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sabato, Dicembre 21, 2024
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Quanto teatro di Eduardo nel racconto sinfonico “Padre Cicogna”!

Padre Cicogna 070LAURA NOVELLI | Ogni volta che ci accosta a un’opera di Eduardo, ci si accorge di quanto teatro egli abbia scritto anche ad di fuori del teatro, nelle poesie, nelle lettere, nei racconti. Ci si accorge, cioè, di come il linguaggio e la sensibilità teatrali che gli erano propri, che gli appartenevano in modo istintivo e viscerale, abbiano garantito alla sua scrittura non solo un’adesione piena alla vita ma anche e soprattutto quell’unità di temi, di situazioni, di considerazioni sull’uomo che rappresenta la forza più audace e più duratura della sua intera produzione. Alla sorgente di questo vigore vi un profondo senso di pietas: compassione per i suoi simili e per i più fragili, ostinato disprezzo per le ingiustizie e i soprusi, ribellione contro l’ipocrisia delle relazioni sociali e del potere ne ispirano i destinatari/personaggi componendo nel loro insieme, sempre e comunque, uno straziante scorcio di umanità, di voi, di noi. E se questo grumo di sapienza umana, questo incessante chiedersi come sopravvivere malgrado il dolore, innerva tutti i suoi capolavori per la scena, non di meno rifulge nei testi più brevi, nei versi scritti tra una commedia e l’altra.

Esempio ne sia lo splendido poemetto “Padre Cicogna”, composto nel ’69, che Luca De Filippo e Nicola Piovani (autore delle musiche) hanno trasformato in un racconto musicale di respiro sinfonico (con numerosi intarsi di musica etnica) dove orchestra, cantanti (soprano, mezzosoprano, baritono e basso) e voce recitante (lo stesso Luca) restituiscono l’idea di un corpo organico capace di drammatizzare la storia, non scevra da declinazioni grottesche, anche in assenza degli attori. Come se, cioè, la musica stessa si incaricasse di “trainare”, allargare, rendere viva e presente la materia poetica del testo, facendole prendere il volo, sublimandola in una poesia di note e parole che aggiunge senso alla già emblematica trama. Sarebbe a dire la vicenda, umanissima e dolorosa, di un prete spretatosi per amore di una donna che, al fine di scongiurare la temibile vendetta divina, promette al Signore di mettere al mondo tre figli maschi e di chiamarli come i tre magi, Melchiorre, Baldassarre e Gaspare, così da omaggiare, ad ogni nuovo Natale, la nascita del Bambinello e di cantare in suo onore “Tu scendi dalla stelle”.

Un’ossessione natalizia quella di quest’uomo tarchiato, con i capelli sale e pepe, che ha il coraggio di mostrarsi nudo davanti al crocifisso, spoglio di pregiudizi e menzogne (siamo nel folgorante incipit), che ricorda dunque molto da vicino l’ossessione per il presepe di Luca Cupiello, il protagonista di “Natale in casa Cupiello”; e sono infatti diversi i momenti in cui “Padre Cicogna” evoca atmosfere e tematiche di quel capolavoro (tornato quest’anno sulle nostre scene in una coraggiosa rilettura di Fausto Russo Alesi recensita per PAC da Elena Scolari), capovolgendo la religiosità in frustrazione, il bisogno di comprensione in sconfitta, la ricerca di una rispettabilità sociale ed affettiva in  solitudine, lo slancio verso la vita in un inspiegabile viaggio verso la morte.

Il povero Emanuele Palumbo e sua moglie Caterina, divenuti genitori di ben sette bambini,  non riusciranno infatti a tenere fede al voto; anzi, si vedranno costretti a seppellire molti dei loro figli, morti prematuramente di malattia e o in seguito a cadute rovinose, mentre intorno al loro strazio crescerà sempre più il muro dell’indifferenza, della condanna, del rifiuto. Nessuna compassione da parte della Chiesa. Nessun conforto da parte dei vicini di casa, un tempo amici. Ma oltre ai fatti colpisce, in questo sconcertante quadro di tragicità quasi classica, la lingua di Eduardo: quelle descrizioni così puntuali, così commosse; quelle illuminazioni filosofiche sull’esistenza (“Chistu fatto è succiesso…/ e s’è mmiscato /mmiez z’a tant’ati fatti ca succedono”); quelle pause così necessarie; quelle frasi ripetute a ritmo salmodiante. E colpisce parimenti la forza narrativa con cui la musica anima il testo, ne intercetta lo schema metrico e lo traduce in brani cantanti che vi aderiscono pienamente, accompagna gli scarti emotivi più decisi, amplia la vividezza di personaggi. Basti considerare, ad esempio, il “tema” di Padre Cicogna, il lamento funebre della madre (affidato al canto e al “grido” straziante della chitarra elettrica), i numerosi brani canori della tradizione natalizia partenopea riadattati ad hoc dal compositore e l’intensa ninna nanna tratta da una poesia che Eduardo dedicò proprio al figlio: “Si te parlo / me parlo”  (www.attikmusic.it/contenuti/videowatch.asp?id=peoSffj2nWU&amp).

Lo spettacolo, debuttato al Teatro San Ferdinando di Napoli il 20 dicembre 2009 in occasione del 25° anniversario della scomparsa del grande autore e attore, ha poi replicato al Teatro Carlo Felice di Genova, al Teatro Dal Verme di Milano, al San Carlo di Napoli, al Teatro Greco di Taormina, nell’Anfiteatro Romano di Lecce, per poi approdare, l’11 e il 12 dicembre scorso, al Petruzzelli di Bari (con l’orchestra del medesimo teatro e i cantanti solisti Susanna Rigacci, Susy Sebastiano, Pino Ingrosso, Masuto Utzeri), dove è stata anche effettuata una ripresa televisiva andata in onda su Rai1 il 28 dicembre alle 23.45.

