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sabato, Dicembre 21, 2024
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LETTURA DOPPIA: 1 – IL PRO – A che punto è lo zoo?

Lo-zoo-di-vetro-2ELENA SCOLARI | Tennessee Williams. Scrive in un’epoca di forte disincanto, in un’America che riflette su se stessa e sui propri modelli, e non ne esce niente bene. Confessiamo quindi che ci avviciniamo con qualche preoccupazione, sappiamo che non si tratta di un ottimista, che ha sofferto di depressione e che i suoi testi possono lasciare l’amaro in bocca.

Lo zoo di vetro è del 1945, ma ciò che vi è detto non è così legato a quegli anni, si osserva la condition humaine in un aspetto sempre attuale – la ricerca della felicità – che allontana la possibilità di risultare datato. Lo verifichiamo grazie alla messinscena di Arturo Cirillo e alla bellissima traduzione di Gerardo Guerrieri, mettiamo l’accento sul suo lavoro perché si tratta di un elemento determinante al successo dello spettacolo e alla dissipazione della nostra diffidenza: la traduzione non è solo buona tecnicamente ma è agile, credibile, ironica e intelligente, punto di forza che ci fa sentire i personaggi più vicini. Una famiglia con Amanda, una madre opprimente ma tanto sincera nella sua infantile fiducia, la figlia Laura, zoppa e timidissima, Tom, il figlio irrisolto e incazzoso, e il suo amico Jim, ritenuto per una sera pretendente della delicata Laura. Il padre se ne è andato anni fa, alcolista.

La vicenda è uno snodarsi di dialoghi quotidiani ma con alcune massime di portata aforistica (“Il futuro diventerà il presente, il presente passato e il passato un eterno rimpianto”), all’interno di casa Wingfield. Il nocciolo è trovare un fidanzato (e quindi un futuro marito) alla trasparente Laura, altrimenti condannata ad uno zitellaggio solitario, la madre suggerisce a Tom di invitare un amico a cena e in questa tragicomica serata vedremo ancora più chiaramente gli elementi del quadro:  la nostalgia ossessiva di Amanda per la sua gioventù nell’abito assurdo che indosserà, l’egoismo di Tom che sta cercando la sua personale via d’uscita, l’impacciataggine patologica di Laura, che sviene alla vista di Jim e l’insospettata sensibilità di quest’ultimo che capirà la diversità della giovane donna, la sua fragilità unica e irripetibile. Jim non potrà diventare il suo fidanzato, lo sappiamo, ma per la durata di quella conversazione in cui lei si apre come mai le abbiamo visto fare, e in quei pochi e accennati passi di danza che sembrano un miracolo, anche noi ci crediamo. Fino alla rottura dell’unicorno. Laura ha il suo rifugio: una collezione di minuscoli animali di vetro (lo zoo), fragilissimi come lei ma che le fanno compagnia, a loro modo la proteggono perché lei sola li sa maneggiare, il preferito è un unicorno che cadrà nel momento vitale del ballo con Jim. Cadrà e naturalmente si romperà, perderà il corno ma “così non si sentirà più diverso dagli altri cavalli dello zoo”, dirà Laura. Forse anche lei si sentirà meno unicorno perché ha capito qualcosa che non aveva mai vissuto prima. Ci ricorda Pinocchio che diventa un bambino come tutti, ma col passato di Pinocchio, perché anche Laura rimarrà diversa ma più consapevole che questo non sia un difetto.

Lo spettacolo è ben recitato da tutti, Milvia Marigliano tratteggia un carattere buffo e materno, Monica Piseddu è una fantasmatica Laura, Edoardo Ribatto un Jim un po’ Fonzie ma attento e lo stesso regista Cirillo è divertente nella sua affezionata ribellione alla madre, forse butta un po’ via la tirata finale, togliendo drammaticità ad una chiusa altrimenti perfetta.

La scenografia è modesta, mobilio modesto ed essenziale, niente quinte, alcune grandi (e inutili) foto in bianco e nero con le facce dei personaggi, un grammofono che diffonderà solo canzoni di Luigi Tenco (un po’ ruffiano ma adatto). Questa ambientazione dimessa, come se fosse lì lì per scomparire, ci ha fatto pensare al genere di malinconia che sottende alla letteratura di Fitzgerald: la sensazione continua che tutto si perda nell’attimo in cui accade, nel costante sbriciolarsi della realtà tra le dita, la giovinezza senza tempo perché quando c’è non te ne rendi conto e quando la rivorresti è passata per sempre.

La Cederna, il seme e la zolla di terra

ph Francesca Padovan
ph Francesca Padovan
ph Francesca Padovan

RENZO FRANCABANDERA | Esistono talenti difficili da replicare da parte delle macchine, perché nonostante tutto la natura, il suo complessissimo sistema, l’evoluzione millenaria delle forme biologiche e le loro proprietà sono un miracolo che l’artificialità impiegherà ancora tempo per emulare e raggiungere, nella sua semplice complessità.

Se Turing nel secolo scorso aveva inventato un test per scoprire se ci si trova o meno davanti ad una macchina, adesso pare che la sfida impossibile per le macchine sia la semplicità, ossia non il riuscire ad essere potente quanto un cervello umano, ma il riuscire ad evadere dai percorsi logici preconfezionati, ad internalizzare quello che è il pensare “out of the box”. Questo vuol dire che ciò che davvero ci distingue dalle macchine, e questo vale un po’ in tutte le cose della vita, e per l’arte in particolare, è il riuscire ad un certo punto a trovare una soluzione biologicamente innovativa, fuori dagli algoritmi già presenti, e che porti all’evoluzione della specie.

