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sabato, Dicembre 21, 2024
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“Lucariè: scétate ca songh’ ‘e nnove”: Russo Alesi attraversato da De Filippo

NATALE IN CASA CUPIELLOELENA SCOLARI | Caffè, presepe, capitone. Cosa immaginiamo di più napoletano? Cosa immaginiamo di più banale e casalingo? Eduardo De Filippo invece mette quasi la vita intera in queste poche povere cose. Natale in casa Cupiello è apparentemente un quadro di famiglia semplice, ma la messinscena vista al Piccolo Teatro Studio Melato ce ne svela, più di altre, la complessità.

Fausto Russo Alesi (suoi adattamento e regia), ha avuto l’idea di realizzare lo spettacolo da solo, si fa attraversare da tutti i personaggi: Luca Cupiello, la moglie donna Concetta (interpretata con un evidente ricordo di Pupella Maggio), i figli Ninuccia e Tommasino, il portinaio don Raffaele, lo zio, tutti. Il corpo e la voce dell’attore si fanno sapientemente abitare da questa piccola folla e tale scelta fa emergere ancora più chiaramente i tanti significati dell’opera di Eduardo. Vedere un bravo, bravissimo attore diventare trasparente a favore dei personaggi è un piacere e insieme una lezione. può sembrare egocentrismo, certo, ma al netto della vanità di chi recita, il lavoro di Russo Alesi è sinceramente a favore dei personaggi, del testo e del senso dell’opera.

In una scena fatta di una pedana spoglia e con pochi oggetti evocativi come una testa di Gesù bambino, un lampadario con luci tremule, l’attore si muove nel suo abito grigio caratterizzando gli uomini e le donne della commedia con la voce, con l’intonazione, con l’espressione del volto. Sono strumenti base, sì, certo, ma che non spesso vediamo maneggiare con tanta capacità: qui ci rendono proprio l’essenza delle persone, della loro umanità, in questo senso sono mezzi “essenziali”. Essenziali come questo tipo di teatro, fatto anche grazie alle scene pulite di Marco Rossi (recente premio UBU per Panico di Luca Ronconi), alle luci livide quanto basta di Claudio De Pace e alle musiche di Giovanni Vitaletti, che vestono ogni personaggio di un suono diverso.

E’ così che capiamo meglio cosa De Filippo ci vuole dire col suo Natale: la sua ossessione partenopea per il presepe non è solo il richiamo alla tradizione ma la volontà (vana) di preservare un piccolo mondo protetto, dove tutti sono al loro posto, dove nulla muta, dove non ci sono sorprese. E invece le sorprese ci sono eccome! Figli con un avvenire precostruito che in quel presepe non sono felici affatto, e che lo rompono, lo mandano letteralmente in pezzi, ne vogliono uscire. Donna Concetta ripete ogni mattina al marito quel “Lucariè: scétate ca songh’ ‘e nnove”, come un ritornello disincantato e affettuoso che è anche tentativo di comunicare quello che sta cambiando, quello che Cupiello non vuole vedere, rimanendo in un sopore esistenziale. Il risveglio gli sarà infatti fatale, non reggerà alla scoperta di ciò che forse voleva gli rimanesse ignoto: tradimenti, disordini, bugie, meschinità. 

Parliamo non a caso di ritornello perché lo spettacolo è una partitura, uno spartito di battute e personaggi in cui R. Alesi entra ed esce continuamente con un ritmo incalzante, il ritmo anche della lingua napoletana, non sempre del tutto intelligibile a noi del nord ma proprio perciò ancora più melodiosa.

L’ironia del testo è magnifica, è il mezzo per fermarsi sempre un passo prima del sentimentalismo. Alcune situazioni sono irresistibili per l’umorismo perfido con il quale don Luca mostra i difetti dei membri di famiglia e ci racconta la visione di una società fortemente influenzata dal censo, si può invitare un’ospite in più alla cena della vigilia perché “quello mangia poco: è un signore”. Il signore in questione è ospite scomodo in quanto amante segreto della figlia ma Cupiello non ne sa niente, e qui vediamo la costruzione teatrale di equivoci spassosissimi nella loro piccineria umana.

Il caffè. Il quotidiano caffè mattutino che la moglie non sa fare e che puzza di scarrafone è un elemento che rimanda all’abitudine a ciò che non funziona ma che si affronta ugualmente, con rassegnata cocciutaggine, il protagonista ne critica il cattivo sapore tutti i santi giorni ma con attaccamento, in fondo non ne potrebbe fare a meno, ne’ lui ne’ donna Concetta possono fare a meno del rito domestico.

La fuga del capitone dalla cucina natalizia è esilarante, ci spingiamo molto in là e facciamo una spicciola ermeneutica del capitone: ci vogliamo leggere l’avvicinarsi di una fuga più grande, quella dal presepe infranto, dalla vita e da un mondo che don Luca non capisce più e che presto lascerà.

La morte lo coglierà ancora in un presepe: lui nel letto come un bambinello, circondato dai parenti stretti, vicini, poco più in là gli amici, circonfuso dal calore di un’illusione. L’ultima illusione.

