VINCENZO SARDELLI | Quarant’anni, l’alba di una nuova vita. Quelli di Grock il loro “secondo tempo” hanno già iniziato a festeggiarlo con un pirotecnico Avaro di Molière, in scena al Teatro Leonardo di Milano fino al prossimo 1 gennaio.
Happy Birthday, Happy New Year. L’aria di festa fa vibrare questa compagnia, creata nell’aprile 1974 da Maurizio Nichetti e dai fratelli Intropido, legata a doppio filo alla storia del teatro milanese, con quell’aria scanzonata che la contraddistingue. Divertimento, dinamismo, fisicità; numeri da circo uniti a trovate sceniche brillanti, nel segno della coralità: è questa la filigrana di Grock. Che il meglio sembra darlo quando si misura con i classici, con la transazione da rigore e fissità verso l’innovazione. Attraverso la scompaginazione degli originali, e messinscene che dialogano con i linguaggi contemporanei.
E pensare che l’Avaro (1668) è esso stesso una rivisitazione, poiché s’ispira all’Aulularia (sec. III a. C.) di Plauto. Protagonista è il taccagno Arpagone, ossessionato fino alla psicosi dalla paura di essere derubato; arido, egocentrico, egoista. Figli e servi sono pedine nelle sue mani, fiches deputate ad accrescerne il patrimonio. Di qui la loro “congiura” volta a mettere in scacco Arpagone, nel tentativo di farne affiorare quel po’ di umanità.
Gli orpelli del teatro francese del Seicento ci sono tutti in questo caravanserraglio sfrontato: un palco girevole al centro della scena (creata da Claudio Intropido), quinte di drappi e stracci tabacco che si proiettano lateralmente verso la sala, dove campeggia, con scettro e mantello, un re scelto tra gli spettatori. E poi costumi d’epoca (di Anna Bertolotti); una colonna sonora spavalda stile Goran Bregovic, con due canzoni corali che aprono e chiudono lo spettacolo (di Gipo Gurrado con la Nema Problema Orkestar); una regia (dello stesso Intropido e di Valeria Cavalli, anche traduttrice e adattatrice del testo) tesa ad animare un movimento mai fine a se stesso, attraverso un pubblico trascinato in una complicità istintiva.
Lo stile di Grock si sposa bene con il teatro francese d’epoca barocca, con una poetica tesa verso gusto dell’artificio, elaborazione e ostentazione. Erano gli anni del Re Sole e di Versailles. Anche le luci, rossastre o notturne, riproducono qui interni da pittura francese (de La Tour), scene quotidiane da pittura olandese (Rembrandt, Vermeer, Hals).
Il palcoscenico è una girandola. Tutto ruota intorno a Sua Maestà il Denaro. In questa successione di scene e controscene (di Maria Chiara Vitali) veloci, mai isteriche, anche pareti e tende hanno orecchie. È un gioco metateatrale. Gli affiatati attori (oltre al bravissimo Pietro De Pascalis-Arpagone, ci sono Jacopo Fracasso, Cristina Liparoto, Sabrina Marforio, Roberta Rovelli, Andrea Robbiano, Simone Severgnini, Clara Terranova) giocolieri e saltimbanchi, guitti girovaghi, entrano ed escono dal personaggio e dal gioco drammaturgico. Fanno il verso ai classici. Riproducono caratteri da Commedia dell’Arte, senza mai prendersi sul serio.
Tutto è calibrato, senza avvitamenti né appesantimenti. Latinorum, fermo immagine, montaggio in parallelo, mimo, balli ammiccanti da café-chantant arricchiscono la festa di Quelli di Grock. Che finiscono la serata con un monito (filtrato mica troppo dalla finzione) sulla dura vita degli attori, sulla bellezza e fatica del mestiere. In un’Italia dove con l’arte non si mangia mai abbastanza.
VINCENZO SARDELLI | Il volo di Domenico Modugno come allegoria del sogno. Io provo a volare, reduce da Campo Teatrale a Milano, in arrivo a Calenzano, San Vito dei Normanni, Massafra e Trieste, è uno spettacolo che parte da cenni biografici di Domenico Modugno e dalle suggestioni delle sue canzoni, per raccontare la vita di uno dei tanti giovani di provincia pronti, sulla scia del mito, ad affrontare la fatica di diventare artisti.
Se le sfumature di questo spettacolo sono in qualche modo autobiografiche, allora “il ragazzo si sta facendo”. Protagonista è Gianfranco Berardi, autore, attore e regista di Crispiano (Taranto). Lo accompagnano suo fratello Davide alla voce e chitarra, e Giancarlo Pagliara alla fisarmonica (la regia è di Gabriella Casolari) in un percorso nella musica di Modugno fatto di riletture rapide e scanzonate, di arrangiamenti snelli che rifiutano ogni pedanteria: da Amara terra mia a Malarazza, da Donna riccia a PasqualinoMaraja, da Vecchio Frack a Nel blu dipinto di blu.
Che talento, Berardi. Che ai miracoli si sta abituando: quello di realizzarsi in pratica senza aver mai abbandonato il paesino dov’è nato; e quello di fare un po’ quello che gli pare sul palcoscenico, alla faccia della cecità.
In Io provo a volare lo spirito del custode di un teatrino di provincia torna in scena ogni notte, in compagnia dei suoi musicisti, nel teatro in cui è condannato a vagare e su cui mosse i primi passi. Tra narrazione, musica e danza rivivono episodi di vita: i sogni, gli incontri, la formazione, le selezioni, la fuga, la scuola, il primo lavoro, il rientro con un palmo di naso, da giustificare dopo le speranze naufragate.
