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domenica, Dicembre 22, 2024
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Per Emma Dante i morti sono vivi tra i vivi

Foto Clarissa Cappellani
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Foto Clarissa Cappellani

LAURA NOVELLI | Ancora una volta Emma Dante ci tira dentro uno struggente quadro di umanità provata dal destino. Ancora una volta la sua Sicilia prorompe in scena con una ritualità ancestrale e violenta. Ancora una volta il sogno diventa incubo, il reale trasborda nel metafisico, la carnalità della lingua insegue un dire/raccontare/urlare sospeso senza tregua tra tragedia e commedia. Ancora una volta il corpo emana una sua verità assoluta e sacra che lo rende espressivo ben più e ben prima delle parole. Con “Le sorelle Macaluso”, ultimo lavoro della drammaturga e regista palermitana proposto al teatro Palladium di Roma nei giorni scorsi (prima di affrontare una lunga tournée ed approdare al prossimo Festival di Avignone), sembra di tornare indietro nel tempo, alla forza di spettacoli come “mPalermu”, “Carnezzeria”, e soprattutto a quell’intenso grumo di poeticità e dolore raccontato in “Vita mia”. Anche qui il tema – se così si può dire – è quello della morte; o meglio, della morte che si mescola alla vita confondendo le carte in gioco, quasi che i veri morti in fondo siano i vivi e quasi che sia impossibile tenere lontano i defunti, i cari estinti, dal quotidiano, dall’esistenza di chi ancora resiste.

Palcoscenico vuoto avvolto in una scatola di quinte nere che, nella loro semplicità, paiono come catafalchi funebri da cui affiorano ombre, drammi, morti premature, soprusi domestici, diversità fragili, legami di sangue compromessi eppure fortissimi. Una società matriarcale (d’altronde sempre al femminile era imbastita la lotta per la sopravvivenza fotografata nel film “Via Castellana Bandiera”) che sceglie per elezione di non separare i ricordi dal presente, i vuoti dai pieni. Sul proscenio: una fila di croci, una fila di scudi e spade rubate al teatrino dei pupi nascondono tombe, fotografie. L’ultimo lutto che ha toccato la famiglia è la scomparsa di Maria, la maggiore, ed è lei che, camicia e pantaloni neri, apre lo spettacolo ballando come una danzatrice classica. Dal fondo poi marcia il gruppo delle sorelle, dei parenti. Tutti neri come corvi minacciosi. Un crocifisso indica prepotentemente il senso di quel marciare, di quel cadere, di quel pianto trattenuto. Le suggestioni si susseguono contrastanti e la storia delle sette sorelle (superbamente interpretate da Serena Barone, Elena Borgogni, Italia Carroccio, Marcella Colaianni, Alessandra Fazzino, Daniela Macaluso e Leonarda Saffi), cui si aggiungono un padre redivivo e penoso, un nipote giovane stroncato da un colpo di cuore durante una partita di calcio e una madre eterea ed angelica scomparsa troppo presto (altrettanto bravissimi Sandro Maria Campagna, Davide Celona e Stephanie Taillandier), non può che procedere anch’essa per accostamenti contrastanti, brandelli di memorie in cui spesso le risa – talvolta sguaiate ed ossessive – trascolorano in lacrime di pietra.

La frenesia di una gita al mare con la corriera e il melone abbandonato per strada ecco mutarsi in morte: il gioco perverso sottacqua spalanca i sensi di colpa, trascina quel Fato maledetto (sembrano echi quasi verghiani) dentro le relazioni tra sorelle, le travolge, le fa confliggere. E la morte – declinata in scena anni fa pure in un intenso lavoro di Babilonia Teatri, “The End” – resta immortalata nel suo momento di epifania, diventa danza, gesto ripetuto, sussulto del corpo, tremore impaurito (tanto che l’annegata Antonella continuerà a vivere l’annegamento sino al termine della pièce/cerimonia). Così come nella scena della scomparsa del piccolo nipote malato di cuore: un Maradona tutto muscoli e piroette che cade a terra seguendo la partitura di un pupo senza più fili. Ebbene sì: siamo in un teatrino di pupari che muovono fantocci dalla sorte già segnata. Ma siamo anche in uno specchio impietoso delle nostre paure più ancestrali e profonde: intono a quella tomba filiale di “Vita mia” esorcizzata fino alla negazione; dentro quel thrénos dai richiami classici che trova ragione nel suo essere femminile e materno; dentro lo struggimento di quel tutù soffice che alla fine corona l’amarezza di un sogno mai realizzato. Di nuovo sola in scena, l’ultima defunta della famiglia lo indossa per la sua ultima danza. Che è già al di là della terra. Ma caparbiamente ancora qui.

Uno spettro s’aggira…etica, politica ed estetica del Servitore di Latella

Arlecchino LatellaNICOLA ARRIGONI | Uno spettro si aggira per i teatri italiani: l’Arlecchino bianco, larvale e demoniaco di Roberto Latini e Antonio Latella. Servitore di due padroni, ma a nessuno asservito, se i due padroni sono pubblico e direttori di teatri. Il servitore di due padroni da Carlo Goldoni attraverso la riscrittura di Ken Ponzio e soprattutto la regia di Latella è diventato un caso e la sua analisi, al di là della valutazione estetica, chiama in causa anche l’etica della creatività e la politica del teatro. La possibilità di offrire e in cartelloni di teatri di tradizione il testo goldoniano, consacrato dallo storico allestimento di Strehler, ha fatto breccia nelle sale italiane. 

Come dare torto ad Ert: operazione di vendita più che riuscita.
Ma questo Servitore non s’è fatto più di tanto asservire dalle esigenze degli abbonati e dei direttori artistici che procedono in coppia: i primi tetragoni nelle loro certezze sceniche, i secondi disposti ad assecondare, soprattutto in un periodo in cui avere chi paga in anticipo la propria presenza in teatro rischia di essere una rarità. Il debutto al paludato Goldoni a Venezia e poi a Padova e a Cesena ha suscitato scandalo e timori. Il pubblico venziano non è stato al gioco, non si è riconosciuto nell’Arlecchino di bianco vestito, ha urlato allo scandalo, ha abbandonato la sala.