Con quella faccia un po’ così: il volto dell’Italia secondo ReSpirale

32GIULIA MURONI | La telecamera registra tutto. Lo scontro nella via, il lancio dell’estintore, il colpo di pistola, la camionetta che fa retromarcia e passa sul corpo.  Che resta lì.
“Con quella faccia un po’ così/ quell’espressione un po’ così/che abbiamo noi che abbiamo visto Genova/che ben sicuri mai non siamo/che quel posto dove andiamo non c’inghiotte e non torniamo più”
Dopo Carlo Giuliani, l’assalto alla Diaz e le sevizie alla caserma di Bolzaneto i versi di Bruno Lauzi scritti nel 1975 sono inquietanti, fanno salire un rigurgito di livore per gli efferati soprusi. La rabbia per i calci in faccia,  per la violenza da parte dello Stato ai danni di una generazione intera, umiliata, messa a tacere.
Sono passati 12 anni e la violenza è stata perpetuata da una trafila di condanne parziali e ingiuste. ReSpirale Teatro ce lo ricorda con una scena straziante, cattiva in cui alla versione di Paolo Conte di sottofondo si accompagnano i calci sullo stomaco. Proprio come a Bolzaneto. Buttare il sale su una ferita amara e indissolubile è il tentativo, nel proprio piccolo, con i propri strumenti, di svegliare bruscamente il nostro Belpaese sonnecchiante con i ricordi di un passato recente.

Si avverte quando è un’urgenza ad animare uno spettacolo. Quando il motore primo non si esaurisce nella ricerca estetica, stilistica o marchettistica ma si dispiega nella manifestazione di senso determinata da un consistente bagaglio di riflessioni, tentativi, quesiti. ReSpirale Teatro per il suo “L’Italia è il paese che amo” è partita dalla necessità di raccontare la storia degli anni 90 in Italia e di raccontarli in prima persona con i propri ricordi e attraverso l’elaborazione di ciò che si è sentito. Racconti riferiti da qualcun altro perché la regista Veronica Capozzoli e gli interpreti Debora Binci, Antonio Lombardi e Emanuele Tumulo hanno meno di 30 anni e di alcuni fatti hanno un ricordo sfocato, infantile, filtrato dalle storie dei grandi.

Ma forse per questo viene meno il loro diritto di raccontarle? Chi ha il diritto di ricordare?

Visto a Torino, all’interno della rassegna “Schegge” a cura de “Il cerchio di gesso”, lo spettacolo ricostruisce la memoria personale e collettiva di quel decennio a partire dalla caduta di un muro, che è il frantumarsi di certezze comode come i cuscini bianchi scaraventati sul pubblico, è l’uscita violenta dell’energia da un circolo a ripetere. Ma il disperdersi di questa forza genera nuovi mostri e allora Craxi, Tangentopoli, le stragi di mafia, la mucca pazza, Berlusconi. Tutto questo dentro una narrazione corale incalzante, fatta di brevi sequenze sceniche a ritmo serrato. Capozzoli osserva che il nostro è il tempo del videoclip, in cui rientra anche il cosiddetto approfondimento televisivo e a cui siamo assuefatti. Appropriarsene significa restituirlo con nuovi significati, con quello stesso ardire polemico con cui viene riprodotto il trash, come linguaggio dell’ideologia dominante ma con valenza simbolica sovvertita.  I valori morali messi all’asta, le stragi di mafia snocciolate all’estrazione del lotto, l’emancipazione femminile mutilata e frustrata in una fame compulsiva di corn-flakes e carote, l’imposizione delle fobie collettive, la mucca pazza, sembrano ricordare la nostra svendita al grammo. Questo montaggio vertiginoso si conclude con un finale amaro, sospeso, efficace.italia amo

E se ha ragione Artaud che “l’arte ha il dovere sociale di dare sfogo alle angosce della propria epoca” ReSpirale non si sottrae al compito di un teatro politico, in cui l’etichetta “politico” risulta già superflua perché è il teatro stesso ad essere inteso come un luogo di condivisione attiva, uno spazio libero di assunzione di responsabilità. Responsabilità di presa di parola, espressa con acume e ironia caustica che rivelano uno sguardo tagliente e una rabbia viscerale verso l’eredità di un mondo di merda di cui non ci si vuole sentire soltanto vittime e spettatori passivi. Su questo sfondo sembrano stagliarsi anche “La Zattera della Medusa”, che indaga sull’imposizione normativa dei concetti di follia e salute e il recente “Napoleon- Anatomia della felice insurrezione”  che, a partire da Orwell, si interroga sulla portata rivoluzionaria del cristianesimo. Nato nel 2009, “L’Italia è il paese che amo” ha ricevuto la Segnalazione Speciale al Premio Scenario nel 2011 e non cessa di trasformarsi perché è materia viva e pulsante, soggetta al cambiamento necessario per crescere e rinnovare con forza il fremito di quell’urgenza iniziale. Per continuare a ribadire la necessità di avere voce in capitolo.

Non è un paese per giovani: Scenario 2013 premia i Fratelli Dalla Via

dalla viaVINCENZO SARDELLI | In Italia un senso di precarietà e disagio attraversa le nuove generazioni anche a teatro. Spaesamento, degrado sociale e dissesto ambientale; necessità della memoria e volontà di denuncia: sono questi i temi comuni ai quattro spettacoli vincitori e segnalati del Premio Scenario 2013, che hanno debuttato al Teatro Franco Parenti di Milano.

La degenerazione dei rapporti fra politica e finanza. La difficoltà di vivere in un paese allo sbando che non è per giovani. Da «Generazione Scenario 2013» emerge un diffuso senso d’instabilità, unito però a un bisogno d’impegno e di denuncia.

Cosa che in genere conduce al tradizionale, un po’ stereotipato monologo civile. Non così questo percorso, che riesuma pagine lontane della nostra storia. Che fa inchiesta. E ricorre alle lingue regionali come riscoperta delle radici e vocazione all’autenticità. Con tratti di verismo che a volte diventano surreali.

Tra pregi e qualche difetto emerge un teatro giovane tanto più efficace quanto più capace di graffiare e sporcare canoni accademici, per rivitalizzare linguaggi tradizionali.

