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domenica, Dicembre 22, 2024
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Format e simboli nel televisivo contemporaneo: l’equivoco del non detto

braccialetti-rossiEMANUELE TIRELLI | Mettiamola così: se una ragazza è anoressica e voglio regalarle un braccialetto, non scelgo il colore rosso, con o senza libellula che sia.
Pochi giorni fa l’Italia ha salutato l’uscita di “Braccialetti rossi – Il mondo giallo”, romanzo fortunatissimo dello scrittore, regista, autore per teatro e televisione spagnolo Albert Espinosa. La storia è tutta autobiografica e racconta la sua esperienza con il cancro per dieci lunghi anni. Fortunato il libro e fortunata anche la serie tv “Pulseras rojas” che lui stesso ha tratto dal romanzo. La storia è piaciuta tanto perché considerata ricca di speranza, carica di umorismo e desiderio di vivere. E beh, anche strappalacrime, sì. In Italia il libro è uscito quasi contemporaneamente alla fiction omonima prodotta da Rai e Palomar, mentre negli Stati Uniti i diritti li ha comprati addirittura Steven Spielberg.
E quindi veniamo alla fiction, ma scavalchiamo giudizi approfonditi sulla qualità del prodotto perché purtroppo è scadente, ancora una volta scadente come tante fiction italiane da prima serata e non. Perché i protagonisti sembrano finti. E perché a volte, strano ma vero, ci sono elementi capaci addirittura di mettere in ombra la mancanza di qualità di un programma che affronta i temi della salute e dei giovani. Di mettere in ombra e rafforzare, allo stesso tempo, la totale assenza di porosità che pure ha stufato alla grande.

Raiuno, prima serata, sei appuntamenti domenicali e il primo andato in onda lo scorso 26 gennaio aggiudicandosi il primo posto nella classifica di fascia oraria per gli ascolti.
I protagonisti sono sei giovanissimi tra gli 11 e i 17 anni ricoverati in ospedale e con un braccialetto rosso al polso. Si fanno forza. Tra loro c’è un legame. Sono un gruppo. Diventano amici e vogliono sostenersi per affrontare le rispettive malattie. Lo hanno definito, non loro, ma la produzione, un inno alla speranza, una sfida. Allora c’hanno messo dentro tanti buoni sentimenti, criticità e tenacia e hanno deciso di cucire tutto addosso ai protagonisti. C’è chi non ha più una gamba e chi rischia di perderla per il cancro. Chi è in coma da mesi, chi ha una malformazione cardicaca o si è schiantato con la moto. E c’è una ragazza con problemi di anoressia. Anche lei ha il braccialetto, rosso, certo.

Quindi torniamo all’inizio. Moltissime ragazze con problemi di anoressia indossano braccialetti Pro-Ana (pro-anoressia). Anche le ragazze Pro-Mia (pro-bulimia) ne hanno uno. Rossi le prime, blu le seconde, preferibilmente con un ciondolo a forma di libellula o farfalla. Frequentano forum e siti internet dove si scambiano consigli su come dimagrire, nascondersi agli amici e ai propri genitori, cosa mangiare e quando, tenere un diario sul numero di calorie assunte ogni giorno. E il braccialetto per loro è un segno distintivo, di appartenenza, per sentirsi parte di un gruppo, di un percorso, per indicare, anche tra loro, di essere Pro-Ana/Mia, di aver sposato quella che considerano una vera e propria filosofia di vita. Che consente loro di controllare se stesse. O almeno di avere la sensazione di poterlo fare e con conseguenze devastanti.
Affrontare questo argomento è cosa assai complessa e delicata, ma anche necessaria. Mariafrancesca Garritano, ballerina solista della Scala di Milano, ha parlato dell’anoressia, l’ha raccontata nel perché e nelle modalità e si è espressa concretamente dimostrando come sia spaventosamente diffusa tra le ballerine. Ed è stata licenziata. Non faceva parte di gruppi pro-Ana e all’inizio, come molte altre, non sapeva nemmeno di avere davvero un problema. Forse anche per questo è giusto che se ne parli, quando si può, quando è rilevante, quando il gancio lo consente. E che se ne parli con un certo criterio.
Quindi, come dire, se conosco una ragazza anoressica e voglio farle un regalo, non penso al braccialetto rosso. E nemmeno se penso di renderla protagonista di una fiction, di un film, di uno spettacolo teatrale o della locandina che promoziona la sagra della castagna arrosto.
Per quelle che vogliono uscirne il simbolo giusto è un fiocchetto lilla.
Certo, vabbè, ma uno poi che ne sa.

“Quartett”: Malosti e Marinoni per una metafisica del nulla

 ©ph Fabio Lovino
©ph Fabio Lovino

GIULIA MURONI| “Continuiamo a frugarci l’un l’altro nella speranza di trovarvi qualcosa. Invece scopriamo che non vi è altro che il nulla.” Crollati i rincuoranti orizzonti metafisici, è facile cercare di sfuggire alla vacuità dell’esistente con un affondo delle unghie nel reale, appigliandosi alla carne nell’ingenuo tentativo di perdere i confini del sé e assurgere a una nuova meta-fisica, a un senso che vada oltre il corpo. Ma, spiega bene Merteuil, il vuoto delle esistenze terrene e finite non dà scampo. È nel corpo, è IL corpo. La camera d’ospedale, cornice post-umana dei dialoghi di Laura Marinoni e Valter Malosti, fa da scenografia a “Quartett”, visto al Teatro Carignano di Torino, che mette in scena i personaggi de “Le relazioni pericolose” di de Laclos, nella versione stringata e attualizzata di Heiner Muller. I due, il conte Valmont e la marchesa Merteuil, si sfidano in un duello verbale sferzante, senza sottrarsi ai colpi bassi, alla crudeltà del nichilismo, alla provocazione indecente, invertendosi di ruolo dentro una dinamica perversa di scambi e enfasi dell’osceno. Il letto d’ospedale su cui è adagiata l’attrice è il fulcro movente di una scena essenziale, curata con precisione che, insieme ai costumi, alla ricerca musicale e allo studio delle luci, compone un quadro efficace e coerente nel quale i due interpreti si muovono con tratto magistrale.