Chi tira tardi la sera davanti al piccolo schermo avrà forse avuto la “fortuna” di seguire la trasmissione. E senza dubbio avrà notato che uno spettacolo così importante, appeso tra “Super Brain” e il Tg1, non ha “meritato” neanche cinque minuti di introduzione o di spiegazione successiva. Persino “Applausi” di Marzullo (in onda subito dopo il telegiornale) ha “dimenticato” di riservare spazio all’evento. Un vero peccato. Ma anche un chiaro segno dei nostri tempi approssimativi e superficiali. E c’è da rimanere ancor più sconcertati se solo si considera con quanto amore lo stesso Eduardo abbia curato le riprese televisive dei suoi capolavori teatrali. Tuttavia ci consola il fatto che, palinsesto Rai a parte, questo “Padre Cicogna” gli sarebbe piaciuto sicuramente. E gli sarebbe piaciuto anche per la sua coralità, per il contributo di tutti gli artisti e i musicisti coinvolti. Per l’interpretazione sobria, amara e in fondo disperata regalataci da Luca.

Gadda nel corpo-mente di Gifuni: lo spettacolo si fa anche lezione

f.gifuni - Foto Marco Caselli NirmalLAURA NOVELLI | Lunedì 16 dicembre. Il teatro Vascello di Roma è affollato di gente e il pubblico impiega diversi minuti a prendere posto in sala. Tanti i nomi noti del mondo della cultura e dello spettacolo. Tutti qui per l’evento conclusivo della rassegna “Le vie dei festival”, quest’anno coraggiosamente ricca e originale malgrado la crisi. Stasera Fabrizio Gifuni recita-interpreta-spiega-racconta-dice le parole di Gadda, il suo Gadda, in una lezione/spettacolo intitolata “Gadda e il teatro, un atto sacrale di conoscenza” da lui stesso ideata e già proposta in diversi contesti. Un lavoro anfibio, a metà strada tra la conferenza e l’assolo recitativo, la distesa dizione didattica e l’articolato impasto espressivo della recitazione; un lavoro che sembra provenire direttamente da quel “L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro” del 2010 dove, incrociando opere gaddiane quali “I Diari di guerra e prigionia” ed “Eros e Priapo” con l’”Amleto” di Shakespeare (su regia di Giuseppe Bertolucci, come era stato per il precedente “’Na specie de cadavere lunghissimo” dedicato a Pasolini), il bravo attore romano ci regalava un implacabile j’accuse contro la demenza della guerra e della tirannia fascista: un lucido affondo nel dolore privato e collettivo di un popolo, il nostro, ridotto in macerie e dunque chiamato, ieri come oggi, a un riscatto necessario.

La prova di stasera, non a caso, riparte da qui. Allarga l’esplorazione intellettuale ad altri testi del grande autore milanese e ne cuce insieme i diversi brani facendo esclusivamente leva su un corpo-a-corpo con la lingua che non si accontenta di restituirla nella sua forza e nella sua complessità (“dissipiamo il mito – dice Gifuni – che la lingua di Gadda sia complicata, il suo mistero non sta nell’essere difficile bensì complessa, leggibile a livelli diversi”) ma che intende anche spiegarla, raccontarla dall’interno della biografia gaddiana stessa, partendo dai nessi tra vita reale e vita letteraria, dai rapporti tra opera e opera, “perché questa scrittura nasce essenzialmente da una ferita” (quella della prima guerra mondiale).

Solo in scena, avvolto nel vuoto dell’ampio palcoscenico (lo riempiono un microfono ad asta, una sedia e un tavolino con sopra dei libri) e accompagnato da qualche gioco di luce, l’interprete si fa dunque maestro e dicitore, alternando momenti di diretta interlocuzione con il pubblico a momenti recitativi decisamente sovraesposti, quasi espressionistici. Non cerca una via di mezzo, Gifuni, ma si carica di quella lingua, con tutte le sue inflessioni dialettali, le sue virate surreali, i suoi barocchismi, i suoi neologismi, e la traduce in gesto, voce alterata (dal milanese al romanesco al campano), mimica decisa: corpo – appunto – complesso.

Il repertorio spazia in numerosi titoli, anche poco noti, e sembra organizzato con il chiaro intento di far capire la genesi dei capolavori gaddiani nonché il progressivo sviluppo di alcuni temi forti. La drammaturgia inizia con il racconto “Quando il Girolamo ha smesso” (edito nella raccolta “L’Adalgisa”) che indaga “il plasma germinativo della gente e dei milanesi” raccontando le vicende della famiglia Cavenaghi e poi passa alle splendide note“pre-letterarie” del “Diario di guerra e di prigionia” (dove Gadda rievoca la drammatica esperienza di Caporetto, la sua prigionia in un campo tedesco, la morte del fratello) fino ad arrivare ad alcune pagine de “La cognizione del dolore” (“qui lo scrittore è un Amleto novecentesco”) e ad alcuni scorci de “Il pasticciaccio brutto di via Merulana” ed “Eros e Priapo”. C’è tempo poi per riflettere – e sorridere – grazie ad altri brevi racconti, uno dei quali dedicato proprio al teatro (o meglio, all’opera lirica) e spumeggiante di arguta ironia. Nel complesso, dunque, un percorso gigantesco per linguaggio, personaggi, idee, riflessioni, snodi interpretativi. E in questo viaggio, atteso a Torino il 24 gennaio, Gifuni (www.fabriziogifuni.it) non perde mai la bussola; padroneggia anzi la sua materia come se la possedesse nel suo dna e la volesse svelare, far nascere, sotto gli occhi del pubblico. A tratti si avverte un eccesso di istrionismo un po’ stonato; elemento che tuttavia non compromette l’indubbio valore culturale di un’operazione/“idea-zione” forse non adatta a tutti i pubblici ma che certamente può provocare in tutti i pubblici innumerevoli curiosità intellettuali. Per cui meriterebbe di essere vista da tanti, tantissimi giovani.

