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giovedì, Novembre 14, 2024
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Dietro il velo nero di Romeo Castellucci

castellucci-four-season-3BRUNA MONACO | L’ultimo capitolo della trilogia di Romeo Castellucci ispirata a Il velo nero del pastore, novella di Nathaniel Hawthorne, è finalmente arrivato in Italia a più d’un anno dal debutto francese al Festival d’Avignon. The four season restaurant inizia nel buio totale. I primi protagonisti sono suoni appena sopportabili, illustrati da didascalie scientifiche: sentiremmo press’a poco quei rumori a trovarci a vagare nello spazio in prossimità di un buco nero, se il nostro orecchio potesse percepire quelle frequenze.

Si alza il telo nero, ennesima rappresentazione del velo del pastore di Hawthorne: simbolo della fuga dall’immagine, filo conduttore della trilogia. Siamo all’interno di una palestra anonima: una spalliera svedese, palle mediche, cassapanche porta attrezzi. Una dopo l’altra, entrano dieci donne, indossano abiti casalinghi da paesane d’altri tempi uguali per tutte, grembiuli e sabot. Una dopo l’altra, respirano forte, si cavano con una mano la lingua di bocca, una forbice nell’altra mano: fra gemiti e sangue lasciano cadere ognuna un brandello di carne. Un cane viene a ripulire il palcoscenico.

La gestualità delle attrici è stilizzata, scandita e lenta fino al parossismo. Come pure la declamazione, a tratti parodica, della tragedia poetica scritta da Hölderlin sul finire del ‘700 e rimasta incompiuta. Si tratta de La morte di Empedocle, in cui si narra dell’infelice destino del filosofo prima amato da uomini e dei, poi d’improvviso ripudiato da tutti. Scambiandosi le corone d’alloro, le interpreti si passano il ruolo di Empedocle. Poi smettono di declamare, e la loro voce arriva dagli altoparlanti.

Quando crediamo che lo spettacolo sia finito, quando le attrici sono uscite una alla volta dal palco con la stessa inesorabile lentezza con cui erano entrate, The four Seasons Restaurant cambia improvvisamente registro. Tolte le attrici, Castellucci diletta lo spettatore con le creazioni scenotecniche che tanto bene gli riescono, anche se sono creazioni già viste, perlopiù. Quindi belle, ma poco incisive.

In The four Seasons Restaurant, come sempre in Castellucci, gli ingredienti utilizzati sono compositi. E come sempre sta allo spettatore rintracciare il senso districandosi fra i linguaggi, i riferimenti e le citazioni esplicite. Ma questa ultima creazione sembra meno riuscita del solito. Sono meno organiche le relazioni fra le parti, a volte un po’ pretestuose; per la prima volta i segni appaiono vuoti, al più calligrafici. Nell’ultima mezz’ora, poi, riprende con rielaborazioni minime interi segmenti de Il velo nero del pastore, seconda parte della trilogia, sicuramente più efficace di The four Seasons Restaurant: i detriti che vorticano sospinti da un vento tumultuoso, il corpo di un cavallo morto svelato dal sipario che arretra. Si può parlare di ripresa del filo del discorso e della necessità di ritesserlo nello spettacolo che chiude la trilogia. Eppure, questo filo, più che aprire nuovi orizzonti, sembra un po’ ripiegarsi su se stesso.

Arte e Tecnologia: la digitalità nell’esperienza museale – il videoreport

console 2VALENTINA SOLINAS | Sembra passata un’eternità da quando nel 2008 a Ercolano è stato inaugurato il Mav, il Museo Archeologico Virtuale o da quando è stata completata la ricostruzione virtuale dell’antica via Flaminia di Roma e della villa di Livia al Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano; nei musei italiani sempre più frequentemente si sta diffondendo l’uso della tecnologia.
Un esempio recente di interazione fra cultura museale e nuova digitalizzazione si trova a Pisa nel Museo Nazionale di San Matteo, che si pone come obiettivo futuro l’utilizzo estensivo delle applicazioni tecnologiche. A fine dicembre del 2012, con la convenzione della Scuola Superiore di Sant’Anna e la collaborazione dell’associazione culturale Mnemosyne, spin off del laboratorio di robotica PERCRO, nella sala della Chiesa della Spina è stato introdotto un supporto video costituito da slide che riassumono cronologicamente la storia della chiesa pisana, mostrando le principali date e le foto d’epoca. L’innovazione più interessante per un museo dedicato all’arte antica si trova nella sala adiacente, che ospita pale e polittici dei pittori tardo gotici e rinascimentali; là è situato il polittico di Santa Caterina D’Alessandria di Simone Martini. L’opera del pittore senese è ritornata al suo posto a maggio del 2013, dopo due anni di restauro, consumati in un’altra sala dello stesso edificio. Per non privare il museo del capolavoro trecentesco si ovviò con una riproduzione digitale dell’opera, in scala 1:1.
L’associazione Mnemosyne realizzò un progetto che per la sua spettacolarità poteva essere considerato un’istallazione di software art: uno schermo con il quale si poteva interagire tramite l’interfaccia grafica di un touch screen, su cui erano organizzate informazioni a più livelli, nozioni storiche e artistiche, notizie sui precedenti restauri, integrate da due video del risanamento che si stava realizzando al museo, con l’aggiunta della sezione dedicata alla diagnostica. La parte più strabiliante era l’opzione pan-zoom sullo schermo che permetteva di visualizzare da vicino un punto scelto nell’opera, offrendo la possibilità di una visualizzazione approfondita e dettagliata, altrimenti impensabile.
Finito il restauro, lo schermo digitale è stato sostituito dal lavoro originale, ma ad affiancare il polittico è rimasto il supporto interattivo con le schede testuali e i video. La console ha un effetto estremamente attrattivo, tanto che il giorno dell’inaugurazione che sanciva il reintegro dell’opera, molti visitatori si sono fermati a comprovare la duttilità del touch.
Dopo aver visto il progetto sul Martini viene quasi da sperare in una totale rivoluzione tecnologica per tutti i musei italiani, in quanto la console che supporta il polittico di Santa Caterina D’Alessandria è un valido aiuto nella diffusione delle notizie storico – artistiche, soprattutto perché l’opera rimane l’attrazione principale.
Per molti addetti ai lavori, e in fondo dal contributo di Benjamin in avanti, il tema per le tecnologie è se il loro utilizzo, nel riprodurre o replicare un’opera d’arte alteri o meno la percezione naturale dell’oggetto, offuscando l’oggetto dell’esperienza museale che è l’esposizione pubblica e in luogo idoneo dell’opere d’arte.
Negli Stati Uniti, sempre a maggio del 2013, ha avuto molta risonanza la rivoluzione digitale del museo di Cleveland di cui l’attrazione principale è la spettacolare Gallery One, una parete multimediale di oltre 12 metri, composta da 10 aree interattive che si differenziano a seconda del target di visitatori (ad esempio ce ne sono due dedicate ai ragazzi) o in base alle preferenze: gli interessati possono scegliere o creare un proprio percorso per visitare le collezioni, scaricare l’itinerario tramite apposite apps, e armati di iPad esplorare il patrimonio artistico del museo. Un caso che ha fatto scalpore e acceso un dibattito intenso.