Alla sollevazione dell’abbonato ha fatto seguito la corsa di delegazioni dei vari teatri per vedere in anticipo lo spettacolo e mettere a punto strategie e approfondimenti al fine di preparare gli spettatori. E’ accaduto al Municipale di Piacenza dove Diego Maj – direttore artistico della stagione – con la collaborazione di Pietro Valenti di ERT ha pensato bene di inviare a tutti gli abbonati un libretto di sala con lettera di accompagnamento, intervista a Latella e spiegazione dello spettacolo. C’è da dire anche che il Servitore di due padroni sta trovando il suo assetto grazie non solo agli interventi di Antonio Latella sulla drammaturgia, ma anche ad una presa in carico dello spettacolo da parte di un gruppo di attori che condividono la volontà di Latella di intendere il teatro come una comunità aperta.

L’orizzonte è rifondare il teatro sulla base della verità/finzione – Una hall d’hotel invece che la piazza – ma cos’altro è una hall se non una piazza? –: questa la scena contemporanea di Annelisa Zaccheria che fin dall’aprirsi del sipario dice una cosa chiara, ossia che le attese dello spettatore sono disattese. Le porte che danno sull’hall ricordano L’albergo del libero scambio, ma sono anche il segno di quella soglia oltre la quale si nascondono le ipocrisie e le debolezze della famiglia borghese del dramma otto-novecentesco.

Il servitore di Goldoni è una commedia che vira al grottesco, se non al dramma, è la storia di un omicidio, quello di Federigo Rasponi, di un camuffamento, quello di Beatrice, di una fuga, quella di Florindo, forse l’omicida di Federigo, di un possibile travestimento/resurrezione dello stesso Federigo nei panni di Arlecchino, che essendo maschera è fantasma, spirito, larva. Non a caso il bellissimo Arlecchino di Roberto Latini è bianco, è somma di tutti i colori e nessun colore.

La riscrittura di Ponzio non lucidissima, a tratti ampollosa nel suo procedere e difficile da dire per gli attori è lo scoglio che attende non solo gli interpreti, ma anche gli spettatori. Latella e i suoi meravigliosi attori fanno il miracolo e riescono a distillarne il portato. Così il Brighella in veste di albergatore del bravissimo Massimo Speziani è una sorta di regista/narratore interno, scardina la struttura e non solo perché legge le didascalie del testo, ma perché è l’officiante di una sfida: cercare la verità fra quinte e riflettori. Come accadde per l’Arlecchino di Strehler, così anche per questo Servitore la prospettiva è tutta sulla semantica teatrale. C’è l’urgenza di rileggere la tenuta del linguaggio scenico nella nostra contemporaneità, è l’esigenza di andare in fondo all’inganno/menzogna del teatro e cercarne la verità recondita. Insomma lo spettatore va a teatro per Il Servitore di due padroni e si ritrova a dover fare i conti con l’ultimo mezzo secolo di teatro. La memoria registica, fra Strehler e Castri, è codice che poi salta e salta nella seconda, bellissima parte, in cui la finzione del teatro si mostra in tutta la sua fragilità, in cui cantinelle e sillabe, sudore e chiodi sono un tutt’uno.

I personaggi sono franti, lo sono nelle loro identità sessuali, lo sono nella impudicizia di una fisicità etero e omo che si traduce in gioco del travestimento che è anche un po’ il travestitismo del nostro tempo. Florindo di Marco Cacciola è un elemento da Grande Fratello con le mani sempre a brandire i genitali, la Beatrice di Federica Fracassi è uno spasso lesbico e ninfomane, con quei baffetti da finto uomo che fanno sorridere, Clarice di Elisabetta Valgoi è un’adorabile isterica in cerca di marito, Silvio di Rosario Tedesco è nel suo costume settecentesco il segno della tradizione, è la memoria di un teatro in costume e descrittivo, Pantalone de’ Bisognosi di Giovanni Franzosi è emblema del padre borghese di tante comèdie bien faite e vaudeville, così come il dottor Lombardi di Annibale Pavone è un manager un po’ improbabile. Alla terrigna e procace Smeraldina di Lucia Perara Riso spetta una tirata moralistica che apre la parte più poetica ed emozionante dello spettacolo.

Così a coro gli attori incoraggiano Arlecchino a fare il famoso lazzo… E Brighella cerca la complicità del pubblico, ma non sono in tanti a pensare al lazzo della mosca di Moretti/Soleri; debole e volatile memoria del teatro! E’ qui che Roberto Latini intesse una lezione agita su Arlecchino, sull’etimologia del nome, sulla sua natura larvale che porta dritto dritto alla mosca e alla descrizione della partitura fisica di quel gioco, di quella variazione di attore inventata da Moretti, ripresa da Soleri e che Latini nella sua ricostruzione ‘a tavolino’ trasforma in danza, in corpo vibrante. L’impressione è che il teatro sia lì, nel corpo dell’attore, in quell’Arlecchino di bianco vestito che si inchina al pubblico servo, ma non asservito.

Pirrotta alle origini: il videoracconto della sua “prima volta”

vincenzo pirrottaVINCENZA DI VITA | Il video che segue è realizzato dagli studenti del Dipartimento di Scienze Cognitive e degli Studi Culturali dell’Università degli Studi di Messina con i quali si è avviato un laboratorio di critica teatrale: Mirko D’Urso, Daniela Milici, Antonella Serra, Luisa Tabbì. L’intervista realizzata con il generoso contributo dell’artista Vincenzo Pirrotta che si è esibito con ‘N gnanzoù, opera prima dell’artista, regista, autore e attore.

A partire da una sintesi dell’incontro tenutosi il 17 novembre 2013 nel corso di “Prima della Prima” iniziativa che ha permesso a studenti, giornalisti, artisti e curiosi di intervenire in un dibattito e confronto con Pirrotta e Mario Spolidoro, musicista, con lui sulla scena; sono nate le riflessioni e le questioni che i giovani critici pongono in essere. Tale intervento è stato mediato dagli organizzatori della rassegna teatrale La Prima Volta, Gigi Spedale, Dario Tomasello, Vincenzo Tripodo, partner del laboratorio, con il contributo di ERSU Messina, in seno agli otto spettacoli svoltisi alla Sala Laudamo di Messina dall’8 novembre al 28 dicembre 2013.

