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giovedì, Novembre 14, 2024
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Rosicare fra artisti? E’ la norma, ma… va fatto in silenzio!!

d.f. wallaceEMANUELE TIRELLI | La morte aggiusta le cose, ma forse non tutto e comunque non per tutti. Prendete due autori famosi, uno è morto e l’altro, pochi anni dopo la scomparsa, ne parla pubblicamente su twitter come del “più noioso, sopravvalutato, pretenzioso scrittore della mia generazione”. Quello che non c’è più è David Foster Wallace, suicida nel 2008 quando era già considerato uno dei geni della letteratura contemporanea. Quello vivo è il Bret Easton Ellis di American Psycho, per dirne uno. Certo non è molto pulito uscire fuori con una frase del genere su qualcuno che non potrà ricambiare. E probabilmente non è nemmeno una gran mossa visto che gli amanti di DFW continueranno ad amarlo, quelli che non lo amano continueranno a non amarlo e quelli che sono indecisi forse si schiereranno dalla sua parte, anche solo e semplicemente perché è morto. Ma come mai tutto questo astio? Magari un po’ d’invidia? Cosa ha fatto il ragazzo con l’asciugamano al collo (che usava per “difendersi” dalle sudorazioni causate dall’ansia e che coordinava con una racchetta da tennis per far sembrare meno strana la presenza dell’asciugamano) o con la bandana sulla fronte (credeva che gli sarebbe esplosa la testa. Se non lo sapete e ve lo state chiedendo, la risposta è “sì, Wallace non stava affatto bene”)… insomma, cosa ha fatto per meritarsi queste sciabolate tutt’altro che morbide? Qualcuno sostiene che si sia ispirato a un romanzo di Ellis senza ammetterlo (vedi biografia ufficiale targata DT Max e pubblicata in Italia da Einaudi). Quello che è sicuro, invece, è che DFW fosse passato una e più volte con la sua lingua pesante sul famoso American Psycho e sullo stile di Ellis, argomentando, sentenziando, criticando in un’intervista rilasciata nel 1993 a Larry McCaffery. Intervista che da settembre possiamo leggere per intero anche in italiano grazie a Un antidoto contro la solitudine – interviste e conversazioni edito da Minimum Fax. E va bene, Wallace non le ha mandate a dire e aveva sempre una parola su ogni argomento: parlava di tennis, parlava di matematica, parlava di crociere, parlava di rap, parlava di filosofia e ancora e ancora e ancora. Ovviamente parlava di letteratura, scrittura e scrittori. Non ha risparmiato nemmeno Thomas Pynchon, definendolo un autore “oramai superato”, almeno da quanto possiamo leggere, sempre dallo scorso settembre, in Di carne e di nulla, una raccolta di riflessioni e interviste pubblicata da Einaudi. Insomma, abbiamo davvero tanta roba per conoscere meglio Wallace, farci gli affari suoi, capire cosa c’era dietro romanzi, saggi e racconti, e per dare anche una spiegazione a tutta una serie di vicende collegate. D’altronde, si può anche essere d’accordo con l’idea che la morte non aggiusti tutto quanto e che attaccare fortemente uno scrittore sulla propria letteratura sia molto peggio che prenderlo a randellate sulle ginocchia, però Bret Easton Ellis continua ad aver fatto la figura del rosicone. Insomma è come se mezza intellighenzia, e non solo, italiana criticata apertamente da Edmondo Berselli in Venerati Maestri iniziasse a dire pubblicamente che Berselli era davvero, ma sul serio, ma incredibilmente un poveraccio. Certo, tutto può succedere, ma la figura ricorrente sarà sempre quella del rosicone.

Una video intervista a D.F. Wallace…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=mLPStHVi0SI&w=560&h=315]

Rosicare fra artisti? E' la norma, ma… va fatto in silenzio!!