Così anche a teatro, i grandi testi sono sopravvissuti perché hanno mostrato capacità adattive a punti di vista, letture, interpreti diversi.

In queste sere al teatro Oscar a Milano abbiamo assistito ad alcune repliche di Nostra Italia del miracolo (prod TrentoSpettacoli/Arkadis), tratto da Il mio Novecento di Camilla Cederna, drammaturgia e regia Giulio Costa e affidato all’interpretazione di Maura Pettorruso, senza musiche, senza variazioni di luci: solo la parola della Cederna, ricavata da centinaia di articoli e tale da costituire un viaggio nella storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, e l’attrice a darle corpo. Lei, un cestino tagliacarte grazie al quale riduce in coriandoli fogli di giornale, uno sgabello, un tavolino e poco più.

L’ambizione di un lavoro così duro sull’interpretazione è un gioco d’azzardo, un esperimento biologico estremo. Che può segnare un modo forte di pensare alla narrazione, o scivolare nella sua declinazione meno avvincente.

Per fare tutto ci vuole un fiore. Anche a teatro. Un fiore che non nasce spontaneamente in natura, ma in laboratorio deve esser messo in condizione di resistere alle serate gelide, in cui il pubblico in sala reagisce freddamente al sarcasmo del testo (da rivedere, per dare un respiro più profondo e sinusoidale all’andamento emotivo dello stesso), o che non si apra troppo nelle serate calde, in cui il pubblico si sbrodola, per poi appassire in fretta; un fiore trova nella naturalezza la sua complessità, con un’idea di sé che è già nel bocciolo e la capacità di adattarsi al mondo che lo circonda, magari prendendo il colore di un fiore vicino. Questo lavoro forse ha un’idea di sé un po’ rigida che lo rende ora come ora poco adattabile.

In fondo il fiore è l’eiaculazione di una pianta. L’incontro fra un seme e un terreno in cui germogliare. Qui c’è un seme (il testo e il progetto registico che ne deriva), c’è un terreno (l’attore e il suo lavoro su se stesso). Allo stadio attuale il primo pare necessiti di più tempo per capire bene le caratteristiche del secondo (e viceversa, ove del caso). Giusto così, per evitare un’eiaculazione precoce. O un germoglio fuori stagione.

La pianta deve avere un tempo giusto per alimentarsi del terreno (e il terreno, specie quando zolloso, di dissodarsi per cedere chimica alla pianta) e dare il meglio di sé.

Arte e sradicamento: i percorsi della migrazione per Transiti

dio minato

GIULIA MURONI | Tra coloro che emigrano s’impone la volontà di ricordare. Ma il ricordo che affiora con più insistenza è quello delle proprie ferite, a partire dalle quali si trova definizione di sé e energia vitale per fare arte. Nello stesso tempo è necessario l’oblio, l’arte di dimenticare per rendere possibile il decentramento del proprio io, lo sradicarsi della propria esistenza.

Queste le suggestioni con cui Ornella D’agostino, associazione Carovana S.M.I., presenta il suo video “Dio minato” alla serata “Transiti. Voci di donne migranti”. Serata ricca al Piccolo Auditorium di Cagliari, nata dal progetto di ricerca curato da Emanuela Cara, la quale si è occupata delle migrazioni in Sardegna di donne provenienti dal Marocco, dall’Ucraina e dalla Romania in un’ottica transnazionale, accogliendo cioè il punto di vista delle migranti e dei loro affetti rimasti in patria. Uno studio etnografico in forma di videointervista ritrae in soggettiva i volti delle donne che si raccontano. Benché i loro corpi e il loro tempo siano prestati ad un lavoro di cura totalizzante, i pensieri ritornano alle famiglie lontane, a quelle radici spezzate, potate con dolore nella speranza che crescano più forti. Divise dalle vite di figli cresciuti dalle rimesse mensili, mariti che prendono altre strade,  genitori ammalati in solitudine, raccontano storie di ordinaria sofferenza, in cui l’intervistatrice scompare per lasciare spazio e voce a queste donne che producono la propria personale narrazione di sé, finalmente come soggetti.

La Sardegna, terra che ora accoglie queste ferite, è essa stessa segnata da cicatrici, solchi profondi come miniere. Alle voci delle migranti fa da contrappunto infatti la vicenda di Maria Pani, operaia cernitrice in miniera che, portata via dalle janas (fate del folklore sardo), divenne ossidiana, basalto, granito, steatite. La sua storia di sofferenza e perdite, scritta con tocco poetico da Bruno Tognolini, è letta da Gerardo Ferraro con l’accompagnamento della chitarra di Roberto Palmas. Tognolini stesso darà una lettura efficace, cadenzata dai ritmi della parlata cagliaritana, di una nenia in rime che, a partire dalla sua vita di sardo migrante negli anni ’70 verso il continente (“Portami via, portami via Tirrenia”), percorre la propria esistenza con levità (“Il continente è un’isola più grande, le risposte divennero domande, le domande fanno buona poesia, la miseria diventò filosofia”) , fino alla migrazione della “figlia continentale che cresceva, un bel giorno cambiò e divenne nuova, divenne rospa ch’era principessa e la sorte cambiò e fu la stessa”.

lamento mareCome a dire, e questo è il vero tema della serata, che in fondo siamo tutti migranti quando ci mettiamo alla ricerca di una vita migliore, perciò nessuno è clandestino o meglio “lo siamo tutti quando questa possibilità ci viene negata”.  Il nomadismo degli artisti conduce alla riscoperta di luoghi migrati e paesaggi interrotti, in trasformazione. Con “Dio minato” , videoproduzione di Carovana SMI, regia di Ornella D’Agostino, musiche di Luca Nulchis e immagini di Raul Anderson, si ritorna nelle miniere sarde attraverso i luoghi di Su Suergiu a Villasalto (Iglesias) e nei lineamenti della cernitrice Maria Concas. È lei a raccontare, in un misto di limba sarda e italiano, i ritmi serrati, la fatica di un lavoro disumano, l’atrocità della fame. E domanda ai suoi interlocutori:” Perché portate i bambini a sentire queste cose? Sono storie troppo tristi per loro.”