Berardi ricorre alla figura di Modugno come metafora. Rende omaggio agli sforzi e al coraggio di quelli che, animati da una forte passione, si lanciano all’avventura nella ricerca di una dimensione più autentica.
Camicia bianca, pastrano nero e cilindro impolveratissimi, luci sul viso impastato di biacca, Berardi si accosta a uno stile recitativo che insegue gli stilemi classici di Eduardo e della commedia dell’Arte, con qualche gradazione che l’avvicina a Totò. Ramazza in mano e rime sulle labbra, giochi di parole con qualche escursione nel dialetto tarantino, monologhi a una, due, tre voci, Berardi riempie il palcoscenico non solo in orizzontale, ma anche in verticale, con il suo fisico allampanato. E quando non basta il corpo, è la sua ombra gigantesca e surreale, proiettata sullo sfondo dal gioco delle luci, a dominare la scena. Quel corpo produce capriole e danze istrioniche, mimi e balletti. Il viso bifronte, animato da occhi proiettati all’infinito in uno spazio scenico che è anche estensione vitale, esprime con intensità variabile e tanta ironia sofferenza e fatica, fame e freddo, ma anche sogno e redenzione.
Poesia e comicità sono gli ingredienti di uno spettacolo che, attraverso un uso onirico del buio e della luce, crea spazi profondi e atmosfere. Definisce suggestioni e ricordi, ridestando nel pubblico quel sogno di libertà di cui Modugno rimane simbolo.
La cecità di Berardi trasmette un alone fascinoso allo spettacolo, esaltandone la parte lirica, in un indistinto, multiforme volo notturno.
A mia zia Melina piacevano i film che la facevano piangere. Amava particolarmente Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari nei film di Raffaello Matarazzo: “Catene” (1949), “Tormento” (1950). “I figli di nessuno” (1951), ma guardava anche “Scarpette Rosse “(1948), “Narciso Nero” (1947), “Lo specchio della vita ” (1959). Amava il melodramma.
Zia Melina piangeva sempre, vedendo gli uni e vedendo gli altri. E quando piangeva diceva di aver visto un capolavoro.
Nonostante la rivalutazione del melodramma italiano non mi sentirei di considerare opere d’arte i film di Matarazzo, insomma non me la sento di metterli allo stesso livello dei film di Powelle Pressburger e di Douglas Sirk.
Allora quando mi trovo circondata da un pubblico in lacrime cerco di capire se mi trovo davanti ad un’opera d’arte o semplicemente ad un’opera d’arte secondo zia Melina.
Ci sono molte cose che fanno piangere le persone. Raramente la bellezza. Quasi sempre le lacrime arrivano insieme alla pena, alla nostalgia, alla morte, alla malattia, ai bambini, ai vecchi, all’ingiustizia, all’assenza, al desiderio.
“Mercuzio non vuole morire” ha fatto piangere il pubblico. Un pubblico desideroso di bellezza. Molti di loro sono andati per quello, per vedere la magnifica forza di quegli attori della “Fortezza”. Un pubblico che forse non è riuscito a dimenticare mai che quegli attori vivono chiusi in un carcere, un carcere vero, non quel carcere metaforico di cui Punzo racconta: “L’ho detto molte volte: a me non interessa il carcere in quanto tale, non voglio rieducare nessuno, non è il mio mestiere. Mi interessa in quanto microcosmo, … Il carcere è un dentro, un dentro di noi”.
E chi, invece, è andato per vedere degli attori, non sapendo o dimenticando dove vivono quegli attori, non ha pianto. È stato sopraffatto dalle parole, dai suoni, dalla musica, dal girotondo di figure, dall’erudizione. Sopraffatto e prosciugato. Nessuna esperienza catartica, nessuna esperienza estetica. Solo il carcere dentro di sé. Non sempre, non a tutti, basta il riconoscersi.
MARIA CRISTINA SERRA | C’è sempre un angolo di mondo dove trovare riparo all’assedio delle immagini scomposte e riscoprire i silenzi carichi di senso, lontano dal frastuono del superfluo. Un riquadro di tempo e di spazio consolatorio, intessuto di leggerezza, che lascia intravedere le cose fuori campo, così che la banalità e l‘infinito possono trovare le loro convergenze. Nel gettare “un doppio sguardo sul mondo visibile presente e su quello evocato, una specie di alone che abiterà persone e luoghi” è stato maestro sublime Luigi Ghirri, fotografo innovatore e sperimentatore, morto prematuramente nel 1992, che dopo vent’anni di oblio si è imposto al grande pubblico, per regalarci un’etica della visione e un’idea di Paese, in cui ritrovare la memoria di una identità smarrita. Dopo il MAXXI di Roma, la mostra “Luigi Ghirri “Pensare per immagini. Icone Paesaggi Architetture” andrà nei musei di Rio de Janeiro, Mosca e Shangai, per ritornare poi in Italia nella primavera del 2014, al Festival Europeo di Fotografia (ai Chiostri di San Pietro di Reggio Emilia).
Una sorta di collante affettivo ha legato fra loro le tre sezioni tematiche “non tanto per rivedere con occhi diversi, quanto per la necessità di orientarsi di nuovo nello spazio e nel tempo”, in un percorso espositivo circolatorio per comprendere lo sradicamento del nostro vivere: “questo dover continuamente ritrovare il filo conduttore, dipanarlo tra miliardi di piccoli dettagli e incroci fisici e mentali. Un continuo ritrovarsi e perdersi subito, di nuovo”. Merito della mostra è stato anche quello di ricomporre l’atlante intimo ed artistico di Ghirri, intessuto di amicizie, amore per l’arte, la musica e la letteratura, e la sua attività di editore e divulgatore, la propensione a legare le immagini fotografiche alla parola scritta, in un continuo rincorrersi e alternarsi di realtà e finzione, frammentazioni e ricomposizioni. L’estensione dell’occhio di Ghirri si avvicina alla realtà reinventandola di introspezione, come se il mondo interiore ed esteriore si fondessero in una epifania di toni sfumati e concilianti di razionale tenerezza. “La fotografia è una grande avventura del pensare e del vedere, un grande giocattolo magico, che riesce a coniugare miracolosamente la nostra adulta consapevolezza con il fiabesco mondo dell’infanzia”, annotava.