La realtà elencata di Babilonia Teatri: parole e corpi per resurrezioni possibili

babilonia_teatriNICOLA ARRIGONI | «Per noi il teatro ha ancora senso di esistere se può ancora essere specchio della società in cui vive. Della realtà in cui è immerso. Del mondo che esamina e che lo genera», scrivono Enrico Castellani e Valeria Raimondi di Babilonia Teatri. E a dare concretezza a questa professione di estetica è quanto Castellani ha dichiarato in merito allo spettacolo Pinocchio, realizzato con l’associazione Gli Amici di Luca: «Volevamo fare Pinocchio, ma poi le storie di Paolo, Riccardo e Luigi hanno avuto la meglio e la storia collodiana è rimasta sullo sfondo». Paolo, Riccardo e Luigi sono la realtà che irrompe nella finzione del teatro e lo fa deflagrare, sono i corpi strappati alla morte, sono il risveglio dal coma. «Spesse volte abbiamo la netta impressione che la parola abbia un potere deflagrante. Che i nostri corpi sulla scena non abbiano la possibilità di raggiungere un grado di verità e di violenza in grado di eguagliare la forza della parola – scrivono Castellani e Raimondi -. Il peso specifico delle parole risiede nella modalità con cui vengono accostate e nell’atteggiamento con cui vengono dette». Parole e corpo in Pinocchio erano un tutt’uno, le parole vestite dei corpi hanno fatto cortocircuito estetico, dando emozioni e costruendo verità. Forse proprio nei momenti di passaggio – sia questo la fine di un anno e l’inizio del nuovo – interrogarsi sul linguaggio, mettere alla prova significato e significante rappresentano un modo per cominciare a elaborare un nuovo senso di realtà, iniziare a scardinare quella esistente per inventarsene un’altra, per ipotizzarne – attraverso il linguaggio della scena – un’altra possibile, più vero, poetica, autentica, in grado di sollecitare un’etica dello stare al mondo.

In questo senso Babilonia Teatri rappresenta e incarna – forse più di altre compagnie dell’ultima o penultima generazione teatrale – l’urgenza di dire la realtà, di mostrarla attraverso quel particolare punto di osservazione, o meglio messa in azione che è il teatro. Non è un caso che parlando di Babilonia Teatri si parli in modo quasi esclusivo di linguaggio, laddove parole e toni, corpo e presenza sono un tutt’uno esplosivo, come è accaduto nel recente Pinocchio che pure segna uno stacco non indifferente dai precedenti lavori. E non solo perché in scena c’erano Luigi, Paolo e Riccardo, uomini riemersi dalla non-vita del coma, ma perché il punto di partenza è altro rispetto alle parole che fanno mondo, un po’ come sta accadendo con la discussa Lolita, in tournée in questi mesi. A interrogarsi sul linguaggio dei Babilonia Teatri è Stefano Casi nel volume Per un teatro pop, edito da Titivillus (194 pagine, 16 euro), cui pare logico affiancare Almanacco I testi di Babilonia Teatri di Enrico Castellani e Valeria Raimondi, sempre per i tipi di Titivillus (118 pagine, 12 euro). Le due pubblicazioni danno conto di una professione estetica ed etica documentata nell’analisi critica dell’attività di compagnia e nella proposta editoriale dei testi della compagnia: The end, Made in Italy, Pornobboy e Underwork, pubblicati in un ordine inverso rispetto alla loro genesi scenica. Babilonia Teatri con il loro procedere per accumulo, con la tentazione stilistica e non solo di catalogare, elencare la realtà sono espressione del disagio della civiltà contemporanea, incarnano con poetica determinazione la condanna che accomuna tutti noi: costretti ad elencare ciò che ci circonda, costretti a un ‘collezionismo verbale’ che ci possa tracciare una mappa concettuale e di pensiero di una realtà che non può essere più univoca, ma che si declina e si realizza negli accostamenti verbali, nel ritmo del dire, nello spazio esploso di un teatro che graffia e va in cerca di un pensiero sulla realtà. E dunque non è un caso che Almanacco si apra con The end, il testo che al fianco di una elencazione della realtà, di quella pulsione a catalogare «svela risentimenti emotivi più partecipati e apre ai toni di un’invettiva che attinge a riferimenti biblici e poetici per invocare un azzeramento sostanziale della spettacolarizzazione mediatica, in vista della rinascita autenticamente vissuti, da affidare alle vite future», scrive Cristina Valenti nella nota introduttiva La fabbrica della realtà.

La realtà catalogata, elencata non può bastare. Sulla pagina scritta come in teatro le parole di Babilonia Teatri scottano, sono dei pugni nello stomaco, sono brandelli per un tutto, sono lacerti di carne e anima che ci rappresentano e in cui – con ironico fastidio – ci rispecchiamo. I ragazzi di Babilonia Teatri sono lì a testimoniare la nostra deriva, sono lì a gettarci in faccia rabbia e disillusione, ma mai la rassegnazione. Sono degli inguaribili ottimisti Enrico Castellani Valeria Raimondi, lo sono nella messinscena della morte senza risurrezione, lo sono nella maternità compiuta di Valeria Raimondi che dà prospettiva e futuro e sconfigge la morte. In questa umanissima voglia di ‘resurrezione possibile’, di un’escatologia laica che ci dia senso e finalità, oltre che consapevolezza della nostra finitudine, non si può non recuperare nella memoria l’immagine di quei tre uomini/burattini in Pinocchio che nel loro muoversi a fatica commuovono, corpi che tornano ad agire, mossi da un burattinaio invisibile, mentre a lato della scena l’abbondante Pinocchio di Luca Scotton che li guarda, come se tutti loro fossero quel burattino lasciato in disparte dopo che finalmente Pinocchio s’è fatto bambino… In questa immagine – a suo modo una resurrezione possibile – la realtà elencata di Babilonia Teatri diventa possibilità agita, nuovo mondo, nuova opportunità in cui il teatro esiste intensamente perché dimostra – ogni sera – di essere una realtà accresciuta, una realtà possibile, proposta, da accettare o rifiutare, ma difficile da ignorare.

Stefano Casi, per un teatro pop. La lingua di Babilonia Teatri, Titivillus, 2013, pagine 196, 16 euro.

Enrico Castellani – Valeria Raimondi, Almanacco. I testi di Babilonia Teatri, Titivillus, 2013, 118 pagine, 12 euro. 