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Adamo ed Eva nel giardino del loden

1526114_655874417808085_937919706_nELENA SCOLARI | Come eravamo. Come siamo. Come siamo ridotti. Ma invece di The way we were, giustamente Adamo ed Eva ascoltano Paradise (ma sì che la ricordate, non fate finta, che ci avete anche pomiciato… “…when I’m with you it’s paradise…”). Ahiloro però, Alberto Astorri e Paola Tintinelli non si trovano in una laguna blu, ma in un giardino trascurato e un po’ rinsecchito, che pare abbia ormai poco da lussureggiare. I vestiti sono invernali, Adamo ha un cappottino cammello ed Eva un abituccio con calzette rosse. Così, finito lo stupore, finite le tentazioni, la libido è in calo, il giardinaggio è da escludere, la Prima Coppia comincia a farsi domande, e sono le grandi domande che in tanti, in terra, ci facciamo: che coss’è l’amor, cos’è il tempo, la memoria, come si sta in una relazione, e via interrogandoci.

Questo, in estrema sintesi, il succo dell’ultimo spettacolo del duo Astorri-Tintinelli, “I giorni fragili di Adamo ed Eva”. Ed è anche il succo del frutto del peccato, un frutto non più lucido che invece di sedurre offrendo la conoscenza e punendo con la mortalità, oggi offre dubbi. Dubbi poetici, a volte filosofici, ma pur sempre dubbi.

I due attori sono bravi, già lo sapevamo, ed è sempre un piacere vedere professionisti che sanno usare voce, corpo, espressioni. Astorri e Tintinelli sanno maramaldeggiare con la surrealtà come pochi altri. Bene. Questo spettacolo però produce qualche dubbio in noi spettatori, più che sul senso della nostra esistenza, sul senso di un testo (la cui drammaturgia è curata da Simone Faloppa) che ci pare francamente un po’ inconcludente. E con questo intendiamo dire che non conclude la propria scelta, è un po’ assurdo, un po’ simbolico, un po’ citazionista (dal cinema di Godard all’Antico Testamento), suggerisce questioni sempre attuali ma non nuove e ci sembra che, alla fine, non mostri una chiave particolare per entrare nella riflessione sulle relazioni di coppia da un uscio nuovo.

Proviamo ad analizzare il contesto scenografico: alcune carabattole in stile rigattiere, da sempre cifra della compagnia, stoviglie già in frantumi e altre che vengono frantumate (come le certezze?) arbusti vari. E una parete orizzonte sulla quale gli attori stessi, manovrando la levetta di un marchingegno, proiettano panorami che mutano al passar del tempo, e della giornata, dall’alba al tramonto. La proiezione viene da una lunga pellicola disegnata che scorre, e in questa scelta è un punto significativo del lavoro. Qui leggiamo vari temi: l’eternità del tempo che scorre, che torna, sempre, senza sosta, c’è anche una sorta di superpotere dei due personaggi/archetipo in grado di muovere il loro orizzonte, già ma sono costretti a muoverlo, è una condanna, un lavoro, meccanico per di più. L’alba è sempre rosa, il tramonto è sempre rosso, ci si annoia, si prova a rompersi un ginocchio, a storcere l’equilibrio per vedere cosa succede. Adamo si chiede se non sarebbe giusto che Eva andasse con un altro. Se ci fosse, un altro.

“I giorni fragili di Adamo ed Eva” sono anche i nostri, certo, questo è chiaro, condividiamo la perplessità sull’umano. Abbiamo però l’impressione che il talento di Astorri e Tintinelli, che fragile non è, abbia bisogno di aprirsi ad un giardino più ampio, popolato di sibilanti insidie e dove l’orizzonte possa essere una sfida.

Visita al padre: Rifici per un classico contemporaneo dal sapore persistente

Visita al padre _ disegno Francabandera
Visita al padre _ disegno Francabandera

RENZO FRANCABANDERA | Fossi insegnante, un alunno come Carmelo Rifici mi darebbe filo da torcere: ogni volta è un po’ una riffa, fra colpi d’intuito, citazioni d’arte ma anche, non di rado, idee di cui verificare l’impatto su strutture poi fragili. Regista capace a volte di creazioni limpide, altre di addensare nuvole barocche, soprattutto dove il testo pare debole, su personaggi portati verso estremi improbabili, così che alla fine, alla debolezza del testo, si aggiunge magari anche quella dell’azzardo registico. Che comunque mai manca, e di questo occorre dar atto. Nonostante la sua tensione verso la drammaturgia contemporanea, la maggior lucidità l’abbiamo incontrata nel rapporto con i classici o con testi d’oggi che guardano al classico.

Raccontiamo qui il caso di una riuscita positiva, quella di Visita al padre, di Roland Schimmelpfennig, drammaturgo tedesco vivente di cui diverse sono state in Italia le proposte negli ultimi anni, e in scena in questi giorni per una lunga tenitura al Piccolo Teatro Melato di Milano.

I suoi scritti più recenti hanno un’intrinseca, profonda, caratteristica di classicità pur virando spesso verso parossismi e illogicità. E così è anche per Visita al padre, che pare attingere a piene mani da grandi classici di fine Ottocento inizi Novecento, fra Ibsen, Strindberg e Checov.

La trama è quella di un figlio che va a far visita ad un padre che mai ha conosciuto, scrittore senza ispirazione, circondato da donne, nessuna delle quali è regina di scacchi, e anzi, tutte sono mezze figure, come nel sette e mezzo di Natale, un alveare senza ape regina dove si fa potente lo scontro generazionale e il segno implacabile del tempo.

L’arrivo del giovane, come in Checov, segnerà un momento di apparente discontinuità nelle vicende umane della casa, sebbene lui stesso in un cupio dissolvi dongiovannesco, tracci una parabola autodistruttiva degna del migliore Visconte di Valmont, seducendo tutte le donne di casa, affascinate dal refolo di vita giunto alla porta. Il resto è un asfittico mondo che attende, come in Checov o Ibsen, riscosse in un altrove che non verrà raggiunto mai.

L’impianto scenico di Guido Buganza appare da subito assai interessante. Uno spazio grande anteriore, un interstiziale esterno con due betulle spoglie e della neve, e un altro interno, come a chiudere il mondo in un seguirsi di pareti di vetro che, invece che rendere trasparenti i caratteri, li intorbidisce, mentre il mondo appare chiuso in un hortus conclusus che di poca cultura potrà darsi alimento. E, infatti, qui i libri sono addirittura murati “vivi”, buttati sotto la neve a marcire, come l’umanità che dovrebbe prendersene cura.