 ©ph Fabio Lovino
©ph Fabio Lovino

I due aristocratici libertini, vecchi amanti affini nell’efferatezza, parlano di sesso, di relazioni uomo-donna e dei propri trascorsi con la navigata e cinica esperienza di chi domina le dinamiche della commedia umana. Quando d’un tratto Valmont, colto dall’angoscia di una futura morte, azzarda un volo pindarico, Merteuil lo deride: “È proprio vero che la paura rende l’uomo filosofo”. Laddove “uomo” non è sostantivo neutro, ma designa il genere maschile. Come la servetta trace che ride di Talete, caduto in un pozzo mentre guardava il cielo. Chissà quanta filosofia come fondamea non ha come fondamenta che i più sommari travagli esistenziali, le fortuite quanto consuete tribolazioni dell’essere? E quanta la paura della morte?

La risposta è in un riso sardonico onnipresente e pervasivo, nell’ironia graffiante che raddoppia al momento dello scambio di ruoli, quando interpretano le loro presenti e future vittime: la vergine Mme de Volanges, Mme de Tourvel, Danceny. Qui la drammaturgia sembra incappare in momenti di verbosità e si rischia di confondere i soggetti parlanti. Ma il finale rimette in sesto lo spettacolo, con una chiusura ad effetto che, riportando in discussione tutto, condensa una verità truce.

Esperienza interattiva e indie gaming: dove va il nuovo videogame?

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PASQUALE PARISI | Doveva arrivare, è arrivato. Quel punto di rottura, vera pietra miliare che arriva ciclicamente a scandire la vita di ogni videogiocatore, è arrivato. La next-gen, l’arrivo di nuove piattaforme domestiche pronte a flettere i muscoli di capacità di calcolo e splendore visivo, pronte ad accompagnare l’utente in una sempre più marcata sintesi tra entertainment domestico, funzionalità cloud e dinamiche social. PS4 per Sony, Xbox One per Microsoft (solo per essere davvero generosi potremmo includere nello stesso contesto WiiU di Nintendo) hanno avuto il loro lancio, piazzato milioni di unità, creato una notevole risonanza anche nell’informazione generalista e nell’immaginario di chi non segue da vicino la materia. E, allo stesso tempo, non hanno impressionato nessuno. Per una ragione piuttosto evidente: per quanto ampie possano essere le aspirazioni, il centro di una macchina per videogames dovrebbero essere i videogames. E al lancio delle due protagoniste della nuova generazione sono stati proprio i prodotti a latitare: pochi in numero, deficitari nel canonico “wow-factor”. Per non parlare poi delle funzioni di streaming e condivisione delle proprie esperienze videoludiche, altro cavallo di battaglia delle nuove macchine. L’acume del puntare su questi aspetti risulta chiaramente dal riscontro nell’immediato: gli unici casi in cui il pubblico sembra essersi accolto di queste possibilità è stato quando qualcuno si è addormentato davanti allo schermo o ha deciso di sfruttare il potenziale voyeuristico della situazione.
La generazione di console appena arrivata non faticherà a ottenere allori: nel giro di pochi mesi cominceranno a venire scoperte le carte più interessanti delle due piattaforme, e i nuovi hardware avranno modo di dispiegarsi finalmente nel loro pieno potenziale, andando a toccare nuovi i nuovi vertici del medium. Fatto sta che, in questo momento di stasi, vorrei riservare attenzione a un mondo i cui risultati appaiono sempre sottovalutati: quello dei videogames indie, prodotti dai costi di produzione e di vendita ridotti, spesso realizzati da gruppi di autori estremamente circoscritti e, proprio per queste ragioni, più inclini alla sperimentazione rispetto a prodotti commerciali caratterizzati da esigenze ben più evidenti.

La rivoluzione degli indie si consuma di settimana in settimana, soprattutto sulla piattaforma PC (per quanto le console abbiano da tempo intuito e sfruttato le potenzialità del filone). Anche nel periodo in cui si consumava l’attesa delle nuove console, il mondo indie ha prodotto opere maestose che mostrano chiaramente quello che alla “next-gen” ancora manca: originalità, capacità di osare, nuove visioni. Gone Home è, probabilmente, il titolo indie che ha fatto più rumore nel corso del 2013. E, quanto è più strabiliante, l’ha fatto con il silenzio. Quello della casa di famiglia deserta che Kaitlin Greenbriar incontra tornando da un lungo periodo trascorso in Europa, alla metà degli anni ‘90. Madre, padre e giovane sorella sono scomparsi dall’abitazione: cosa sarà avvenuto? È quanto si tenta di scoprire nelle circa tre ore di durata dell’esperienza. C’è molto da sapere, ed è custodito dalla casa stessa: stanze, oggetti, spazi personali e condivisi sono pronti a discutere con il giocatore dei personaggi che li hanno vissuti. I pezzi delle vicende si mettono insieme lentamente, organicamente, con una progressione nemmeno eccessivamente incanalata ma comunque saldamente nelle mani degli autori, che riescono in maniera mirabile a spostare il tono del racconto dal thriller all’horror al paranormale, continuando a ingannare l’utente mentre dispongono i pezzi della rivelazione finale che è spiazzante, imprevedibile, coraggiosissima.
Gone Home dimostra quanto la narrazione interattiva possa osare, in termini sia contenutistici che formali: non ci sono cutscene né dialoghi (solo monologhi ad accompagnare ogni nuova scoperta), e la storia nasce dall’ambiente, in un una delle più brillanti manifestazioni dell’evironmental storytelling definito qualche tempo fa da Henry Jenkins. Qualcuno ha voluto sottolineare quanto poco Gone Home rientri nei confini del videogioco, per via della carenza di effettivi ostacoli da superare. Vero è che potrebbe stare più agevolmente nei confini della visual novel, ma a meno di non essere feticisti della definizione, la questione non dovrebbe essere poi essenziale. Se, poi, vogliamo interrogarci su cosa sia videogioco, impossibile non citare The Stanley Parable, una sorta d’incarnazione dei desideri più inconfessabili di ogni ludologo. Nato svariati anni fa come mod amatoriale per Half-Life 2, questo piccolo capolavoro sovversivo è giunto nel corso dell’anno a una versione commerciale in HD. Lo Stanley protagonista è uno dei tanti impiegati di una non meglio specificata azienda, contento di trascorrere le sue giornate a pigiare tasti in base agli ordini giunti sul suo computer. Peccato che, un giorno, gli ordini smettano di arrivare e Stanley sia costretto a investigare l’avvenimento.
La progressione è scandita da una straordinaria voce narrante che stimola e reagisce alle varie azioni del giocatore: lo scopo del narratore è portare a compimento una storia definita e compiuta, ma non necessariamente bisogna sottostare alle sue indicazioni. “Stanley andò a sinistra” recita il narratore: il giocatore potrebbe andare a destra. In ognuna di queste situazioni, ogni scelta può dare vita a una linea narrativa completamente diversa, l’una più surreale e metaludica dell’altra. The Stanley Parable è un esercizio di branching narrative che spoglia le strutture di base del videogioco e quanto più le espone, infrangendo a ogni istante la quarta parete, tanto più risulta coinvolgente.
Brothers: A tale of two Sons, invece, è radicalmente differente rispetto agli altri titoli citati: la trama è unica e lineare, e il percorso definite piuttosto chiaramente. È il primo progetto videoludico di Josef Fares, regista libanese naturalizzato svedese, autore, tra gli altri, di Kops e Jalla! Jalla! La mdp virtuale risente chiaramente della “mano” di cui può giovare, con una mobilità costante e assolutamente elegante, che presenta in maniera accattivante e personale il viaggio dei due protagonisti. Indicati semplicemente come Big Brother e Little Brother, i fratelli partono alla ricerca di una cura per la malattia del padre. Per quanto semplice, l’avventura dal tono fiabesco è resa efficacemente dalla sola gestualità dei personaggi, senza servirsi delle parole. Ancora più interessante è la scelta fatta in termini di sistema di controllo: ipotizzando l’uso di un joypad, i due fratelli vengono mossi contemporaneamente ma indipendentemente grazie all’uso dei due stick analogici.
La soluzione, fortemente inusuale (lo stick destro è tradizionalmente demandato alla regolazione dell’inquadratura) finisce per trasferire in forma concreta l’idea della difficoltà dell’impresa e dell’importanza della collaborazione, contribuendo al fortissimo impatto emotivo del titolo che esplode in una lunga ed incisiva sezione finale. Insomma, la next-gen ha le carte in regola per segnare il futuro, che dovrà essere di grande cambiamento, affinché il mezzo non finisca a stagnare tra le paludi del già visto. La strada giusta per raggiungerlo, tuttavia, resta quella aperta dagli indie: non resta che seguirla.