Reading Club: cultura digitale a Parigi fra spettacolo e lettura

L411xH345_jpg_annie-285c2SIMONA POLVANI | Per raggiungere il Jeu de Paume, si costeggiano le mura del Jardin des Tuileries dalla parte di Place de la Concorde, sfolgorante. È qui che va in scena Reading Club “Avant et Maintenant”, Raymond Queneau, uno degli eventi performativi dell’esposizione online “Erreur d’impression. Publier à l’ère du numérique” (fino a marzo 2014), curata da Alessandro Ludovico.

Due schermi sono posizionati sulla parete di fronte alla platea, sotto, dietro una lunga scrivania, davanti a due computer, sono seduti Emmanuel Guez e Annie Abrahams, gli ideatori di Reading Club. Spiegano le regole del gioco. È stato scelto un brano di Queneau, dai suoi celeberrimi “Esercizi di stile”. In contemporanea si svolgeranno due performance, una sul testo originale in francese e l’altra sulla traduzione in inglese. Per ognuno, quattro autori non presenti in sala, in un tempo stabilito di venti minuti, saranno impegnati ad agire a distanza sul testo, che non potrà mai superare i 1.300 caratteri.

Dal momento in cui la performance ha inizio, nella penombra lucida della proiezione, immersi nell’ambiente sonoro elettronico e ipnotico creato per l’occasione da Christian Vialard, i testi di Queneau diventano mobili, colorati, mutano. Da subito l’originale si frattura, sotto le sferzate di serpentine di parole evidenziate in rosso, blu, verde, fucsia, giallo, arancio, rosa, viola (ogni lettore ha un colore identificativo per la scrittura), frasi ficcate d’impeto nel testo, inserite seguendo il filo semantico di Queneau, o trapiantate come corpi estranei. Assistiamo a tutta una gamma di manipolazioni, riconosciamo varie figure retoriche all’opera, registri e toni, per un testo fluttuante che si smaglia e ricompatta ad ogni secondo. Lettura, riscrittura e cancellatura, lire, récrire et effacer: sono i gesti febbrili che percepiamo. Ogni autore fa esercizio di un’azione che può apparire arbitraria e violenta, cancellare lo scritto altrui. In questa ludica battaglia, si sentono dietro i Fight, i pugni. Il mio occhio di spettatrice segue vorace gli schermi. Difficile afferrare l’insieme, seguire le due azioni in simultanea, ci si sforza per non perdere niente, una parola che cambia, un rigo e un colore che scompare, con il disappunto per dover rinunciare a una frase che ci ha toccati. Accade che un autore entri nel tempo della performance con una sorta di countdown, che rivolga domande alla platea, o che ti folgori con un commento così: “ça a toujours quelque chose d’extrême un poème” (ha sempre qualcosa di estremo una poesia).

Quando, allo scoccare dei venti minuti, tutto si ferma, siamo colti di sorpresa. L’attenzione completamente assorbita dalla metamorfosi dei testi, si è impreparati. Abbiamo fatto esperienza estetica di un tempo denso e vivo che richiede estrema attenzione, mettendo in tensione, e insieme scorre alla velocità del lampo.

Sugli schermi i testi adesso sono stabili, non si muovono più, in apparenza. Lontani da quello dell’origine, che difficilmente potrà riconoscersi, come un’immagine in uno specchio frantumato, hanno tuttavia una fermezza e solidità relativa. L’impressione è che messi in movimento dai lettori-autori, procedano ormai con moto inerziale, destinato a non arrestarsi, e come se ogni parola aggiunta fosse un cratere di vulcano aperto, pronto a eruttare altra energia.

Decido di seguire on line la sessione del 6 dicembre a Oudeis, Le Vigan, nell’ambito di NOW HERE, quinta edizione dei Rencontres des arts numériques, électroniques et médiatiques. Non ci sono autori in rete. Per la prima volta è proposta una installazione in cui persone del pubblico sono invitate a sessioni di 15 minuti su uno stesso testo, con differenti obblighi di lettura/scrittura. L’autore scelto è Marshall McLuhan. Su un estratto dall’opera “Counterblast” (1959), i lettori si confrontano con esiti alquanto straordinari, in cui l’espressività di McLuhan e il suo pensiero sull’avvento della stampa, della radio, della televisione, messe in connessione con lo sviluppo sensoriale, si prestano all’invenzione pura, alla riflessione, all’attualizzazione. “Et un iphone ? avec des petites touches à écriture automatique ? On choisit les mots pour toi au cas où tu ne saches plus écrire ou simplement penser” (E un Iphone? Con tastini a scrittura automatica? Sceglie le parole per te in caso tu non sappia più scrivere o anche solo pensare) è uno dei commenti immessi nel testo, a evidenziare il paradosso della relazione con alcuni strumenti tecnologici a tutti gli effetti ormai nostre estensioni-protesi, che con l’intento di semplificarci la vita, rischiano di compromettere alcune delle facoltà primarie che ci rendono uomini.

Guardando all’esperienza delle varie sessioni, Reading Club mette in atto un processo di lettura e scrittura che si fa e si disfa incessantemente. Presenta una commistione di varie istanze, in cui ogni lettore pare influenzare ed essere influenzato dal processo stesso. Il testo punto di partenza diventa territorio in cui misurarsi con se stessi e con gli altri. Il testo punto di arrivo è un crogiolo di stili, idee, tracce per tanti altri testi. Un’opera composita e dis-organica (ed in ciò risiede la sua forza), con interpunzioni metaletterarie – la consapevolezza di stare partecipando a una riscrittura, il riferimento spesso presente ai vari obblighi, il tempo che trascorre – contaminazioni con la presenza dell’altro, lontana o faccia a faccia.

Se una delle caratteristiche della performance è costituita dal corpo del performer che si mette in gioco e rischia, in un continua esposizione all’azzardo se non al pericolo, il performer-autore, il cui corpo materiale è invisibile oppure al sicuro, si espone con il corpo delle parole, che acquistano fisicità sensibile in quel corpo a corpo, farsi spazio per esistere, e nella condanna a morte tramite la cancellatura, ossia nella scomparsa. Performative e performer siano le stesse parole, oggetti on line e visibili, che sorgono, si manifestano, scompaiano o rimangano, e danno senso, con la loro presenza o il vuoto che lasciano.

