessione sull’antico, sull’estetica barocca, in particolare sulla luce e sulla luce come verbo.

Il volume, arricchito da disegni dello stesso Cauteruccio e da una prefazione di Franco Cordelli – lui sì spettatore/testimone di tanta storia spettacolare della compagnia – è stato presentato a Roma qualche giorno fa alla Casa dei Teatri (proprio in concomitanza con la mostra/omaggio a Beckett “Prigionie (in)visibili”) e l’incontro – cui hanno partecipato Dario Evola, Giuliano Compagno, Ilaria Fabbri, Paolo Ruffini, oltre ovviamente all’artista e all’autore – ha offerto l’occasione per un confronto tra studiosi, amici, intellettuali, operatori che hanno intercettato nel loro percorso umano e/o professionale la cultura e la sensibilità di teatrante unico nel suo genere. Dal luogo appartato della sua “prigionia”, Cauteruccio ha saputo dialogare con il passato e con il presente. Li ha sovrapposti. Li ha forzati verso linee di fuga coincidenti. Li ha aperti al futuro. Questo libro ripercorre il suo viaggio e dimostra che, sebbene il teatro sia scritto sempre sull’acqua, il modo giusto per poterlo raccontare c’è.

Il teatro, la Storia, e l’imboscata del bigino

e-bello-vivere-liberiELENA SCOLARI | Vivere liberi è bello. Eccome. Vivere sicuri di sapere chi sono i buoni e i cattivi è invidiabile. Vivere cercando di essere obiettivi è più difficile. Secondo me.

Ad una certa età il disincanto è frequentazione più assidua che in tempo di gioventù. Disincanto è seduto al nostro fianco al Teatro Verdi di Milano, chissà se ha avuto un omaggio stampa, o forse si è imbucato per vedere lo spettacolo di Marta Cuscunà “È bello vivere liberi”, il titolo che l’ha fatta conoscere e le è valso il Premio Scenario Ustica. L’inizio del lavoro ci piace, Cuscunà è brava, racconta con passione la storia di Ondina Peteani, staffetta partigiana a 18 anni in Venezia Giulia, e tratteggia bene il disegno della nascita di una scuola di comunismo in un piccolo paese del Friuli. L’attrice passa agilmente tra tanti personaggi: donne coraggiose, mamme lungimiranti, soldati burberi e un po’ tonti. La scena è composta solo da un pannello scuro e da un carro merci grigio metallo, ciò darà un bel risalto cromatico ai particolari rossi che la protagonista indosserà.

Man mano che lo spettacolo procede, sbirciamo di sottecchi Disincanto che ci sembra accennare un sorrisetto. Mah, sarà un’impressione. Però cominciamo ad avvertire un po’ di prurito.

Intanto Ondina, ragazza sveglia, ottiene incarichi di responsabilità, anche pericolosi, dai compagni comunisti irrimediabilmente buoni, coraggiosi, altruisti, onesti e leali al contrario dei fascisti (o anche solo dei loro simpatizzanti) che sono invece piattamente cattivi perché meschini, opportunisti, falsi e violenti. Sospettiamo la causa del prurito.

La staffetta partigiana ha una bella storia da narrarci, avventurosa, corre in bici e si addestra ad essere veloce (ma perché con la colonna sonora di James Bond? Sigh…). Arriviamo ad un punto cruciale: la consegna per Ondina e il suo compagno è uccidere un ex partigiano traditore che sta facendo arrestare parecchi elementi della cellula. La scena, francamente non capiamo perché, è realizzata con i burattini, e si risolve in uno sketch da guarattella, l’omicidio si consuma a suon di allegre legnate come nel migliore Pulcinella. Ora, noi saremo ormai all’antica, però ridurre in questo modo la cronaca dell’assassinio di una spia ci è sembrato fuori luogo. Scateniamo dissenso? E scateniamolo.

Marta Cuscunà ci appare attrice e autrice che non ha bisogno di adagiarsi nella troppa semplicità, e diciamo questo a ragion veduta, crediamo, perché la seconda scena con i burattini, la partigiana prigioniera nel lager di Auschwitz, è invece molto bella. Molto. Sa commuovere con una delicatezza che qui sì, è profonda: il carro merci si apre e diventa la cella del campo, la magrissima Ondina Peteani-pupazzo è mossa dalle mani dell’attrice, in guanti di gomma nera che cigolano sinistri, un suono sgradevole e di grande effetto così come la terribile lentezza dei suoi movimenti, deboli perché il corpo è fiaccato dalle privazioni.

Siamo convinti dell’utilità di parlare a teatro della Storia, dei partigiani, della guerra, delle azioni eroiche, del meraviglioso coraggio di ragazzi e ragazze poco più che adolescenti che si sono opposti al regime, e di parlarne anche ai giovani, certo! Come non esserlo? Ma troppo schematismo è rischioso, l’assenza di approfondimento è un’ingenuità che – parlando di Resistenza – è spiacevole. Siamo dell’avviso che la freschezza di Cuscunà e del suo spettacolo non soccomberebbe con un po’ di didascalia in meno e un pizzico di sfumature in più. E Disincanto è d’accordo con noi, ce lo conferma mentre usciamo a braccetto.