La signora esprime con poche parole una questione esistenziale e artistica fondamentale: quanto ricordare le proprie ferite? Quanto trasmetterle? Fino a che punto si estende la responsabilità di tramandare e quanta sofferenza deve essere dimenticata per crescere e fare crescere?

Forse una soluzione è quella suggerita dallo scrittore cagliaritano che, erede del genio di Gianni Rodari ( così definito da Concita De Gregorio) riesce a indossare le proprie ferite e gioie con la delicatezza e l’ironia necessarie per non farne un ostacolo. Per passare sulla terra leggeri.

La privacy degli elettroni: viviamo davvero in una realtà parallela?

Incertezza_500X300ELENA SCOLARI | E se vi dicessero che gli elettroni modificano il loro comportamento quando sanno che li stiamo osservando? “È uno scherzo”, direste, “non possiamo attribuire un comportamento umano a un oggetto scientifico, che diamine”! E invece è proprio così, cari lettori, e Andrea Brunello di Arditodesìo, attore e regista con un Ph.D. in fisica teorica, ce lo spiega nel suo “Il principio dell’incertezza”, spettacolo-lezione sulla meccanica quantistica.

La meccanica quantistica? Ehm… già. Non fingeremo di aver veramente capito che cos’è questa disciplina, ma possiamo dire di aver capito quanto basta per rimanere affascinati dallo spettacolo. Richard Feynman, premio Nobel per la fisica nel 1965, ne è l’ispiratore, con i suoi scritti e le sue umanissime correlazioni tra indagine scientifica e indagine filosofica.

La scena è piuttosto spoglia, un paio di sgabelli (bruttini, per la verità) e tre grandi pannelli, due saranno lavagne su cui proiettare le formule e uno, traslucido, rivelerà il musicista Enrico Merlin, in dialogo con Brunello, che in abiti trasandati come si conviene ad ogni scienziato rispettabile, è un bonario professore che prova a spiegarci alcuni difficilissimi concetti tramite alcuni esperimenti famosi quali la doppia fenditura, gli universi multipli e il paradossale gatto di Schrödinger, che merita di essere raccontato: prendete un gatto, mettetelo in una scatola, nella scatola mettete anche una particella radioattiva e un contatore Geiger collegato a un distributore di veleno. Chiudete la scatola. La particella, nel giro di un’ora, ha le stesse probabilità di decadere e quindi di azionare il contatore Geiger che fa uscire il veleno e ucciderebbe il gatto oppure di rimanere nel suo stato e lasciare la situazione com’è. Ma finchè noi non apriremo la scatola non sapremo cos’è successo, e quindi per noi il gatto sarà sia morto che vivo nello stesso tempo! Fantastico. Si chiama sovrapposizione di stati, bello, no? Questo paradosso spiega la faccenda della privacy degli elettroni: osservare il loro comportamento influenza l’esperimento, come aprire la scatola del gatto.

Nella buona drammaturgia dello spettacolo, il gatto e la teoria dei many-worlds sono anche gli elementi che introducono il nocciolo più teatrale e più emotivo: scopriremo infatti che la bambina dello scienziato ha subito un grave incidente, ma “ci sono cento miliardi di galassie, in un’altra potrebbe essere salva”! Qui il professore farà una scelta determinante e qui capiamo quanto lo studio delle cose del mondo cerchi leggi che spieghino, con la fisica, ma anche che la oltrepassino: la metafisica.

«L’albero senza ombra»: César Brie racconta l’11 settembre boliviano

cesarVINCENZO SARDELLI | Non solo il 1973, data del colpo di stato in Cile. Non solo il 2001, data dell’attentato alle Torri Gemelle. C’è un altro 11 settembre nella storia delle Americhe. Nel 2008 nel Pando, regione della giungla boliviana, ci fu un massacro di contadini: undici morti accertati, centinaia di feriti, decine di persone scomparse, anche donne e bambini.

Nessuno aveva mai dato loro un nome, un volto, una storia. César Brie, teatrante di frontiera inquieto di verità, perseguitato da storie maledette, quell’11 settembre l’ha raccontato. Con la sobrietà lontana dal sensazionalismo di chi raspa nella sofferenza altrui. Accennando senza indugiare. Perché di fronte al dolore, delle vittime come dei familiari, ci vogliono cautela e stile.

Era questa la cifra di Viva l’Italia, storia di Fausto e Iaio, e di Indolore, pièce contro la violenza sulle donne.

Ed ecco L’albero senza ombra, di scena a Milano a Campo Teatrale. César Brie, regista e attore solo sul palco, dà voce e corpo alla storia di campesiños che rivendicavano la terra dai latifondisti. Che cercavano riparo dalle angherie. E chiedevano salari equi e prezzi calmierati. In un luogo dove i conflitti si esasperano, e i poveri rischiano di precipitare ogni giorno verso la schiavitù.