La folgorante immediatezza e semplicità delle sue istantanee racchiudono e disvelano un insiemecomplesso di significati miscelati in un abile montaggio. “Molti hanno scambiato queste fotografie per fotomontaggi, io li definirei fotosmontaggi”, scriveva negli anni Settanta, “la realtà in larga misura si va trasformando sempre più in una colossale fotografia e il fotosmontaggio è già avvenuto nel momento reale”. Estetica e conoscenza si combinano così nella sua arte dai contorni nitidi e dalle composizioni essenziali, piene di respiro ed esenti da virtuosismo. Le sue inquadrature già esistono nella realtà, attendono solo di essere catturate. Nel momento dello scatto, lui è lì sulla soglia per fare “l’esatta valutazione, il calcolo di ciò che deve essere tralasciato e ciò che deve essere compreso”. L’intento è di togliere più che aggiungere, spogliandosi del superfluo “per arrivare ad una forma di comunicazione il più possibile semplice”.
A volte gli viene in aiuto la nebbia, che fitta avvolge la Pianura Padana, sospendendola nella magia. Sembra galleggiare fra acqua e cielo, la casa di mattoni nella Valle di Comacchio, irraggiungibile, quasi inquietante, ma certa come i ricordi. I suoi “Paesaggi” sono un viaggio nella mente e nella memoria, hanno il profumo antico dei biscotti appena sfornati, distillati di normalità che creano intimità di vissuti e condivisione. L’artista sfiora appena le cose per meglio stringerle in pugno. Cattura il “Profilo delle nuvole”, raccoglie “il respiro della terra”, che impalpabile si tinge di ocra per sfiorare il grigio velato del cielo.
La leggera trasparenza di una vetrina di cappelli a Parma, con i profili delle case neoclassiche riflesse, definisce il giusto equilibrio fra il dentro e il fuori. Le innocenti geometrie di un’altalena sulla spiaggia segnano le stagioni in fuga. Il fumo di una sigaretta, che nasconde il viso di una donna seduta su una panchina solitaria a Parigi, sottintende una storia. Da una cornice di legno posata sulla sabbia a Marina di Ravenna si osservano le increspature del mare come riquadrate da un obiettivo. Le immagini in fin dei conti “sono enigmi che si leggono col cuore”. Positivo e negativo, penombra e luce accecante, assenze e presenze, stanze private e architetture solenni ci sembrano familiari. L’armonia della Reggia di Versailles è una cartolina intagliata a colori pastello; il cimitero di Modena è un cubo di cemento lontano, lo sguardo va al biancore della neve e alla cascata argentea dei rami spioventi. “Sentiamo che abbiamo abitato più luoghi, una sintonia totale che ci fa dimenticare che tutto questo esisteva e continuerà ad esistere, al di là dei nostri sguardi”.
RENZO FRANCABANDERA | Fra il 1959 e il 1962 i libri This is Moscow Speaking di Nikolai Arzhak e The Trial Begins di Abram Tertz avevano catturato l’attenzione del KGB. In essi veniva descritta la società sovietica nelle sue derive più crude e surreali di quegli anni. Gli autori di quei libri vivevano in Unione Sovietica, andavano scovati.
Perché ce ne interessiamo? Perché abbiamo visto ieri all’Elfo di Milano “Io sono il proiettile” di e con Edoardo Ribatto, “Liberamente ispirato all’opera e alla vita di Yuri Markus Daniel, scrittore russo, dissidente, processato e condannato per reati d’opinione, “Io sono il proiettile” è una storia sull’identità, scritta in forma di radiodramma”, come recita il materiale ufficiale a supporto della visione.
Sono uno che in media spippola molto in rete. Ci spippolo poco prima degli spettacoli, per non farmi suggestionare dalle sovrastrutture, dalle critiche general generiche, di quelle copia e incolla ricavate dai comunicati stampa. Mentre dopo lo spettacolo e prima di scrivere, mi faccio il mio viaggio in quello che lo spettacolo mi ha suscitato, cercando altre informazioni, accanedomi e sfruttando la multimedialità per sostanziare i miei convincimenti.
Questa è quindi la storia di tre grazie e di due perché a proposito de “Io sono il proiettile”, che ha debuttato a Genova nella primavera scorsa (prod. Masca in Langa e Teatro della Tosse). L’attore appartiene alla famiglia allargata degli “Elfi” ed è stato interprete di diversi recenti spettacoli prodotti dal teatro milanese. Si avventura felicemente in una ricerca individuale a proposito della vicenda di Daniel, scrittore dissidente russo, arrestato nel Settembre del 1965 insieme all’altro scrittore e critico russo Andrei Sinyavsky, con l’accusa di aver pubblicato materiale anti sovietico all’estero sotto gli pseudonimi, rispettivamente di Nikolai Arzhak e Abram Tertz.