Nell’attuale panorama museale si corre il rischio che l’intervento creato per incrementare la fruizione dell’oggetto artistico o ideato per divulgarne la conoscenza storica si possa trasformare in un prodotto d’intrattenimento più “interessante” dell’oggetto stesso. É lecito domandarsi quanto realmente siano necessarie certe misure d’intervento; soprattutto nei casi in cui agli occhi dello spettatore si presenta un’esposizione tecnologica (come per Cleveland); dove lo strumento concepito per facilitare l’esplorazione dei beni artistici quasi si sostituisce ad essi.
Per maggiori chiarimenti sulla questione, abbiamo intervistato il direttore del Museo di San Matteo, Dario Matteoni, e la realizzatrice del progetto sul polittico di Simone Martini, Chiara Evangelista, socia e fondatrice dell’associazione culturale Mnemosyne.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=hAPtQnoyCOc&w=560&h=315]

Arte e Tecnologia: la digitalità nell'esperienza museale – il videoreport

console 2VALENTINA SOLINAS | Sembra passata un’eternità da quando nel 2008 a Ercolano è stato inaugurato il Mav, il Museo Archeologico Virtuale o da quando è stata completata la ricostruzione virtuale dell’antica via Flaminia di Roma e della villa di Livia al Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano; nei musei italiani sempre più frequentemente si sta diffondendo l’uso della tecnologia.
Un esempio recente di interazione fra cultura museale e nuova digitalizzazione si trova a Pisa nel Museo Nazionale di San Matteo, che si pone come obiettivo futuro l’utilizzo estensivo delle applicazioni tecnologiche. A fine dicembre del 2012, con la convenzione della Scuola Superiore di Sant’Anna e la collaborazione dell’associazione culturale Mnemosyne, spin off del laboratorio di robotica PERCRO, nella sala della Chiesa della Spina è stato introdotto un supporto video costituito da slide che riassumono cronologicamente la storia della chiesa pisana, mostrando le principali date e le foto d’epoca. L’innovazione più interessante per un museo dedicato all’arte antica si trova nella sala adiacente, che ospita pale e polittici dei pittori tardo gotici e rinascimentali; là è situato il polittico di Santa Caterina D’Alessandria di Simone Martini. L’opera del pittore senese è ritornata al suo posto a maggio del 2013, dopo due anni di restauro, consumati in un’altra sala dello stesso edificio. Per non privare il museo del capolavoro trecentesco si ovviò con una riproduzione digitale dell’opera, in scala 1:1.
L’associazione Mnemosyne realizzò un progetto che per la sua spettacolarità poteva essere considerato un’istallazione di software art: uno schermo con il quale si poteva interagire tramite l’interfaccia grafica di un touch screen, su cui erano organizzate informazioni a più livelli, nozioni storiche e artistiche, notizie sui precedenti restauri, integrate da due video del risanamento che si stava realizzando al museo, con l’aggiunta della sezione dedicata alla diagnostica. La parte più strabiliante era l’opzione pan-zoom sullo schermo che permetteva di visualizzare da vicino un punto scelto nell’opera, offrendo la possibilità di una visualizzazione approfondita e dettagliata, altrimenti impensabile.
Finito il restauro, lo schermo digitale è stato sostituito dal lavoro originale, ma ad affiancare il polittico è rimasto il supporto interattivo con le schede testuali e i video. La console ha un effetto estremamente attrattivo, tanto che il giorno dell’inaugurazione che sanciva il reintegro dell’opera, molti visitatori si sono fermati a comprovare la duttilità del touch.
Dopo aver visto il progetto sul Martini viene quasi da sperare in una totale rivoluzione tecnologica per tutti i musei italiani, in quanto la console che supporta il polittico di Santa Caterina D’Alessandria è un valido aiuto nella diffusione delle notizie storico – artistiche, soprattutto perché l’opera rimane l’attrazione principale.
Per molti addetti ai lavori, e in fondo dal contributo di Benjamin in avanti, il tema per le tecnologie è se il loro utilizzo, nel riprodurre o replicare un’opera d’arte alteri o meno la percezione naturale dell’oggetto, offuscando l’oggetto dell’esperienza museale che è l’esposizione pubblica e in luogo idoneo dell’opere d’arte.
Negli Stati Uniti, sempre a maggio del 2013, ha avuto molta risonanza la rivoluzione digitale del museo di Cleveland di cui l’attrazione principale è la spettacolare Gallery One, una parete multimediale di oltre 12 metri, composta da 10 aree interattive che si differenziano a seconda del target di visitatori (ad esempio ce ne sono due dedicate ai ragazzi) o in base alle preferenze: gli interessati possono scegliere o creare un proprio percorso per visitare le collezioni, scaricare l’itinerario tramite apposite apps, e armati di iPad esplorare il patrimonio artistico del museo. Un caso che ha fatto scalpore e acceso un dibattito intenso.