Una storia di autopsie truccate. Di violenze contro studenti che chiedevano libertà e democrazia. In un’America latina dove l’arroganza ipocrita del potere assume anche il volto della Sinistra. E muoiono pure gli squadristi, spesso degli sprovveduti disposti al primo lavoro che capita pur di tirare su tre figli. Anche quella è tragedia, che va raccontata.

Per questo Brie ama Pasolini. Che coglieva le sfumature oltre l’ideologia. Attraverso l’umanità. E scovava il dolore racchiuso dietro i sorrisi.

Com’è raccolto e delicato questo spettacolo. Con il pubblico tutt’intorno sul palco, che è un perimetro di foglie morte. Con le luci soffuse. Con l’attore in abito coloniale, e intorno funi che pendono a cappio, reggono catini di farina o abiti tipici andini. Andini come le musiche che accompagnano la performance, corredata di balli lenti o tribali o istrionici, con tanto di fazzoletto rosso. Perché in Bolivia ogni occasione è buona per ballare. E però anche le feste si tingono, a volte, di sangue.

Ma Brie anche la violenza brutale la rende poesia. Anzitutto per rispetto dei morti. Attraverso un racconto che non è mai giudizio. In terza persona, e anche in prima, che sembra l’Antologia di Spoon River. Attraverso la metafora. Con gli abiti appesi, percossi, bruciati con mozziconi di sigarette. Abiti umiliati, offesi, lasciati cadere, abbracciati, a volte colpiti da un lampo di pistola. La metafora di sacchi squarciati da un coltello; con la farina caduta spazzata e ammonticchiata, a formare piccole sepolture. E un lumino, a rischiarare la foto di un morto. E panni affogati in un secchio, scaraventati a terra. Panni di bimbi di sei o di otto anni.

Anche il lavoro in Bolivia è dolore. Quando a ripararlo è un castano, «albero senza ombra». E, lavorarci sotto, è un inferno.

Brie racconta l’uomo, le sue altezze e anche le sue crudeltà: sogni, bestemmie, compromessi, a volte atti eroici. Una storia, questa del 2008, che l’artista argentino ha riportato anche in un documentario uscito in dvd. Ed è costato a lui e alla famiglia un esilio forzato, dopo minacce di morte e intimidazioni. E la rinuncia al Teatro de Los Andes, che aveva fondato a Yotala. E il ritorno in Italia, tre anni fa. Dove continua a fare un teatro più legato al reale che alla denuncia. E c’è sempre poesia. Che, nel caso di César Brie, non è mai pretesto per l’omertà.

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Marat Vs Patrizio Oliva: La nobile maschera del pugile

Oliva (500 x 290)Bannernewsletter_ThumbMARAT | Qualcuno ci ha pure provato. Di sua spontanea volontà. Tipo Mickey Rourke. Che stanco di essere troppo bello, troppo ricco e troppo pieno di pussy, per qualche tempo ha pensato bene di rifarsi i connotati sul ring. Ma sono casi rari (purtroppo). Che non soddisfano. Più frequenti i tentativi inversi: qualche particina al cinema, qualche cameo. Giusto per dire alle bionde di essere una stella di Hollywood. Ma vuoi mettere a teatro? Che lì mica ci si può improvvisare. E se la cosa non funziona sono botte, dio che botte… E allora ci vuole coraggio. Come quando ci si scontrava con gli argentini più cattivi. Solo così arrivano gli applausi. Come all’Eliseo, a dicembre. Dove a fare il Pulcinella in “Due ore all’alba” di Luciano Capponi, c’era un nome strano in locandina: Patrizio Oliva. Ovvero, il campione dei campioni, le boxeur de la rue. Oro olimpico a Mosca quando ancora c’erano i compagni dell’URSS e poi tante (tante) altre cose. Agile e mingherlino, lo sguardo concentrato come un cartone animato giapponese. Ora dicono pure che sia bravo su quel palcoscenico. E non si fa nemmeno fatica a crederlo. Anche se alla fine è un po’ tutta una scusa. Che con ‘sti fighetti del teatro, quando mai ti ricapita di parlare di medaglie d’oro, verdetti truccati, nasi rotti e testate?

Oliva, il teatro può attendere.

«Non le parlo dello spettacolo?»

Se non ha fretta, farei prima due battute sulla boxe: mi racconti del suo primo giorno in palestra…

«Preparavo la borsa a mio fratello più grande, un campione. Ma un giorno mio padre portò anche me. “Chistu nun cresce” disse all’allenatore. E io mi innamorai a prima vista».

Ma si accorsero subito che aveva talento?

«Molto presto. Il primo fu sempre mio fratello, mentre si giocava insieme, da come mi muovevo. Ma anche Geppino Silvestri appena mi vide intuì qualcosa. Mi chiamavano “speranza vera”. Io ci avevo fatto sopra i sogni, davanti allo specchio mi proclamavo campione olimpico e mondiale dei Super Leggeri, che poi divenne la mia categoria. Mi piaceva la parola…».

Sacrifici?

«Tanti. E tanta fatica. Venivamo dalla fame più nera, gente onesta ma umile. Per andare in palestra dovevo prendere due mezzi ma non avevo i soldi. Ogni giorno mi facevo due autobus a piedi. E in palestra ci stavo dalle 14 alle 22».

Il “debutto”?

«Campionati Italiani, da ragazzino. Vinco i primi tre incontri per ko, arrivo in finale e perdo clamorosamente…».

Oliva il mattino illustratoTroppo acerbo?