Il primo grazie a Ribatto è quindi quello di aver indagato un episodio centrale della vicenda politica e culturale della dissidenza sovietica, costruendone una drammaturgia interessante, offerta al pubblico sotto forma di simil-radiodramma. Diciamo simil perché in realtà la presenza in corpore di Ribatto, permette all’attore di utilizzare la mimica per approfondire le sensazioni che con la voce comunque trasmette. Qui il secondo grazie, perché usa una forma evocativa e destrutturante insieme, e ne ricava uno spettacolo. Ribatto, con tre microfoni, ognuno dei quali collegato ad effetti sonori diversi, dà vita a diversi personaggi, aiutato da un diaframma notevole e da una presenza scenica matura e sincera. Lo ringraziamo di questo (ed è il secondo grazie), perché ci aiuta a riflettere sulla forma del radiodramma (anche se c’è una scenografia, composta da una bandiera sovietica “trattata in salsa pop” su cui vengono proiettati una serie di scatti fotografici di Elisabetta Torre in stile fotoromanzo, di cui Ribatto ci regala dal vivo la voce. E una radio valvolare anni 60).
Lo spettacolo è bello anche se si allunga in una forma la cui fissità dopo un po’ mostra i segni. Perché il radiodramma ha il privilegio di consentire a chi l’ascolta di viaggiare con la mente anche spostandosi col corpo, mentre lì, in teatro, fermi sulla poltrona, forse ci si sente costretti. Ribatto intuisce la cosa e tenta di rompere l’immobilismo della sua pur pregevolissima presenza attorale, compiendo qualche minimale azione, ma forse servirebbe qualche concessione in più per evitare che nell’ultima mezz’ora il tutto appaia statico e un po’ affaticante. Una buona idea, forse trascinata per pulizia e coerenza fino in fondo, non pensando però che questa pulizia viene pagata con una minore efficacia, che è un obiettivo primario di una creazione artistica completa.
Veniamo ora ai perché.
Il primo perché nasce dallo spippolamento successivo. Perché invece che copiare e incollare tal quale il nome di “Yuri Markus Daniel” nel mio articolo, sono andato a digitarlo in Google, aspettandomi di trovare riferimenti all’autore e alla sua vicenda, ulteriori rispetto a quelli contenuti nella presentazione dello spettacolo e negli articoli che su quel comunicato sono basati. E che sorpresa invece nel non trovare assolutamente NULLA.
Il mistero a questo punto si infittisce e mi accanisco. Anche perché in italiano sulla cosa pare non venir fuori nulla dall’algoritmo di Google, e quindi ancor più la sfida si fa interessante. Insomma pare che la damnatio memoriae di “Yuri Markus Daniel”, come il nome del dissidente viene riportato nel comunicato ufficiale dello spettacolo, continui.
Ma scrivendo su Google con nemmeno troppa fantasia “Daniel russian dissident writer”, ecco che subito Wikipedia mi informa di trovarmi di fronte alla vicenda umana di Yuli Markovich Daniel (in cirillico Ю́лий Ма́ркович Даниэ́ль, (listen); November 15, 1925 — December 30, 1988) was a Soviet dissident writer, poet, translator, and political prisioner.” Che scrisse sotto gli pseudonimi di Nikolay Arzhak e Yu.
Ma Yuli e Yuri sono lo stesso nome?
La risposta ce la fornisce il portale www.nome.me: Yuli e Yuri sono due nomi diversi, corrispondenti, in italiano a Giuliano e Giorgio.
E’ chiaro che se si decide di parlare di un fatto storico, di illuminarlo con la propria ricerca individuale, si ha la responsabilità di tradurne gli esiti in forma filologicamente corretta, anche per rispetto alla vicenda umana di cui ci si occupa. Come Ribatto ha conosciuto questa storia? Quali documenti ha potuto consultare e quindi perché (il primo perché) ce l’ha proposta in una forma anagraficamente “corrotta”, termine usato in filologia per definire quando un nome viene riportato in maniera non conforme alla lectio più comune?
A questo punto, e a beneficio di quelli che stanno leggendo gli esiti di questa indagine su uno scrittore di cui altrimenti nulla potrebbero rintracciare con le informazioni che lo spettacolo ci fornisce, chiudiamo con il link alla pagina dell’Encyclopaedia Britannica dedicata al nostro scrittore e con la segnalazione che in italiano di Nikolaj Arzhak (cui già in copertina ci si riferisce come a J.M. Daniel) nel 1966 l’editore Bietti pubblicò “L’espiazione e altri racconti”. Forse è questo il libro finito nelle mani di Ribatto. Qualcuno vende in questi giorni il volumetto su ebay. Per il resto pare fuori stampa (quindi qualcuno l’avrà prestato a Ribatto per corroborare la sua drammaturgia) e magari l’errore sul nome è già nel libro. Non lo possiedo quindi non posso verificarlo. E qui una vocina demoniaca dentro mi fa urlare il secondo perché (indossando i panni di Ribatto, che vuol fare uno spettacolo su un personaggio in cui ci si immedesima a tal punto da interpretarlo perfino nel corredo fotografico): “Ma cazzo, fai uno spettacolo su uno, dissidente, perseguitato, che si è sbattuto il culo per anni rischiando la vita per far arrivare i suoi libri oltre confine, mandato in Siberia, e non perdi manco due minuti a scriverne il nome su Google e a vedere se lo stai scrivendo giusto, col rischio di non mettere poi chi è interessato veramente, nella condizione di conoscere davvero il personaggio di cui vuoi parlare?”
Qui il terzo grazie a Ribatto. Se non avessi visto il suo spettacolo mai avrei fatto questa ricerca e avrei vissuto la prima giornata da Sherlock Holmes della mia esperienza di critico teatrale.
PS: Cerco anche qualcuno, a questo punto, che mi presti, gentilmente, “L’espiazione e altri racconti”.