Mio figlio era come un padre per me, spettacolo vincitore di e con Marta Dalla Via e Diego Dalla Via (che firmano anche scene, costumi, luci e partitura fisica) affronta con humour noir il tema del conflitto generazionale. Scenografia componibile di casse di plastica colorate. Lei con doposci, calzamaglia e tuta da ginnastica; lui con anfibi, pantaloni aderenti e occhiali da sole rossastri. Lo sfondo è un Nord-Est sfaldato, dimissionario da se stesso, colpito da una crisi che ha spazzato ogni residuo d’invulnerabilità e supponenza. Paradossale l’apologo sull’“uccisione di padri”, che già per conto loro avevano deciso di farla finita. Bel testo leggero, d’ironia e intelligenza. Bei dialoghi serrati, che l’inflessione veneta rende musicali. Esilarante e dissacrante lo storpiamento di preghiere come la Salve Regina e il Padre Nostro, a sferzare un mondo votato al suicidio, “pressato da Equitalia e stritolato da Trenitalia”.

M.E.D.E.A. Big Oil, lo spettacolo di Collettivo InternoEnki vincitore del Premio Scenario per Ustica 2013, drammaturgia e regia di Terry Paternoster, parte da un’ampia ricerca sul petrolio in Basilicata per incrociare il mito di una Medea contemporanea. L’eroina tragica è una donna lucana tradita dallo “straniero”, il Big Oil-Giasone, ruolo simbolico affidato a una compagnia petroliferaTeatro civile mediato dalla fiaba, affreschi collettivi a metà tra Fontamara e Cristo si è fermato a Eboli. Il ritratto è di un Sud atavico tra emigrazione e maledizione, sogno e realtà, magia e miseria. Colpiscono le coreografie corali, pantomime grottesche a velocità variabile, che rappresentano danze, riti anchilosati, canti di gruppo, cantilene, processioni e comizi di politici tromboni. Poi affiora l’elemento civile, il riferimento alla Lucania sventrata dalle trivelle, svenduta alla cultura neocapitalista, inquinata, ammorbata dal veleno che uccide l’agricoltura, gli animali e gli uomini. La parodia arriverebbe allo spettatore anche sfrondando un poco i toni sovraccarichi da sagra paesana.

W (prova di resistenza), Segnalazione Speciale del Premio Scenario 2013, di e con Beatrice Baruffini, rilegge in chiave performativa il tradizionale teatro di oggetti. Su una scenografia minimalista di mattoni forati, prende corpo uno spettacolo che narra la resistenza degli abitanti di Parma all’aggressione dei fascisti guidati da Italo Balbo nel 1922. Una pagina di storia locale poco nota. Oggetti dozzinali si animano e diventano personaggi, barricate, episodi di vita familiare, sentimenti. Con l’aiuto di lucine e fazzoletti rossi. Il gioco di bimba assembla mattoni come Lego a formare grattacieli e personaggi, ad animare vicende di guerriglia, violenza e dolore, sogno, morte e passione. Nascono paesaggi metafisici alla De Chirico in questo spettacolo in cui la Baruffini recupera le esperienze di Claudia Dias e di Gyula Molnar. E però questo monologo rischia di non coinvolgere proprio tutti: un po’ per la recitazione monocorde; un po’ per la scelta di una vicenda particolaristica, paradigmatica dell’ascesa violenta del fascismo, che richiederebbe forse qualche didascalia in più.

Trenofermo a-Katzelmacher, lo spettacolo di nO (Dance first. Think later), Segnalazione speciale del Premio Scenario 2013, ideazione di Dario Aita e Elena Gigliotti, partitura fisica di Elena Gigliotti, è la riscrittura di un Fassbinder contemporaneo che riproduce il Sud indefinito di una città indefinita, con stazione e binari, dove si muovono avanzi di città fra sfottimenti, violenza, tradimenti e sogni facili. Un soggetto dove la comparsa improvvisa di uno straniero crea una serie di gelosie e colpi di scena. Ambientazione kitsch da bar di periferia, lamiere ondulate, ombrelloni, sedie di plastica e caschi da motocicletta. Espedienti registici come luci stroboscopiche, ralenti e fermo immagine, danze simil-maori, partita di calcio con lattina di coca schiacciata. Napoletano e siciliano stretto. Atmosfere pasoliniane e danze nevrotiche. Canzoni neomelodiche, al microfono o a cappella. Citazioni da Mary per sempre. Alcuni stereotipi, una storia un po’ così. Però questi ragazzi: che talento.

MEDEA Big Oil 

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Beatrice Baruffini in W

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Nani: lettera teatrale con francobollo lisergico

paolo nani la lettera
foto Davide Aiello

RENZO FRANCABANDERA | La lettera di Paolo Nani è senza ombra di dubbio un atto creativo di talento. Una di quelle idee di utilizzo del codice teatrale che ne nobilita l’essenza e che giustifica nei tempi di tablet e digital devices, il loro spegnimento (e potremmo dire anche dolcissimo oblio per un’ora e un quarto) per dar la parola all’uomo nella sua più cristallina, miserabile, fragile, grandiosa presenza.

Lo spettacolo è una serie di variazioni su tema, tipo esercizi di stile di Queneau, o le variazioni sul canone, tipo Offerta Musicale di Bach.

Il tema del canone: un uomo entra in una stanza, dove c’è un tavolo e una sedia. Sul tavolo busta, foglio e affrancatura da lettera, e una penna. Una bottiglia di vino e un bicchiere. Una foto in un portafoto. Stop. L’uomo entra. Si reca al tavolo, si versa da bere ma sputa via quanto bevuto. Inizia a scrivere e deve togliere la foto dal suo sguardo, che forse per dolore lo turba. Chiude la lettera dopo averla imbustata e affrancata, fa per andar via, ma proprio nell’atto di uscire un dubbio lo assale, e quindi torna sui suoi passi e riapre la lettera per controllarne il contenuto. Stop.