Nell’attuale panorama museale si corre il rischio che l’intervento creato per incrementare la fruizione dell’oggetto artistico o ideato per divulgarne la conoscenza storica si possa trasformare in un prodotto d’intrattenimento più “interessante” dell’oggetto stesso. É lecito domandarsi quanto realmente siano necessarie certe misure d’intervento; soprattutto nei casi in cui agli occhi dello spettatore si presenta un’esposizione tecnologica (come per Cleveland); dove lo strumento concepito per facilitare l’esplorazione dei beni artistici quasi si sostituisce ad essi.
Per maggiori chiarimenti sulla questione, abbiamo intervistato il direttore del Museo di San Matteo, Dario Matteoni, e la realizzatrice del progetto sul polittico di Simone Martini, Chiara Evangelista, socia e fondatrice dell’associazione culturale Mnemosyne.

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Giovani compagnie tra maratona, gabbiani e sogni nel cassetto

vanaclu

VINCENZO SARDELLI | Fisicità e dinamismo sono i tratti comuni di tre spettacoli di scena a Milano durante il ponte di Ognissanti. Chi non è partito ha potuto apprezzare un teatro di movimento e figura, in fuga dai cliché tradizionali.

A partire da Maratona di New York, soggetto di Edoardo Erba, con Cristian Giammarini e Giorgio Lupano, in programma al Leonardo. E qui è doveroso un cenno a Zuzzurro e Gaspare, che avrebbero dovuto inaugurare la stagione del teatro di piazza Leonardo da Vinci; al dolore per la morte di Andrea Brambilla, clown in impermeabile dalla comicità gentile.

Giammarini e Lupano, registi e interpreti, iniziano sul palco un’ora di corsa. Si allenano di notte per preparare la maratona della Grande Mela. Corrono, corrono. E intanto parlano. Lo straniante brainstorming lambisce ricordi, rimpianti, aneddoti, con una sceneggiatura leggera di disarmante realismo. Il ritmo della corsa varia. Il taglio onirico è accentuato da un mega video che proietta sullo sfondo immagini in bianco e nero di rara bellezza, poi flash di vita vissuta. C’è un che di tridimensionalità, luci lunari e anabbaglianti. Intanto scorre l’originalissimo sound post-rock dei Sigur Rós, lunghe suite mistiche, paesaggi sonori di atmosfere fredde e rarefatte. Ma dove vanno davvero i due amici? Chi taglierà per primo il traguardo: quello dalle ampie falcate che precede, o l’altro che segue con andatura sbilenca? La matassa si dipana con sviluppi surreali. Particolare questa road-story dalle venature introspettive e dai geli cosmici. Lo sforzo fisico si accompagna a una buona capacità recitativa (Giammarini è di scuola ronconiana). Tutto è calibrato e contenuto in un’ora di spettacolo, tempo adeguato anche alla complessità dei temi toccati.

Coraggioso il tentativo della compagnia Vanaclù di «dis-adattare» il Gabbiano di Anton Cechov, riproponendolo in chiave farsesca con il titolo di GabbiaNO (di scena al Tertulliano). Perché Cechov è complesso già di suo, straordinariamente contemporaneo, e non richiede aggiornamenti. In questa storia balneare di amori traditi, successi effimeri e solitudini i personaggi girano a vuoto intorno a un ombrellone e a una piscina gonfiabile che richiama un lago. Afa, noia esistenziale. Tutti dialogano con tutti. Senza comunicare davvero. È la gabbia che Treplev rifiuta. E si spara, sulle note di Tenco. La fitta è eccessiva per chi ama il cantautore genovese, stride con la messinscena leggera. Altre varianti rispetto all’originale: lo scrittore Trigorin, amante dell’attrice Irina, madre di Treplev, nelle mani non ha una lenza ma un videogioco; Sorin, fratello di Irina, è un disabile in carrozzella sin dall’inizio, e passa dalla radio canzoni stile vacanza-impegnata (Mina, Lauzi, Graziani, Martino). Costumi sgargianti, occhialoni da sole, riviste gossip e luci al neon, con l’esilarante trovata di By This River di Brian Eno cantata a cappella, sono il marchio di questo progetto di Woody Neri, regista e attore in scena. Che richiede ulteriore labor limae. La commistione di generi e la scansione delle scene vanno meglio dosate per evitare derive pulp di cui non è chiaro l’esito. Alti e bassi nella recitazione, dove svetta Marta Pizzigallo. Stefania Medri, Massimo Boncompagni, Loris Dogana, Gioia Salvatori, Liliana Laera e Mimmo Padrone completano il cast.