VINCENZO SARDELLI | Ironia a parte del binomio Costanzo/De Col, con il suo percorso maledetto e surreale su Anne Sexton, è forse la performer slovena Mala Kline l’artista più interessante transitata nella XV edizione del Danae Festival, svolto a Milano a fine novembre con la direzione artistica del Teatro delle Moire (Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani) e l’organizzazione di Barbara Rivoltella.
Musica, danza, arte visuale, coreografia, poesia, sono gli ingredienti di questa rassegna che guarda al femminile. Con quel po’ di follia, che aggiunge un friccico dissacrante.
Milena Costanzo e Gianluca De Col sono gli enigmatici mattatori dello Spazio LachesiLAB di via Porpora, Il duo articola in tre fasi, tra evocativo e assurdo, il percorso su Anne Sexton, poetessa americana vissuta tra Boom, Beat e scandali, morta suicida nel ‘74. I tre mini-spettacoli Conferenza con Anne Sexton, In casa con Anne Sexton, Cocktail con Anne Sexton sono occasioni per accostarsi a questa figura drammatica della letteratura, allieva di Snodgrass, Lowell e Plath.
Pochi elementi scenici, i travestimenti al femminile di De Col, l’ironia intellettuale della Costanzo (vagamente ispirata a Franca Valeri), i video e l’uso insistito del microfono a scaldare la voce, tratteggiano in maniera inconsueta la Sexton, poetessa “confessionale” per l’uso scoperto di materiali autobiografici, “primitiva” per la coerente ricerca di un linguaggio capace di formalizzare le ossessioni in simbologie magiche o fiabesche.
Risa apotropaiche e fumo di sigaretta; sacralità e bestemmia, preghiera e psicanalisi, merda, whisky e gocce di Chanel; sguaiata introspezione, sequenze descrittive, suggestioni orfiche, canzoni solitarie biascicate e graffiate: i monologhi a due voci costruiscono la storia. Costanzo e De Col irridono il compassato modo accademico di presentare un artista. S’intrufolano nelle nevrosi quotidiane e private della Sexton. Brindano al suo bisogno d’amore tra amanti e figli, miseria, lussuria e nobiltà. Evocano la sua depressione e il suo incrollabile senso dell’umorismo.
Tutto è sofisticato e distante. Presenza e assenza dei due protagonisti sul palco si equivalgono. Il pubblico è implicato, senza lasciarsene contagiare troppo, in una dinamica di sguardi, silenzi ed evocazioni simboliche, in cui ciascuno è libero di approfondire le proprie e altrui contraddizioni.
Una febbricitante Mala Kline a Zona K non frena i suoi slanci verso un Eden (è il titolo del suo spettacolo) luogo/non luogo di opposti e paradossi, in cui la felicità cerca di aprirsi spiragli giocosi. Scenografia di chitarre, luci e ombre azzurre, vibrazioni intense prodotte da archetti di violino e leggeri attriti elettroacustici: i suoni centellinati da Mala creano un’atmosfera onirica che avvia geometrie corporee di nascite e rinascite, sguardi intensi che irretiscono il pubblico e riempiono lo spazio scenico. Su note rock taglienti e roche la performer slovena dà il la ai travestimenti. S’immerge nella natura silvestre. Guaiti bestiali intensi o rarefatti, immateriali e irreali, evocano una natura simbolica, selvaggia, primigenia, proiettata verso l’armonia. È continua l’interferenza tra la voce della natura e la forza urtante della musica. Mala Kline annusa lo spazio. La sua performance è sussultoria: da legnosa si fa leggera, si apre a contatti aerei dalla potenza liberatrice. Si fa impertinente quando quest’Eva maliarda occhieggia un Adamo-spettatore. Le luci arrossano, si tingono di rosa e azzurro, diventano lunari.
Uno spettacolo multisensoriale. Mala è metamorfica. Incarna stati animaleschi e fiabeschi. È posseduta dalla natura panica. Si denuda e s’inonda di spray verde. Occupa lo spazio orizzontale e verticale. Si corica e canta. La sua voce dilaga sul pavimento. Le note sublimano, come le bolle di sapone soffiate dalla sua bocca.
Eterea ed eclettica, l’artista slovena ci proietta nel nostro Eden quotidiano in cui la forza deve misurarsi con la fragilità, la richiesta d’essere amati deve fare i conti con lo sguardo altrui.
MICHELA MASTROIANNI | Da molti anni e ancora adesso, la forma dialogica in fatto d’arte rappresenta un’eccezione, essendosi imposto, anche e forse soprattutto per ragioni di mercato negli ultimi 40 anni, un approccio verticistico alla curatela, critica e divulgazione, fatto di figure cui vengono riconosciuti poteri rabdomantici, piuttosto che pensare invece a diffondere in maniera più orizzontale la conoscenza e recuperare il dialogo come forma maieutica.
Non sarà certo un caso se i testi apicali e la stessa pratica filosofica possono essere ricondotti alla forma del dialogo come espressione del confronto maieutico fra intelligenze. E la cultura platonica, che ha influenzato in forma così determinante l’evoluzione del sapere nell’occidente, è stata tramandata all’umanità con i suoi dialoghi.
Ritornare a questa forma di confronto sui grandi temi della vita, incrociandoli con l’arte, è il tentativo di restituire un’orizzontalità alla diffusione del sapere che, lungi dal voler essere alchemica o neopitagorica, si vuole aprire al confronto e al reciproco fecondarsi dei partecipanti al simposio. Si fanno interpreti di questo nuovo formato di ragionamento sul sapere l’associazione cagliaritana Riverrun, che da due anni propone i Dialoghi della Creanza, e il nostro magazine, impegnato su tutto il territorio nazionale con le intelligenze che lo animano, a diffondere la conoscenza come forma orizzontale di sviluppo sociale.