Nel mal d’autore e di personalismo presenzialistico nella nostra era social network, Reading Club configura un modo di “essere assieme” nel web in cui l’identità personale lascia spazio alla comunità, l’individua(lizza)zione alla collettivizzazione per una nuova forma di esperienza artistica in cui l’autore è un soggetto partecipato.

Elena Bucci sulle tracce della Duse: alla ricerca dell’essere attrice e donna

Elena Bucci-Duse-foto Nomadea 10LAURA NOVELLI | Un assolo concertato. O meglio: un concerto per corpo e voce che riscrive la biografia di Eleonora Duse sulla fisicità e la vocalità di un’attrice profondamente intensa quale è Elena Bucci. Affidato alle sue corde espressive questo “Non sentire il male” – lavoro de “Le Belle Bandiere” ideato oltre dieci anni fa e mai abbandonato da allora, tanto da divenire un compagno di viaggio in continua trasformazione – suggerisce l’idea di un affondo dentro di sé attraverso la passione, l’ardore, l’idealismo, la forza, la modernità della più grande attrice italiana di tutti i tempi. Il terreno su cui si gioca l’incontro tra le due artiste, l’attrice di ieri e quella di oggi, non può ovviamente che essere il teatro. Tanto che esso non solo costituisce qui la materia del monologo ma ne rappresenta la sostanza formale stessa, la sua “stoffa”, in una armonica tessitura tra il filo “di cui si parla” e il filo “attraverso cui si parla”.

E a parlare per prima è la voce della Bucci/Duse: pura voce che nel buio vuoto del palcoscenico precede l’entrata in scena dell’attrice, quasi a voler definire sin da subito lo spazio “altro” dove si muove l’arte, e dove l’arte autentica sublima – appunto – la fisicità dei suoi stessi artefici. Ma questo corpo sottratto, timido, cauto che occupa senza fretta il recinto ombroso della recitazione, in uno splendido gioco di luci disegnato dal compianto Maurizio Viani (e reso possibile dal bravo Max Mugnai), ricorda innanzitutto – o semplicemente – lo stile della Duse. Uno stile nervoso, tremante, sottoesposto, spezzato, che tanta novità portò sulla scena italiana di fine ‘800, monopolizzata dal carisma istrionico del grande attore e, ancor più, da quello statuario della “grande attrice”.

Scrivendo per e su se stessa la drammaturgia della piéce, la Bucci (che ha rielaborato lettere autografe, documenti d’archivio, recensioni senza rinunciare però ad una propria libera visione) ci tira dunque immediatamente dentro la genialità controversa, e spesso incompresa, della sua eroina. Ne anticipa la cifra stilistica con la sua assenza/presenza iniziale. Ne veste i panni con assoluta compenetrazione, scivolando in un lungo cappotto scuro che poi lascerà scoprire un fasciante abito da sera. Ne racconta stralci di vita partendo da quel letto di morte in cui la Duse, assistita dalla fedele amica Matilde Serao, salutò le sue illusioni più grandi. Ne ripercorre sentimenti, frustrazioni ed emozioni offrendoci al contempo il punto di vista dell’attrice e quello di alcuni degli uomini che ella amò e per i quali soffrì (Martino Cafiero, Arrigo Boito, Gabriele D’Annunzio), come in un rispecchiamento imprescindibile tra realtà e finzione. Come se, in definitiva, Eleonora senza scena non potesse consistere (impossibile non ricordare lo splendido libro di Mirella Schino “Il teatro di Eleonora Duse”).

Dunque, l’attrice di ieri e quella di ieri sembrano, sono, diventano la stessa cosa: un’anima alla ricerca di un grumo di verità nel paradossale ossequio alla non-verità della scena. E non è caso che questa sommessa evocazione monologante (vista al teatro Argot di Roma) esca volentieri dal suo tracciato prevedibile per mostrarci proprio l’artificio della creazione teatrale: quel metodo recitativo, scientifico e al contempo istintivo, che dette alle “donne” della Duse l’esistenza vibrante delle frasi ripetute, del corpo ricurvo, delle gambe accavallate, delle mani passate sul volto o tra i capelli. Un metodo senza metodo. Un flusso di ispirazione di cui pochi intuirono la modernità e che si traduce, attraverso lo “stile” della Bucci (a gennaio in tournée con “Antigone, ovvero una strategia del rito”, www.lebellebandiere.it) , in una gestualità e in una vocalità studiate nei minimi dettagli, modulate su registri bassi e sempre variati, spinte su pose e toni volutamente poco naturali ma di sicuro effetto espressivo. Forse in alcuni passaggi si avverte un’enfasi che rischia di appesantire la fruizione del lavoro. Motivo per cui, secondo noi, la bravura dell’interprete, capace di una rara plasticità, risulta ancora più ammirabile in quei momenti di briosa ironia in cui il pathos del monologo inciampa in una prospettiva sbieca e più leggera. Probabilmente la Duse era anche questa leggerezza, questa voglia di abitare il mondo e il palcoscenico distaccandosene per rincorrere un altrove da cui ridere – o sorridere – della vita.

Meno male che Rocco c’è

rocco

ALESSANDRO MASTANDREA | Chi sperava che i family days di qualche anno addietro  fossero bastati, da soli, a ridare slancio alla famiglia in quanto istituzione, a rimetterla al centro del dibattito politico e civile,  prima cellula fondante della nostra società, sarà rimasto indubbiamente deluso. Complice la crisi economica, la famiglia, e con essa la coppia (rigorosamente uomo-donna), sembra essere posta sotto assedio, con rimedi come la solidarietà generazionale ridotti  a poco più che palliativi.  Se il tentativo di soccorso messo in atto dalla politica, in favore della famiglia, si è dimostrato fallimentare, per la coppia, suo nucleo centrale, un aiuto inaspettato giunge dalla televisione nella sua veste più rassicurante.