«Troppo emozionato. Ero convinto di vincere e invece rimasi pietrificato. Fu la più grande lezione che potessi avere a 16 anni. In fondo devi sempre fare i conti con quella paura, l’emozione che devi imparare a controllare. È la paura che possa succedere qualcosa, la spavalderia è una maschera. Quindi chi meglio di un pugile ne può indossare una anche a teatro?»

Anche sul palco le è capitato di rimanere pietrificato?

«Capita a tutti un momento di vuoto. Incespichi, dimentichi il copione, un panno nero ti scende sugli occhi. Reagisco grazie al mio passato sul ring».

Si riprese presto dalla sconfitta.

«Passai ai senior, nonostante fossi molto giovane. L’allenatore mi disse che avremmo provato ma che se qualche avversario non lo convinceva, ci saremmo ritirati. Al primo turno pesco il campione italiano uscente…».

E son botte.

«Per lui! Fra il pubblico c’è Nino Benvenuti che mi indica come suo erede. Sui giornali esce “È nata una stella”».

Ma cosa si prova a mandare qualcuno al tappeto?

«Guarda, c’è del piacere, non lo posso nascondere. Ti sei tolto un peso e anche un pericolo. Ma non è il piacere di aver fatto male, non c’è odio, non c’è cattiveria. La prima cosa che facciamo quando abbiamo finito, è abbracciarci. Gli sport da combattimento sono sempre nobili, ci trovi un rispetto profondo».

La vittoria più bella?

«Il titolo italiano, l’Olimpiade a Mosca, il campionato del mondo. Ognuna ha la sua emozione. Sono stato anche il primo italiano campione europeo nei juniores. Quando partimmo la Federazione non aveva portato dietro nemmeno l’inno, in aeroporto li feci tornare indietro per prenderlo. Ed ebbi ragione».

Per la gloria, per i soldi o per lo show?

«Ho sempre amato le sfide, vengo dalla fame nera ma non ho mai combattuto per i soldi, mi affascinavano i titoli, le medaglie. Avevo promesso di dare un po’ di felicità ai miei dopo la morte di mio fratello. Poi ovviamente mica ero scemo, sapevo che erano cose che mi avrebbero permesso di guadagnare molto bene. Ma quando sono arrivati i soldi, in quel momento è passata la voglia di sacrificarmi».

Juan Martin Coggi.

«L’argentino, il 4 luglio 1987. E pensare che volevo ritirarmi… Mi chiedono se voglio combattere in America contro Macho Camacho per una borsa da un milione di dollari. Come potevo rifiutarmi? Io non sapevo neanche come si scrivesse un miliardo e 700 milioni di lire».

Solo che il povero Camacho si prende il suo tempo.

«Non era in forma e aveva paura di combattere subito. Così nel frattempo mi ritrovo in Italia contro Coggi. A due giorni dall’incontro ero sopra di 3 kg, non avevo più voglia. Ma mi alleno con la tuta di lana sotto il sole e rientro nel peso. Uno straccio, nello spogliatoio mi addormento. Ma sul ring, lui è terrorizzato. Purtroppo a me non entra neanche un colpo. Al terzo round mi arriva invece un cazzottone tremendo, come una scarica. E vado giù».

Cosa provò?

«Pensai: “Finalmente è finita!”. Potevo smettere. Rimango inattivo per due anni. Faccio il commentatore per TMC e si riaccende la fiammella. Così ritorno. Cambio categoria, entro nei Welter. Nel giro di quattro incontri sono campione europeo. Salta fuori una sfida con Simon Brown, un ragazzone. E io inizio ad allenarmi con sparring molto alti».

Ma prima dell’incontro lo sostituiscono con un nano….

«A Brown subentra lo statunitense Buddy McGirt, basso e tarchiato. E va be’. L’incontro è in programma a Napoli ma scelgono un arbitro americano, cosa mai vista. Un altro è in giuria, insieme a un italiano e a un messicano da 30 anni a Los Angeles… Scandalo. Prima di ogni colpo mi arrivava una testata. Al quarto round mi si spacca il sopracciglio. A quel punto capisco che è venuto a fottermi in casa mia ma di andare giù non ci penso proprio. Perdo ai punti e mi ritiro, questa volta sul serio».

Poi la si rintraccia come cantante ad Atlantic City, CT della squadra olimpica, imprenditore, istruttore…

«Devo sempre tenermi occupato, se no mi annoio».

Non so mica se il teatro è una buona ricetta contro la noia.

«Galeotta fu una partita di calcio di beneficenza. Sono lì che scherzo negli spogliatoi con Zola. Il regista Luciano Capponi mi guarda e dice: “Tu sei un grande attore”. L’ho preso per pazzo».

Un pazzo che la lancia subito al cinema.

«Mi ha insegnato tutto, mi ha insegnato a non recitare. Come la boxe. Prima un piccolo ruolo in Batterfly Zone, dove mi faccio notare. Poi decide di darmi il ruolo da protagonista ne Il Flauto: Gennaro Esposito, il netturbino della Livella di Totò. I critici, quelli importanti di Marzullo, s’entusiasmano. Il film non viene capito ma mi riempiono di lodi. Dicono che avrei fatto impazzire Pasolini».

E alla fine arriviamo al teatro…

«Mi scelgono per questo testo di cui da tempo aspettavano l’attore protagonista. Continui applausi, gente in prima fila che si commuove. E poi, come quando ero pugile, con il teatro pieno mi esalto, riesco a dare il massimo. Sto acquistando credibilità e cerco di fare onore alla boxe».

Quindi non si ritira da imbattuto?

«Ho cominciato per continuare, non certo per finire. Non l’ho mai fatto».