I Dialoghi della Creanza arrivano in questo prossimo fine settimana al secondo appuntamento, intitolato “La scienza relativa: il confine tra scienza e arte”, che vedrà la partecipazione di esperti, gente comune e appassionati di arte, teatro e forme di spettacolo dal vivo, a confrontarsi sulle declinazioni del paradigma scientifico nell’arte. Fra gli ospiti, collegati in videoconferenza, Marco Ivaldi, della compagnia Ivaldi/Mercuriati e studioso di neuroscienze, che parlarà degli intriganti esperimenti di spettacolo dal vivo connessi allo studio della reazione umana allo stimolo inconsapevole dell’arte, e Lorenzo Bazzocchi di Masque Teatro, uno degli esperimenti storici di indagine del nostro teatro su scienza, tecnica e pensiero. A condurre i dialoghi sono Lorenzo Mori, di Riverrun e Renzo Francabandera, fondatore di PAC, con il supporto organizzativo e di pensiero di Karim Galici.
I prossimi appuntamenti si prevedono non meno ricchi di attesa e fermento: il 14 dicembre, Renzo Francabandera condurrà “Scena pop: moda, fashion e tacchi a spillo in palcoscenico!” mentre, dopo la pausa invernale, si tornerà per il primo appuntamento dell’anno nuovo l’11 gennaio con “Il gesto atletico: pratiche di sconfinamento tra sport e arte”. Cosa intendiamo oggi quando parliamo di teatro e di altre forme di spettacolo dal vivo? Quali sono i testi e i segni che lo compongono? Che ruolo hanno l’immagine, i media, la parola? Come questi elementi si sommano a creare nuovi scenari di socialità?
Ad ogni incontro si proverà a tracciare una mappa d’orientamento, per restituire all’interlocutore uno scenario possibile di convergenze, sovrapposizioni e derive contemporanee. Il motto del gruppo di lavoro è semplice: “Che lo spettatore non stia tranquillo! Trasformarlo in “spett-attore” sarà uno dei possibili giochi di prestigio di questi incontri.”
Gli incontri si tengono presso la sede di Riverrun in Via Giardini 166/b a Cagliari
Per contatti, info e prenotazioni, consultare la pagina facebook dell’evento
MARIA PIA MONTEDURO | Marco Bellocchio dirige Cechov a teatro. Già questa è una notizia positiva, per l’incontro appunto a teatro tra uno dei più impegnati e geniali registi di cinema – e in rare occasioni operante sul palcoscenico – e un drammaturgo “classico” che negli ultimi anni (per fortuna) viene rivisitato per svecchiarlo e togliergli quell’aria cupa e un po’ opprimente, troppo spesso utilizzata sue nelle messe in scena. Proprio con il testo “Zio Vanja” qualche stagione fa Gabriele Vacis aveva realizzato un’edizione memorabile del testo cechoviano, evidenziando la vis comica, meglio umoristica e sarcastica, che il drammaturgo russo pone, se pur in controluce, nelle sue opere, anche in quelle ritenute drammatiche tout court.
Marco Bellocchio si accosta con dichiarato interesse allo scrittore russo e affronta l’analisi dei personaggi con rigore e lucidità. Ogni personaggio cechoviano ha un pro e un contro e Bellocchio riesce a farli convivere, con grande forza registica, traendo da ogni attore il massimo. I temi della natura, dell’amore per i boschi e gli alberi (costante non solo scrittoria, ma anche umana e personale in Cechov), dell’accusa senza scusanti per lo scempio che l’uomo fa del pianeta, qui affidati alle “prediche” del dottor Astrov (Pier Giorgio Bellochio), illuminano l’intera narrazione. Le scene di Giovanni Carluccio danno aria anche alle scene d’interno, sapientemente puntualizzate da un disegno luci quasi cinematografico (ma non è questo un appunto, anzi) anche di Giovanni Carluccio. Ogni personaggio, si diceva, con le proprie luci e ombre, si appoggia e nel contempo si discosta dagli altri protagonisti, accentuando il senso di solitudine ontologicamente umana propria del teatro cechoviano. Non mancano i siparietti umoristici, molti dei quali affidati al personaggio del professor Aleksandr Serebrjakov (un piacevolissimo Michele Placido, “domato” da Bellocchio nei suoi tentativi istrionici, che presenta così un cameo di ottima presenza e spessore): come troppo spesso ormai succede, il pubblico confonde umorismo e arguzia con comicità e ride a gola spiegata di battute sottili e ironiche… Qualche problema con l’audio, dovuto a un uso non corretto dei microfoni di sala. Ma la razza di attori che sa recitare senza microfoni è estinta?
Su tutti, come vuole il testo, emerge la figura di zio Vanja, affidato a una positiva interpretazione di Sergio Rubini. Maturo per affrontare un personaggio così spinoso come questo, Rubini lo interpreta con grande naturalezza, cogliendo il continuo dilemma della struggente malinconia che oscilla tra abulia e velleità rivoluzionarie, tra voglia e paura di vivere, tra desiderio di gesti eclatanti difficili da gestire e rassegnazione alla piattezza dell’esistenza. Rubini si muove con angoscia sul palcoscenico, quella stessa angoscia che dà a Vanja il profondo senso di frustrante insoddisfazione e nel contempo di paura di affrontare la realtà.