d.f. wallaceEMANUELE TIRELLI | La morte aggiusta le cose, ma forse non tutto e comunque non per tutti. Prendete due autori famosi, uno è morto e l’altro, pochi anni dopo la scomparsa, ne parla pubblicamente su twitter come del “più noioso, sopravvalutato, pretenzioso scrittore della mia generazione”. Quello che non c’è più è David Foster Wallace, suicida nel 2008 quando era già considerato uno dei geni della letteratura contemporanea. Quello vivo è il Bret Easton Ellis di American Psycho, per dirne uno. Certo non è molto pulito uscire fuori con una frase del genere su qualcuno che non potrà ricambiare. E probabilmente non è nemmeno una gran mossa visto che gli amanti di DFW continueranno ad amarlo, quelli che non lo amano continueranno a non amarlo e quelli che sono indecisi forse si schiereranno dalla sua parte, anche solo e semplicemente perché è morto. Ma come mai tutto questo astio? Magari un po’ d’invidia? Cosa ha fatto il ragazzo con l’asciugamano al collo (che usava per “difendersi” dalle sudorazioni causate dall’ansia e che coordinava con una racchetta da tennis per far sembrare meno strana la presenza dell’asciugamano) o con la bandana sulla fronte (credeva che gli sarebbe esplosa la testa. Se non lo sapete e ve lo state chiedendo, la risposta è “sì, Wallace non stava affatto bene”)… insomma, cosa ha fatto per meritarsi queste sciabolate tutt’altro che morbide? Qualcuno sostiene che si sia ispirato a un romanzo di Ellis senza ammetterlo (vedi biografia ufficiale targata DT Max e pubblicata in Italia da Einaudi). Quello che è sicuro, invece, è che DFW fosse passato una e più volte con la sua lingua pesante sul famoso American Psycho e sullo stile di Ellis, argomentando, sentenziando, criticando in un’intervista rilasciata nel 1993 a Larry McCaffery. Intervista che da settembre possiamo leggere per intero anche in italiano grazie a Un antidoto contro la solitudine – interviste e conversazioni edito da Minimum Fax. E va bene, Wallace non le ha mandate a dire e aveva sempre una parola su ogni argomento: parlava di tennis, parlava di matematica, parlava di crociere, parlava di rap, parlava di filosofia e ancora e ancora e ancora. Ovviamente parlava di letteratura, scrittura e scrittori. Non ha risparmiato nemmeno Thomas Pynchon, definendolo un autore “oramai superato”, almeno da quanto possiamo leggere, sempre dallo scorso settembre, in Di carne e di nulla, una raccolta di riflessioni e interviste pubblicata da Einaudi. Insomma, abbiamo davvero tanta roba per conoscere meglio Wallace, farci gli affari suoi, capire cosa c’era dietro romanzi, saggi e racconti, e per dare anche una spiegazione a tutta una serie di vicende collegate. D’altronde, si può anche essere d’accordo con l’idea che la morte non aggiusti tutto quanto e che attaccare fortemente uno scrittore sulla propria letteratura sia molto peggio che prenderlo a randellate sulle ginocchia, però Bret Easton Ellis continua ad aver fatto la figura del rosicone. Insomma è come se mezza intellighenzia, e non solo, italiana criticata apertamente da Edmondo Berselli in Venerati Maestri iniziasse a dire pubblicamente che Berselli era davvero, ma sul serio, ma incredibilmente un poveraccio. Certo, tutto può succedere, ma la figura ricorrente sarà sempre quella del rosicone.

Una video intervista a D.F. Wallace…
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Due amici in cucina: “Nunzio” di Scimone in scena a vent’anni dal debutto

NUNZIO foto di andrea coclite 1LAURA NOVELLI | Cosa festeggiamo festeggiando i vent’anni di “Nunzio”? Che pensieri ci vengono in mente guardando ancora una volta – e con il trasporto di ogni volta – questo lavoro che nel ’94 rivelò al pubblico la sensibilità teatrale di un grande autore come Spiro Scimone? Come e in cosa sono cambiate – se sono cambiate – le lievi sfumature espressive dell’interpretazione di Francesco Sframeli (Nunzio) e dello stesso Scimone (Pino)? Vorremmo rispondere in modo semplice, consapevoli che la semplicità sta sempre al fondo delle faccende più serie. Vorremmo difendere l’idea che questo testo – vincitore del Premio Idi e messo in scena con la regia di Carlo Cecchi – indica una strada di verità artistica non comune. Un’autenticità di situazione, di lingua, di ritmo, di personaggi, di prova attoriale, di senso, che in due decenni di vita non ha perso un solo grammo della sua forza. Testimonianza ne sia che “Nunzio” viaggia nel repertorio della compagnia Scimone-Sframeli da allora e che, insieme con altri successi nazionale e internazionali come “Bar”, “La festa”, “Pali”, “Giù”, sarà ancora portato in tournée nel 2014. E non è un caso che a riproporlo a Roma sia stata la rassegna “Le vie dei festival”, quest’anno particolarmente attenta alla memoria di un certo teatro italiano: quello dove i corpo-a-corpo tra parola e attore (si vedano, ad esempio, “Servillo legge Napoli”, Gifuni in “Gadda e il teatro”, Lombardi in “Tre Lai” di Testori) non sono vuote esercitazioni letterarie ma sostanza, materia teatrale delle più audaci, delle più concrete, delle più umane.

NUNZIO - Scimone Sframeli - foto di 2

“Nunzio” racconta la storia di un’amicizia, di un disagio esistenziale che si muove tra le ombre di unaprofessione violenta (incarnata da Pino, il killer) e la fragilità quasi fanciullesca di un essere puro (Nunzio, operaio in una fabbrica del nord). Entrambi hanno lasciato la loro terra (la Sicilia, così musicalmente evocata nel dialetto messinese e così viva nei ricordi, nei profumi della cucina); entrambi sono vittime di un destino infelice; entrambi sognano di fuggire, evadere, amare una donna. Entrambi mantengono però una zona di impotenza nei confronti delle esistenze proprie e dell’altro: il primo è ossessionato da un esterno minaccioso e imprevedibile (e qui il riferimento a Pinter suona fin troppo scontato); il secondo è minato da una salute cagionevole, eredità di un lavoro a rischio. I loro incontri si consumano in una cucina spoglia, dove echeggia tutto un mondo di emozioni sottili e mutevoli. E’ la lingua che li tiene incollati alla loro reale essenza. E’ il ripetersi di frasi , battute, domande che li áncora a quel quotidiano. E’ la verità del mondo che si insinua sotto quelle improvvise virate surreali, quei brividi d’ironia, quegli scarti di registro, di umore. Un grande teatro d’attore, dunque, costruito sulla carne. Cresciuto sulla carne. Sulle prove. Sulle repliche. Motivo per cui se oggi Scimone e Sframeli ci appaiono un Pino e un Nunzio forse più compassati, più malinconici, più rassegnati rispetto alla messinscena del debutto (e in parte anche rispetto alla trasposizione cinematografica, “Due amici”, premiata a Venezia nel 2000), lo dobbiamo “semplicemente” – appunto – al fatto che giocoforza la vita cambia, i tempi cambiano, gli animi cambiano. Quello che non cambia è la vocazione umanistica di un teatro che rimanda ai gangli centrali del nostro essere persone. Non ci sono soluzioni perché non possono esserci. Alla fine, resta l’attesa di un altro tempo, di un respiro largo, quasi cecoviano, inevitabilmente sospeso. Ma sappiamo che non potrebbe essere diversamente. E allora: cosa festeggiamo festeggiando i vent’anni di “Nunzio”? Forse solo la “semplicità” complicata di aver saputo raccontare l’uomo con uno sguardo poetico e sghembo. E davvero non ci sembra poco.