Nulla dunque di complesso. Una serie di azioni banali una dopo l’altra.

Di qui in avanti Paolo Nani, prima con i codici della comicità e poi dell’umorismo, alternandoli, sofisticando e banalizzando, ricorrendo a clownerie, equilibrismi, mimica di altissimo livello e lavoro di rimando ad un ruolo del pubblico attivo, costruisce un one man show che a giusta ragione dal 1992 gira il mondo. Centinaia di repliche.

Si può diventare a proprio modo schiavi di una propria creazione? Mi piacerebbe chiederlo a Nani, come a tutti quei cantautori che sono inchiodati dal loro leggendario primo grande successo, a replicarlo a vita. Un Guccini senza La locomotiva? “Un manouche senza roulotte? Un casinò senza roulette?” per dirla con un’altra canzone…

Ecco solo questo mi resterebbe da chiedermi, dopo aver riso del genio di quest’uomo per un’ora e mezza, mentre rifaceva la scenetta di cui sopra al contrario, senza mani, in salsa western, in salsa horror, dormendo, ubriaco, freudiano, mentre perfino gli applausi diventavano parte del gioco, mentre comunicava con noi per mezzo di cartelli, ecco, solo questo gli avrei chiesto: se questa ripetizione, nello spettacolo e dello spettacolo in vista sua, anche solo in un momento, non gli ha procurato stanchezza.
Perché ovviamente fosse per il pubblico lui dovrebbe restare in scena 3 ore. Alla fine è lui ad esibire, mentre continuano scroscianti gli applausi del pubblico in delirio, il cartello “Andatevene!”.
Sa già che sarà un successo.
Sa quanto vale la sua creazione Paolo Nani.
E’ stato ospite in questi giorni al Filodrammatici a Milano e penso sia una di quelle cose che spero lui continui a fare a lungo, perché vorrei farlo rivedere a mia figlia fra qualche anno, appena avrà chiara dentro di sé la sottile distinzione fra comicità e umorismo, proprio per farle capire con quanta intelligenza i due concetti possono essere declinati da una persona sola in un’unica creazione scenica.

Il Prometeo di Parrinello, tutto fuoco e profezia

resizeVINCENZO SARDELLI | Ribellione, violenza, vigore. Intanto… sono qui. Interiorità di Prometeo, di e con Alessandro Parrinello (musiche originali di Maurizio Parma, assistente alla performance Michele Ferro) è uno spettacolo sul mito del titano che osò difendere gli uomini dall’odio di Zeus. E donò loro il fuoco, per alleviarne la vita infelice.

Alessandro Parrinello, in anteprima al Teatro Scala della Vita di Milano, intreccia vari linguaggi, perfomance, canto, musica, danza, video, per offrire suggestioni. Prometeo, impedito nei movimenti da una lunga manica ad acqua, con la vista dimezzata da una corona/rete che gli cade dalla fronte, canta e danza la propria prigionia, la fatica di liberarsi dal dolore per afferrare quel po’ di luce e di vita.

Il dolore è filtro che impedisce la piena fruizione del mondo. Altera ogni percezione. Ci rende alieni a noi stessi. Non può essere dominato. Può trasformarsi però in vitalità, fino ad assumere la forma dell’arte.

Sulla scena, l’attore-performer in primo piano. La musica crea il gesto. Dal nulla si definisce la parola, inizialmente come voce fuori campo, in seguito come vaticinio che esce dalla bocca dell’attore.

Tutto va nella direzione dell’energia. I movimenti sono decisi, vibranti. È quasi un teatro di figura. La danza sembra esorcismo. 

Sullo sfondo le immagini su maxischermo attenuano il potere di voce e gesto. Creano equilibrio. Facendo da contrappunto alla scena, smorzano il pathos. Sono paesaggi dell’anima e della natura, giganteschi palmi di mano, figure umane stilizzate. Sono lune, dune, silenzi, corpi come acquerelli.

Lo spettacolo è impropriamente definito “musical per un attore solo”. I movimenti musicali, gli accordi di pianoforte, basso, contrabbasso e violino scritti da un musicista di formazione barocca in libera uscita creativa, danno però sostanza alla performance di Parrinello, giocata solo sull’intensità. Le tonalità classiche a volte assumono la corposità di note rock, oppure diventano oniriche. Si stilizzano in gorghi d’acqua, in battiti cardiaci o echi di mantra.

Le luci scolpiscono il corpo, definendo la tensione dei muscoli. È il corpo che suggerisce emozioni ed evocazioni. La parola è un di più. La musica, il gesto e le canzoni inseguono la parola. Ogni codice rafforza l’altro, in maniera pleonastica. Eppure ogni linguaggio è criptico. Tutti ammassati, questi linguaggi non diventano mai pienamente comunicativi. Anche il ricorso all’inglese nel canto (in cui Parrinello riproduce in qualche modo lo stile e la potenza vocale di Freddie Mercury) non garantisce un livello minimo d’intendimento allo spettatore. Il quale è costretto, allora, a meditare le proprie suggestioni. Dialoga con se stesso. E nell’ambiguità approfondisce la propria interiorità, anche nei rari momenti in cui la performance dell’attore non sembra raggiungere l’anima.