Bellocchio è sempre attratto dagli opprimenti legami familiari che plasmano la psiche dei suoi personaggi, ma nel contempo danno una qual sicurezza: dall’esordio fulminante dei suoi Pugni in tasca (1965) all’ultimo film Bella addormentata (2012), il tema familiare, nelle più diverse sfaccettature, è sempre presente. Anche zio Vanja, in definitiva, racconta la storia di una famiglia, un po’ allargata si direbbe oggi, dove le dinamiche dei rapporti tra i componenti viaggiano su due livelli: quello ufficiale, regolato dal rispetto dei ruoli ufficiali, e quello sotterraneo (corrosivo come un fiume carsico) che muove tutta la vicenda.
Alla fine della prima romana al Teatro Quirino, a ricevere i meritatissimi applausi in un teatro affollato, esce anche lui, il regista, con il suo giaccone un po’ sessantottino che lascia intravedere (per noi che abbiamo vissuto gli ultimi battiti del ‘68) una coerenza che il passare degli anni e i tanti successi non scalfiscono. Meno male!
MARIA PIA MONTEDURO | Henrik Ibsen è un mare magnum. Nella sua ampia produzione, lo scrittore norvegese affronta molti temi e in ogni sua opera drammaturgica, a mo’ di scatola cinese, sono ritrovabili le grandi problematiche del suo teatro e poi, dramma per dramma, specifiche situazioni e soluzioni. “I pilastri della società” (1877, a volte tradotto come “Le colonne della società” o “I sostegni della società”), pur se riconosciuto come l’iniziatore del teatro sociale di Ibsen, non è tra le opere più rappresentate, almeno negli ultimi cinquant’anni, probabilmente perché molte delle tematiche qui in nuce sono poi ampliati e amplificati in opere successive. Quindi interessante l’operazione del Teatro di Roma, in coproduzione con il Teatro Pergola di Firenze e la Fondazione Teatro Stabile di Torino, di presentare questo testo con la regia di Gabriele Lavia che ne è anche l’interprete principale nel ruolo del console Karsten Bernick.
In questo dramma è prorompente lo scontro tra morale pubblica e morale privata, tra strategia di potere e senso di servizio alla comunità, tra capitalismo e diritti dei lavoratori. Ibsen è sempre attento alle esigenze sociali e l’analisi che si delinea in questo testo è, per gli anni in cui è stato composto, estremamente attenta e anticipatrice. La disanima attuata sui pericoli di un capitalismo selvaggio che non tiene conto delle esigenze del lavoratore, che sull’altare del profitto è disposto a sacrificare vite umane, che sullo stesso altare sacrifica volentieri posti di lavoro, è veramente profetica. Il protagonista è un personaggio complesso: imprenditore privo di scrupoli, molto furbo, sa però donare alla comunità serenità e benessere, mantenendo un certo equilibrio tra i propri interessi e quella della collettività, anche perché, non considerando questi ultimi, la società stessa scivolerebbe verso caos e anarchia, che disturberebbero i suoi interessi. Grande comunicatore, uomo che sa essere affabile e che maschera la propria furbizia con una patina di decoro apparentemente inattaccabile, egli non si pente, fino a un certo momento del dramma, di aver costruito la propria fortuna (e in parte quella della società) su menzogna e falsità. “Pereat unum pro multis”, potrebbe essere il suo motto, convinto di essere quasi l’unto del Signore, l’unico in grado di garantire rigore, prosperità con conseguente serenità, alla società di cui si sente, con malcelato orgoglio, un pilastro, forse addirittura “il” pilastro. Ma quando interviene un quid che altera l’iter dei suoi progetti (il ritorno cioè in città di una donna straordinaria, Lona, da lui amata in gioventù) una parte della sua struttura granitica inizia a vacillare. Lona invoca per lui e per gli altri verità e sincerità, cercando di far capire che una società che si basa sull’inganno e sulla menzogna, anche se economicamente florida, è comunque marcia e da abbattere. Con maestria, degno anticipatore di grandi comunicatori di là a venire, Bernick rivolta tutta la vicenda a suo favore: la confessione pubblica, che con innegabile coraggio affronta – in cui rivela alla comunità una propria colpa passata che in gioventù aveva deliberatamente addossato al cognato, e che diviene una propria autocandidatura a continuare a reggere le sorti della cittadina – è innegabilmente un pezzo forte del dramma e un “trattato” molto utile per chiunque intenda fare politica, se si vede la politica come autoaffermazione e facile occasione di arricchimento… Pilastri della società devono essere verità e libertà, anche se in chiusura del testo emerge la forza delle donne quali appunto pilastri di una società equa e solidale.
Gabriele Lavia, come detto, cura regia e interpreta il ruolo principale. Come spesso accade, la regia di Lavia è molto curata e l’artista fa ruotare tutte le situazioni intorno a un fulcro, che è la figura, per certi versi affascinante e magnetica, di Bernick. Lo spettacolo però pecca di alcune lungaggini e non sempre il ritmo è fluido. Il cast, cui si riconosce impegno e validità, non brilla in modo particolare, costretto dalla regia a una recitazione spesso sopra le righe, con fastidiose incursioni nelle macchiette. Lavia, dal canto suo, non indulge in maniera particolare ad autocompiacimenti, ma sopisce la modernità del testo con un adattamento teatrale troppo ottocentesco e tradizionale.
Alla scrivente poi colpisce in maniera negativa che, come sottolineato dall’epigrafe che compare sui manifesti dello spettacolo – la politica è corrotta perché la società è corrotta – si sia scelto di cavalcare la tigre dell’antipolitica, tradendo quello che è lo spirito ibseniano. Egli infatti, pur se con sano realismo riconosce i limiti di molti politici, non vede la politica necessariamente come sinonimo di malaffare.