Data tuttavia l’eccezionalità del momento, le misure da questa messe in campo non potevano che essere straordinarie. Se è vero infatti che “quando il gioco si fa duro i duri iniziano a giocare”, non rimane allora che affidarsi a Rocco Siffredi, figura straordinaria nel panorama culturale italiano.

Che Rocco sia uomo poco avvezzo ai giri di parole è cosa nota a molti, egli ama andare subito al sodo e, nel caso specifico, irrompere nella vita delle coppie in crisi senza troppi preamboli. Via dunque  psicologi e dottori, come vuole il canone classico della TV, perché al fac-totum di “Ci pensa Rocco” non occorre l’assistenza di nessuno, la sua specializzazione in problemi affettivi l’ha guadagnata sul campo. La sua, come dimostrano i numerosi promo lanciati prima della messa in onda del programma, è stata una vera e propria ricerca spirituale, che se proprio non ascetica, l’ha reso un vivo sostenitore di una epistemologia del fare contrapposta a quella del solo sapere, demandando alla pratica sul campo la risoluzione dei problemi della coppia. Se dunque le circostanze della vita, il trascorrere del tempo e i ritmi stressanti, hanno logorato il vostro rapporto di coppia, non rimane che Rocco, unico vero specialista nel campo dell’amore.
Se è vero infatti che un libro non va giudicato dalla copertina e un attore da quella di un dvd, Rocco dimostra doti romantiche inaspettate, tali da contagiare chi gli sta attorno. Messa in un cantuccio la sua indole più hard, eccolo dunque scatenarsi nella sua versione soft: nessuna telecamera che si infila nell’intimità notturna dei due, quindi, piuttosto situazioni romantiche e giochi creati su misura delle singole coppie.  Giochi, situazioni e ambienti che difficilmente si ripetono tra una puntata e l’altra, una mancanza di schemi e liturgie che la differenziano dalla TV canonica. Quello che in fondo conta sono le situazioni, messe in scena ad arte e dotate di quel sano nonsense che tanto richiamano i più felici espedienti narrativi dei film tanto cari al Nostro. Una visione non certo tutta rose e fiori quella di questo novello dottor stranamore. Se da un lato dunque ci viene risparmiato l’immancabile commento degli esperti specialisti, Rocco non sa resistere alla tentazione di mettere un po’ di pepe tra i due. Va bene dunque la riscoperta del bacio come terapia votata alla riconquista di una certa romantica intimità, oppure le lettere e i video-messaggi in cui ripromettersi eterno amore, meglio però se intramezzati dal libero sfogo delle proprie pulsioni e fantasie,  esibite in favore degli sguardi sorpresi di ignari passanti o all’interno di feste di scambisti. Per quanto bizzarra risulti la terapia, le coppie sembrano rispondere bene, a conferma del fatto che il pubblico televisivo sa dimostrarsi più smaliziato di quanto la TV generalista non sappia.
Sovente, infatti, è proprio la donna a prendere in mano la situazione, nel tentativo di rinfocolare il desiderio sopito del consorte. Nel malaugurato caso che la controparte maschile si dimostri insensibile agli stratagemmi più spregiudicati (con lei che non disdegna di vestirsi come la tal professoressa delle superiori, o di cambiare, audacemente, la propria biancheria intima all’interno di un bar affollato)  Rocco non ha tema di utilizzare la necessaria terapia d’urto, mettendo in scena, a casa della coppia e con tanto di bara, il funerale del vecchio “lui”. Nel caso specifico Sandro da Roma, quello insensibile alle esigenze della compagna, l’eterno bambino che ha dimenticato come si bacia una moglie e troppo spesso manchevole nei preliminari più intimi. In tali circostanze il cambiamento (il trapasso) non è facile o indolore, ma per amore si è disposti a tutto, anche a morire, se necessario.
Non prima, tuttavia, che il povero “io” morente di Sandro, un attimo prima di esalare l’ultimo respiro,  in un disperato finale scaramantico, abbia toccato con vivace e soddisfatta insistenza i “gioielli di famiglia”. A riprova che “in amore come in guerra tutto è concesso”, a maggior ragione in TV.

Qualche reperto interessante.

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“Murmures des Murs”, magia circense made in Chaplin

murmuresVINCENZO SARDELLI | Un teatro sospeso nel sogno. Le molteplici ambiguità di una scena immaginifica, imprevedibile e mutevole, che presenta luoghi dove tutto è possibile. È Murmures des Murs, spettacolo di scena al Teatro dell’Arte di Milano fino al 6 gennaio.

La notte creata dalla luci è spazio metafisico fatto di piazze, palazzi, case, interni più o meno precari. L’immagine indefinita è viatico all’immaginazione. Sono paesaggi di fantasmi, proiezioni dell’anima.

Aurélia Thierrée, diretta dalla madre Victoria Thierrée Chaplin, è la protagonista di questo viaggio attraverso città abbandonate che prendono vita grazie a favolosi giochi scenografici. Il punto di partenza sono le immagini create da Victoria, che Aurélia mette in scena. E stiamo parlando della figlia e della nipote del grande Charlot.

Grandioso è anche questo puzzle che si compone lentamente di pezzo in pezzo partendo da pluriball e cartoni, per animare mostri, inquietudini, sogni d’amore, ad esempio nella forma di una Giulietta al balcone. Uno spettacolo in continuo movimento, come un cartone animato giapponese di Miyazaki. Gli oggetti, i luoghi, i costumi e le persone scivolano, appaiono, scompaiono.

Fumo e polvere, treni di scatole di cartone, draghi, gatti e uomini pesce. Tip-tap in parrucca e danze illuminate. Tempeste di cellophane creano distese d’acqua, bozzoli dentro cui germogliano mostri fiabeschi. Alti edifici o interi isolati, giardini e panni distesi sui fili ad asciugare, nascono, rullano, collassano. I fili diventano trapezi per equilibristi. Scivolano dentro e fuori dal palcoscenico, risucchiando ed espellendo personaggi fantastici: una sorta di mantide religiosa; uno strano uccello il cui capo è un mantice; un serpente marino dalle spire avvolgenti.