La videointervista del nostro Andrea Ciommiento a Spiro Scimone:

Due amici in cucina: "Nunzio" di Scimone in scena a vent'anni dal debutto

NUNZIO foto di andrea coclite 1LAURA NOVELLI | Cosa festeggiamo festeggiando i vent’anni di “Nunzio”? Che pensieri ci vengono in mente guardando ancora una volta – e con il trasporto di ogni volta – questo lavoro che nel ’94 rivelò al pubblico la sensibilità teatrale di un grande autore come Spiro Scimone? Come e in cosa sono cambiate – se sono cambiate – le lievi sfumature espressive dell’interpretazione di Francesco Sframeli (Nunzio) e dello stesso Scimone (Pino)? Vorremmo rispondere in modo semplice, consapevoli che la semplicità sta sempre al fondo delle faccende più serie. Vorremmo difendere l’idea che questo testo – vincitore del Premio Idi e messo in scena con la regia di Carlo Cecchi – indica una strada di verità artistica non comune. Un’autenticità di situazione, di lingua, di ritmo, di personaggi, di prova attoriale, di senso, che in due decenni di vita non ha perso un solo grammo della sua forza. Testimonianza ne sia che “Nunzio” viaggia nel repertorio della compagnia Scimone-Sframeli da allora e che, insieme con altri successi nazionale e internazionali come “Bar”, “La festa”, “Pali”, “Giù”, sarà ancora portato in tournée nel 2014. E non è un caso che a riproporlo a Roma sia stata la rassegna “Le vie dei festival”, quest’anno particolarmente attenta alla memoria di un certo teatro italiano: quello dove i corpo-a-corpo tra parola e attore (si vedano, ad esempio, “Servillo legge Napoli”, Gifuni in “Gadda e il teatro”, Lombardi in “Tre Lai” di Testori) non sono vuote esercitazioni letterarie ma sostanza, materia teatrale delle più audaci, delle più concrete, delle più umane.

NUNZIO - Scimone Sframeli - foto di 2

“Nunzio” racconta la storia di un’amicizia, di un disagio esistenziale che si muove tra le ombre di unaprofessione violenta (incarnata da Pino, il killer) e la fragilità quasi fanciullesca di un essere puro (Nunzio, operaio in una fabbrica del nord). Entrambi hanno lasciato la loro terra (la Sicilia, così musicalmente evocata nel dialetto messinese e così viva nei ricordi, nei profumi della cucina); entrambi sono vittime di un destino infelice; entrambi sognano di fuggire, evadere, amare una donna. Entrambi mantengono però una zona di impotenza nei confronti delle esistenze proprie e dell’altro: il primo è ossessionato da un esterno minaccioso e imprevedibile (e qui il riferimento a Pinter suona fin troppo scontato); il secondo è minato da una salute cagionevole, eredità di un lavoro a rischio. I loro incontri si consumano in una cucina spoglia, dove echeggia tutto un mondo di emozioni sottili e mutevoli. E’ la lingua che li tiene incollati alla loro reale essenza. E’ il ripetersi di frasi , battute, domande che li áncora a quel quotidiano. E’ la verità del mondo che si insinua sotto quelle improvvise virate surreali, quei brividi d’ironia, quegli scarti di registro, di umore. Un grande teatro d’attore, dunque, costruito sulla carne. Cresciuto sulla carne. Sulle prove. Sulle repliche. Motivo per cui se oggi Scimone e Sframeli ci appaiono un Pino e un Nunzio forse più compassati, più malinconici, più rassegnati rispetto alla messinscena del debutto (e in parte anche rispetto alla trasposizione cinematografica, “Due amici”, premiata a Venezia nel 2000), lo dobbiamo “semplicemente” – appunto – al fatto che giocoforza la vita cambia, i tempi cambiano, gli animi cambiano. Quello che non cambia è la vocazione umanistica di un teatro che rimanda ai gangli centrali del nostro essere persone. Non ci sono soluzioni perché non possono esserci. Alla fine, resta l’attesa di un altro tempo, di un respiro largo, quasi cecoviano, inevitabilmente sospeso. Ma sappiamo che non potrebbe essere diversamente. E allora: cosa festeggiamo festeggiando i vent’anni di “Nunzio”? Forse solo la “semplicità” complicata di aver saputo raccontare l’uomo con uno sguardo poetico e sghembo. E davvero non ci sembra poco.