links
http://www.dualshockers.com/2013/12/23/couple-falls-asleep-while-streaming-ps4s-playroom-240-people-watch-3000-comments/
http://video.corriere.it/spoglia-moglie-alla-telecamera-ps4-bannato/60703038-586b-11e3-8914-a908d6ffa3b0

Peccati capitali contemporanei e a-temporalità dell’arte

1BRUNA MONACO | Germania, Francia, Italia. A cavallo fra queste tre nazioni si muove Der Tod in Venedig/Kindertotenlieder. La regia è tedesca, di Thomas Ostermeier. Italiano lo sfondo e il terreno in cui è germogliata l’idea. In Francia poi lo spettacolo è stato prodotto e realizzato. Durante la Biennale di Venezia del 2011 Thomas Ostermeier fu invitato a tenere un laboratorio per giovani attori provenienti da varie nazioni. Tema degli incontri, i sette peccati capitali della contemporaneità. Ostermeier pensò alla pedofilia, e a La morte a Venezia dell’illustre connazionale (Der Tod in Venedig il titolo originale). L’occasione per continuare a scandagliare un tema e un testo così caldi si presentò a Rennes l’anno successivo nel quadro del Festival Mettre en scène, luogo ideale d’esplorazione per drammaturghi registi e coreografi che non vogliano smettere di interrogarsi e interrogare i linguaggi teatrali, quelli noti e quelli ancora sconosciuti.

Questa breve genesi di Der Tod in Venedig/Kindertotenlieder che è stato in scena al Théâtre de la Ville di Parigi fino al 23 gennaio, ed è l’ultima tappa, per ora, di una breve tournée europea, era necessaria per inquadrare un lavoro così singolare, così difficilmente riconducibile alla fin qui nota “poetica” di Thomas Ostermeier. La sua fama degli ultimi anni è legata ai geniali adattamenti dei testi di Ibsen, ma il suo repertorio spazia da drammaturghi contemporanei come Sarah Kane, Lars Norén, Jon Fosse ai classici (Shakespeare, Brecht, Büchner). La sua specialità è leggere, secondo un’ottica nuova e sempre ficcante, il conflitto drammatico alla base dei testi. Una lettura innovativa, incurante delle interpretazioni che anni di critiche, esegesi e messe in scena hanno depositato sui testi originali. Ma sempre di drammaturgie si era trattato. Con Der Tod in Venedig/Kindertotenlieder, invece, Ostermeier lascia il terreno noto del conflitto drammatico e si fa largo nella psicologia di Gustav von Aschenbach, uomo di mezza età fatalmente attratto dal giovanissimo Tadzio. Il conflitto è tutto interiore, il testo di Thomas Mann è letterario e Ostermeier lo affronta senza “drammatugizzarlo”, dialogizzarlo: se nelle messe in scena precedenti, complice l’acutezza del drammaturgo Marius von Mayenburg, gli adattamenti testuali erano raffinati e persuasivi, qui il lavoro di riscrittura è meno pregnante. Interi segmenti del romanzo sono letti da una voce fuori campo che intessendosi ai Kindertotenlieder di Gustav Mahler (eseguiti in scena da un pianoforte e dalla voce dello stesso von Aschenbach interpretato da Josef Bierbichler) si fa colonna sonora della scena muta: i personaggi non interagiscono a parole ma attraverso sguardi carichi di pathos. Le parole, quando ci sono, sono irrilevanti, dette da personaggi secondari e si addensano prima di raggiungere le orecchie del pubblico in un brusio che va ad arricchire la tessitura musicale. L’importanza della musica è più significativa di quanto appaia. La morte a Venezia di Mann e i Kindertotenlieder di Malher costituiscono in egual misura il fulcro della narrazione ed è chiaro fin dalla bipartizione del titolo Der Tod in Venedig/Kindertotenlieder. Ostermeier non mira semplicemente a una trasposizione scenica del testo di Thomas Mann, tant’è che, per non essere influenzato nel lavoro, ha dichiarato di aver atteso che il suo spettacolo debuttasse prima di vedere il capolavoro di Visconti; la pedofilia come uno dei sette peccati capitali contemporanei è all’origine di questo spettacolo. I Kindertotenlieder, letteralmente “canto della morte dei bambini” sono allora una più o meno sottile allusione, pervasiva, all’assassinio dell’infanzia perpetrato dai pedofili?