Arrampicandosi sulle facciate degli edifici Aurélia, con i suoi occhi stralunati da diva del cinema muto, incontra figure irreali e si immerge in storie intrappolate nei “mormorii delle pareti”. Annega tra barche volanti, salvata da un principe che non atterra mai sul morbido.

Fughe, trucchi, ombre, acrobazie. Trovate esilaranti. Un susseguirsi di scene deliziose, tra clownerie ed effetti illusionistici, il tutto senza pronunciare una parola. È il paradiso di chi crede nei sogni. Le pareti si scrostano e si animano. Mummie ibride trovano la vita attraverso gli affetti o gli effluvi dell’alcol, al suono di note d’archi e pianoforte. È un carosello di pertugi attraverso cui Aurélia, eterea, compare e scompare. I suoi costumi cadono a pezzi. Fanno spazio a mille travestimenti.

Virtuosismo ed eleganza contraddistinguono anche le performance del danzatore Jaime Martinez e del clown-acrobata Magnus Jakobsson, protagonisti sulla scena realizzata da Etienne Bousquet e Gerd Walter.

Un universo straniante di poesia, illusione, angoscia e persecuzione. Il desiderio di scoperta è già sul palco: tra gli attori, prima ancora che nel pubblico.

Viaggio nell’immaginario, o dentro la follia? Difficile trovare il discrimine. Nell’epoca dell’esasperazione tecnologica, questo teatro artigianale come il cinema dell’epopea propone illusione e ingegno creativo. A dar corpo allo spettacolo le musiche di Phillip Glass, che attingono alla lirica e persino alla canzone napoletana, in una dimensione senza spazio né tempo.

75 minuti di pura illusione. Un mondo effimero, ingannevole come bolle di sapone. Ideale per accompagnare le atmosfere natalizie.

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Alessandro Sciarroni a viso aperto: la videointervista

Sciarroni_photo  Alfredo  Anceschi
Sciarroni_photo Alfredo Anceschi

RENZO FRANCABANDERA | Il 2013 si sta chiudendo e sicuramente fra i protagonisti dell’anno nel campo delle arti performative non può non menzionarsi Alessandro Sciarroni.

Il suo lavoro, da molti anni ormai al confine fra più generi, ha riscosso un interesse pressoché univoco fra gli addetti ai lavori e il pubblico, e il suo Untitled è stato programmato in moltissimi festival estivi, da Dro a Bassano, e poi in Sardegna per Autunno Danza, per menzionare davvero occorrenze di latitudini diversissime in Italia, ma le date anche all’estero non sono mancate. E il 2014 si apre all’insegna di una tournée europea che porterà i suoi “Folks” e “Untitled” da Bruxelles a Parigi, da Zurigo a Lione, da Napoli a Milano.

La video intervista realizzata a Bassano con il supporto di B.Motion Danza 2013 è un confronto a tutto campo con l’artista, insignito pochi giorni fa del premio di Rete Critica presso il Piccolo Teatro di Milano durante la consegna dei Premi UBU 2013. L’artista parla di tutti i temi della sua creatività, dal confine fra le arti al rapporto col pubblico, dalle paure all’origine della creazione all’evoluzione del suo linguaggio dai primi spettacoli ad oggi, in un excursus di particolare ricchezza e apertura.

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A Roma un altro circo: i burattini acrobati di Girovago e Rondella

grBRUNA MONACO | Ai romani che vogliano godersi le vacanze assecondando il clima natalizio e facendo divertire i propri figli, l’Auditorium offre una bella opportunità: in via Norvegia, proprio di fronte al Parco della Musica, c’è ancora per qualche giorno un grande tendone da circo, pronto ad accogliere famiglie e vecchi amanti delle arti circensi. Quel tendone è una casa per la compagnia itinerante Circo El Grito, che insieme alla Fondazione Musica per Roma ha organizzato la rassegna Eccì El Grito Christmas Circus, e che fino al 6 gennaio ospiterà numerosi artisti e spettacoli.

Spesso andando al circo ci si aspetta di vedere numeri di giocoleria, acrobatica, funamboli e mangiafuoco. Ma che succede se, arrivando, ci si ritrova davanti un palcoscenico grande quanto una scrivania? Nessun problema, se lo spettacolo che si sta per vedere è di Girovago e Rondella ci saranno i giocolieri, i funamboli gli acrobati e anche i mangiafuoco su una scena d’un metro quadrato o poco più. Ci sarà tutto, letteralmente, a portata di mano. Quelli di Mano Viva (spettacolo andato in scena dal 19 al 22 dicembre) sono due veri e propri burattini-mano: indice e anulare per braccia, pollice e mignolo per gambe, sul medio la testa. A chi non è mai capitato di vedere, in strada, a piazza Navona, a Las Ramblas di Barcellona o chissà dove ancora un piccolo spettacolo con burattini-mano? Beh, quell’idea che a tutti è parsa geniale è stata brevettata da Marco Grignani e Federica Lacomba (in arte Girovago e Rondella) tanti anni fa e poi, imitata su larga scala, si è diffusa a macchia d’olio. I due burattini-mano si esibiscono in una lunga serie di noti numeri circensi. Sono ironici e ben più flessibili dei colleghi “attori a tutto corpo”. Girovago e Rondella articolano con precisione ogni falange e hanno uno spiccato senso del ritmo. Non sono le mani le uniche protagoniste della scena, infatti, ma la musica, che sostituisce le parole e crea un’atmosfera magica e intima nel grande tendone, ha un ruolo preponderante. In uno sketch il nostro burattino è addirittura un one man concert. Ma quando non suonano direttamente e “drammaturgicamente” i burattini-mano sono comunque e sempre parte integrante dell’apparato musicale: seguono il ritmo, lo danno o lo sottolineano con movimenti secchi. Accanto a loro, immediatamente sotto il palchetto ci sono i musicisti veri: percussioni e fisarmonica intrecciano tessuto ritmico e melodico in un dialogo denso e fitto fra di loro e con i burattini. Alle percussioni c’è Timoteo Grignani, il figlio di Girovago e Rondella. Tommaso, l’altro figlio si occupa delle luci. E Rugiada, la terza figlia che non si vede in questo spettacolo, fa anche parte della compagnia che non a caso si definisce una family theater.

