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domenica, Dicembre 22, 2024
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50 minuti di teatro e poi giù da un balcone: Desideranza di Teatrialchemici

teatri_alchemici_DesideranzaRENZO FRANCABANDERA | Sta per passare la processione del santo di paese. Quale momento migliore per buttarsi dal balcone del quinto piano del palazzo dove due fratelli, uno portatore di un grave handicap fisico e mentale, l’altro, di fatto, divenuto schiavo dell’assistenza all’altro essere umano, oramai reietti dal consesso civile e rifugiati in questo appartamento spoglio e senza mobilia, passano gli ultimi 50 minuti di vita?
Pino e Sergio (Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi), complice la malattia della madre, vivono in uno stato di miseria umana prima  ancora che materiale, da cui decidono di fuggire assieme.
Lo spettacolo fu finalista nel 2007 al Premio Scenario con Babilonia Teatri e Pathosformel. Vinceranno i Babilonia. Ma lo spettacolo ottiene menzione. I due interpreti lo ripropongono allo spazio Tertulliano di Milano, in questi giorni di micro tournèe in giro per il Nord Italia.

Alla fine di questo spettacolo arrivano tre pensieri, due sulla creazione scenica e uno, diciamo, riepilogativo:
Il primo pensiero è che pare abbastanza chiaro, voluto o non voluto, il rimando che passa nella testa a Il festino, lavoro di Emma Dante, pure datato 2007, e interpretato da Gaetano Bruno ma poi non più riproposto dopo la fine del sodalizio fra l’attore e la regista. Era la storia sotto forma di monologo di un trentanovenne handicappato, isolato e relegato in uno stanzino buio a giocare con le scope, nel giorno della festa del suo compleanno, e di suo fratello, cui lo stesso Bruno con grandissima abilità dava corpo. Finale ugualmente tragico.
Dal punto di  vista drammaturgico, quindi, anche se la variazione sul tema di Desideranza e la presenza di due attori in scena pone chiaramente l’accento su questioni sceniche diverse, resta il dubbio di chi abbia ispirato chi. Magari è al contrario di come verrebbe da pensare. O magari è davvero una di quelle assurde combinazioni in cui Bell e Meucci scoprono la stessa cosa ognuno a casa sua nello stesso momento. Chissà.

Il secondo punto riguarda sempre il testo. Di fatto pur sull’orizzonte temporale dei 50 minuti, il piccolo ma cardinale vizio, a nostro modesto avviso, del lavoro risiede nel fatto che mentre la prima parte è entusiasmante, ricorre ad una parola straniante e capace di riempirsi e svuotarsi di senso all’occorrenza, la seconda parte purtroppo si siede su una cifra più didascalica e consumata, lasciando l’aereo in volo senza il carburante propulsore di qualità e il rischio di vuoti d’aria e depressurizzazioni, se loro non sono al massimo, esiste. La figura del terzo personaggio assente, la madre, è troppo poco abbozzata e quindi a conti fatti irrilevante per le dinamiche sceniche e narrative. Arriva al momento giusto ma forse non riesce a rifornire l’aereo in volo.

Dal che, riflettiamo che trattasi di lavoro onesto, con i due interpreti bravi e generosi, semplice, evocativo, con alcune buone idee che appartengono ad una modalità narrativa che pur mostrando la sua cifra anagrafica, riesce ancora a parlare con efficacia ad un pubblico sensibile. D’altro canto rileviamo parimenti che Desideranza è artigianalmente imperfetto, che in questi anni non è cambiato come il ritratto di Dorian Gray, ma è rimasto lì, fermo coi suoi anni. Le evoluzioni artistiche che di lì sono seguite sono nella proposta dei nostri giorni della compagnia, di cui pure ci siamo occupati su PAC di recente. Crescere non è facile, l’equilibrio fra comicità e umorismo difficile da calibrare, e la sfida del sodalizio artistico avrebbe forse più strada non necessariamente nella direzione di una contemporanea surrealtà che rischia di avvicinare la macchietta e di schiacciare l’esperimento su se stesso, ma verso piuttosto un tentativo più radicale di discussione dei paradigmi creativi, allontanandosi anche dal sentimento drammaturgico un po’ “regionale” che da Scimone-Sframeli, Vetrano-Randisi, ha già gli interpreti di un codice che si sta “facendo vecchio”.
D’altronde l’esito del Premio Scenario 2007 è lì a ricordarcelo: la sfida del teatro è quella di una creatività in movimento, che ridiscuta le parole, le storie e finanche la presenza dell’attore in scena, proponendo qualcosa che ancora sia capace di stupire e far gridare al miracolo. Resta il fatto che, comunque, il 2007 fu un’ottima annata.