Gli attori tutti si fanno fondamentalmente interpreti di un gioco di squadra dove il recitativo più tradizionale di attori come la Bonaiuto (che torna qui convincente dopo un tempo un po’ appannato) o il Popolizio dal vocione sempre impostato, si mescola bene alla cifra dei più giovani, con calibri assai diversi, come quelli di Marco Foschi o Mariangela Granelli. A quest’ultima, poi, Rifici assegna (sempre) compiti fuori dall’ordinario: qui la sua recitazione volutamente straniante ed eccessiva è chiamata ad introdurre il segno della follia, della decadenza, a trasmettere l’idea del ricovero senza speranza. L’utilità di questa particolare scelta alla fine appare meno netta di quanto forse voluto, ma nell’andare delle repliche l’amalgama di questa figura con il resto del gruppo arriverà a miglior esito.

Consiglieremmo questo lavoro, pur lungo, ad un amico in cerca di una serata teatrale entusiasmante? Nonostante molte cose possano suggerire ex ante prudenza (la durata, la drammaturgia contemporanea di uno scrittore non facile, le discontinuità di ispirazione di Rifici nel biennio 2011-13), la risposta non sarebbe un secco no. Anzi. Certo, entusiasmante sarebbe parola grossa, anche in ragione di una certa inclinazione del regista al complesso, al groviglio e al mettere talvolta la cifra umoristica in secondo piano, se non addirittura in soffitta. Ma qui in realtà il testo, pur con diverse debolezze, definisce i contorni dei suoi personaggi, Rifici aiuta a leggerli ulteriormente, assecondando senza calcare la mano, evita finalmente di aggiungere, si tiene pulito e guida gli attori con uno sguardo al classico. L’idea è premiante.
Certo, non si ride. Qualche volta si sorride. Si pensa. Comunque c’è una certa persistenza di sapore a distanza di giorni che rende la bevuta interessante (e ci fa dimenticare qualche calice amaro).
Dopo dieci giorni, per dire, della trama qualcosa inizia ad evaporare, sopratutto nelle vicende delle molte (troppe) donne, ma si conserva nitido il ricordo della scena, delle situazioni drammaturgiche, dell’atmosfera e di alcuni momenti del recitato. Non è pochissimo.

Creare start up nel settore culturale: il caso SMartIt

donato nubile alla presentazione di smartitRENZO FRANCABANDERA | Fare impresa nei servizi culturali. Si può creare un’economia da processi a volte farraginosi e segnati da modalità spesso poco trasparenti e con lungaggini che stanno rendendo impossibile per molti fare produzione culturale? Un tentativo in questo senso prova a realizzarlo SMartIt, cooperativa in forma di impresa sociale, parte di un network che attualmente coinvolge 10 paesi europei. Si propone come punto di riferimento per i settori culturale e creativo in Italia per rafforzare la stabilità di remunerazione degli artisti, la loro solidità finanziaria e le loro capacità organizzative.
Ma non solo. In quanto progetto europeo mira anche a facilitare la mobilità internazionale degli artisti. Ne parliamo con Donato Nubile, referente per l’Italia di questa vera e propria start up.
Donato, quali sono le principali attività di questa nuova iniziativa che è partita e di cui sei il referente per l’Italia?

Le principali sono la gestione amministrativa dei contratti, la gestione complessiva di progetti artistici e la gestione finanziaria, attraverso un fondo di garanzia che permette i pagamenti in tempi certi e ripara dal rischio di insolvenza della controparte. Sinteticamente, SMartIt consente agli artisti e ai creativi di occuparsi esclusivamente della propria professione, assumendosi l’onere di gestire tutti i connessi aspetti legali, amministrativi, economici e finanziari.

Cosa vuol dire precisamente economia dei servizi per il mondo dello spettacolo oggi?

Negli ultimi anni si è assistito ad una crescita del Terzo Settore, in controtendenza rispetto agli altri settori dell’economia. In parallelo siamo stati testimoni dell’arretramento dell’impegno dello Stato e degli Enti Locali nei servizi ai cittadini. Il vuoto lasciato dal settore pubblico non elimina il bisogno di servizi pubblici essenziali. La cultura è un bene pubblico essenziale come lo sono la sanità, la mobilità, la giustizia. Il ruolo di SMart non vuole essere sostitutivo del necessario impegno pubblico nella cultura, ma vuole fornire un sostegno concreto a tutti gli artisti e i creativi, soprattutto se giovani e con poche possibilità di lavorare in autonomia. Agli artisti offriremo strumenti, non servizi: ossia mezzi per svolgere al meglio le loro attività. Non avremo clienti, ma soci, che attraverso il loro lavoro e il loro impegno contribuiranno alla crescita propria e della cooperativa, in un vero spirito mutualistico. Con SMart sono gli stessi artisti ad aiutare gli artisti.

Quanto questo tema si incrocia, ad esempio, con quanto sta emergendo dai tavoli di lavoro sul Welfare di cui si è fatta promotrice CReSCo in questi anni e di cui sei stato presidente?
Molto, direi. La ricerca “Rispondi al Futuro”, la più ampia indagine statistica sulle condizioni dei lavoratori dello spettacolo dal vivo mai realizzata in Italia e condotta da C.Re.S.Co. in collaborazione con Zeropuntotre e Fondazione Fitzcarraldo, ha fotografato scientificamente le condizioni del settore. In un mercato del lavoro quasi per niente strutturato, il settore impiega giovani professionisti più di quanto non accade in altri settori, con un livello di istruzione medio dei lavoratori superiore alla media nazionale; eppure è caratterizzato dal più altro grado di precarietà e di abbandono della professione dopo i 40 anni. Il tavolo sul Welfare elabora proposte per un sistema che riconosca la natura precaria e atipica del lavoro nello spettacolo e preveda un adeguato sostegno al reddito. L’azione di SMart, attraverso lo strumento del Fondo di Garanzia, riduce precarietà ed incertezza (agendo sul fronte dei pagamenti) e contribuisce a difendere la dignità del lavoro artistico.
Quanto ha influito l’esperienza di Cresco e l’esame dei deficit del sistema in Italia per farti intraprendere l’iniziativa.