La videointervista del nostro Andrea Ciommiento a Spiro Scimone:

Giallo fra le Stanze: videointervista a Chiara Lagani

giallo5RENZO FRANCABANDERA | Due cose interessanti l’una nell’altra. La seconda parte del dittico sul Discorso Giallo, quello sull’educazione per capirci, di Fanny&Alexander, ospitato all’interno dell’ormai consolidata rassegna di teatro in casa di Teatro Alkaest a Milano, coordinata e diretta dal duo al femminile Archinto/Tansini.
Per la rassegna “Stanze” siamo a 5 spettacoli + un “fuori programma” in costruzione in un ristorante. Gli spettatori complessivi portati nelle case a vedere spettacoli sono circa 500 in 12 repliche, 5 case, un laboratorio di tessitura, un ristorante. A Roma l’iniziativa sarà nelle date del 6 e 17, 23 e 24, 30 novembre e 1 dicembre con 3 spettacoli: Essere norvegesi, Uno e Il ballo, ispirato al libro omonimo di Irène Némirovsky con Sonia Bergamasco.
Ho ospitato una delle repliche di Stanze a casa mia, con Federica Fracassi nella parte di Eva Braun. Un dolcissimo caos di gente, sedie, mobili spostati, sorrisi, teatro, cibo. Poi tutto è tornato com’era in un clic. E’ rimasto un sapore nell’aria. Nelle stanze. Mi ci aggiravo incredulo come chi avesse visto passare un sogno lucido. Bellissima esperienza, sia da pubblico che da ospite.

Veniamo ora al lavoro pluriennale sul Discorso, che sta impegnando Fanny&Alexander, un polittico di cui siamo alla seconda tavola, quella dedicata al colore Giallo, a sua volta bipartita in Discorso Giallo e Giallo (cui questavideo intervista vuole riferirsi), entrambi interpretati da Chiara Lagani (il 3 dicembre in abbinata all’Angelo Mai Roma).
Lavorare sulla parola e l’insegnamento, l’immaterialità della trasmissione del sapere, dei valori: in Giallo gli spettatori diventano scolaresca, trapassati da parole che potrebbero essere le loro, del bambino che gli vive dentro. Un’esperienza, quella di Fanny&Alexander dopo Discorso Grigio, rivoluzionata dall’interazione con alcune scolaresche di scuola elementare nel territorio romagnolo, come ci testimonia Chiara Lagani in questa videointervista per noi di particolare interesse, proprio perchè focalizzata sul tema del linguaggio e della contemporaneità, a cui PAC, come gruppo di ricerca, è da sempre è votato, e che prende spunto dall’immaterialità della parola, delle paure, per arrivare alla materialità delle architetture e dello spazio come luogo per un “meglio” possibile, che coinvolga anche lo spirito. Dalla scuola chiusa, cimitero di anime, alla rivoluzione spaziale e concettuale del bello, dell’equilibrato, dell’aperto. Roba quasi d’altri tempi, per l’ardimento utopico sotteso alla riflessione. Ma in fondo cos’è al contempo più prezioso e più gratuito dell’utopia?

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Tindaro Granata: bomba o non bomba?

tindaro granata antropolaroidELENA SCOLARI e RENZO FRANCABANDERA | Partirono in due ed erano abbastanza. Antropolaroid di Tindaro Granata al Sala Fontana a Milano. L’anno scorso all’Elfo successone. E anche qui la sala è piena per uno spettacolo di narrazione di una classicità cristallina. Lui, due fari, un lenzuolo,la sedia. Un trentenne e poco più di talento, che racconta attraverso la storia di una famiglia proletaria, la sua, le vicende della Sicilia da fine ottocento ai giorni nostri. Lunghi applausi, alla fine.