Reading club: intervista ad Annie Abrahams ed Emmanuel Guez

reading clubSIMONA POLVANI | In questi ultimi anni digitali, dopo il dominio incontrastato della visione passiva indotta dalla televisione, con l’avvento in particolare dei social network, scrivere e leggere sembrano aver ritrovato slancio, pratiche attive, rinvigorite e diffuse, frequentate in modo non elitario e trasversale. Se nella maggior parte dei casi l’esercizio di questa ritrovata attività avviene in modo poco consapevole, per automatismo, Reading Club, nuovo progetto performativo nato in Francia dalla collaborazione di Annie Abrahams e di Emmanuel Guez, inventivi net artists e ricercatori noti per la sperimentazione nell’ambito del linguaggio e della comunicazione in rete, fa della pratica della lettura e della scrittura partecipata e consapevole il proprio motore, raccogliendo così ed esplorando le problematiche sollevate dal web sulla natura e il ruolo dell’autore.

Reading Club è innanzi tutto un sito web, dispositivo per performance interattive di lettura e di scrittura in cui, su invito dei creatori, alcuni lettori leggono in comune un testo dato. In base a una durata predefinita, che può oscillare da qualche minuto a più ore, i lettori interagiscono sul testo, scrivendo all’interno commenti, annotazioni, in uno spazio di scrittura (un editor- interfaccia di testo collaborativo che funziona in tempo reale, di tipo etherpad), con un numero invariabile di caratteri fissato in precedenza. Accanto ai lettori-performer, una chat aperta permette a questi ultimi e a lettori spettatori in rete di commentare, costruendo un altro testo in parallelo, a volte visibile durante la performance in live, altre tenuto nascosto e leggibile solo sul sito, in cui, una volta terminata, è pubblicata ogni performance.

Il progetto, che ha debuttato a giugno ha già all’attivo otto sessioni, tra le quali una al Centre Pompidou (Parigi), al Furtherfield (Londra), su Arpanet dialogues, al Jeu de Paume (Parigi), su Raymond Queneau e a Oudeis (Le Vigan), su Marshall McLuhan.

Delle origini e di alcune dinamiche di funzionamento di Reading Club ho parlato con Annie Abrahams e Emmanuel Guez, che, a sorpresa, hanno deciso di inscrivere le mie domande e le loro risposte all’interno dell’interfaccia Reading Club, dando luogo a una piccola sessione di composizione in diretta delle risposte, che potrete vedere nella versione originale in francese a questo link: http://readingclub.fr/pad/52a854ae06b5a2352c000023?timeline=1

Come è nata l’idea del Reading Club?

Voglia di incontri, discussioni, riflessioni sui testi online, di confronti. Di capire ciò che potrebbero essere una lettura e una scrittura in comune, di creare una situazione in cui l’autore/lettore non controlli più la sua scrittura, sia confrontato con quella di un altro lettore/autore e debba così leggere e comporre assieme, o contro, quell’altro. Ciò pone il comportamento, la relazione con l’altro, ma anche la relazione con il proprio corpo, con le proprie emozioni, al centro di questa interfaccia e porta ogni partecipante a prendere posizione all’interno di un testo e a considerare il proprio modo di agire. È perché la presa di posizione deve avvenire dentro il flusso che una partecipazione al Reading Club libera tanta energia ed emozione. Altrimenti, per ciò che riguarda noi due [Annie e Emanuel], i comuni interessi per la scrittura online. Gli approcci artistici simili in cui diamo precedenza più al processo di ricerca che alla creazione di un oggetto.

Come avviene la scelta dei testi?

Scegliamo i testi in collaborazione con il partner della sessione. A volte troviamo velocemente un testo che interessa tutti, a volte il processo è più lungo e bisogna fare una scelta. Non è sempre semplice, perché molti testi interessanti non sono adatti all’interfaccia o alla durata di una sessione. Sono necessari dei brani concisi che mettano i lettori in movimento. Dopo molte sessioni di corta durata ci piacerebbe sperimentare testi e durate più lunghe.

A partire dalle performance che avete fatto fino ad ora, quali sono le vostre impressioni o riflessioni sul processo che avete messo a punto in rapporto alla scrittura/lettura condivise?

Bella domanda. Innanzitutto siamo più degli operatori che dei performer. Offriamo un dispositivo che fa scrivere, che esplora le relazioni umane legate alla scrittura. Pensiamo che ci voglia più tempo per rispondere alla tua domanda. Siamo solo all’inizio del progetto e in una fase – diciamo – assai spettacolare in cui stiamo testando le sue potenzialità. Nel Reading Club, per il momento ci si confronta più con il comportamento di altri lettori che con un testo. Ciò che è flagrante è che il dispositivo costringe i lettori a leggersi e a scrivere in funzione di ciò che leggono – in altri termini, di ciò che scrivono gli altri. Si creano dei campi di forza, delle tensioni, delle strategie, e, spessissimo, alla fine di una sessione, un miscuglio di frustrazioni e di piacere…

reading club 2Quali sono gli atteggiamenti dei lettori performer e quali impressioni conservano dell’esperienza del Reading Club?

Sia scrivono tanto e velocemente, si divertono, sia guardano gli altri scrivere, leggono senza interruzione e provano a trovare una posizione nella ricostruzione del testo, nella forma che prende. Quindi vediamo un atteggiamento che è più di reazione immediata, quasi viscerale, rispetto al testo e a ciò che scrivono gli altri, e una reazione che è molto più di osservazione distaccata, che prova a riflettere sulla totalità del testo e del processo. Sarebbe interessante poter lavorare con una persona che metta a punto un protocollo scientifico per testare questi diversi comportamenti… 

Com’è andato il confronto con McLuhan nella vostra penultima performance?