E’ stata determinante. I fondatori di SMart (il progetto SMart nasce in Belgio) hanno ritenuto che C.Re.S.Co. fosse il partner adatto per valutare la possibilità e le condizioni per l’apertura di una SMart in Italia. La nascita di SMartIt avviene dopo uno studio di fattibilità condotto da un team di esperti selezionati da CReSCo, e finanziato da Fondazione SMartBe e Fondazione Cariplo. Dal punto di vista personale è anche grazie al perido di presidenza di CReSCo che ho potuto maturare la visione di sistema che ora mi è indispensabile per SMartIt. Tra le due organizzazioni c’è poi una coincidenza di valori: trasparenza, partecipazione, apertura. E di metodo di lavoro: gli artisti non possono più aspettare passivamente che qualcun altro risolva i loro problemi. E’ necessario impegnarsi in prima persona, in uno spirito mutualistico, ciascuno secondo le proprie possibilità e competenze. Il Fondo di Garanzia, ad esempio, viene alimentato anche da una quota dei proventi percepiti dagli stessi artisti.

Che sviluppi temporali ha la start up, quali sono le realtà target del servizio e a quante persone si riesce a dar lavoro?
Siamo già operativi e stiamo gestendo i primi contratti. Entro la fine del 2014 saremo pronti anche con la piattaforma on line: 24 ore su 24, 7 giorni su 7, l’artista avrà accesso ad un portale per gestire tutti gli strumenti messi a disposizione da SMart e legati, ad esempio, alla gestione delle attività: stato dei pagamenti, versamento dei contributi, rendicontazione delle spese relative ad una produzione, saldo del relativo budget a disposizione… Un gruppo di artisti non sarà più costretto ad aprire un’associazione se questa ha il solo scopo di servire come strumento di “produzione” di uno spettacolo, ma potrà rivolgersi a SMart. Più che lanciarmi in previsioni di impiego posso riportarvi quanto è successo in Belgio. Lì il progetto è nato nel 1998 in un ufficio di tre persone; oggi SMartBe ha 8 uffici solo in Belgio, 55000 soci, un fatturato annuo di 120 milioni di euro e dà lavoro a 150 persone.
Che opinione hai sulle leggi di riforma del settore di cui in questi mesi si sta parlando?

C.Re.S.Co. è stato e continua ad essere un attento interlocutore del MiBAC rispetto alla riforma dei criteri di assegnazione del FUS. La mia opinione coincide con quella elaborata dal Coordinamento e condivisa in maniera ampia tra i promotori. Alcuni aspetti, peraltro suggeriti anche dal nostro “Decalogo sui Finanziamenti”, sono positivi. Mi riferisco alle nuove prospettive di triennalità di finanziamento (purchè non si trasformino in un elemento di rigidità del sistema), ai canali di accesso agevolati per le giovani compagnie, al tentativo di una maggiore interazione tra i settori e le discipline artistiche, al riconoscimento (peraltro ancora fumoso) delle residenze, ai nuovi criteri di “qualità indicizzabile”. Ci sono però anche alcune perplessità, relative ad esempio alla mancanza di una precisa ridefinizione della stabilità pubblica e privata e alla poca duttilità dei meccanismi di finanziamento delle attività all’estero. Infine molto potrebbe essere ancora fatto su due aspetti che ritengo cruciali: il monitoraggio e la valorizzazione della progettualità.

Il Pranzo d’Artista di Alkaest: insieme, a tavola, pubblico e attori

pranzoVINCENZO SARDELLI | Il diaframma tra attori e pubblico a teatro è sempre più labile. Siamo ormai abituati agli spettatori sul palcoscenico, o che attraversano lo spettacolo in percorsi multimediali o crossmediali. Però Pranzo d’Artista, raffinato esperimento tra cucina e narrazione proposto al Teatro dell’Arte di Milano dalla compagnia Alkaest, radicalizza l’incontro tra attori e pubblico. Tratto dal Pranzo di Babette di Karen Blixen, questo singolare spettacolo riprende l’idea del Convivio dantesco o del Simposio platonico. Pubblico e attori si ritrovano in un intreccio esoterico attorno a una tavola imbandita, nella condivisione di pane e vino.

Un saggio di training, misticismo e drammaterapia. Un contatto ravvicinato quasi eucaristico. Piacere del palato e diletto della mente. Il rito coinvolge 35 spettatori, protagonisti di un poema gastronomico. Il pasto si trasfigura in corrispondenza e sentimento. Tocca fedeltà e riconoscenza. Esalta i cinque sensi.
Lo spettacolo inizia quando non te l’aspetti. Atmosfere soffuse, davanti a un calice di prosecco. Parte il racconto che neppure avevi spento il cellulare. L’avventore con cui scambiavi due parole inizia a recitare, si svela, ti prende in contropiede. Esce dalla persona, entra nel personaggio.
Il pavimento diventa palco. Sembra un audiolibro, ti ritrovi catapultato nelle scene di vita di uno scorcio scandinavo di fine Ottocento. I personaggi prendono respiro. Spettatori in incognito e camerieri ci confondono nel gioco drammaturgico.
Sale la musica da pianoforte. Note corpose, Schubert, Debussy, Mendelssohn, Chopin, eseguite dal vivo dalla pianista Greta Malerba. C’è una sala da pranzo dietro le tende, dove la luce disegna chiaroscuri. C’è una lunga tavolata in legno grezzo, coperta da una nappa di cotone bianco. E un lampadario enorme, di filamenti argentati, da cui pendono tazzine, marmitte, mestoli, schiumarole, formine, arnesi vari da cucina. Sorrisi, inchini: mani gentili accompagnano alla mensa. La narrazione della Blixen entra nel vivo. Il pranzo di Babette è la storia di Martina e Filippa, due anziane signore figlie di un pastore luterano. La loro vita compassata, grigia, è sconvolta dall’arrivo di Babette, profuga francese in fuga da dolore e paura. La loro capacità di amarla ed accoglierla è ricambiata da Babette con un pranzo sontuoso.
Il valore di agape dell’atto di condividere pane e parole crea relazione.
Come in Chocolat, un’artista della pasticceria e della cucina cambia la vita di un’intera comunità. Come in Pranzo di Ferragosto, il cibo è occasione per sorrisi e segreti.
Il nostro spettacolo si chiude con la condivisione rituale di cibo. Ma i dettagli di quest’inconsueto epilogo sono nel misterioso contatto tra un maestro di cerimonia e il singolo spettatore/convitato, nei due giorni che precedono lo spettacolo. Per questo non è possibile acquistare i biglietti la sera stessa della replica, ed è necessario che ogni spettatore prenoti lasciando un recapito per essere contattato dal maestro di cerimonia.
È visibile l’impronta straniante di Kantor, in questo progetto in cui il suo discepolo Giovanni Storti, regista e attore recitante, trucca i luoghi da opere d’arte. E v’infila, a stretto contatto, attori e spettatori.
Storti anima spazi non convenzionali. Ne rivela identità, memorie, appartenenze. Lo accompagnano gli attori Paui Galli, Lorena Nocera, Erika Urban e Marco Pepe (maestra di cerimonia Marzia Loriga, sculture Roberta Colombo, spazio scenico Valentina Tescari).
Uno spettacolo elegante e comunitario. Sazietà del corpo e appagamento dello spirito coincidono. La frugalità esteriore lascia spazio a uno scambio interiore, ricco di emozioni e scoperte.