Cresce la compagnia Idiot-Savant, cui la regia di Benedetto Sicca reca un valore aggiunto. Il silenzio dei cassetti (al Teatro di Ringhiera) è una pièce a quadri che mette insieme teatro di figura e d’ombre, con una prova attoriale intensa e generosa di tutti i protagonisti (Pierpaolo d’Alessandro, Paola Michelini, Valentina Picello, Filippo Renda, Matthieux Pastore, Mattia Sartoni, Laura Serena, Simone Tangolo). Anche qui si copre bene il palco, meno bene il vuoto esistenziale. I personaggi hanno identità multiple. L’ipocrisia e il tornaconto sono le regole di base di quest’umanità in disarmo. Pressioni, trame, tresche, senso di precarietà. E lo spiraglio che il bisogno d’autenticità sia soddisfatto, che l’amore vinca. Tanti cassetti. A dar voce a ognuno di essi non solo gli attori, ma gli stessi spettatori, in un territorio dove tutto è possibile. Luci da piano-bar, musiche stranianti registrate alla viola in una grotta da Chiara Mallozzi. E un lenzuolo che diventa sipario, schermo, alcova, pavimento. E scandisce le scene fino a volare via sulle nostre teste, sulle ombre dell’anima. E scopre un cenno di danza tra due innamorati. Sulle foglie secche, citazione di Autumn in New York.

Maratona di New York
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Ci sono Bukowski, Fante e Faulkner in una clinica. E non è una barzelletta

CHARLES BUKOWSKIEMANUELE TIRELLI | Qualcuno ha deciso che è necessario girare un film su John Fante. Che al cinema manca un film su John Fante. Però è meglio se andiamo con ordine. Ci sono Bukowski, Fante e Faulkner nella camera di una clinica. E non è una barzelletta. Ok, Faulkner è fisicamente assente, ma viene richiamato più volte e con insistenza, quindi è proprio come se ci fosse. John Fante è ricoverato in questa clinica dove vivrà i suoi ultimi giorni di vita (cieco e senza gambe per il diabete) e dove detterà il romanzo Sogni di Bunker Hill alla moglie Joyce. Bukowski lo considera uno dei più grandi autori che siano mai esistiti. Il migliore. Un punto di riferimento. Un Dio. Fante lo conoscono in pochi, mentre Bukowski, ‘mbriaco e buono, ha molto successo, è un autore simbolo ed ha anche un certo peso, tant’è che minaccia il suo editore: “se non ripubblichi Fante, non ti consegno il mio prossimo libro”.
Che che se ne dica, che si rispettino o meno i gusti, la prosa di Bukowski non ha niente a che vedere con quella di Fante. Anzi, forse la prosa di Bukowski non ha niente a che vedere nemmeno con la poesia di Bukowski. Comunque i due sono lì, in questa stanza dove l’autore di Chiedi alla polvere tirerà le cuoia e dove non sa che un giorno morirà di nuovo per il film con Colin Farrell e Salma Hayek, perché quella pucciosa e picciosa storia d’amore lui non l’ha mai scritta. Perché Arturo Bandini, alter ego di Fante e quindi tozzo e nodoso, gli mollerebbe un bel cazzotto sul naso a Colin Farrell e pure al regista Robert Towne e magari pure ad Alessandro Baricco per aver scritto quella prefazione. Senza dimenticare che lo scorso agosto il regista francese Charles Guérin Surville, come dicevo all’inizio, ha dichiarato di voler girare in Molise alcune scene del suo nuovo film ispirato alla figura dello scrittore italo-americano, con gli attori Olivier Marchal e Ornella Muti. E quindi i cazzotti e i manrovesci potrebbero anche aumentare a dismisura.

Bukowski invece è sempre stato raccontato così come è. Certo, magari anche lui è stato incompreso e di sicuro, dopo averlo letto, molti hanno partorito la brillante idea: “Voglio scrivere! Ho deciso che voglio scrivere perché se può scrivere Bukowski posso farlo anche io”. E invece no. Sarà anche divertente leggere “rutto, cazzo, tette, scolo”, ma scrivere è un’altra cosa. Ad ogni modo, in questa stanza di una clinica di Los Angeles dove tutto durerà fino alla primavera del 1983 Henry Charles Bukowski va a trovare il suo amico John Fante e si sente dire che lui, John, ha lavorato a Hollywood nello stesso periodo in cui c’è stato anche William Faulkner. Sì, perché alcuni autori americani erano letteralmente corteggiati dai dollari del cinema e non sapevano dire di no alla possibilità di comprare una casa a Malibu, avere un conto in banca sicuro e non rischiare di tornare a vivere nelle topaie di Los Angeles. Quindi il cinema per loro era motivo di benessere, sicuramente, ma anche di grandi frustrazioni, perché li allontanava dal loro vero e più sincero amore: la letteratura.

JOHN FANTEAllora Fante dice a Bukowski che quando Faulkner lavora a Hollywood c’è anche lui. E che Faulkner è il peggiore di tutti ed è sempre ubriaco lercio. A volte fa addirittura fatica a entrare nel taxi da solo. Anche Fante alza spesso il gomito, un po’ per la frustrazione di non avere successo come scrittore, un po’ perché molti autori americani l’alcol se lo portano dietro dalla gioventù. E anche Bukowski non s’è mai fatto pregare per scolarsi una confezione di birre. Però Faulkner se ne va da Hollywood, lascia, mentre Fante non ha il coraggio e resta lì. Faulkner è il suo punto di riferimento. Faulkner scrive come avrebbe voluto scrivere lui, tant’è vero che lo fa dire anche al suo Arturo Bandini. Faulkner è per Fante quello che Fante è per Bukowski. Allora Bukowski gli fa un regalo, gli dice “tu scrivi bene come Faulkner” e riporta tutto quello che vi ho raccontato nella poesia “Small conversation in the afternoon with John Fante” che forse è meglio di tanti film che potrebbero girare su di lui.