Oliva al Litta: menzogna e verità, tra Pirandello e Shoah

sigariVINCENZO SARDELLI | Doppia regia di Alberto Oliva al Litta di Milano, con Il venditore di sigari di Amos Kamil e l’Enrico IV di Pirandello. Due facce della stessa medaglia, l’essere e l’apparire. E il nascondersi. Dietro la lucidità, sferzante e insinuante. Oppure nella riservatezza. Dietro un banco, l’anonimato. Oppure nella follia.

Comunica riflessioni sempre nuove Il venditore di sigari, bel testo dell’israeliano Kamil. Anzitutto il bisogno di indietreggiare di fronte alla Storia, di sospendere il giudizio su vittime e carnefici. O su quelli che, mentre l’Uomo affondava, s’aggrapparono al primo legno per galleggiare.

1947, la guerra è finita, Berlino si prepara alla lacerazione del muro. Ma le divisioni sono prima di tutto nell’anima, in chi prova a ritrovare solidarietà e dignità.

In una tabaccheria dell’ex capitale del Reich s’incontrano tutte le mattine, alle 6.30 in punto, due uomini dal passato intrigante. Gruber, ex soldato tedesco, ne è il gestore; Reiter, ebreo, ex docente universitario, è l’avventore.

Ogni giorno un nuovo round. Reiter attacca, velenoso, tagliente, compiaciuto di scuotere il tabaccaio. Gruber, schivo e introverso, sta in guardia. Oggi però contrattacca, con un crescendo sorprendente.

Il filtro del bancone separa i due. Con le vetrine (di Francesca Pedrotti) per scrutarsi di sottecchi in trasparenza o farsi da specchio. Un’inimicizia corpo a corpo basata sul sospetto. Colpi di vita. Un concentrato di filosofia, teologia e buon senso, alla ricerca di verità autorevoli. Nel tentativo (vano) di fissare torto e ragione, colpa e innocenza.

Una regia sobria. Le luci di Fulvio Melli tratteggiano notte che sfuma e giorno che avanza, voglia di dimenticare e bisogno di ricordare.

Spazio alla parola, gesti essenziali. I protagonisti, Gaetano Callegaro e Francesco Paolo Cosenza, trovano finalmente la propria dimensione attoriale autentica. Incontrano due personaggi che sembrano coincidere con la loro sfera umana e psicologica.

Reiter e Gruber c’inchiodano alle nostre mezze verità. Quando siamo in bilico. E il passato è zavorra che frena il futuro.

A proposito di passato. Proprio a Milano, al Manzoni, fu rappresentato la prima volta, nel 1922, l’Enrico IV con Ruggero Ruggeri. Un testo ancora attuale. Anche se il filone della follia è stato sviscerato nel frattempo in una miriade di sfumature, partendo da Ionesco e Beckett.

Dell’originale pirandelliano Oliva mantiene la struttura classica del genere tragico. Ne riprende il nodo (all’origine c’è una passione amorosa divoratrice), la peripezia (il capovolgimento della situazione iniziale: è proprio il pazzo Enrico a “giocare” i visitatori), il riconoscimento (della follia del protagonista).

Forse per insistere sulla connotazione gratuita e universale della follia, Oliva lascia sullo sfondo la catastrofe, cioè l’uccisione in scena da parte del protagonista del rivale Tito Belcredi (nell’originale Enrico dovrà continuare la parte del pazzo fino alla morte, per eludere le conseguenze di quel reato).

Non c’è catarsi: tutto si svolge sotto un cielo di carta, senza giustizia né destino. Come nel Venditore di sigari, la scena di pannelli girevoli (di Alessandro Chiti, con il contributo di Valentina Bianchi) traccia il confine tra desiderio di stabilità e peso della finzione. Le maschere le troviamo in scena. A nascondere il viso dei cosiddetti “normali”(i costumi sono di Marco Ferrara).

Enrico il pazzo è l’unico a non mascherarsi. Eppure le tracce della follia affiorano sottopelle. Sono un marchio indelebile anche per lui.

Enrico rivela la follia altrui senza liberarsi della propria. Anche questa regia è sobria. Oliva asciuga l’originale riducendone la durata. Focalizza l’attenzione sulle dinamiche umane ipocrite, sull’incapacità di riconoscersi. Ecco il ricorso a vetrate opache.

Un grigiore diffuso domina la scena. Le luci di Melli rischiarano rari barlumi di verità. Infieriscono con il buio sui meandri della mente, sull’angoscia, sui mostri generati dalla ragione che dorme.

Le musiche e i suoni di Bruno Coli creano belle ma effimere coreografie, con giochi d’ombre, movimenti divertiti o schizofrenici, danze che riproducono cavalcate, cenni di burattini inerti. Il tutto poteva essere potenziato. Ma Oliva non ha osato, per il momento, e va bene così. Incombeva il rischio opposto, di strafare, di eccedere in didascalie. Più spesso le musiche sfumano in sibili, che rendono insensatezza e devianza.

Generosa la prova degli attori (Davide Lorenzo Palla, Giancarlo Latina, Daniele Nuotolo, Sonia Burgarello). Efficace Mino Manni nel ruolo di Enrico.