Reading Club: culture numérique à Paris entre spectacle et lecture

Reading Club au Jeu de Paume, Paris
Reading Club au Jeu de Paume, Paris

SIMONA POLVANI | Pour arriver à la Galerie Nationale du Jeu de Paume, on longe les murs du Jardin des Tuileries du côté de l’éblouissante Place de la Concorde. C’est là que le Reading Club “Avant et Maintenant”, Raymond Queneau a été créé le 19 décembre dernier. Il constitue l’un des événements performatifs de l’exposition en ligne Erreur d’impression. Publier à l’ère du numérique (jusqu’au 07/04/2014), proposée par Alessandro Ludovico.

Deux écrans sont installés sur le mur devant la salle. En dessous, derrière un long bureau, sont assis Emmanuel Guez et Annie Abrahams, auteurs du Reading Club, qui est inspiré des Reading Group de Brad Troemel et du Department of Reading de Sönke Hallman. Ils expliquent les règles du jeu. Un passage de Queneau, de son très célèbre Exercices de style a été choisi. Deux performances se dérouleront simultanément ; l’une sur le texte original en français, l’autre sur sa traduction en anglais. Pour chacune, dans un temps établi de vingt minutes, quatre lecteurs/auteurs non présents dans la salle seront engagés à agir à distance sur le texte, qui ne pourra pas dépasser les 1.300 signes. Les lecteurs/auteurs (que parfois on appellera seulement lecteurs ou auteurs, mais aussi performeurs) sont R Carpenter, Jerome Fletcher, Leonardo Flores et Renee Turner pour la session en anglais et Eric Arlix, Philippe Castellin, Catherine Lenoble et Alexandra Saemmer pour celle en français.

Dès l’instant où la performance commence, dans la pénombre brillante de la projection, plongés dans l’environnement sonore électronique et hypnotique créé pour l’occasion par le musicien Christian Vialard, les textes de Queneau deviennent mobiles, voire instables, colorés. Ils se transforment. Immédiatement le texte original se brise, sous les coups de fouet de serpentins de mots surlignés en rouge, bleu, vert, fuchsia, jaune, orange, rose, violet (chaque lecteur utilise une couleur d’identification pour son écriture). Des phrases sont fichées vigoureusement dans le texte, introduites en suivant le fil sémantique de Queneau, ou greffées comme des corps étrangers. On assiste à toute une série de manipulations. On reconnaît à l’œuvre plusieurs figures de rhétorique, des registres et des tons, pour un texte flottant qui se détricote et se rassemble à tout moment. Lire, réécrire, effacer: ce sont les gestes fiévreux que nous percevons. Chaque auteur exerce une action qui peut paraître arbitraire et violente ; effacer l’écrit de quelqu’un d’autre. Dans cette bataille ludique, on sent qu’en arrière-plan, parfois, se décochent des coups de poing, se livrent des combats (impossible de ne pas penser alors au Fight Club). Mon œil de spectatrice suit avidement les écrans. Saisir l’ensemble, suivre simultanément les deux actions constitue un défi, et pourtant on s’efforce de ne rien perdre : un mot qui change, une ligne et une couleur qui disparaissent, avec la déception, parfois, de devoir renoncer à une phrase qui nous a touchés. Il advient qu’un auteur rentre dans le temps de la performance avec une sorte de compte à rebours; qu’un autre adresse des questions aux spectateurs, alors même qu’il est absent et invisible ; sa voix qui interpelle traverse alors le noir pour nous atteindre. Comment lui répondre ? Il arrive encore qu’un autre foudroie ainsi l’auditoire : « ça a toujours quelque chose d’extrême un poème ».

Quand sonnent les vingt minutes et que tout s’arrête, nous sommes pris de court. L’attention entièrement consacrée à la métamorphose des textes, nous ne nous sommes pas préparés à la fin. Nous avons fait l’expérience esthétique d’un temps dense et vivant, qui à la fois a requis une extrême attention, en nous mettant sous tension, et est passée à la vitesse de l’éclair.

Sur les écrans, les textes sont maintenant stables, ils ne bougent en apparence plus. Eloignés du texte original que l’on ne reconnaît plus que difficilement, comme une image dans un miroir brisé en mille morceaux, ils ont pourtant une fermeté et une solidité relatives. L’impression que l’on a, est que, mis en mouvement par les lecteurs/auteurs, les textes avancent désormais par mouvement inertiel, destinés à ne plus s’arrêter, et que chaque mot ajouté est un cratère de volcan ouvert, prêt à cracher une autre énergie.

Je décide de suivre en ligne la session du 6 décembre à Oudeis, Le Vigan, dans le cadre du NOW HERE, cinquième édition des Rencontres des arts numériques, électroniques et médiatiques. Il n’y a pas d’auteur sur le web. Pour la première fois est proposée une installation dans laquelle des personnes du public sont invitées à participer à des sessions d’une durée de 15 minutes sur un même texte, avec divers contraintes de lecture/écriture. L’auteur choisi pour cette performance est Marshall McLuhan. Les lecteurs se confrontent sur un extrait de son oeuvre Counterblast (1959). Les résultats sont assez extraordinaires. L’expressivité de M. McLuhan et sa pensée sur l’avènement de l’imprimé, de la radio, de la télévision, mises en connexion avec le développement sensoriel, se prêtent à la pure invention, à la réflexion, à l’actualisation. « Et un iPhone ? avec des petites touches à écriture automatique? On choisit les mots pour toi au cas où tu ne saches plus écrire ou simplement penser », est un des commentaires introduits dans le texte, mettant en évidence le paradoxe de la relation avec certains instruments technologiques, qui sont désormais devenus tout à fait des extensions, des prothèses. Créés avec l’intention de nous simplifier la vie, ils paraissent aujourd’hui susceptibles de compromettre certaines des facultés primaires qui font de nous des êtres humains.