L’interfaccia è mcluniana in sé.

http://readingclub.fr

Aglie, fravaglie e scultura ca nun quaglie

CORNO CASERTAEMANUELE TIRELLI | Quando l’architetto cino-americano Ieoh Ming Pei presentò e poi realizzò la piramide del Louvre fu grande polemica. Scandalo. Un grande errore. Anacronistica. E magari anche qualche colorita e accorata maleparola in francese. Tutto grazie al presidente Mitterrand che affidò l’incarico all’architetto Pei. Oggi, a distanza di anni, quella stessa piramide è considerata uno dei simboli, uno dei richiami più evidenti del grande museo parigino.

Qualche giorno fa, in Italia, in Campania, a Caserta, davanti alla Reggia vanvitelliana patrimonio dell’Unesco, è apparso un corno rosso alto tredici metri realizzato dall’artista napoletano Lello Esposito. Un corno di quelli contro il malocchio, per capirci. L’opera è stata voluta dal sindaco della città Pio Del Gaudio, è costata 70 mila euro (10 ad Esposito e 60 per tutto il resto) e ha scatenato un sincero putiferio. La prima cosa che gli hanno rimproverato, al sindaco, è di non aver riasfaltato le strade in condizioni pietose. E lui si è difeso dicendo che quei soldi li poteva usare solo per un rilancio artistico, quindi ha pensato al corno di Lello Esposito. In questo modo, ha aggiunto, avrebbe anche attirato l’attenzione su Caserta che ha molto bisogno di visibilità e turismo.

Allora, diremo tutti, è una mossa di marketing territoriale? Così pare. Però forse forse non è stata gestita e preparata come tale. O almeno questa è l’impressione. Oltretutto l’amministrazione casertana viene dalla recente bocciatura come candidata a capitale della cultura. Candidatura che aveva suscitato, pure lei, polemiche a secchiate perché per la creazione del programma le forze artistiche e creative casertane non erano state chiamate realmente in causa. O comunque non tutte. E sicuramente non molte di quelle che lavorano di più e con maggiore continuità sul territorio.

Senza considerare che, tornando a questo famoso corno, il sindaco è stato convocato immediatamente dalla Soprintendenza che ne ha chiesto l’immediata rimozione.

C’è anche chi ha parlato di simbolo fallico. Di un grosso pene gigante. E vabbè, a Corso Como, nel centro di Milano, hanno addobbato un albero di Natale con simpatici sex toys.

Sì, ma capiamoci, questo corno è bello o è brutto? È una vergogna oppure no? Philippe Daverio, intervistato da Repubblica, ha espresso tutto il suo apprezzamento. Ma c’è ancora chi non è molto d’accordo, un po’ per il costo dell’operazione e un po’ per l’oggetto in sé. La verità vera è che l’opera di Lello Esposito alcuni risultati li ha ottenuti, ma è un po’ tutto il contorno a sembrare imperfetto.

I maggiori network nazionali hanno puntato i riflettori sul fattaccio mandando Caserta, il corno e la Reggia più volte in tv, su internet e sulla carta stampata. Visibilità ottenuta e obiettivo centrato? Non mancano però alcune perplessità. Qualche tempo fa, il sindaco ha dichiarato che la sua città “non accetta di essere subordinata a Napoli nei percorsi gestionali dei beni culturali in fieri”. Quindi non accetta questa subordinazione nei percorsi blàblàblà, ma può commissionare un’opera da 70 mila euro a un napoletano. Senza mettere in discussione la maestria e la fama di Lello Esposito, ma a Caserta non c’era proprio nessuno? E in un’altra città che non fosse la Napoli alla quale non subordinarsi e così via? E questi 70 mila euro a disposizione dovevano essere spesi necessariamente tutti per quest’unica opera? L’impressione è che nonostante gli ottimi risultati ottenuti in termini di visibilità, risultati che sembrano quasi più fortunosi che cercati davvero, si tratti di un evento spot, scollegato dagli altri. Autonomo. E questo non è un bene per la programmazione culturale e turistica. Senza considerare che l’attenzione c’è, un po’ di curiosità, ma non ci sono turisti in fila per ammirare l’oggetto della discordia e magari entrare nella Reggia o fare un giro in città. Ecco perché ci sarebbe voluta una programmazione.

La vicenda non si è ancora conclusa del tutto. Con il passare del tempo il corno diventerà uno dei simboli e dei punti di riferimenti della città di Caserta così come è successo per la piramide del Louvre? Speriamo. Anche se qualcuno ha deciso di manifestare la propria opinione circondandolo con lo striscione “Questo corno è uno scuorno”. Nel frattempo il Ministro Bray ha detto che s’ha da spostare assolutamente, necessariamente, indiscutibilmente. In quale piazza della città? Non si sa. Con quali fondi? Non si sa. Oltre a finire sui giornali e in televisione, cosa ha portato di concreto per il turismo casertano? Non si sa.

Lo speziato Cucinar Ramingo di Bloise (in capo al mondo)

cucinar ramingoRENZO FRANCABANDERA | Lo scoglio che affoga sommerso dall’acqua? Giù il vino sui mitili, in una pentola dove sta per nascere un riso alle cozze. 
E la foresta incantata che allunga i suoi rami al viaggiatore errante? E’ una lirica costa di sedano, che sta per finire insieme a cipolla e spezie in padella con l’agnello che sarà il complemento del riso, per una fantastica paella kosher doc.

Fra tegami ramati e oggetti di scena di puro design artigianale, a tagliare, preparare, abbassare e alzare la fiamma è Giancarlo Bloise, talento creativo multiforme, che ha trovato nel teatro un percorso adatto a raccogliere il suo istrionico sorriso. Fin da piccolo apprende la musica, compie studi di architettura, quanto basta per consentirgli di progettare oggetti di scena come quello che governa durante lo spettacolo (realizzato da Mentor Shimaj della bott. artigianale Wood-Stock Fi); ha una decennale pratica da chef kosher e una chiara propensione a mescolare le arti. Dopo la vittoria al Dante Cappelletti 2012, Cucinar Ramingo ha molto girato in estate fra i festival, da Castrovillari ad Operaestate. E perché ha girato?