Purtroppo però prescindendo dalla genesi dello spettacolo, se vi si assistesse senza informazioni sul suo processo di creazione, la questione pedofilia sarebbe poco intelligibile, nonostante ci sia qualche riferimento. Der Tod in Venedig/Kindertotenlieder è forse troppo cerebrale, manca dell’efficacia comunicativa che contraddistingue le precedenti produzioni di Thomas Ostermeier. Forse il sodalizio con Maja Zade (che firma la drammaturgia) non è ancora ben collaudato. Forse l’avvicinamento a un linguaggio nuovo ha bisogno di un periodo di assestamento: Der Tod in Venedig/Kindertotenlieder è più simbolico ed evocativo dell’Ostermeier classico, si conclude con la danza astratta e un po’ selvaggia di tre donne, sotto una pioggia di cenere. I risultati positivi di questa ricerca però, li vedremo presto senza dubbio, in uno spettacolo nuovo e più consapevole.

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L’«Angelo della gravità» di Sgorbani sospeso tra colpa e follia

angeloVINCENZO SARDELLI | Essere piccolo e pesante. Al contrario degli aquiloni, che sono grandi e leggeri. Il monologo Angelo della gravità (soggetto Massimo Sgorbani, regia Domenico Ammendola, con Leonardo Lidi, visto al Teatro Oscar di Milano) mette in scena la vicenda di un uomo condannato a morte per omicidio.

Colpo di scena: l’esecuzione è rinviata a data da destinarsi. Il detenuto è obeso. La corda con cui sarà impiccato potrebbe spezzarsi.

Inizia così un flashback nel passato del protagonista, partendo dall’infanzia. Su una scena con due pigne di palloni di lattice bianchi che riempiono in verticale l’occhio del pubblico. Palloni gonfiati come particelle d’adipe. Barriere contro le insidie del mondo. Soffici come l’uomo paffuto sul palco, in canottiera e mutande, su un cuscino esso stesso sinonimo di pinguedine. Dall’alto cala un microfono un po’ cappio un po’ gancio con il presente, quando il racconto psicanalitico del passato s’interrompe, e la voce metallica di Lidi dà corpo all’attualità, allo spettro dell’esecuzione.

Angeli della gravità e angeli della morte. Angeli come astronauti, che galleggiano nello spazio; o come diavoli, che cadono verso l’inferno, «il posto dove la pesantezza ha vinto una volta per tutte sulla leggerezza».

Uno spettacolo giocato sui paradossi. Tra infanzia dell’anima e crescita esponenziale del corpo. Tra i ricordi, i segni di un passato maledetto, e il loro impatto devastante sul presente.

Colpa, follia, incoscienza. L’incontinenza alimentare diventa sfrenatezza sessuale. Il cibo è compensazione di tormenti esistenziali. E allora la soluzione è la partenza per l’America. Con il pretesto d’imparare l’inglese. Per levarsi dai piedi. Per sfinirsi di cibo. In un luogo dove i panini sono quelli dei fumetti, i supermercati aperti anche di notte, gli obesi a ogni angolo della strada. E nessuno li chiama grassoni.

Eccessi bulimici e immaturità psicologica distinguono un personaggio che sovrappone amore e pornografia, e infierisce con naturalezza su una donna che rifiuta le sue avances. Un delitto che è delirio, antropofagia e necrofilia, e mescola eucaristia e potere (salvifico?) del sesso.

Nasce un duplice nodo critico: perché una pièce che affronta temi sensibili (giustizia, tolleranza, bullismo, affetti familiari, disturbi alimentari, sessualità, religione) esclude a causa della sfrontatezza verbale il pubblico under 16; e perché ci sembra pretestuoso che un poveretto incapace di distinguere realtà e fantasia, e capovolge ogni senso morale in un mix di follia e superstizione, sia mandato da solo allo sbando in un luogo come l’America, pur da una famiglia disfunzionale.

La regia carica i toni grotteschi. Lidi dà corpo a una recitazione a tratti arzigogolata, dalla sonorità ricercata. Del personaggio risalta la schizofrenia, non il dolore: l’ironia e l’inconsapevolezza, non la malasorte. Gli espedienti scenici (in primis le emissioni sonore e le luci, curate da Lorenzo Savi) disegnano un tempo dilatato, anch’esso ipertrofico.

L’epilogo della morte, è catarsi, epifania antigravitazionale. Finalmente i grappoli di palloni in scena possono staccarsi, sparpagliarsi sulla platea come tante lune, in un’emancipazione surreale che dovrebbe essere parusia. Il senso d’angoscia non arriva però al pubblico. Che attende la fine del condannato tra qualche risata e poche paranoie. Con il ricordo di qualche bella frase, ma con poche emozioni memorabili.

Enzo Cosimi, l’Alfa e e l’Omega

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VINCENZO SARDELLI | Fa effetto vedere in scena, in stretta sequenza al Teatro dell’Arte, Calore e Welcome to my world di Enzo Cosimi, opera prima (1982) e ultima (2013) di un coreografo che in mezzo ci ha messo di tutto: collaborazioni svariate tra Europa, Asia, Americhe e Oceania, comprese le coreografie della Cerimonia di apertura delle Olimpiadi Invernali di Torino 2006. Trent’anni di percorso. Cambiamenti epocali, prima ancora che artistici.

Se l’arte è proiezione del contemporaneo, sorprende il tempismo con cui Cosimi, in Calore, avesse intuito le derive patinate degli anni Ottanta: edonismo, paillettes, visione ottimistica, un po’ frivola, della vita. Ugualmente, sconcerta riflettere sull’antitetico esito catastrofistico di Welcome to my world.