Se volessi pubblicare: come zittire (o no) l’Hemingway che mi urla dentro

Hemingway_1EMANUELE TIRELLI | Se volessi pubblicare 300 copie del mio libro di 140 pagine, in bianco e nero, con una qualità di stampa standard, un tipo di carta crema con grammatura 70 g/mq di formato 15×21, con copertina a colori plastificata opaca e senza alette, morbida con brossura fresata con colla poliuretanica, verrebbe a costarmi 771,00 euro, iva esclusa.

Che senso ha scrivere? Che senso ha pubblicare un libro? Perché faccio queste domande stupide?

Inizialmente mi sono sembrate molto stupide, decisamente stupide. Ma piano piano, a furia di pensarci, hanno iniziato ad acquisire una leggera dignità.

 Scrivere non ha alcun senso. Scrivere poesie, romanzi non ha davvero alcun senso se non quello di scrivere. Un autore dirà che non sa perché scrive. Scrive perché gli viene da scrivere. Anzi, è come una necessità. Sarebbe come chiedere “perché respiri?”. Eh, ne ho bisogno. Stesso discorso per ogni forma di espressione artistica. Quindi tutto ok con la prima domanda.

Se scrivo un racconto, un romanzo, una raccolta di poesie e voglio pubblicarla non incontro nessun particolare problema. E pensare che molti autori si sono dannati per i rifiuti ricevuti. Oggi si scavalca il rischio del rifiuto e si va dritti al risultato, dritti alla casa editrice, dritti dritti con il libro in una mano e un po’ di soldi nell’altra. Oggi, per pubblicare, basta rivolgersi a una delle decine e decine di case editrici a pagamento per concordare il numero di pagine, il formato, il tipo di carta… Copertina lucida? A colori? Brossura? Numero di copie? Poi si mette mano al portafogli e si ottiene in cambio il proprio libro stampato con tanto di codice Isdn. Questa però, aiutatemi, non è una casa editrice. Questa è una tipografia. La casa editrice è quella che sceglie una linea editoriale, che sceglie un libro e decide di pubblicarlo, che investe su quel libro. Investe soldi propri. Che prima della pubblicazione affianca un editor all’autore. Che segue l’autore, lo distribuisce e lo promuove. Perché? Perché ama il libro che ha scelto e perché deve rientrare dell’investimento fatto. Se invece pago qualcuno per pubblicare il mio libro, questo qualcuno non avrà alcun interesse a far sì che le vendite vadano bene, perché ha già realizzato il suo guadagno. Ma questo è ovvio, mi si dirà. Questo è estremamente ovvio.

Pubblicare un libro può essere un grande desiderio. Perché me ne dovrei privare? E poi si sa come va il mercato. Si sa come funzionano le case editrici. Pubblicano solo quelli famosi, quelli raccomandati, quelli simpatici. Allora io mi adatto e me lo pubblico da solo perché ho fatto un buon lavoro. Pensa che non volevano pubblicare nemmeno Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, Proust, F.S. Fitzgerald, Pasolini, Hemingway e tanti altri. C’è un volume chiamato “Il gran rifiuto” di Mario Baudino che ne mette in fila un po’ e li racconta per bene, ognuno con la propria storia.

Ma se pago una casa editrice, una tipografia, per pubblicare quello che ho scritto, nessuno valuterà il mio libro, nessuno dirà se merita la pubblicazione o meno, se merita di essere aggiustato un po’. Nessuno dirà se ho scritto o no un buon libro. Se quello è davvero un libro. Sì, ma Hemingway. Sì, ma…

«A-men»: Leonardi e il ritratto comico di un’umanità in disarmo

leonardiVINCENZO SARDELLI | Un uomo in cerca d’idee per risolvere la propria crisi. Uno spettacolo calato nei nostri anni: d’incertezze psicologiche ed esistenziali, ricerche ansiogene di nuove identità e di riferimenti stabili. È A-Men, gli uomini, le nuove religioni e altre crisi, il nuovo monologo comico di Walter Leonardi, che ha aperto il 2014 al Teatro Leonardo di Milano. Giusto per non illuderci che basti un nuovo anno per cambiamenti taumaturgici.

A-Men è titolo polisemico, di rassegnazione e disumanizzazione. Proietta verso l’incertezza.

E così inizia lo spettacolo. Con un uomo che parte convinto, e poi dimentica quanto stava per dire. Cerca la fuga e sbatte nella realtà. E allora inizia un viaggio dentro se stesso. Contempla le molteplici illusioni che da uomini ci imponiamo per trovare la forza di andare avanti. In una società che propone il modello dell’apparire, saremmo disposti persino a venderci un rene per una cena a base di branzino.

Tante sfaccettature in quest’umanità dall’identità amorfa. La ricerca di religioni risolutrici nel solco della tradizione, cristianesimo, islam, ebraismo, buddismo; il dirottamento verso nuovi riti, New age, Scientology, tifo calcistico. Tutti insieme nello stesso calderone.

Può capitare di non essere riconosciuti al telefono persino dalla propria madre. Allora non resta che scaricare la frustrazione trasformandoci in sciamani coperti di pelle di pecora. E rivolgerci a Steve Jobs, «padre creatore dell’i-cielo e dell’i-terra», in una preghiera che è un po’maledizione, e sgozzare l’i-pod in un rito catartico e catatonico, dal tribalismo hi-tech.

Chiacchiere da bar e invettive feroci completano questo spettacolo che Walter Leonardi ha scritto con Carlo Giuseppe Gabardini, con la collaborazione di Paolo Li Volsi.