Perché è un lavoro che si coagula intorno all’anima, e attraverso un testo fatto di storie della tradizione ebraica, di quell’insieme di aneddoti parabiblici e barzellette sulle piccole trasgressioni ai rigidi precetti religiosi, familiari per chi segue il teatro grazie ad artisti come Ovadia, arriva al cuore dello spettatore.

Ci arriva con un meccanismo molto semplice che fa leva su un buon racconto, lo sfasamento fra parola e gesto (e quindi dove possibile l’assenza di didascalia), la sorpresa scenica (quell’eye catcher che in questo caso è tutto nella cucina circolare che occupa la scena e da cui, come da un’elegantissima borsa di Mary Poppins, Bloise estrae ingredienti, oggetti, taglieri). Tutto lì, apparentemente sotto gli occhi, in realtà svelato e poi abilmente celato, come le minestre in cottura, prima mostrate e poi scoperchiate solo alla fine, per esser mescolate in un’unica pietanza.

Dal punto di vista tecnico e drammaturgico, la prossimità con Scabia (al cui In capo al mondo è ispirata una parte del racconto) e l’influenza della scuola dell’Odin, nella persona di Tage Larsen, si riflettono in una recita gestuale e partecipata. S’ode qui e lì l’eco finanche mimica di Carmelo Bene, specie sulla parola spezzata e a volte quasi scuoiata del suo senso comune.

Bloise arriva vestito da cuoco, inizia a parlare dell’uccellino che ramingo salta incerto, apre il tavolo, non prima di averlo reso barca, cavallo e cento altre cose; poi inizia ad estrarre da queste due piccole torri lignee circolari, come da dentro una matrioska, tutto quello che serve per cucinare.

Il lavoro, di un adorabile artigianato, s’indora in un’apparente imperfezione e sobbolle di parole antiche. Forse in un paio di passaggi, sul finire della recita, si perde qualche nesso logico, per una finta fiaba che comunque arriva al suo finale prima che la minima ombra di noia o distrazione possa allungarsi sullo spettatore, che invece curioso segue, cerca, annota perfino scetticamente quanto vino finisce in pentola, i miscugli di spezie che vengono versati, quello che appare troppo peperoncino. Si finisce poi fare la fila e gustare a mani nude, utilizzando le valve delle cozze, la paella appena preparata.

Lo spettacolo arriva giusto, cuoce il riso al dente, schiude l’animo dello spettatore con il calore che promana dal sorriso di Bloise. Sarà pur ammiccante il rapporto fra cibo e teatro, ma occorre saper cucinare e avere una buona storia. In questo caso, perdersi è dolce, naufragando in un mare di vino, nel rumore delle onde che urlano, reso alzando la fiamma della cucina a gas. Ogni piccolo gesto è curato e sorprende. 

Con Cucinar Ramingo si chiudono gli appuntamenti 2013 di Stanze a Milano, rassegna di teatro in casa curata con altrettanto cuore da Alberica Archinto e Rossella Tansini. In questo caso non di stanze s’è trattato, ma del ristorante Carminio, che si è prestato all’allestimento. 

Dacci oggi il nostro Del Debbio quotidiano

QColonna

ALESSANDRO MASTANDREA | Le vie del talk di approfondimento politico sono finite. O almeno lo erano, fino all’arrivo di Paolo Del Debbio, classe 1958 da Lucca.

Tra i suoi tanti meriti, c’è quello di sapere sempre individuare e al contempo colmare i vuoti presenti nella nostra vita sociale, politica e culturale. La prima volta gli è riuscito nel ’94, quando contribuì a creare il soggetto politico più influente degli ultimi venti anni, Forza Italia. Ma poiché le disgrazie non finiscono mai, Del Debbio ha trovato il modo di applicare nuovamente la propria peculiare attitudine, riempiendo un vuoto ancor più grande. Nella TV così politicamente polarizzata degli ultimi anni, infatti, un’ossessione ricorrente e mai appagata, ha contraddistinto la turbolenta esperienza televisiva del centrodestra: quella, cioè, di non avere una voce amica capace di raccontare le sorti del Paese dal proprio punto di vista. Le strategie fino ad oggi adottate per promuovere una telegenia di destra, si sono dimostrate poco più che palliativi, e l’imposizione, quasi maniacale, delle regole della par-condicio ha generato risultati mostruosi: l’ossessivo rispetto del turno di parola, del numero di rappresentanti invitati, e anche del numero di sostenitori presenti in studio. Una ferita ancora aperta nel corpo dolorante della TV generalista che sembrava impossibile da sanare, quella cioè dell’assenza di un doppelgänger da contrapporre ai vari Michele Santoro e Giovanni Floris. Prima dell’arrivo di Paolo Del Debbio e di Quinta Colonna, sua ultima e felice intuizione, ricreare in provetta il talk che piaccia all’elettore medio di destra, ma che non faccia fuggire a gambe levate tutti gli altri si è sempre rivelata un’impresa titanica.