A questo link la poesia

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Il Beethoven di d’Elia: biografia di un genio

beethovenVINCENZO SARDELLI | Il Beethoven di Corrado d’Elia è estro senza bisogno d’orpelli. Attore e scena. Sgabello bianco al centro, vuoto totale, azzurro luminoso; un susseguirsi di pannelli quadrati, un po’ lampade un po’ carta da musica.

È un attimo, un vortice. Rullano le luci, casca la musica. Ti ritrovi inchiodato alla poltrona come d’Elia allo sgabello.  Il personaggio, la sala, tutto è fermo. Come la mano di Beethoven nell’Inno alla Gioia. E ne nacquero le quindici note più belle di sempre.

Io, Ludwig van Beethoven, liberamente tratto da Lezione 21 di Alessandro Baricco, è la biografia di un genio: l’infanzia tormentata, la mortificante afasia fino a dieci anni, i primi successi, le manifestazioni di un temperamento ardente, i molteplici antitetici stati d’animo, ambizioni e passioni. È il ritratto di un artista moderno che detestava virtuosismi e sonorità leziose, e deragliò dalla tradizione. Unendo forza e sensibilità. Dando fisicità al suo atto creativo.

La narrazione di d’Elia rende l’esuberanza del musicista, acclamato solista-improvvisatore al pianoforte, direttore d’orchestra, compositore. C’è l’uomo, insofferente e accigliato, utopista e sregolato: andatura scimmiesca… bestia, così lo chiamavano. Una vita di povertà, solitudine e disperazione. Annodata alla sordità, che distinse oltre metà della sua vita.

Genio e sregolatezza: ma quella trasandata, unta, asociale, finalizzata all’arte e solo allora sublime. Sarà per questo che d’Elia, autore, regista e attore, qui è un direttore d’orchestra dalla cravatta slacciata e dai capelli impomatati. E centellina parole come le note su uno spartito. Con scosse e ripartenze improvvise.

È un oracolo di parole divulgative e liberatorie, imbevute degli ideali della Rivoluzione Francese. Trilli, bisbigli e urla sono tutt’uno con la musica, con luci ben dosate nelle varie tonalità (azzurro, rosso, indaco, viola, fucsia, verde, grigio opalescente, bianco abbacinante) da Alessandro Tinelli.

L’identità tra racconto, musica, mimica e luci è la nota dominante di questo monologo. D’Elia non entra nel personaggio. Entra nell’anima. Tutto è equilibrio. L’Allegro con brio è penetrante, porta la pièce a un fortissimo che si smorza e lascia il posto a un lirismo raccolto. I temi si alternano misurati fino alla conclusione gioiosa. In mezzo c’è lo Scherzo-Allegro vivace con le sue rappresentazioni fantastiche. Il Finale-Allegro si serve di variazioni. Procede attraverso trasposizioni e aggiunte. Il flusso si interrompe con un Poco andante, raggiunge nuove altezze drammatiche. E sfocia in un finale travolgente.

 

A “Le vie dei Festival” le mille Napoli di Servillo

MARIA PIA MONTEDURO | Non una Napoli oleografica e scontata, non una cartolina “sole-mare-pizza-mandolini”, non un omaggio fine a se stesso alla città di Partenope, non un’invettiva veemente contro la camorra. È un’altra la Napoli che Toni Servillo racconta, leggendo, ma sarebbe più esatto dire interpretando, le parole di scrittori napoletani, accomunati principalmente dal fatto di essere uomini di teatro o molto vicini al teatro. Salvatore Di Giacomo (Lassamme fa’ Dio), Eduardo de Filippo (Vincenzo De Pretore, Nfunno), Ferdinando Russo (A Madonna d’e’ mandarine, E’ sfogliatelle), Raffaele Viviani (Fravecature, Primitivamente), Mimmo Borrelli (A sciaveca, Papule), Enzo Moscato (Litoranea), Maurizio De Giovanni (O’ vecchio sott ‘o ponte), Giuseppe Montesano (Sogno Napoletano), Michele Sovente (Cose sta lengua sperduta), Antonio De Curtis (‘A livella), Alfonso Mangione (autore delle parole della canzone ‘A casciaforte): quindi tradizione indiscussa, fama consolidata, ma anche nuovi nomi emergenti che non sfigurano accanto a mostri sacri. Questi gli ospiti che Servillo chiama a testimoniare e a illustrare una Napoli dove Paradiso, Purgatorio e Inferno coabitano e coesistono, dove il sacro va a braccetto con il profano e dove, anzi, il profano ha tante cose da insegnare al sacro. Una Napoli terragna, ctonia, ancestrale, puteolana e flegrea, come la definisce lo stesso attore-regista, in un Teatro Vascello di Roma affollato all’inverosimile per lo spettacolo che ha aperto la XX edizione de Le vie dei Festival.