Lui: allora?
Lei: così così. Per me la granata non è esplosa.
Lui: come così così? Come non è esplosa? Eccola, la solita che c’ha da dire. Sentiamo…
Lei: titolo del genere che non se ne può più. La cosa peggiore era una claque assurda che ha riso sguaiatamente e continuamente a sproposito, che mi ha molto infastidito e anche assai disturbato la visione.
Lui: ma perchè? Dai Antropolaroid è un po’ vintage ma non è brutto. Resta impresso, e poi scusa ma mi pare che questo tuo inizio di riflessione nulla abbia a che vedere con uno spettacolo che invece è riuscito a zittire un numero di studenti portati qui dall’insegnante dem di turno, e che però dopo la raffica di “shhh!” iniziale , tipica dell’adolescenza, sono rimasti inchiodati da una narrazione viva, sincera. Si, tradizionale, ma in fondo ben recitata. Con ritmo. Non puoi negare. Dai dimmi due parole concrete.
Lei: in sintesi penso che lui sia bravino, ma non da segnalare per questo, quello che mi è piaciuto di più è la drammaturgia, un incastro secondo me ben studiato, abbastanza complesso. però fa troppo il verso quando interpreta i personaggi, viene da dirgli “Tindaro: anche meno”
Lui: beh, sempre diminutivi, diminutivi. La drammaturgia è un incastro di storie quasi manzoniane prima e via via di letterarietà novecentesca, fino a dialogare con onirici approdi di teatro contemporaneo. E’ diacronico non solo nella storia ma anche nel percorso che fa nel letterario con cui per tutta la drammaturgia dialoga. Lui è bravo. I bravini non tengono tutti zitti per un’ora e più a sentire pezzi interi in siciliano stretto, recitato con l’aiuto di una maglia che diventa manta della nonna, giacca del nonno e bandiera al vento. A Cesare quel che gli è dovuto. Se proprio vuoi criticare sposta il fuoco altrove…
Lei: si, beh, per me ha fatto delle pessime scelte musicali, pessime, banali e nazionalpopolari nel senso peggiore, e deve licenziare il fonico. Idee sceniche non ce ne sono quasi, anzi, l’unica è piuttosto trita (Libiamo nei lieti calici mentre lui se ne va in giro ondeggiando col lenzuolo durante una festa da ballo…)
Lui: si, beh (le fa un po’ il verso, ndr), se uno fa uno spettacolo stile Baliani, nu faro e na seggiulilla, che idee sceniche vuoi che abbia. Anzi è proprio la povertà di scena a far esaltare la parola. Non so, io esco contento da uno spettacolo onesto, che non vuole ammiccare, recitato con passione, non artefatto, e senza furbizie da analfabeti di teatro allo sbaraglio. E’ uno spettacolo che rimane invece fresco ed avvincente, una melagrana spaccata sul tavolo ad ognissanti.
Lei: rimane una buona storia, alcuni momenti belli, quelli più teatralmente spogli, una saga familiare tragica e simbolica e un bel finale. da lasciar respirare di più, però.
Lui: che donna razionale. Sul respiro sono d’accordo. Un po’ meno, si, non era necessario dire proprio tutto tutto, e quell’onirico finale, della nonna che biascica un futuro impossibile, è un passaggio bello che poteva essere strada anche per altri momenti dello spettacolo. Ma il ragazzo ha tempo per crescere. A inizio anno il nuovo spettacolo al Teatro dell’Elfo. Si va? Però vieni tranquillina eh… Ah, senti, bravina, mi devi una cena o sbaglio? Non ci portiamo troppo avanti con la promessa, che poi ce la scordiamo. Io mi butterei qui in una trattoria zona Isola. Bomba o non bomba.

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Le ossessioni di un artista visionario: Jan Fabre fra scena e arte