Un vero e proprio stakanovista il Nostro, che per recuperare il tempo perduto, non pago del canonico appuntamento settimanale riservato al genere, ha voluto per se anche uno spazio giornaliero. E’ mescolando nelle giuste quantità l’estetica del “Drive in” e di “Studio Aperto” con quella di blasonate trasmissioni di denuncia che si ottiene Quinta Colonna. Sacro e profano insieme, costume e politica, giornalisti e opinionisti moderati dalla mano sapiente del presentatore che non disdegna di parlare alla pancia del popolo, facendolo, invero, con genuina partecipazione. E per capire l’aria nuova che tira da quelle parti, bastano da sole le famigerate copertine, in apertura dell’edizione settimanale, di Mario Giordano, già direttore del Tg di rottura poc’anzi menzionato. Perché indignati va bene, purché con il giusto brio e una sana dose di funambolismi verbali: “e’ dunque ora di fare pulizia, ed è per questo che il tale consigliere ha comprato (con i nostri soldi, nda) una lavatrice”. In fin dei conti, il generoso mare dell’indignazione è grande abbastanza per tutti, e ognuno prende all’amo i propri pesci come può. Via dunque le sigle iniziali con quei motivi musicali così drammatici, tanto cari alla sinistra, dentro la ben più frizzante sigla sottolineata dal leggere motivo musicale composto da Nino Rota per il felliniano “Otto e mezzo”. E’ l’indignazione con la leggerezza, l’equivalente televisivo degli alimenti light, capaci di placare sia l’appetito che i sensi di colpa del goloso, sebbene a scapito del gusto e dei contenuti, non solo nutrizionali. E per riuscirci Del Debbio non si fa mancare proprio nulla nella rigida impostazione liturgica di puntata. Via i battibecchi in studio tra politici e giornalisti, dentro i collegamenti con la piazza (presa a caso tra Genova e Marghera) o gli RVM degli inviati a caccia di pareri tra la gente comune, meglio se anziana e al mercato. “Vergognosa casta”, “spese folli in regione” e “pensioni d’oro”, questi gli argomenti preferiti. E la strana commistione tra talk politico e varietà ha un miracoloso effetto sugli ospiti politici, indignati anch’essi nel giudicare il proprio operato in video, sorta di esperienza extracorporea fuori dai banchi del parlamento. In chiusura di puntata, infine, per non lasciare lo spettatore con l’amaro in bocca, spesse volte si vira coraggiosamente sul sacro o in alternativa sul costume.

Quinta Colonna, al pari di creature mitologiche come l’unicorno, è qualcosa di cui fino a oggi non si erano mai avuti avvistamenti sugli schermi televisivi, con Del Debbio suo indiscutibile demiurgo. Peccato dunque per le voci di chiusura delle ultime settimane. Un duro colpo per gli affezionati spettatori e una decisione inaspettata a detta del protagonista. Vuoi vedere che, da disoccupato, in questo clima continuo di campagna elettorale, il combattivo giornalista Del Debbio, presunto spin doctor di Marina Berlusconi, abbia visto un qualche vuoto da riempire e non si sia messo in animo di porvi rimedio per i futuri venti anni?

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Altezza e larghezza nella rappresentazione

GalantinaCOSIMA PAGANINI | Non parlerò della profondità, voglio trattare solo di rappresentazioni nelle quali i concetti di altezza e larghezza si sviluppano solo superficialmente. Vi chiedete come ci possa essere una verticalità superficiale? Immaginatevela come le costruzioni impossibili di Escher.

Dato un creatore, anche multiplo (regista, autore, gruppo di performer), dalle sparse conoscenze acquisite attraverso lettura compulsiva di tutto quello che di volta in volta è stato opportuno sapere, e, dato un operatore culturale (direttore artistico, consulente, organizzatore) dalle scarse conoscenze sostituite da un fiuto quasi infallibile per tutto quello che sarà opportuno apprezzare nei prossimi cinque minuti, otteniamo fenomeni di natura fisica o chimica che chiamiamo spettacoli.

Gli spettacoli ottenuti dall’incontro dei due elementi sopra citati corrispondono a due tipi di estetica: estetica dello spiedino ed estetica del frammento o della galantina. Quello che generalmente vedo nei teatri non va oltre queste due figure.

Esempi: “Solo di me…” è uno spettacolo galantina. Citazioni da studi classici, ricordi del catechismo (perché non si legge la Bibbia? Il sesto comandamento non è: non commettere atti impuri), scenografia da colportage teatrale, attrici come si deve, rese brutte quanto basta a far dire come sono brave, finali vari perché ce ne sia almeno uno che possa andare bene, musica dialogante con la rappresentazione ridotta a sottofondo sonoro. Insomma tanti elementi tenuti insieme, nello stesso contenitore, dalla gelatina e dal caso.

A.H.” è uno spettacolo spiedino. Concetti impegnativi bene assimilati, attore centrato e concentrato, suoni che vanno oltre il commento per essere spettacolo in sé, citazioni da cinema d’autore. Insomma tanti elementi tenuti insieme, uno sull’altro, da uno spiedino e dall’arbitrio.

E gli spettacoli candidati e vincitori del premio Ubu?

Il panico” è uno spettacolo galantina di alta qualità ed esempio perfetto di cucina molecolare. “Francamente me ne infischio” è uno spettacolo spiedino da servizio catering che ha eliminato i carboidrati dal menu.  “La serata a Colono” è uno spettacolo galantina fedele alla ricetta di Pellegrino Artusi. “Le voci di dentro” è un intero pranzo di Natale.

Se volete, divertitevi a classificare gli altri spettacoli dell’Ubu. Nessuno di loro sfugge all’una o all’altra categoria.

Se invece non volete incappare nell’estetica dello spiedino e nell’estetica della galantina è meglio frequentare le mostre. Esempio: The Visitors di Ragnar Kjartansson. E non fa niente se qualcuno vi dirà che siete un hipster.

http://www.youtube.com/watch?v=FE_9CzLCbkY