En observant l’expérience de différentes sessions, Reading Club met en œuvre un processus de lecture et d’écriture qui se fait et se défait sans cesse. Il présente un mélange de différentes instances, dans lesquelles chaque lecteur paraît influencer et être influencé par le processus même. Le texte de départ devient territoire dans lequel se mesurer avec soi-même et avec les autres. Le texte d’arrivée est un creuset de styles, d’idées, de traces pour de nombreux et potentiels autres textes à venir. Il s’agit là d’une œuvre hétéroclite et an-organique (et en cela réside sa force). Elle est parsemée de ponctuations métalittéraires – comme la conscience des lecteurs d’être en train de participer à une réécriture, l’allusion aux différentes contraintes à respecter et au temps qui s’écoule – et par des contaminations par la présence de l’autre, lointaine ou face à face.

Si un des caractères de la performance est constitué par le corps du performeur qui se met en jeu et en risque, dans une exposition continue au hasard et parfois au danger, le performeur/lecteur/auteur, dont le corps matériel est invisible ou bien à l’abri, s’expose avec le corps de ses mots, qui acquièrent une matérialité sensible dans ce corps à corps, dans lequel ils se font de la place pour exister, mais également dans la condamnation à mort par l’effacement, à savoir dans la disparition. Les mots eux-mêmes sont performatifs, et même performeurs, objets en ligne et visibles, surgissant, se manifestant, disparaissant ou restant, faisant sens par leur présence ou par le vide qu’ils laissent.

Dans l’épidémie d’auteurs et de personnalisme présentéiste qui caractérisent notre époque de réseaux sociaux, Reading Club constitue une façon d’“être ensemble” sur le web dans lequel l’identité personnelle laisse place à la communauté, l’individualisation à la collectivisation, pour une nouvelle forme d’expérience artistique dans laquelle l’auteur est un sujet partagé. 

Italia anni dieci: cronache in crisi

UID52A9C4935B319_1ELENA SCOLARI | Una badante albanese può aver capito come muoversi nella crisi economica meglio di un industriale e della sua ricca e vacua moglie? Stando a quanto vediamo in “Italia anni dieci” – nuova produzione di Atir, testo di Edoardo Erba e regia di Serena Sinigaglia – parrebbe di sì.

Illustriamo la compagine in scena: sette personaggi (troppi) si agitano in vite piuttosto insulse pesantemente influenzate dalla crisi. Una madre proletaria, apprensiva e intontita dalla TV (la sempre brava Beatrice Schiros) litiga con la figlia malvestita (Sandra Zoccolan, che insiste troppo in un registro recitativo “gggiovane”) che osa licenziarsi da un impiego-schiavitù – probabilmente in un call center, toh! – la madre si fa sfruttare da un alquanto improbabile e giovane fidanzato artista, il quale finirà poi per mettersi con la ragazza passando il tempo ad okkupare luoghi; un insegnante di salsa tamarro se la fa con la badante albanese sua allieva che pretende però di essere pagata per la prestazione; un imprenditore che non ha il coraggio di dichiarare il fallimento alla moglie Titti – troppo chic per reggere lo choc – e  che scapperà ai Caraibi dopo una sbornia scopereccia (consumata con la madre di cui sopra) e farà pure una brutta fine per via di un uragano.

Ci sono eccessi poco credibili che risultano “overcoming” e invece di sostenere il dramma lo indeboliscono. Citiamo la madre-Schiros che addirittura sacrifica gli ultimi 50.000€ dell’eredità paterna per pagare il debito della ditta (quella in fallimento, of course) che ha assunto la figlia grazie alla raccomandazione di Titti. A metà tra Cuore e Père Goriot.

Mentre avvengono questi fatti lo spettacolo comincia a fare, solo letteralmente, acqua da tutte la parti: piove dal graticcio e gli attori piazzano secchi a raccogliere il disfacimento sempre più dirotto. Non male questa idea registica, così come altre soluzioni ben pensate da Sinigaglia, che si trova a suo agio con i gruppi numerosi e li muove sempre bene, sebbene senza rinnovare uno stile che le è ormai congeniale (le panche ai lati della scena dove restano visibili gli attori inoperosi si sono viste spesso). Il testo però la supporta solo a tratti: questi sette personaggi sono in cerca d’identità e non la trovano, ma non solo perché l’autore li vuole deliberatamente persi in esistenze scardinate ma perché, con le belle eccezioni della donna supergriffata (una Maria Pilar Pérez Aspa molto maturata) e della badante, sono superficiali, dicono cose irrimediabilmente banali. Nella parte centrale ci si annoia anche un po’ perché le fila narrative tendono ad allentarsi.

Mentre l’acqua si accumula si comincia a temere l’effetto Caos – Quelli di Grock, ché l’acqua a teatro fa sempre il suo marcio effetto. Stefano Orlandi è l’imprenditore al collasso, e sarebbe stato bello avvertirne davvero la profonda disperazione, invece rimane smarrito dall’inizio ma non ci viene spiegato altro, il personaggio ha però la fine scenicamente più bella e più significativa: con la sua 24ore-zavorra soccombe all’uragano caraibico che arriva a secchiate violente gettate dal maestro di salsa.

La fine più accorta è invece della badante albanese, spiccia e disinvolta, che con sana umiltà e pratico buon senso avrà messo via abbastanza soldi per aprire un banco di frutta in società con altri immigrati.

Una menzione speciale va allo splendido monologo della moglie abituata al lusso e travolta dal disastro finanziario, Pérez Aspa fa davvero brillare il dolore ridicolo di una donna che vive di trastulli deluxe ed è confortata dal rossetto Chanel con quelle due bellissime C lucide che si incontrano e che cade in depressione al pensiero di una tuta Tezenis.