fabreLAURA NOVELLI – CARLA RUSSO | Quest’anno il Romaeuropa Festival ha dedicato una ricca retrospettiva all’artista belga Jan Fabre. Scopo dell’iniziativa: verificare l’attualità di quelle ossessioni – il corpo, il tempo, l’eros, la morte, la religione – e di quella visionarietà che hanno rappresentato i perni centrali del suo lavoro. Intervistato di recente a Napoli in occasione della presentazione dell’edizione italiana del suo volume Giornale Notturno (1978-1984), curato dal prof. Franco Paris, l’artista esplicita i cardini della sua poetica e della sua ricerca artistica. Le sue opere inscenano sempre il conflitto, come nel modello della tragedia greca, presente attraverso l’alternarsi di dualismi: attore/danzatore, angelo/diavolo, uomo/donna. Conflitto che necessita di un “corpo disciplinato” per giungere alla performance, come avveniva per Fred Astaire. “Mi chiedevo se i suoi movimenti fossero naturali, invece studiava molto”, ammette Fabre, “l’agilità di Fred Astaire viene repressa dalla disciplina, ma è proprio in quel momento che scaturisce una forza, una resistenza”. Corpo politico, carnale, erotico, palpabile, è forte il richiamo alla tradizione fiamminga, basti pensare a Rubens, Van Dick, Van Eyck, Bosch e Rembrandt. Come spesso accade nell’arte contemporanea,anche per Jan Fabre il corpo si rivela come involucro vuoto che ha cercato di riempire, ad esempio, con le figure-spaventapasseri di Universal Copyrights (1995)Image, ma anche di segnarlo ispirandosi alla figura del Cristo (corpo stigmatizzato) e alla corazza degli animali (tartarughe, insetti,…) affinché il corpo non potesse essere più ferito. E’ da qui che parte l’idea di un nuovo performer, il performer del XXI secolo, consapevole, danzatore e attore insieme, capace di passare dall’act all’acting. Oggi l’attore non è più “spinto da necessità” come lo erano gli attori negli anni ’80 – dichiara ancora Fabre – ha minore passione a fronte, tuttavia, di una maggiore consapevolezza, di un maggiore controllo. Nella sua ricerca, Fabre è attualmente affiancato da un team di scienziati dell’Università di Anversa, dal sociobiologo ed entomologo americano Edward O. Wilson e dallo scienziato italiano Giacomo Rizzolati, che compiono studi sull’empatia attore-pubblico e sui neuroni specchio, nel tentativo di capire cosa accada ad un performer sottoposto a determinati stimoli. Dopo grandi maestri come Grotowski, Brook, Barba, Fabre si è prefissato di compiere il suo personale studio sull’attore supportato da un metodo scientifico. Barbara de Coninck, sua collaboratrice, spiega come la poetica di Jan Fabre sia permeata del medesimo terrore di fronte al mistero della morte e alla legge della continuità della vita presente nei testi ottocenteschi di un altro Fabre, suo bisnonno che di nome faceva Jean-Casimire, studioso d’insetti. Jan Fabre risponde a questo terrore attraverso il corpo, problema e soluzione alle sue domande, sublimato attraverso la metamorfosi. Tutta l’arte di Fabre è un’operazione di esorcismo, per lui la morte non è spettacolare, bensì un avvenimento la cui accettazione permette l’esaltazione della vita.
Non vanno lette perciò come due costole indipendenti le performances presentate all’Eliseo nelle settimane scorse (“The power of theatrical madness” e “This is theatre like it was to be expected and foreseen”) e la mostra “Stigmata. Actions and performances 1976-2013”, in programma al MAXXI fino a metà febbraio. Esse sono, bensì, aspetti imprescindibili di una creatività mai paga di provare nuove strade, nuove provocazioni, nuovi incubi. Ottocento le opere dislocate nel primo piano del moderno museo romano: un materiale sfrenato che mette insieme disegni, foto, installazioni, video, statue, corazze, oggetti, arnesi e citazioni autobiografiche capaci di raccontare un animo in conflitto con la vita, con il reale e con l’atto creativo stesso. Principale bersaglio: il corpo. Un corpo martoriato, trasfigurato, svuotato dei suoi umori, esposto a torture e prove di resistenza (basti citare la performance in cui Fabre si dimena per cinque ore dentro una corazza di ferro). Un corpo-sangue in cerca di atti estremi di “per-for-azione”, ma in cerca soprattutto di un senso e di una bellezza impossibili senza lotta, pericolo, uscita da sé. “Voglio scrutarmi con una lente d’ingrandimento – scrive l’artista – dentro e fuori dal corpo. E dare nuovo senso all’arte della performance. Sopportare!”.
Ed è proprio questa ossessione “scientifica” a rappresentare uno degli aspetti più moderni del percorso artistico di Fabre. Tra i numerosi pezzi in mostra ci ha colpito un video in cui egli dialoga con Edward O.Wilson (studioso di insetti e vincitore di un Premio Pulitzer per la divulgazione scientifica) ponendosi e ponendoci una domanda emblematica: la visionarietà di uno scienziato funziona esattamente come quella di un artista?
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=g7ucz9CYATU&w=210&h=160] Nel primo quadro gli interpreti siedono con le spalle al pubblico (dunque, sono il pubblico?): l’atmosfera è compassata, cupa, indefinita. Poi, a poco a poco, sul palcoscenico scorre l’intero mondo fabriano: l’eros scaduto a voyeurismo, la parola afasica, il corpo guerriero, la fatica di spogliarsi e rivestirsi per ore, l’immagine degli attori immortala da riprese in Superotto, oggetti e corpi appesi a dei ganci di macelleria, il refrain di battute assurte a leitmotiv poliglotta, l’ossessione per la morte. Lo scenario complessivo è inquietante. E insieme distante.
Durante lo otto ore, cediamo, usciamo, rientriamo. C’è chi sgranocchia qualcosa, chi gioca a Ruzzle, chi manda sms dal cellulare. La visione dunque non obbliga alla concentrazione, all’empatia. Al contrario, distanzia. Capiamo che c’è un mondo alla rovina. C’è una vita che si allunga nella morte. C’è un niente che ci attanaglia e ci toglie il futuro. E però qualcosa non regge. Qualcosa appunto ci allontana. Certamente, il titolo suona profetico se solo pensiamo a quanto teatro successivo all’82 sia stato (è o vorrebbe essere) postdrammatico, associativo, antimimetico. Ma rimane il fatto che preferiamo il Fabre del “Prometheus Landscape II”. Preferiamo la compattezza di una regia che si arrovella su un tema specifico. Anche quel lavoro era trasbordante di sovversioni: il destino eroico eschileo veniva capovolto in una desolata anarchia di certezze. Ma si usciva dalla sala “pensosi”. Memori di quel martellante monito/quesito al quale chissà quanti di noi possono rispondere con placida immediatezza: “Who is our hero?”.

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Chehere &C.: fra arte e media residenzialità non fa rima con identità

Chehere_CinemaGIULIA INDORATO | Secondo il diritto italiano, ogni persona deve dichiarare la sua residenza: una, sola e indivisibile. Non importa dove, perché o per cosa: l’importante è dichiararlo. Congiuntamente allo stato di residenza, procedono negli anni i mutamenti di stati civili e in taluni casi cifre da capogiro. Basterebbe ricordare i coniugi Trump: la famosa Ivana, lasciata dopo quindici anni di matrimonio (i riferimenti a storiacce extraconiugali si sprecano) chiede milioni di dollari e proprietà. Cornuta sì, ma con immobili al seguito (come le lumache).

C’è chi decide di rimanere chiuso in Casa, sotto l’occhio di attente telecamere ed accorte strategie di marketing (che osano citare senza pudicizia l’opera di G. Orwell). Mobilio lussuoso, cerbiatti a primavera svoltando ogni angolo, fiumi di lacrime, scherzoni, cameratismo, omicidi tentati e sventati, amori usa e getta, tette, culi e indice Auditel alle stelle (nelle prime edizioni). Da quella Casa nessuno vuole uscire.