Ma andiamo per ordine. Calore (con Francesco Marilungo, Riccardo Olivier, Francesca Penzo, Alice Raffaelli; musiche: Glenn Branca, Benjamin Britten, Liquid-Liquid, Chris Watson; disegno luci: Stefano Pirandello) è soprattutto colore. Sin dal fondale azzurro che evoca scenari vacanzieri. Sin dal dilagare di limoni che riempiono la scena con il loro giallo solare, nell’armonia festosa di uccelli pigolanti che il ronzio di un moscone non turba. I famigerati (per i nostalgici della Beat Generation o della musica Prog) anni Ottanta rivivono fra riti tribali e uomini in canottiera e mutande, adescati da una donna di verde vestita che ha alzato la cresta e scandisce il suo incedere su tacchi a spillo. Balli disinibiti, clangori metallici, suoni elettronici sono la cornice all’aggressività spaccona e languida di quegli anni. Le coreografie patinate di Cosimi rendono bene un’età in cui l’infanzia tende a prolungarsi, e un’umanità in posa tra una birra, un amplesso e il mito di una vita secondo natura, naufraga nell’incoscienza.

Agghiaccianti scenari di distruzione caratterizzano Welcome to my world (interpreti: Paola Lattanzi, Alice Raffaelli, Francesco Marilungo, Riccardo Olivier; rubber mask: Cristian Dorigatti; musiche: Chris Watson, John Duncan, Pansonic, Brian Eno; disegno luci: Stefano Pirandello). Qui la sbornia edonistica è smaltita. Echi di mantra tentano di esorcizzare l’oscurità. Bagliori estemporanei definiscono corpi seminudi, pupazzi semoventi. La potenza della natura è soverchiata da rumori sfibranti, rombi, tuoni, vapori. L’uomo, con forza distruttrice, viola l’armonia del cosmo. Se Calore era trionfo vitale, qui la danza è immateriale, fragile, tra suoni sordi e colori cupi. Il cinguettio aurorale di Calore qui è stridore notturno alienante. Un pessimismo cosmico sembra avvolgere una danza intrisa di simboli tetri. I performer si muovono al rallentatore, annichiliti, mascherati, grondanti sangue. È un’umanità spodestata e ottusa. Con l’epilogo su un uomo lancetta, a scandire un tempo indefinito.

Il filo conduttore tra i due spettacoli è la capacità di Cosimi di tratteggiare scenari visionari, concetti caustici, con una partitura incisiva, aperta e vivace.

Più che un cambiamento di stile, si avverte un mutamento degli stimoli alla base della scrittura. In Calore è dirompente la frenesia di una generazione multicolore, trionfante, nevroticamente stordita da ritmi pop. Welcome to my world propone una natura antropizzata, insidiosa, morente, con maschi dimessi di fronte all’impeto femminile, costretti a vogare controcorrente. Uomini ammorbati, incapaci di affrontare lo scempio.

Enzo Cosimi: l’Alfa…

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…e l’Omega [youtube http://www.youtube.com/watch?v=lPmtXByLq2M&w=560&h=315]  

Al Valle Occupato “Il guaritore” di Michele Santeramo

foto-Andrea-Casini-1-0124LAURA NOVELLI | Una lunga panca chiara rimanda l’idea di un luogo-non-luogo dove si aspetta qualcosa o qualcuno. Uno studio medico, forse. Ma anche una panchina su cui sedersi per scambiare due chiacchiere. Un sostegno agli affanni della vita, della vecchiaia. Un rifugio in cui rintanarsi quando si vuole fuggire qualche minuto dalla realtà. E’ qui che il guaritore, protagonista dell’omonima pièce scritta da Michele Santeramo (Premio Riccione nel 2011) e portata in scena da Leo Muscato al Teatro Valle Occupato nei giorni scorsi dopo l’anteprima a Castel dei Mondi, scava nei recessi dell’animo altrui per lenire le ferite più amare, i dolori più intimi.

Questo vecchio dall’aria trasandata e stralunata (lo interpreta Michele Sinisi, egregiamente in sintonia con una caratterizzazione decisa ma quanto mai poetica e vera) vive seduto, attaccato ad una flebo con la stessa distratta veemenza con cui sta attaccato alla bottiglia, alla camicia sporca di una settimana,  o alle sue vecchie canzoni di Elvis Presley. Ogni tanto litiga con il fratello minore (Gianluca delle Fontane), colorando di farsa  anche i dialoghi più tragici, le recriminazioni più amare. Parla un dialetto pugliese volutamente “sporcato”, pieno di intercalari e di virate auliche: snobistici tentativi di sentirsi diverso, altro, un eletto ormai stanco di campare. Ma il guaritore, soprattutto, aspetta e riceve pazienti che cercano in lui un conforto, quasi fosse uno sciamano antico, un saggio acclarato, un daimon in contatto con gli dei (o con Dio). E lui li cura mettendo in relazione le loro storie, costringendoli ad un parlare/ascoltare votato giocoforza a provocare cambiamenti, scelte, traiettorie.

Dunque, a ben vedere, questo personaggio (ispirato tra l’altro a un vero contadino guaritore che “esercita” la sua attività in un piccolo centro della Puglia) è anche – e tanto più – una metafora del teatro: luogo diviso dal sociale in cui si raccontano storie e si innescano incontri capaci di agire nel cuore del pubblico. E come il teatro, il guaritore coagula in sé e attorno a sé tutto e il contrario di tutto: si ride, si piange, si aggrottano le ciglia in uno sforzo di comprensione, ci si lascia andare a situazioni surreali, parossistiche, buffe, stonate, stravaganti. Il testo del quarantenne pugliese – fondatore, insieme con lo stesso Sinisi, della compagnia Teatro Minimo di Terlizzi e autore di precedenti titoli quali, tra gli altri, “La rivincita”, “Le scarpe”, “Sequestro all’italiana” – mira a confondere le acque, i registri, gli stili. Il bozzetto farsesco dell’incipit, con quel botta e risposta “rissoso” che tanto evoca scenari da commedia dell’arte e passaggi dell’Eduardo più leggero, cede il passo poi a un andamento quasi beckettiano. O meglio, ad una grottesca galleria di personaggi che ricordano vagamente Copi, Ionesco, con però un afflato melodrammatico tutto italiano. Eccole le due donne disperate (le brave Paola Fresa e Simonetta Damato) che il guaritore è chiamato a curare: una moglie vibrante di nervosa impazienza e una single ribellatasi al suo stesso destino. La prima – abito bianco e fioco infantile in testa – si presenta dal bizzarro medico con il marito, un ex-pugile ormai fallito che vive solo nel suo sogno-show perfomativo tirando pugni a chiunque (salvo poi rivelarsi essere il deus ex-machina che risolverà il tragico epilogo del lavoro), ed è travolta dall’angoscia di non avere più tempo per fare figli. La seconda – tuta fasciante arancione e compostezza quasi orientale – non accetta di essere rimasta incinta e rifiuta la nuova vita che sta nascendo in lei.