Un monologo che spesso diventa confronto intimo a due voci, tra luci soffuse, sospeso tra dramma e ironia. Che manca di reali sfumati di poesia, nonostante gli intenti dichiarati. In fondo si tratta del classico spettacolo che si avvicina molto al cabaret, con qualche luogo comune, che non rivolge abbastanza lo sguardo verso scenari futuribili.

Anche gli espedienti scenici (ruote di bicicletta che danzano, sagome fluorescenti, finale metafisico con l’attore sperduto in un gigantesco cuscino-campana trasparente sotto le note di Across the universe) che provano a dirottare il monologo verso registri onirici di teatro di figura, sono appena accennati. Così sul piano recitativo e attoriale si poteva osare qualche variazione in più, oltre alla voce al microfono, qualche pantomima, un’uscita veloce a passo di tango e un paio di travestimenti.

Infine: è sufficiente come morale la scelta rassegnata di «restare nelle cose», di sprofondare in un divano e aspettare l’azione metabolizzante degli acari, per dare significato all’ora di spettacolo? O, peggio ancora, per rendere la vita vivibile?

Risposta non c’è. A-men.

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Se Sarti, Pugliares e Berardi annaspano in un Piccolo «Pantano»

pantanoVINCENZO SARDELLI | Un soggetto bislacco e surreale questo Pantano di Domenico Pugliares, produzione Teatro della Cooperativa, regia Renato Sarti, che ha inaugurato il 2014 al Piccolo Teatro Grassi di Milano (scene e costumi Carlo Sala, musiche Carlo Boccadoro, luci Claudio De Pace). Protagonista una donna di mezz’età, Maria/Maddalena (Cecilia Vecchio), accusata d’accidia per essere rimasta inerte di fronte alle vicissitudini che hanno portato al suicidio della figlia. A processarla e a contendersene l’anima, un povero diavolo (Daniele Timpano) e un dio poveraccio (Gianfranco Berardi).

Luogo della disputa un aldilà che è un parchetto giochi per bimbi. Con tanto di altalena, giostra e asse d’equilibrio, didascaliche allegorie di una giustizia da diporto, capricciosa e barcamenante come la dea bendata.

Un dio smargiasso, né arrogante né ipocrita, tende a chiudere un occhio sulle debolezze della peccatrice. Ironizza sulla propria perfezione e sulle imperfezioni altrui. Il diavolo invece, furbo e malizioso, azzarda argomenti sofisticati per guadagnare l’anima della defunta e prevalere su dio.

Questo il gioco di ruoli dichiarato. Perché, nella realtà, i due re dell’oltretomba sembrano pappa e ciccia. Machiavellicamente leonini e volpini, rievocano il Gatto e la Volpe di collodiana memoria quando, nei panni di due straniti Teletubbies, mettono in scena una buffa pantomima tra buona e cattiva coscienza. La prima si mostra sognatrice e idealista; la seconda cinica, cruda e sarcastica. Il costume giallo identifica la buona coscienza, colore dell’estroversione ma anche della razionalità vitale; il rosso la cattiva coscienza, loquace, passionale, in qualche modo aggressiva.

Chiaro il teorema della pièce. La giustizia è arbitrio irragionevole. Non tiene conto delle sfumature. Oscillante come la vita, conduce in alto, per poi lasciar cadere alla cieca. Non segue ratio né costrutto. Confonde in un magma indistinto il bene e il male,

Una regia tutta giocata sul grottesco quella di Renato Sarti. Che cerca invano di dare spessore a un testo inconsistente, ripetitivo, dalla dialettica mediocre, con qualche luogo comune di troppo che i toni lievi non bastano a legittimare. Estemporanee citazioni dantesche non nobilitano il copione.

La protagonista, che dovrebbe giustificare la propria inerzia, ora muta, apatica, stralunata, ora istericamente logorroica, è in realtà una povera donna reduce da un’esperienza in manicomio, mezzo narcotizzata. È messa peggio della figlia che, almeno nella scelta del suicidio, si è mostrata libera e assertiva. I due re la giudicano ricorrendo ad argomenti avvitati e circoli viziosi. È da capire il senso di processare una persona mentalmente inferma, dal passato complicato, nella sostanza incapace d’intendere e di volere.

I dialoghi non sono dosati. Monologhi verbosi e ridondanti s’alternano a silenzi ebeti e derisori.

Il registro comico non lascia il minimo spazio a momenti d’elegia e di pathos. Che pure c’azzeccherebbero, dato l’argomento trattato.

Non resta che affidarsi all’abilità degli attori: recitativa di Timpano, con l’estrosa alternanza di falsetto e toni petulanti, con l’aggiunta di qualche tic nervoso; scenica di Cecilia Vecchio, di corpo e di mimica; fisicamente istrionica, con qualche acrobazia di troppo volta a impressionare il pubblico, di Gianfranco Berardi.

Un’occasione persa? Forse. Ci si aspettava di più da un autore come Pugliares, che finora le aveva indovinate un po’ tutte, supportato alla regia e alla drammaturgia dal navigato stratega Renato Sarti, nell’occasione non abbastanza ispirato.

Berardi, Vecchio e Timpano avrebbero dovuto aggiungere il tocco da dream team. E invece troppe stelle non fanno squadra. Talora si stordiscono a vicenda. Magari per la sicumera che neppure spinge a provare e a limare il necessario. O forse perché, tra talenti, si finisce troppo per fidarsi delle sensazioni altrui. Si tende a delegare. Col rischio di rimediare, a volte, figure un poco magre.