Poi c’è chi decide volontariamente di spostarsi, ma non volendo legami identitari con l’ambiente, rimane impantanato tra la modulistica sanitaria e quella comunale. Persevera il richiamo alla lumaca. Essere invertebrato che lascia una scia di muco al suo passaggio. E’ dotata di due tipi di corna (antenne con occhi alle estremità e tentacoli sensoriali) e causa grossi danni ai vegetali in coltura. Non si muove in branco. La lumaca ha la sua casa sul groppone, edificio fai da te non Ikea, garanzia di protezione dal mondo esterno. Potrebbe essere considerata parente dell’essere umano, che lascia il segno del suo passaggio con vari mezzi (costruzioni, deviazioni, gallerie, immondizie) e distrugge luoghi in cui si insedia. L’essere bipede ha momenti di vita sociale, necessità di condivisione, ma è fondamentalmente solo. Dettaglio non trascurabile: niente casa a portata di gobba.

Ha forse centrato il punto della questione con le sue Flying Houses l’artista francese Laurent Chehere. Vecchie case volanti, amovibili, in cui tenere affetti, affanni e affettati. Strutture che spostandosi non scalfiscono l’IO territoriale degli inquilini. Niente contatto con il contorto territorio e le sue regole, bypassare confini e poteri. Nessuna legge da rispettare, mobilità totale. Il dittatore orwelliano è presente anche qui, sotto forma di graffito sulla facciata della Red Balloon, ma non fa paura e appare un gradito tributo.
L’Arte ha la risposta agli interrogativi dell’anima (e del codice civile) oppure la residenza non esiste? Forse è solo un appellativo che si dà ad un’idea astratta, un posto a cui piace pensare nei momenti di umana tristezza, a cui guardare pensando che l’attuale spiacevole realtà è solo passeggera e la serenità ci aspetta sempre lì (a “casa”). In questi giorni di infinita compilazione moduli e di attese allo sportello anagrafe, mi assalgono dubbi e montano turbe. Sognando cieli pieni di edifici, la realtà mi sbatte in faccia un grande interrogativo: “Signorina é sicura di voler sposare la residenza?”

Chehere &C.: fra arte e media residenzialità non fa rima con identità

Chehere_CinemaGIULIA INDORATO | Secondo il diritto italiano, ogni persona deve dichiarare la sua residenza: una, sola e indivisibile. Non importa dove, perché o per cosa: l’importante è dichiararlo. Congiuntamente allo stato di residenza, procedono negli anni i mutamenti di stati civili e in taluni casi cifre da capogiro. Basterebbe ricordare i coniugi Trump: la famosa Ivana, lasciata dopo quindici anni di matrimonio (i riferimenti a storiacce extraconiugali si sprecano) chiede milioni di dollari e proprietà. Cornuta sì, ma con immobili al seguito (come le lumache).

C’è chi decide di rimanere chiuso in Casa, sotto l’occhio di attente telecamere ed accorte strategie di marketing (che osano citare senza pudicizia l’opera di G. Orwell). Mobilio lussuoso, cerbiatti a primavera svoltando ogni angolo, fiumi di lacrime, scherzoni, cameratismo, omicidi tentati e sventati, amori usa e getta, tette, culi e indice Auditel alle stelle (nelle prime edizioni). Da quella Casa nessuno vuole uscire.

Poi c’è chi decide volontariamente di spostarsi, ma non volendo legami identitari con l’ambiente, rimane impantanato tra la modulistica sanitaria e quella comunale. Persevera il richiamo alla lumaca. Essere invertebrato che lascia una scia di muco al suo passaggio. E’ dotata di due tipi di corna (antenne con occhi alle estremità e tentacoli sensoriali) e causa grossi danni ai vegetali in coltura. Non si muove in branco. La lumaca ha la sua casa sul groppone, edificio fai da te non Ikea, garanzia di protezione dal mondo esterno. Potrebbe essere considerata parente dell’essere umano, che lascia il segno del suo passaggio con vari mezzi (costruzioni, deviazioni, gallerie, immondizie) e distrugge luoghi in cui si insedia. L’essere bipede ha momenti di vita sociale, necessità di condivisione, ma è fondamentalmente solo. Dettaglio non trascurabile: niente casa a portata di gobba.

Ha forse centrato il punto della questione con le sue Flying Houses l’artista francese Laurent Chehere. Vecchie case volanti, amovibili, in cui tenere affetti, affanni e affettati. Strutture che spostandosi non scalfiscono l’IO territoriale degli inquilini. Niente contatto con il contorto territorio e le sue regole, bypassare confini e poteri. Nessuna legge da rispettare, mobilità totale. Il dittatore orwelliano è presente anche qui, sotto forma di graffito sulla facciata della Red Balloon, ma non fa paura e appare un gradito tributo.
L’Arte ha la risposta agli interrogativi dell’anima (e del codice civile) oppure la residenza non esiste? Forse è solo un appellativo che si dà ad un’idea astratta, un posto a cui piace pensare nei momenti di umana tristezza, a cui guardare pensando che l’attuale spiacevole realtà è solo passeggera e la serenità ci aspetta sempre lì (a “casa”). In questi giorni di infinita compilazione moduli e di attese allo sportello anagrafe, mi assalgono dubbi e montano turbe. Sognando cieli pieni di edifici, la realtà mi sbatte in faccia un grande interrogativo: “Signorina é sicura di voler sposare la residenza?”