Due storie dunque completamente agli antipodi. Eppure, sarà proprio costringendo l’una ad ascoltare la vicenda dell’altra e viceversa, che il vecchio guaritore indurrà queste due fragili creature a scegliere, decidere. Cosa non importa. Non è questo il punto perché qui in ballo c’è semplicemente la voglia/volontà di credere nel futuro, di fare tesoro delle esistenze degli altri, di riporre fiducia nelle relazioni umane, nello scambio di esperienze. Insomma, riporre fiducia nell’umanità. E la scena del rito, improbabile e sghemba, durante la quale avviene la miracolosa guarigione è quella che più di altre opera un cortocircuito significativo di tutte le linee tracciate nel testo: c’è l’enfasi del racconto e insieme lo sgambetto di una tromba foriera di risate; c’è la veridicità di un guaritore dedito al suo ultimo gesto d’altruismo e insieme continue interruzioni che abbassano i toni. Ne scaturisce l’idea di un puzzle scompaginato molto simile alla vita. C’è infine una lingua dialettale forte, decisa, musicale, variata. La consapevolezza, in definitiva, che solo rovistando nella saggezza popolare, nel senso di comunità, nel significato del linguaggio, nella forza micidiale degli incontri e delle relazioni, l’uomo del terzo millennio può ritrovare se stesso e arginare la solitudine di questo “mondo liquido – si legge nelle motivazioni della giuria del premio Riccione – dove per orizzontarsi non servono più le idee, né quelle vecchie né quelle nuove, ma dove gli esseri umani, con tutti i loro difetti, non smettono mai di aggrapparsi alla speranza che sia il confronto con un altro essere umano a salvarli”.

Marco Paolini, canzoniere teatrale per Jack London

marco paolini

MARIA PIA MONTEDURO | Colpisce in Marco Paolini la capacità di cambiare e nello stesso tempo di restare sempre se stesso. Ufficialmente l’ultimo spettacolo che porta in tournée Ballata di uomini e cani. Dedicato a Jack London (in questi giorni all’Argentina di Roma) non è più uno spettacolo autobiografico né di teatro civile. Ma fino a un certo punto. Jack London è un autore che ha influenzato molto l’infanzia di Paolini, per sua stessa ammissione. E non poteva che essere così per un autore assurdamente ritenuto scrittore appunto per l’infanzia e per un ragazzo nato nell’incantesimo delle Dolomiti. E questo per quanto riguarda l’autobiografismo ufficialmente non più presente. Per il teatro civile nemmeno si può dire che non sia una categoria teatrale impiegata dall’attore/regista veneto. Se infatti, solo apparentemente, lo spettacolo è un affettuoso omaggio allo scrittore statunitense, in realtà è un intelligente pretesto per raccontare e nel contempo analizzare il rapporto uomo/animale (e quindi uomo/natura) e realizzare un’analisi “alla Paolini” sul confine tra vagabondo ed emigrante, quanto mai attuale e drammaticamente presente nella quotidianità.

Paolini è innanzitutto uomo di teatro, animale da palcoscenico, grande incantatore di pubblico. E allora eccolo arrivare in scena con musicanti dal vivo: “La London, pardon, la Jack London Orchestra” formata da tre elementi che fanno a gara a chi è il più bravo (Lorenzo Monguzzi chitarra e voce, Angelo Baselli clarinetto, Gianluca Casadei fisarmonica) per accompagnare ed evidenziare i momenti salienti dei racconti che Paolini trae dalla vastissima produzione di Jack London, interpretando tre racconti che hanno un cane come protagonista. Un racconto buffo (Macchia), un racconto tragico (Bastardo), un racconto inquietante (Preparare un fuoco). Tre aspetti della vita del cane, e nel contempo dell’uomo, dove il confine tra le due esperienze esistenziali si sovrappone e si annulla l’uno nell’altro. La scenografia è scarna, sobria, essenziale: alcuni grandi bidoni, un soppalco e sullo sfondo, tramite una suggestiva video-animazione curata da Simone Massi, spesso scorrono immagini di cani nella neve, stile Zanna Bianca, per restare in tema londoniano.

Marco Paolini recita, narra, affabula, canta, scherza con il pubblico (non ammicca, scherza!) che incuriosisce, stimola, pungola, fa pensare. Non sa e non vuole rinunciare a far pensare il pubblico, porgendo, quasi inaspettato commento di commiato, proprio in chiusura, una ballata dedicata a Zaer, giovane afgano arrivato con mezzi di fortuna (sai che fortuna emigrare…) in Italia e poi morto in autostrada, come succede a tanti cani… Ma Zaer teneva un diario con alcune riflessioni intime: poesia pura. Di nuovo il teatro di narrazione e di affabulazione di Paolini si sposa con l’impegno civile, con la denuncia della situazione pesante che vive il migrante, che non è il carismatico vagabondo che fu lo stesso Jack London (ispiratore anche di Kerouac), ma un essere disperato che cerca una vita non si può nemmeno dire migliore, ma semplicemente umana. Per alcuni migranti, considerate tante situazioni dell’opulento mondo occidentale, che esagera in tutti i suoi comportamenti, basterebbe soltanto “una vita da cani”.

Per saperne di più

www.jolefilm.com

www.teatrodiroma.net

Eugenio Allegri si confida con PAC: io, Baricco, Novecento e il palco come una nave

allegri

VINCENZO SARDELLI | Che bella prova d’attore quella di Eugenio Allegri. Che con Novecento di Alessandro Baricco, regia di Gabriele Vacis, ha aperto la XVI rassegna Incontri al teatro Verdi di Corsico. E andrebbe ricordato che Novecento nasce nel 1994 proprio come pièce teatrale, scritta per Allegri. Solo alcuni mesi dopo la prima fortunata tournée, Baricco decise di farne un romanzo. Poi venne il film, La leggenda del pianista sull’oceano.