Per saperne di più: http://www.teatrodiroma.net/adon.pl?act=doc&doc=2548
EMANUELE TIRELLI | Richard Yates non sarebbe mai diventato uno scrittore senza Francis Scott Fitzgerald. Fu lui stesso a dichiararlo. Herman Melville aveva una profonda ammirazione per Nathaniel Hawthorne e il loro carteggio lo dice chiaramente. Tra Henry Miller e Anais Nin esplose un amore sanguigno e appassionato. La storia della letteratura è piena di vicende di questo tipo. E magari è anche divertente, interessante, o quello che volete, farsi un po’ i fatti degli autori, scoprire cosa facevano e magari ritrovare qualche elemento nei loro romanzi. Pensiamo anche alla stima che legava John Fante e Charles Bukowski, stima e amicizia. Bukowski gli disse addirittura che sapeva scrivere come Faulkner, regalandogli così un grande complimento. Faulkner. Mica accostando lo stile dell’autore italo-americano a quello di un aspirante scrittore qualsiasi, come oggi fa Andrea De Carlo. Soprattutto se poi l’aspirante scrittore qualsiasi risponde “Fante ha toccato l’inferno, ma io mi ci sono seduto sopra”.
La storia della letteratura è fatta anche di invidie, tric trac e imprecazioni. Di certo non deve essere stato facile avere a che fare con molti di loro. Sembra che Salinger fosse uno che tirava gli schiaffi dalle mani. Ma almeno era Salinger. La storia della letteratura è fatta di persone, essere umani, spesso più barcollanti di altri. Ed è per questo che ci sono molte vicende che riguardano anche le abitudini di scrittura. Eliot si occupò de “La terra desolata” in clinica dove era ricoverato per un esaurimento nervoso e si fece macellare il suo poemetto da Ezra Pound, molto più instabile di lui, che poi chiamò “il miglior fabbro”. Truman Capote si concentrava davvero solo quando era sdraiato (anche Joyce) sul letto o sul divano. Lewis Carroll ed Hemingway lavoravano in piedi, e Sartre, Bellow e Tomasi di Lampedusa riuscivano pure al tavolino di un bar. Insomma, ognuno aveva il suo posto, il suo rituale e certe abitudini da difendere con la spada affilata per proteggere e favorire l’ispirazione. De Cataldo, però, Giancarlo De Cataldo (quello di “Romanzo criminale”, per capirci) dice che oggi gli autori devono essere abituati a scrivere ovunque e con qualsiasi contorno. La domanda è “Perché?”.
Oggi i tempi sono cambiati. Si stava meglio quando si stava peggio, felicità a momenti e futuro incerto. Oggi esistono le case editrici che pubblicano a pagamento e si rende molta, molta più attenzione alle vendite che alla qualità.
Eh, ma i tempi sono cambiati.
Pure questo è vero.
Così come è vero che, proprio perché i tempi sono cambiati, Rai 3 s’è inventata Masterpiece, un talent show letterario dedicato ad aspiranti scrittori. Il vincitore si porta a casa un contratto con Bompiani per la pubblicazione del proprio romanzo in centomila succose copie e tanta visibilità. Mica male. Anzi, proprio bene. E poi con Bompiani. L’idea è pure buona e per farla funzionare (oramai da tre settimane) hanno chiamato Andrea De Carlo e Giancarlo De Cataldo per vestire i panni di due dei tre esaminatori-giudici insindacabili-finali. Un’idea nuova. E poi dietro c’è Elisabetta Sgarbi che alla Bompiani fa un ottimo lavoro. Vabbè, uno potrebbe pensare che tanti scrittori messi insieme non è che siano proprio il massimo del divertimento. Spesso capita che già un autore da solo non sopporti affatto nemmeno se stesso, figuriamoci un’accozzaglia di concorrenti sconosciuti. Però l’idea è buona. Ma è zoppa. Dimentichiamoci Yates, Fitzgerald, Capote, Hemingway e, senza sparare nell’Olimpo, dimentichiamoci pure il Pietro Grossi che nel 2006, a ventotto anni, pubblicò “Pugni” con Sellerio. De Carlo e De Cataldo fanno la parte del poliziotto cattivo e di quello buono, scambiandosi più o meno i ruoli. Poi c’è la scrittrice Taiye Selasi, anche lei giudice, a creare equilibrio e un Massimo Coppola (geniale in programmi come Brand: New e Avere Ventanni, nonché direttore della casa editrice Isdn) nelle vesti di un coach un po’ troppo infastidito da tutto.
Forse dopo tre puntate si può tirare almeno una piccola somma di quello che è successo e valutare se la produzione ha aggiustato un po’ il tiro. La risposta comunque è sì, ma le domande sono. Si parla poco di letteratura? Sì. Si parla poco di autori? Sì. A volte la concentrazione sta troppo sul candidato e poco sul suo testo? Sì. I candidati stessi, nella maggior parte dei casi, sono letterariamente imbarazzanti? Sì. Certo, niente Pound, niente Eliot, niente Salvatore Toma o Pietro Grossi. Ed è anche giusto considerare che si tratta di un prodotto televisivo. Però, insomma, a parte farsi quattro risate, sembra un’occasione sprecata, un grande sfottò. Tutto troppo veloce. Di quella velocità che si vede e che denota scarso equilibrio nella costruzione del programma. Eppure guardando l’ultima puntata aleggia la sensazione che qualcosa sia cambiato (in meglio) rispetto alle due settimane precedenti. Forse Elisabetta Sgarbi ha lanciato i primi piatti in aria per rimettere a posto le cose e avere qualche aspirante scrittore degno di questo premio. Ma per ottenere un risultato migliore dovrà rompere ancora tutti i bicchieri e sacrificare anche il servizio buono.
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