Parola e Potere: ovvero del Frost/Nixon all’Elfo e non solo

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foto laila pozzo / nep-photo

RENZO FRANCABANDERA | Ci sono momenti della Storia di cui l’arte fornisce traduzione in maniera difforme, ma che vengono ricondotti visibilmente a filoni di indagine comuni.

E’ così che in un lasso di tempo relativamente breve, parliamo di mesi, arrivano sui palcoscenici italiani proposte volte ad indagare il filone non del potere in generale, ma del rapporto fra parola e potere, tali da restituire un corpus di approfondimento davvero interessante.
Pensiamo in primis allo spettacolo che muove questa riflessione, ovvero il riuscito e brillante Frost/Nixon, in scena in questi giorni all’Elfo di Milano, ma anche al lavoro di Fanny&Alexander arrivato al secondo capitolo e iniziato l’anno scorso con Discorso Grigio, una riflessione proprio sulla deframmentazione della mimica e della parola nel suo rapporto con il potere, la finzione, la realtà.
Sul rapporto invece di forza e su come la parola sia in grado di incorporarlo, non possono non venir menzionati due spettacoli ispirati allo stesso testo, “Le Benevole” di Jonathan Littell, e che sono il Die Wohlgesinnten di Latella e il Lingua Imperii di Anagoor. Spettacoli questi usciti negli ultimi mesi e che portano lo spettatore ad addentrarsi in una materia che è ricchissima.
Ma andiamo a Frost/Nixon, co-produzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile dell’Umbria, inserita nel programma di Autunno Americano del Comune di Milano, spettacolo particolarmente accessibile e costruito ispirandosi a due principi che sempre, a mio avviso, occorrerebbe cercare in un esito scenico, ovvero il principio di accessibilità e il principio di semplicità/necessità.
Quanto al primo, Frost/Nixon, nella riproposizione pressochè integrale della drammaturgia di Peter Morgan scritta nel 2006, che ebbe immediata versione cinematografica da parte di mani-d’oro-Ron-Howard, il principio trova pieno rispetto in un meccanismo drammaturgico ad orologeria, brioso, thriller, capace fra rewind e fast forward temporali e spaziali di creare tessere fattuali che vanno ad incastrarsi perfettamente nel mosaico narrativo. La storia è davvero semplice, di una non casuale maschile dominanza di figure (unica donna Claudia Coli), e racconta di fatto di come l’anchorman Frost (Ferdinando Bruni) all’apice del successo televisivo, accetti, dopo le dimissioni, di realizzare una serie di interviste con l’ex presidente Richard Nixon (Elio De Capitani).

foto laila pozzo / nep-photo
foto laila pozzo / nep-photo

Il manager del presidente (Luca Toracca) negozierà una fee altissima per l’esclusiva (precorrendo i tempi); a fianco dell’ex leader azzoppato ci sono uomini d’ordine dell’apparato che hanno ogni interesse a non veder scalfito quanto fatto durante la presidenza (Nicola Stravalaci). Sarà il gruppo di giovani giornalisti e reporter (Alejandro Bruni Ocaña, Andrea Germani, Matteo De Mojana) che con il loro fiuto da segugi riuscirà a trovare le prove necessarie a portare Nixon alla confessione in quell’epica serie di duelli cui è dedicata di fatto la seconda parte dello spettacolo.

In una scena di fatto vuota, eccezion fatta per qualche monitor tv e quattro poltrone in pelle che diventeranno, allineate, interno d’aereo o di automobile e sala di registrazione, le luci di Nando Frigerio, riescono a trasportare lo spettatore in ambienti Seventies davvero evocativi, con pochi giochi d’ombra e un mood californiano da età del surf, a cui si intonano anche i costumi. E qui siamo al principio di semplicità. Questo esito, pur con il grande lavoro che ovviamente mostra di avere alle spalle, è di fatto scenicamente povero, non vuole stupire, come pure avrebbe potuto fare, con effetti speciali inutili.
Ed è proprio qui la sua forza vera. Che poi è la vera grande forza del teatro, ovvero l’attore. Dalla titanica prova di Elio de Capitani, già a suo agio in ruoli analoghi a cinema, a quella di Bruni, capace di beccheggiare fra euforie e depressioni tipiche di quel genere di caratteri, e in generale la prova convincente del gruppo, votati a creare quella solidarietà da giovani segugi da Untouchables e il profilo delle figure di regime.
La cosa più entusiasmante e drammatica, nella visione di Bruni/De Capitani, risulta l’assoluta aderenza del modello di discorso politico tanto agli stilemi oggetto dello studio puntuale di altri studiosi della scena, Fanny&Alexander su tutti in questo caso, quanto alla realtà e alla tragica mimica dei governanti dell’età dei mass media, protagonisti del nostro tempo e cui inevitabilmente il pensiero volge.
Dal Watergate in avanti, fino ai parimenti miserabili “gates” dei giorni nostri, la storia è sempre dei grandi che arrivati all’apice finiscono per palesare le loro miserie in affari di piccolo cabotaggio, losche storie di prostituzione, e quel seguito di figurine di regime che sempre attorniano il potere. E che lo trascinano inevitabilmente a fondo quando è tempo.