Un testo rappresentato su tutto il pianeta. Nei giorni scorsi era di scena a New York. La vicenda è quella di Novecento, un uomo nato all’inizio del secolo scorso su un transatlantico, e ritrovato da un marinaio sopra un pianoforte. Cresciuto tra le due guerre mondiali, Novecento trascorre l’intera vita a bordo del Virginian: non trova mai il coraggio di scendere. Impara a suonare il pianoforte, diventa una leggenda. Vive di musica e dei racconti dei passeggeri.

Bello rivedere Novecento nell’allucinata e grottesca versione originale. Con un Allegri proteiforme. Alla faccia della raucedine di stagione (ipse dixit, mica se n’era accorto nessuno) e degli anni che passano.

La patina del tempo c’è: quella dei vini pregiati. Una scenografia e le luci (di Lucio Diana e Roberto Tarasco) con un velo diafano che divide a metà nella lunghezza il palcoscenico, a creare una quinta parete: spazio reale verso il pubblico, “metafisico” sullo sfondo. Luci intimistiche. Un pianoforte mini pende dall’alto: ogni tanto oscilla, come una barca nel mare. I costumi (di Elena Gaudio) evocano i personaggi principali: lo stupito narratore e lo stesso Novecento.

500 repliche, 200 mila spettatori: un monologo cult della scena italiana. Gesti onirici, evocazioni fascinose. Recitazione buffa e intensa, falsetto e gorgheggi. Voce roca, frizzi e lazzi. Sillabe scandite, centellinate. Pause surreali. Passi di danza. Eugenio Allegri emoziona, riesce ancora a sospendere in un’attesa immaginifica. Con il pubblico inchiodato alla poltrona per due ore. Fino agli applausi, liberatorî.

Come Paolo Nani con La lettera. Come Antonio Rezza con Pitecus. Eugenio Allegri, anche lei fa lo stesso spettacolo da vent’anni. Non assomiglia un po’ a Novecento, che non ebbe mai il coraggio di abbandonare quella benedetta nave e scendere a terra?

Gli assomiglio. Non perché non abbia il coraggio di scendere, ma perché abbiamo la stessa visione del mondo. Come Novecento e altri personaggi di Baricco, so di dover affrontare il mondo pur non avendo tutte le “carte in regola”. Però non mi sottraggo alla sfida. Se Novecento al mondo infinito preferisce il microcosmo della nave, io la scaletta per scendere l’ho intrapresa più volte, con altri spettacoli. Lui una volta sola: pochi gradini, ed è tornato indietro.

Anche lei è tornato indietro. Più di una volta.

Sì, per ritrovare lo stesso punto di vista. E scoprire quant’ero cambiato.

E allora?

So confrontarmi di più con la realtà. Come attore riesco a misurarmi di più con il mio tempo. Provo a interpretarlo il meglio possibile.

La nave metafora del palcoscenico?

Sì. È un luogo protetto. Permette di avere le cose sotto controllo. Riesco dal palco a raccontare le mie storie davanti al pubblico. E quando parlo degli altri, racconto me stesso.

Novecento sul transatlantico coglie l’anima del mondo. Lei che cosa vede dal palco?

Vedo che le cose potrebbero andar meglio. Non mi piace che a molta gente venga sottratto il tempo per pensare, per vivere consapevolmente, per costruire la propria gioia. Questo mondo sta cancellando la dimensione dell’uomo. Viviamo nella velocità, siamo schiavi della tecnica. L’economia ci soffoca. Abbiamo smarrito il rapporto armonico con la natura. Il mio tempo ha ereditato le speranze della prima metà del XX secolo, fatte di progressi artistici e conquiste lavorative. Poi le ha smarrite, a causa dei totalitarismi, delle guerre, del capitalismo. È venuta meno la poesia.

Baricco delinea una costruzione umanistica dell’uomo. Lei riesce a recuperarla attraverso il teatro?

Ci provo, partendo da me stesso. Mi metto in discussione. Cerco di fare in modo che ogni spettacolo sia diverso dall’altro. Trovo il coraggio di abbandonare i percorsi sbagliati. Non è il risultato che conta, ma il percorso.

Paracelso diceva che «non si cammina solo per arrivare, ma anche per vivere mentre si cammina».

Per me il cammino è quello dell’attore che interagisce con il testo. Credo nel linguaggio e nell’identità dell’attore. Provengo dalla commedia dell’arte. Il testo e la regia si fanno attimo per attimo. Non solo durante le prove. Ma anche durante la rappresentazione, interagendo con il pubblico. Il passato cambia a seconda del futuro che affronti.

L’attore come strumento multiplo?

L’attore non è solo parola. Anche se la parola stessa è importante, e si trasforma continuamente sulle sue labbra. Non è solo sequenza logico-grammaticale. È evocazione, suono, forza espressiva, capacità di rivelare persone, emozioni, fantasie, luoghi.

Lei ha interpretato Novecento contemporaneamente ad Arnoldo Foà e Corrado d’Elia. Differenze?

Con Foà, che ricordo con affetto, abbiamo recitato addirittura insieme due volte, nel 2007 e nel 2010. Il mio timore reverenziale verso di lui durò appena due minuti. Ci apprezzavamo. Lui si congratulò con me, venne ad abbracciarmi. D’Elia l’ho visto in altri lavori, è molto bravo.

Novecento per produrre le sue magie jazz aveva bisogno di sentire l’oceano sotto il sedere. Lei di che cosa ha bisogno?

Della magia dello scambio con un pubblico attento ed educato come quello di Corsico. Della trasparenza delle sue sensazioni ed emozioni. Ho bisogno di stare nel mondo con tranquillità. Ho bisogno dei miei tempi per affondare i miei pensieri: affetti, musica, letture. Ascolto molto. E parlo il meno possibile.

 

Ranuncoli #6: 2 – IL CONTRO – e se siamo tristi è colpa di Dalidà

interno teatroCOSIMA PAGANINI | Difficile tirare fuori le parole. Provo a leggere i critici. Inutile, meglio fare come al solito e riallacciami ai ricordi della giovinezza di qualche zia.