Ci si può chiedere il perché di questo “tutto esaurito” in ogni ordine e grado: la fama meritatissima dell’interprete, l’interesse che il teatro napoletano ha sempre suscitato e continua a suscitare a Roma (e non solo), la serata “libera” da altri impegni teatrali (tradizionalmente il lunedì è giorno di riposo per le sale teatrali), l’apertura di una rassegna apprezzata sempre di più da critica e pubblico? Sta di fatto che la serata è risultata interessantissima, e non solo per aver ascoltato la gamma di interpretazioni vocali, facciali, mimiche con cui Servillo ha dato spessore alla lettura dei brani – e già questo sarebbe motivo soverchio di soddisfazione; ma perché ne è uscita appunto un’immagine non necessariamente prevedibile di Napoli, pur nella lettura di brani celeberrimi, quali ad esempio “A livella” di Antonio de Curtis-Totò. È una Napoli sofferente, che non comprende appieno il perché di tanta sofferenza e sembra che neanche l’al di là (con tutti i suoi illustri abitanti) lo comprenda appieno. Una Napoli che tiene quasi in scacco le regole del Paradiso, mettendo “in difficoltà” il Padre Eterno. Una Napoli che nelle “filastrocche” di Enzo Moscato e di Mimmo Borrelli (tourbillon di immagini della città, dei suoi drammi e delle sue gioie)  stordisce chi la osserva, ma tramortisce anche chi la vive, la conosce e, con rabbia dolente, la ama. E lo stesso dialetto napoletano si dispiega in una varietà veramente apprezzabile. È la lingua ironica e sorniona di Di Giacomo, la melanconica di de Filippo, ma è anche quella acre, violenta, spesso turpe, di Moscato, Borrelli, Sovente; è la lingua sognante di De Giovanni e quella sagace di Totò. Per ogni lingua, per ogni autore, Toni Servillo cambia registro interpretativo, pone l’accento su un aspetto, su un vizio sociale, su un dramma personale, senza cadere nello scontato, nel macchiettistico, nel déjà vu.

Napoli sembra contenere mille tranelli per chi la voglia veramente comprendere e ogni autore, consapevole di questo, offre “una” chiave di lettura, non “la” chiave. E così l’interprete, da grande attore qual è, presenta Napoli nelle sue diverse sfaccettature, perché in essa convivono, interagiscono e si compenetrano forze diverse, spesso antagoniste e contraddittorie. Uno spettacolo che si presenta come la classica serata di teatro da leggio – oggi particolarmente diffusa anche per la crisi economica – e che invece ha fatto sfilare sul palcoscenico spoglio, dalla scenografia essenziale (per non dire totalmente assente) una rassegna di autori, personaggi, mondi diversi, unificati nella figura, teatralmente parlando, carismatica di Toni Servillo.

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A "Le vie dei Festival" le mille Napoli di Servillo

MARIA PIA MONTEDURO | Non una Napoli oleografica e scontata, non una cartolina “sole-mare-pizza-mandolini”, non un omaggio fine a se stesso alla città di Partenope, non un’invettiva veemente contro la camorra. È un’altra la Napoli che Toni Servillo racconta, leggendo, ma sarebbe più esatto dire interpretando, le parole di scrittori napoletani, accomunati principalmente dal fatto di essere uomini di teatro o molto vicini al teatro. Salvatore Di Giacomo (Lassamme fa’ Dio), Eduardo de Filippo (Vincenzo De Pretore, Nfunno), Ferdinando Russo (A Madonna d’e’ mandarine, E’ sfogliatelle), Raffaele Viviani (Fravecature, Primitivamente), Mimmo Borrelli (A sciaveca, Papule), Enzo Moscato (Litoranea), Maurizio De Giovanni (O’ vecchio sott ‘o ponte), Giuseppe Montesano (Sogno Napoletano), Michele Sovente (Cose sta lengua sperduta), Antonio De Curtis (‘A livella), Alfonso Mangione (autore delle parole della canzone ‘A casciaforte): quindi tradizione indiscussa, fama consolidata, ma anche nuovi nomi emergenti che non sfigurano accanto a mostri sacri. Questi gli ospiti che Servillo chiama a testimoniare e a illustrare una Napoli dove Paradiso, Purgatorio e Inferno coabitano e coesistono, dove il sacro va a braccetto con il profano e dove, anzi, il profano ha tante cose da insegnare al sacro. Una Napoli terragna, ctonia, ancestrale, puteolana e flegrea, come la definisce lo stesso attore-regista, in un Teatro Vascello di Roma affollato all’inverosimile per lo spettacolo che ha aperto la XX edizione de Le vie dei Festival.

Ci si può chiedere il perché di questo “tutto esaurito” in ogni ordine e grado: la fama meritatissima dell’interprete, l’interesse che il teatro napoletano ha sempre suscitato e continua a suscitare a Roma (e non solo), la serata “libera” da altri impegni teatrali (tradizionalmente il lunedì è giorno di riposo per le sale teatrali), l’apertura di una rassegna apprezzata sempre di più da critica e pubblico? Sta di fatto che la serata è risultata interessantissima, e non solo per aver ascoltato la gamma di interpretazioni vocali, facciali, mimiche con cui Servillo ha dato spessore alla lettura dei brani – e già questo sarebbe motivo soverchio di soddisfazione; ma perché ne è uscita appunto un’immagine non necessariamente prevedibile di Napoli, pur nella lettura di brani celeberrimi, quali ad esempio “A livella” di Antonio de Curtis-Totò. È una Napoli sofferente, che non comprende appieno il perché di tanta sofferenza e sembra che neanche l’al di là (con tutti i suoi illustri abitanti) lo comprenda appieno. Una Napoli che tiene quasi in scacco le regole del Paradiso, mettendo “in difficoltà” il Padre Eterno. Una Napoli che nelle “filastrocche” di Enzo Moscato e di Mimmo Borrelli (tourbillon di immagini della città, dei suoi drammi e delle sue gioie)  stordisce chi la osserva, ma tramortisce anche chi la vive, la conosce e, con rabbia dolente, la ama. E lo stesso dialetto napoletano si dispiega in una varietà veramente apprezzabile. È la lingua ironica e sorniona di Di Giacomo, la melanconica di de Filippo, ma è anche quella acre, violenta, spesso turpe, di Moscato, Borrelli, Sovente; è la lingua sognante di De Giovanni e quella sagace di Totò. Per ogni lingua, per ogni autore, Toni Servillo cambia registro interpretativo, pone l’accento su un aspetto, su un vizio sociale, su un dramma personale, senza cadere nello scontato, nel macchiettistico, nel déjà vu.