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Il teatrino dei pupi nell’incanto senza tempo di Ariosto

CuticchioLAURA NOVELLI | Nella cartolina pubblicitaria che ci viene consegnata a fine spettacolo, lo si vede ritratto tra una varietà multicolore di pupi siciliani (cavalieri, dame, imperatori, musicisti, popolane), dai quali affiora il suo volto omerico, paterno, affascinante, e tra i quali lui, capelli e barba ingrigiti dal tempo, quasi si confonde. Mimmo Cuticchio, l’ultimo “cuntastorie” doc del nostro teatro, è un artigiano delle scena. Uno che quei pupi li sa costruire con le proprie mani, dipingendo volti, cucendo vestiti, legando i fili grazie ai quali essi prendono vita, dando voce a ciascuno di loro.

Ma Mimmo Cuticchio, figlio d’arte e allievo prediletto di Peppino Celano, è pure un pensatore, un ideologo del teatro, il signore indiscusso di un genere “basso” (l’Opra dei pupi e il “cunto”) che ha saputo miscelare poeticamente sapienza antica e modernità, tradizione e innovazione. Un rivoluzionario che ha fatto piazza pulita degli ovvii stereotipi ad uso e consumo dei turisti e che, venuto meno il consueto milieu delle strade e piazze di un tempo, ha lavorato affinché il suo teatro entrasse nei programmi delle sale istituzionali, nei cartelloni affollati di prosa, nei circuiti convenzionali. Il segreto di tanto successo? Forse semplicemente la capacità di provocare incanto. L’incanto solenne di un racconto, e di un modo di raccontare, che ogni volta ricapitola la nostra storia, ci riannoda alle radici della nostra civiltà, ci riconsegna ai luoghi mentali da cui proveniamo, schiudendo un immaginario infantile – evviva – che si sposa con il ritmo di una voce mai stanca di cambiare tono, di caratterizzare ogni singolo personaggio, ogni singolo passaggio emotivo.

Anche quest’anno, la compagnia Figli d’Arte Cuticchio (www.figlidartecuticchio.com) è tornata nel carnet delle proposte natalizie messe in campo dall’Auditorium Parco della Musica di Roma con un doppio intervento: il concerto “Quaderni di danze e battaglie nell’Opera dei Pupi” eseguito dal Giacomo Cuticchio Ensemble e lo spettacolo “Astolfo nell’isola d’Alcina”. Dunque, ancora una volta la materia prescelta è l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto: opera monster del nostro Rinascimento (e vale la pena ricordare il celebre allestimento che ne fece Luca Ronconi a Spoleto nel ’69, nonché la ripresa televisiva girata dallo stesso regista a Caprarola cinque anni dopo) che trascina l’epica medievale fuori dallo schematico tema bellico per aprirla all’amore, alla follia, al mistero, all’etica cortese e, in fondo, alla contemporaneità.

In un Teatro Studio gremito di adulti e bambini, il palcoscenico lascia il posto a un teatrino più piccolo, dietro il cui siparietto rosso e oro si aprono scenari dai paesaggi fiabeschi. La musica, composta da Giacomo Cuticchio (figlio di Mimmo), arriva dal vivo. Il puparo palermitano introduce lo spettacolo con uno brioso duetto meta-teatrale tra due litigiosi personaggi popolari. Poi, ci trasporta in un altro tempo, in altro luogo. Con la sola forza della sua voce, della sua presenza, con la gestualità quasi fisiologica di queste marionette mosse a vista da lui e dagli altri giovani membri della compagnia (lo stesso Giacomo Cuticchio, Fulvio Verna e Tania Giordano), ci fa risalire a certi snodi emblematici del poema ariostesco, parlandoci di innamorati in cerca l’uno dell’altra (il filone di Rinaldo e Bradamante), di battaglie tra Franchi e Saraceni, di incantesimi misteriosi (Astolfo trasformato in albero da Alcina), di maghe potenti destinate a fallire, di diavoli troppo legati alla Terra per ignorarne le sorti. Non siamo cortigiani del ‘500, eppure restiamo incollati ad ascoltare, a guardare questi spadaccini con corazza e pennacchi, questi mostri di stoffa dall’aria innocua, questi baci sospirati che danno ragione alle peripezie più sfrontate.

Ci meravigliamo di essere lontani dai frastuoni e dagli effetti speciali delle epopee cinematografiche; lontani dalle guerre digitali, dai mostri disegnati al computer, dalla spade laser e i mondo paralleli. E ci piacciono i fondali variopinti cambiati di volta in volta con naturalezza disarmante, il gioco manifesto delle diverse inclinazioni vocali proprio del puparo, il suo ritmo a tratti veloce a tratti lento. Ci piacciono le uscite dalla finzione, le parole rivolte direttamente al pubblico, gli ammiccamenti semiseri con cui questo puparo divertito e appassionato sperimenta il suo teatro su di noi. E ci piace la pacatezza che domina questo lavoro, forse meno concentrato sulla tecnica del “cunto” rispetto a precedenti allestimenti; una pacatezza saggia che ci richiama alla lentezza e alla voglia di infanzia. Incanto, appunto. Ma anche candore. Necessità di credere spassionatamente e fiduciosamente nel bisogno di  raccontare/ascoltare. Mentre scrosciano gli applausi finali, ci torna in mente una frase citata da Cuticchio qualche anno fa durante una conferenza stampa, quando disse:  “Se ti domandano come finisce una narrazione – si legge in un antico testo iraniano – tu rispondi: con la conquista dei cuori; se i cuori non l’accettano, il narratore non potrà mai portare a buon fine il suo proposito”.