Per chi viveva in provincia in uno di quei paesoni di 30 o 40mila abitanti le occasioni di vedere spettacoli dal vivo erano poche e per questo ci si abbonava alla stagione teatrale organizzata dal Comune e che si svolgeva in un teatro/cinema o in cinema/teatro. 6 o 7 spettacoli da novembre a marzo, se la pasqua era bassa, o ad aprile, se era alta.

Zia Erminia si acchittava e andava ad applaudire lo spettacolo con l’amica Ninì, sorella del sindaco. Il repertorio comprendeva classici “rivisitati”: Shakespeare, Cechov, Goldoni e (di nuovo) Shakespeare, e drammaturgia contemporanea “classicizzata”: Ibsen, De Filippo, Cechov (non era anche un classico?), O’Neil, Ionesco, Brecht, Pirandello e Williams. Sul palco si vedevano: Lojodice/Tieri, Pambieri/Tanzi, Gassman/Pagliai, Manuela Kustermann, Geppy Gleijeses, Gigi Angelillo e Ludovica Modugno e se il sindaco voleva proprio fare una bella figura metteva in stagione anche Albertazzi.

La scelta del repertorio era ristretta a una rosa di testi familiari di autori sui quali da almeno dieci anni non si discuteva più. Erano molto apprezzate scelte “coraggiose” di autori che ricordavano lo zio molto sensibile che va in giro col borsello e l’abito di seta (chi non ce l’ha?) I paesani si scandalizzavano per nulla, ma non di quello. Peggio era annoiarli. Di addormentarli poteva succedere e andava bene: di cosa avrebbero parlato, altrimenti, le mogli a cena dopo teatro? Lo sanno tutti che il teatro non è proprio una cosa da uomini del tipo vir.

Non erano ben viste regie spericolate, impegnate, sperimentali. Un palco spoglio con gli attori che restano sempre in scena, riflettori puntati sul pubblico e quattro gigantografie che pendono, bastavano a far partire i sussurrini – è l’avanguardia, il teatro di ricerca – e l’amica Ninì, se intravedeva un sorriso compiaciuto, diceva a zia Erminia: pensa che gli avevo proposto di nuovo Beckett al sindaco (mio fratello) ma lui dice che dopo quell’infelice giornifelici ha chiuso con questi giovani del terzo teatro. Inutile dire che avanguardia, terzo teatro e teatro di ricerca erano solo parole sentite dalla moglie del notaio e madre di una ragazza che era andata a studiare addirittura in Danimarca (come se il teatro ora si dovesse studiare) con un tipo italiano della bassa Italia!

Nel pubblico c’era anche, e sempre, la coppia di intellettuali (lui docente universitario, lei insegnante al liceo locale) che aveva studiato a Firenze e che si lamentava. Prima degli spettatori compaesani ignoranti e poi del fatto che quegli stessi spettacoli, che avevano già visto a Firenze o a Roma (dove andavano a incontrare gli onorevoli compagni) lì, al paese, erano spenti, peggiori. Poi lui si lamentava (poco all’epoca) della dizione non proprio perfetta, della recitazione sciatta e delle scenografie riadattate per quel palco striminzito e che faceva assomigliare quelle rappresentazioni a quelle delle compagnie amatoriali locali. Ma si sa, la provincia svilisce, davanti a questo pubblico di commendatori democristiani anche Gassman si farebbe più basso…

Il pubblico di commendatori e commendatrici democristiani, oggi pieno di figli che “studiano” teatro non solo in Danimarca ma addirittura in Russia e Giappone, avrebbe apprezzato Zoo di vetro (di e con Arturo Cirillo) e si sarebbe sentito molto moderno e all’avanguardia per essere in grado di capire e farsi piacere Cirillo. Non viene forse dalla danza? Non ha ricevuto premi UBI, Histro e Bistrò? Inoltre, questo Zoo di vetro può vantare la recitazione “dolente” di Monica Piseddu e quella “indolente” dello stesso Cirillo. L’interpretazione della madre di Milvia Marigliano è “intensa” e canonica, da manuale (“Figure e figurine di madri esemplari”, III dvd del corso di recitazione per tutti allegato alla rivista Teatro e Teatri). Edoardo Ribatto, intenso come il personaggio di Jeff Daniels nella Rosa Purpurea del Cairo, sembra essere pronto a sbarcare su una serie televisiva di prima serata, remake del tenente Sheridan, nel ruolo del protagonista. E non manca l’armadio delle meraviglie a ricordare la Cenerentola disneyana o qualsiasi altra favola dove l’armadio è la porta di un mondo altro (le cronache di Narnia di C. S. Lewis).

E i professori? Lui avrebbe detto: ma la dizione non la studia più nessuno? E perché uno dei personaggi ha quella forte cadenza napoletana? Hanno spostato l’azione ad Afragola e non lo hanno scritto nel programma di sala? Mi ha messo su due canzoni di Luigi Tenco per farmi piangere? E la professoressa: ma cosa ti importa della dizione e della cadenza paesana? È molto più grave che ancora si metta in scena un testo, invecchiato più di zia Erminia, solo perché il pubblico possa appigliarsi a qualcosa e non perdere il filo del racconto dopo un sonno di 5 o 15 minuti. Non tutte le cose sono destinate a invecchiare bene. E anche le cose invecchiate bene non stanno bene a tutti. Questo allestimento sembra un vestito degli anni cinquanta indossato da una donna che è stata giovane negli anni cinquanta. Un vestito vintage è un bel vestito vintage se lo indossa una bella ragazza giovane, altrimenti è solo un vestito vecchio e ridicolo. Tennessee Williams che era intelligente e mondano questa cosa ce la spiattella attraverso il personaggio di Amanda. E per chiudere: è triste vedere queste quattro persone che “recitano”, ognuno nella propria bolla e non riescono mai a essere sullo stesso palco, sullo stesso testo, nello stesso momento. È triste che non riescano mai a “essere”. (… e se mi vedi piangere è colpa di Tenco e Dalilà… o della menopausa).
Ma io lo so: a zia Erminia Zoo di vetro sarebbe piaciuto proprio così e per anni lo avrebbe ricordato come uno degli spettacoli più belli rappresentati al Cinema/Teatro Excelsior.