Napoli sembra contenere mille tranelli per chi la voglia veramente comprendere e ogni autore, consapevole di questo, offre “una” chiave di lettura, non “la” chiave. E così l’interprete, da grande attore qual è, presenta Napoli nelle sue diverse sfaccettature, perché in essa convivono, interagiscono e si compenetrano forze diverse, spesso antagoniste e contraddittorie. Uno spettacolo che si presenta come la classica serata di teatro da leggio – oggi particolarmente diffusa anche per la crisi economica – e che invece ha fatto sfilare sul palcoscenico spoglio, dalla scenografia essenziale (per non dire totalmente assente) una rassegna di autori, personaggi, mondi diversi, unificati nella figura, teatralmente parlando, carismatica di Toni Servillo.

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Ranuncoli #4 – Hamburger culturale e un bamby rotto in cucina

elettrodomestici cucinaCOSIMA PAGANINI | La cultura è morta. Chi di voi non ha assistito ad almeno un funerale della cultura con noninvitati muniti di catafalchi  e  invitati che biasimano la mancanza di buon gusto dei necrofori, mentre altri invitati ne attribuiscono la colpa a quella pulsione di morte che funesta la civiltà da più di un secolo? Ma tant’è,  parafrasando la moda die Leiche ist das neue Schwarz (il tedesco funziona sempre se ci si deve mostrare colti). Un cadavere sta bene con tutto e poi lo puoi mettere nell’armadio se non ti serve più. Per ora, sarà  che si avvicina il giorno dei morti, si usa moltissimo. C’è il corpo del dittatore che svanisce davanti a 300 spettatori (e 300 la sera prima) ignari, chi di musica, chi di teatro, chi di tutto, e questi ultimi sono i migliori «‘ché sono riusciti a vedere lo spettacolo come un’opera totale senza sapere nemmeno chi era Wagner».  E c’è stato Wilson in quella fantomatica unica rappresentazione per pochi che ricordava un po’ il Corvo (il film), senza nessun effetto sorpresa, in quanto di vita il maestro non ne ha mai mostrata troppa; e poi la cantante italiana sorella dell’altra cantante italiana che si era sposata col dio del tennis, revenant per opera di uno scrittore italiano già apprezzato, chissà perché, in un’esibizione, che, ora possiamo definire in memoria, di un altro cantante famoso famosissimo. Americano come quella poetessa santificata che non potrà mai morire per volontà delle legioni di anoressiche, sorelle ideali dello scrittore-russo-nichilista-esteta che muore oscenamente in scena invece che spararsi in ‘osceno’. E c’è la famosa attrice morta forsesuicida forseuccisa che si è esibita in una festa privata (ma anche un po’ pubblica) nelle carni di una performer che non si capisce se canta male di suo o per fedeltà alla defunta (che in fondo così male non cantava).

cameriereAlla festa c’era comunque di peggio: camerieri che ti dicevano che il vino era finito e ti veniva in mente quel genere di feste di quand’eri bambino quando la fanta finiva subito a meno che non eri il figlio del notaio; e ancora, venditrici di bamby e gnometti che a Milano fanno una vita grama e ti attaccano un bottone per dirti che in provincia il bamby e lo gnometto ce l’hanno tutti perché lo regalano quando ti sposi, o ai figli universitari fuori sede, e chi ce l’ha lo fa vedere, mentre quei pochi che sono riuscite a piazzare in città giacciono nascosti nei ripostigli… E tu rispondi: bamby? È mainstream. Meglio kiiwood, il concorrente giappo-tedesco che costa anche 200 euro  in meno e che bamby proprio no, meglio addirittura un qualsiasi superfrullatore da centro commerciale del sabato pomeriggio (una così ci passa tutto il pomeriggio del sabato nei centri commerciali). Costa 10 volte meno e non fa provincia, e mica siamo casalinghe disperate che dobbiamo avere elettrodomestici che funzionano. Ma se tu piazzi bamby come mai sei a questa festa? E ti risponde: ma perché a volte vendo anche kiiwood… nella scatola dei bamby. E allora ti spiega che il problema è la scatola, che queste sciattone con le scarpe dal nome tedesco usano tutte delle belle scatole. E tu allora: bello? Ma Muccia docet: «La bruttezza è attraente ed eccitante. La ricerca della bruttezza, per me, è molto più interessante dell’idea borghese della bellezza».  Mentre dici questo ti guardi intorno e vedi che davvero di bellezza in giro non ce n’è troppa e le muccie sono ovunque.

E poi si è fatto tardi e mentre te ne torni a casa nella car-zucca ti domandi: come faremo senza la cultura (o meglio il suo cadavere) quando tra qualche giorno, passata la festa, dovremo rimetterla nell’armadio?

Quasi certamente non se ne accorgerà nessuno perché nel frattempo la scatola Qualità ha già sostituito il corpo morto Cultura. Sono diventati sinonimi come ai tempi di kultur e civilisation (che non è civilization di Sid Meier) e usiamo la parola Qualità quando ci vergogniamo troppo di nominare la Cultura, e un brivido ti percorre mentre un branco di ragazze col mal di luna e ragazzi lupo ci attraversano la strada e ti ricordano quando halloween non esisteva, ma è solo un brivido, pensando a domani.