La scenografia intorno a queste persone dalle vite incrinate è quella della palestra di danza, specchi compresi, l’effetto complessivo è sdrucito e un po’ povero, stesso ambiente per personaggi con caratteristiche molto diverse, anche per i costumi l’unica che si distingue è la moglie dell’industriale. Il piano luci è neutro, illumina una situazione, senza sottolineare nulla in particolare.

Una scelta più evidente e ammiccante è invece quella delle musiche: dai successoni di Baglioni e Modugno che accolgono il pubblico in sala fino al Mambo italiano finale di tutti i magnifici sette dancing in the rain.  Ḕ il coronamento di uno spettacolo pieno di buoni spunti, che conferma la capacità indubbia della regista di incastrare gli intrecci narrativi con intelligenza ma che soffre di bulimia tematica: sette portate a cena sono davvero troppe.

Vera Vuz: pistoleri silenziosi per duelli di parole

Vera vuz di Edoardo Erba regia Lorenzo Loris nella foto
da sx Mario Sala, Gigio Alberti FOTO Agneza Dorkin

RENZO FRANCABANDERA e ZAZIE | RF:Ti confesso che quasi mi girano, Zazie. Temo che oggi per la prima volta potremmo essere d’accordo. Mi dà un fastidio ‘sta cosa! Che uno esce da teatro, e vorrebbe aver da litigare. Ti è piaciuto, si, no, e quello non si poteva guardare, e questo recitava da cani. E invece questo Vera vuz…

Z: Un gran bel testo, questo Vera vuz. Edoardo Erba racconta una storia con la S maiuscola, di quelle che danno proprio soddisfazione. Malinconia e umorismo insieme, entrambi in giusta dose. Un’ambientazione messicana, contadina, un po’ western tra fagioli e sombreros, e uno spunto di cronaca vera per una relazione forte tra due uomini, opposti, che hanno un conto in sospeso.

RF: La raccontava il Guardian nel 2011 la storia di Manuel Segovia e Isidro Velazquez che vivevano a soli cinquecento metri di distanza l’uno dall’altro nel villaggio messicano di Ayapa, ma non si rivolgevano la parola da anni. Erano le ultime due persone rimaste in vita e in grado di parlare il Nuumte Oote – la Vera Voce – a cui gli antropologi stavano prestando particolare attenzione per evitarne la scomparsa. Erba inventa un motivo drammaturgico per il quale i due dovessero avere dei conti in sospeso, gli mette in bocca il dialetto pavese, aggiunge un personaggio, una sorta di perpetua pettegola per dare ritmo, e cala il poker, anche grazie agli attori, diciamolo.

Z: Tre signori attori: Mario Sala-Isidro che sembra un po’ stolido e statico, che non ha avuto il coraggio di provare niente nella vita, che non si è mai mosso dal paese, e Gigio Alberti-Manuel invece il ragazzo amato dalle donne, scavezzacollo, ladruncolo, poi anche assassino, un avventuriero, insomma. La donna Monica Bonomi è la serva di Isidro, spiritosa, concreta, un po’ goldoniana, apparentemente tonta ma attenta, che vorrebbe farsi sposare. 

R: D’accordo, diamine! Sono d’accordo. Che nervi. E poi bella, in fondo, una scintilla drammaturgica che nasce dalla parola. Dalla lingua. Il parlare per il gusto di sentire il suono della tua terra. E’ un po’ come quelli che tornando a casa riprendono di colpo a parlare il dialetto. E’ lo stesso motivo per cui all’estero gli emigranti italiani parlano dialetti che nelle zone di origine sono quasi estinti.

Z: Due che, dopo tanti anni, si incontrano e si parlano, superata la taciturna resistenza di uno dei due. E hanno bisogno di parlare, di sentire quella lingua, perché è quella che rende reale gli anni della gioventù, che fa tornare le scorribande condivise da ragazzi: se sparisce quella, se spariscono le parole, spariranno anche le loro vite. e quello che sono stati. 

RF: Vabbè dai adesso basta zucchero però, se no mi schizza la glicemia! Diciamo qualcosa che non va’, se no mettiamoci zitti pure noi come quei due, che anche dire tutti e due la stessa cosa non è divertente per niente.

Z: Beh, il mistero che si scioglierà nella vicenda è troppo spiegato, ecco il neo che troviamo: un eccesso di spiegazione dell’intreccio che appesantisce un po’ la drammaturgia. Se si sta attenti ci sono tutti gli elementi che servono a capire anche senza l’inciso-flashback su Isidro ragazzo e sua madre, e anche il finale non aveva bisogno di quella nota a margine. 

RF: Come non c’era bisogno, nelle sovrascritte (fondamentali per far comprendere ai non lombardi), di aggiungere stelline, cornicette e quelle derive pop che, veramente, bisogna dirlo a Loris: va bene l’iconografia pop (vista e stravista dappertutto), va bene non prendersi sul serio (e pure questo ce lo siamo detti variamente), va bene tutto, ti vogliamo bene, però dai… fermiamoci un attimo prima. Scommetto che la pensata è un fulmine nato nella stessa tempesta di cervelli che ha partorito le stelline sulla scenografia di Giorni Felici. E poi un pensiero sugli inserti musicali da Morricone, che vogliono fare neo-western a-là-Tarantino, ma che forse, con un po’ più di delicatezza del ditino sul mixer e un po’ meno di didascalia nei momenti enfatici, darebbero meno il senso dell’aggancio emotivo.

Z: Per il resto la regia è giusta ma discreta, si sente ma non è invadente. Alberti è perfettamente in parte, il rapporto tra i due personaggi è anche tra i due uomini-attori, un certo disincanto è sempre presente, anche nelle numerose battute. E i due trovano nella Bonomi un terzo polo positivo che ben si amalgama.

RF: Confermo, bene nel complesso tutto. La Bonomi è davvero lo zenzero fresco sul tonno marinato, la mentuccia sulle zucchine alla scapece, giusto per rimanere su ricette western. D’altronde a teatro qualcosa resta sempre sulle labbra quando esci. Un sapore, una battuta.

Z: Bellissima quella di Isidro, sputata in faccia a Manuel: “Tu e le tue magagne, se te le porti sempre dietro poi, alla fine, le magagne diventano te”.

RF: Bella ‘sta chiusa. Fermiamoci qua.