Se la prima parte di Mano Viva è un susseguirsi di numeri da spettacolo di circo tradizionale in miniatura (per le dimensioni degli interpreti e per la durata di ogni gag), a un certo punto la natura degli sketch cambia: esaurito il repertorio di numeri iniziano le scenette narrative. Si tratta di piccoli racconti morali o di storielle esili, in entrambi i casi la trama è solo un supporto, o forse la fonte d’ispirazione delle figure create dai burattini, e comunque a servizio della componente visiva delle scene.

Uno spettacolo piacevole e leggero insomma, per una bella serata in famiglia.

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Un libro ? Che ideona ! ! ! Consigli per un PACco

albero natale libriE. TIRELLI (CON I CONSIGLI PER GLI ACQUISTI DI C. PAGANINI) |

E.T. – Quello di Natale è sicuramente un periodo brillante per le librerie. Soprattutto negli ultimi anni. Soprattutto con la crisi, le tasche più vuote e la necessità di acquistare “pensieri” e non regali, caricando la prima categoria di sincera poetica in grado di sostituire la magrezza dell’impegno economico. Libri di narrativa, saggi, fumetti, di cucina, per bambini, guide turistiche, sport, musica. Qualunque cosa di qualunque argomento. A Natale l’italiano medio scopre cosa c’è davvero in libreria e ne esce bello felice felice perché ha speso poco, ha comprato qualcosa di interessante ed è riuscito a soddisfare le inclinazioni di amici e parenti. Poi la libreria diventerà di nuovo un luogo troppo impegnativo. Anche se quel qualcuno ha capito, e forse proprio grazie al Natale, che ce n’è per tutti i gusti.

Mi piace leggere, sì, ma non ho tempo. La scorsa estate ho letto un libro bellissimo. Mi piacerebbe comprare i libri, ma con questa crisi.

Vabbè, ma almeno oltre allo zoccolo duro di lettori appassionati e agli occasionali, ci sono anche quelli che vogliono scrivere. L’Italia è un Paese di scrittori. Tutti scrivono, tutti vogliono pubblicare un libro e molti, grazie alle case editrici a pagamento (chiamiamole tipografie per non fare un torto a chi sugli scrittori ci investe davvero) ci riescono pure. I libri stampati ogni anno sono circa 59000, vale a dire circa 161 al giorno. I lettori circa 26 milioni. Quindi i conti tornano molto poco. E chi scrive non legge.

Allora come sta il mercato editoriale italiano? I dati relativi all’ultima edizione di “Più libri più liberi” hanno portato l’organizzazione  a dire che è stato un successo. Più di 54 mila persone, 370 espositori. E ancora, librerie, biblioteche, teatri, municipi, 41 editori e 30 librerie per la fiera nazionale della piccola e media editoria che si è svolta a Roma dal 4 all’8 dicembre. Il direttore della fiera Fabio Del Giudice ha dichiarato che “il successo della manifestazione deve incoraggiarci per rilanciare la cultura in Italia: questa atmosfera deve andare avanti per tutto l’anno, estendendosi a tutto il Paese”.

Di recente c’è stato invece molto entusiasmo intorno alla notizia della detrazione fiscale per l’acquisto dei libri inserita nella Legge di stabilità. Insomma, che bella cosa. Un incentivo alla lettura. Un sano incoraggiamento. Finalmente! Adesso sì che le cose cambieranno. Piano piano, certo, ma cambieranno. Adesso sì che le vendite dei libri saliranno, Natale, Pasqua o Ferragosto.
E anche l’Associazione Italiana Biblioteche si è dichiarata soddisfatta per questa misura del Governo.

Beh, allora è davvero una cosa seria. Eppure se leggete orizzontescuola.it, punto di riferimento per i docenti italiani, per gente che con e grazie ai libri ci lavora tutti i giorni, scoprite qualcosa di diverso. Esiste infatti un tetto massimo di spesa di 50 milioni di euro che andrà a beneficio di 20 milioni di famiglie italiane. Pochino. Che la detrazione è del 19%, fino a una spesa di 2.000 euro all’anno (la metà per libri di testo). Pochino. Considerando che la spesa media annua di una famiglia per i libri scolastici è di circa 500 euro… Considerando la proporzione tra cifra stanziata e beneficiari, non sembra affatto qualcosa di cui andare fieri. Quelli di orizzontescuola.it si sono fatti due calcoli e hanno verificato che si tratta di 2,5 euro a famiglia, con una detrazione fiscale su circa 20 euro di libri. Forse ai lettori incalliti tocca sperare che gli italiani continuino a leggere poco e che la dispersione scolastica aumenti terribilmente. Ecco, allora sì che qualcuno potrà avere davvero una detrazione degna di questo nome.

Però tra poco è Natale. L’unica cosa che ci tocca sperare è che quelli che entreranno in libreria per i “pensieri” da comprare ad amici e parenti possano poi tornarci, anche per sbaglio, anche per ripararsi da un temporale o dal caldo estivo. E possano comprare qualche “pensiero natalizio” anche ad aprile inoltrato.

C.P. – È, quindi, tempo di regali e questi sono i miei consigli:

“Morgue” di  Gottfried Benn
“Trilogia dell’inesistente – Esercizi di condizione umana” di Paola Vannoni e Roberto Scappin (quotidiana.com)
“Det er svært at dø i Dieppe” (Il seduttore o è difficile morire a Dieppe) di Henrik Stangerup. Per inspiegabili motivi, anche se spiegati, non tradotto in italiano. Se non leggete il danese potete leggerlo in francese
“Jahrestage” (I giorni e gli anni) di Uwe Johnson. In Italia sono stati tradotti solo i primi due volumi di questa  tetralogia. Il terzo volume uscirà a marzo 2014
“Rubè” di Giuseppe Antonio Borgese
“Canto di Natale” di Charles Dickens con i disegni di Federico Maggioni
“Blankets” di Graig Thompson