I riferimenti stavolta trovateli voi, se volete.

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Ibsen-von Mayenburg-Ostermeier, terzetto d’eccezione

xxBRUNA MONACO | Che dire di uno spettacolo che dal 2005 a oggi non ha interrotto la tournée e ha ricevuto critiche d’encomio e ovazioni? Che dire di un regista che a quarantacinque anni ha firmato più di trenta regie, tutte pièces apprezzatissime, sei delle quali ancora vanno di teatro in teatro a raccogliere consensi? Il successo dell’Hedda Gabler vista al Teatro Argentina all’interno del Romaeuropa Festival è di per sé un commento eloquente a questo spettacolo che Thomas Ostermeier ha messo su in modo impeccabile. Come spesso accade agli spettacoli destinati a lasciare il segno, anche Hedda Gabler parte in sordina, a dispetto dell’imponente e glaciale scenografia. Su una piattaforma girevole circolare un’ampia vetrata dalle lastre scorrevoli divide due ambienti: il soggiorno col suo design moderno, una veranda. Il soffitto di specchi ci fa tenere d’occhio ciò che accade dentro e fuori dalla scena.

Sulle prime, il pubblico vive lo stesso disagio dei personaggi che si muovono nella nuova casa, algida, senza riuscire a riempirla; e lo proietta sulla scenografia inglobante che prende tanto spazio, troppo, nella loro attenzione. Ma presto l’interesse degli spettatori sarà tutto per l’azione, inizia a spiegarsi la vicenda sorretta dalla bravura degli attori. La regia è pulita, lucida. Ostermeier ha saputo leggere con perspicacia il dramma scritto da Ibsen oltre un secolo fa, traducendo in gesti, sguardi e respiri le sfumature e i non-detto del testo. La recitazione naturalistica è ornata accenti parodici che per contrasto rendono ancora più credibili i dialoghi e le situazioni.

Per l’operazione di rilettura del testo, Ostermeier si è lasciato aiutare da un drammaturgo di professione: Marius von Mayenburg suo storico collaboratore. Non si può parlare di adattamento in senso stretto, piuttosto di “aggiornamento”: il testo di Ibsen è riportato quasi integralmente dagli attori. Ma trattandosi di una Hedda contemporanea, von Mayenburg lo ha emendato degli elementi che lo legavano al contesto storico-culturale di fine ‘800. Mancano i riferimenti al differente status sociale degli sposi, mancano le cameriere, il pianoforte. Il passato di Hedda e le sue relazioni sono affrontati come un dato non problematico, senza particolari spiegazioni.

La trama è nota: l’unica cosa che riesca bene alla bellissima figlia del generale Gabler, Hedda, è annoiarsi a morte. Così, si stanca prestissimo del novello sposo, il promettente studioso Jörgen Tesman. La ricomparsa dello scrittore Eylert Lövborg, un suo amore giovanile, aumenta la sua irrequietudine, a cui si aggiunge l’invidia: Eylert da scapestrato che era, è diventato un uomo savio grazie a Thea, ex compagna di collegio di Hedda. Ma Eylert perde il manoscritto di un’opera geniale scritta proprio con l’aiuto di Thea. E purtroppo lo trova Hedda che per noia o per vendetta, lo distrugge. A Eylert, disperato per la perdita non dice nulla, anzi gli offre la sua pistola per compiere una “bella azione”, per regolare il “conto con se stesso”. Eylert però non si suicida, un colpo parte accidentalmente in casa di una prostituta e lo uccide. L’amico di famiglia e corteggiatore di Hedda, Brack, riconosce la pistola della donna e la ricatta. Forse per non subire il ricatto di Brack, forse definitivamente vinta dalla noia, Hedda si spara.

Tutto ciò è fedelmente rispettato da von Mayenburg e Ostermeier. Quello sul testo è stato un lavoro di finissima limatura che ha ben atteso l’obiettivo: fare un testo verosimile oggi quanto nel 1890.

C’è una sola vera deroga al rispetto del testo, nel finale. E con questa Ostermeier getta una luce diversa, del tutto autoriale, sul percorso scenico del personaggio di Hedda: dopo il suo colpo di pistola, nessuno “si precipita nel salottino” a vedere cosa le sia accaduto, come recita invece la didascalia di Ibsen. Tesman, Thea e Barack restano indifferenti. Intenti nelle loro attività recitano con tono disincantato, con una smorfia di sarcasmo, le battute che Ibsen aveva previsto fossero dette “gridando” da uno, “semisvenuto” dall’altro. La donna che, nel bene e nel male, era stata il polo d’attrazione della scena fin dall’inizio, nell’ansia di esercitare il proprio potere su qualcuno, ha piano piano svelato il proprio carattere, perdendo così l’ambiguità su cui si fondava la sua seduzione. In assenza di un contesto sociale che la schiaccia in quanto donna, e che quindi, in qualche modo la protegge, fungendo da alibi ai suoi comportamenti, l’Hedda contemporanea si mostra alla fine, solo vacua, e priva di interesse agli occhi dei suoi coprotagonisti, mossi tutti, invece, da una qualche passione.

Se qualcuno ha creduto di vedere nel gesto folle di Hedda (bruciare il manoscritto prima, indurre Eylert al suicidio poi) i prodromi dell’“atto gratuito” che vent’anni dopo André Gide avrebbe teorizzato e fatto compiere a Lafcadio ne I sotterranei del Vaticano, beh, quella è forse la Hedda di Ibsen, sicuramente non quella di von Mayenburg e Ostermeier.

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