Convivere (forzatamente) in «una Stanza a Sud»

stanza a sudVINCENZO SARDELLI | Tre bizzarri viaggiatori costretti a coabitare in un ambiente angusto. Dove finiscono per scatenare allucinanti istinti repressi.

Dopo aver aperto la stagione del Teatro Binario 7 di Monza, sbarca al Libero di Milano, fino al 9 dicembre, Una stanza a Sud, singolare spettacolo pulp di Corrado Accordino.

L’ambientazione da foresta pluviale amazzonica, lussureggiante e inospitale, è il residuo amarcord di un percorso compiuto da Accordino vent’anni fa in America latina, sulle orme dell’analogo viaggio, tra romanticismo e verità, del giovane Ernesto Guevara.

I tre protagonisti (un assassino, un biologo, un fotografo) sono identificati da tre distinti colori: un vigoroso rosso sanguigno, un verde straniante, un marrone violaceo, ibrido degli altri due, miscuglio dei loro caratteri ingarbugliati. I costumi di Maria Chiara Vitali, ispirati a Kill Bill e al mondo fumettistico di Dick Tracy, amplificano la potenza trasfigurante dei personaggi.

Una stanza a Sud sfugge ai cliché del teatro tradizionale. Accordino, aiutato alla regia da Valentina Paiano, attinge piuttosto alla grammatica cinematografica: fermo immagine, flashback, piani lunghi, una sceneggiatura tra giallo e noir: dialoghi serrati, ritmi veloci, rumori espressivi e d’ambiente, continui colpi di scena. Poi citazioni: dal cinema (Le IenePulp fictionIndiana JonesSaigonPlatoonApocalypse Now); dallo stesso teatro (Harold Pinter); dalla Bibbia (il Qoelet); dalla filosofia (Rousseau, Kant, i “maestri del sospetto”).
È un sovraccarico di codici e generi, il dramma, la farsa, il grottesco. Con un abbrivo di pioggia e tuoni, atmosfere esotiche, l’uso dell’inglese all’inizio di una trama che si dipana come lampo all’indietro. Un’accumulazione, che non diventa guazzabuglio.

Parte piano lo spettacolo. E ti preoccupi, perché viaggia intorno alle due ore. Poi decolla, vola, plana. È spiazzante, non capisci mai dove vada a parare. Eppure il filo c’è, autoreferenziale, coerente con l’indole stravagante dei protagonisti.
Un mondo capovolto. Con zattere-nubi a coprire il cielo. Con il mare alto sulle nostre teste. Con le nostre teste in alto mare. Con suoni (selezionati da Raffaele Mezzanotte) che variano dal marziale cadenzato della Cavalcata delle Valchirie ad armonie tribali, alle note oniriche dei Doors, fino all’esilarante sigla cartoon Daitarn III che, insieme a fari abbacinanti puntati sulla platea, sbigottiscono i propensi al sonno.
La ragione genera mostri anche in piena veglia, nelle luci lunari di Chiara Senesi che cristallizzano uno stato d’infinita attesa.

Ha osato, Corrado Accordino. Questo spettacolo ambizioso era utile testarlo al Binario 7, davanti a un pubblico che si riconosce quasi a occhi chiusi nelle scelte del suo direttore artistico. Ma qui passa a tutti il messaggio di un’umanità ghettizzata, degenerata a livello di bestialità antropomorfa. È la solitudine che disumanizza. I bravi interpreti (Pasquale di Filippo, Giancarlo Latina, Alessandro Castellucci) sono zattere dove tutto è possibile, portate dal vento in ogni direzione.
Uno spettacolo che aiuta a osservare il mondo da un altro punto di vista. In fondo, tutti dovremmo abituarci a nuovi codici di sopravvivenza. Ad accettare quel po’ di compagnia, in luoghi dove è ancora possibile “uscire dal campo”.

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Il ritorno del ritorno. Pinter secondo Stein

Il-ritorno-a-casa-Foto-Pino-Le-Pera-300x336RENZO FRANCABANDERA | Il confronto è sempre il più utile degli strumenti che l’intelligenza ha a disposizione per strutturarsi. E quindi felice l’opportunità che offre in questi giorni il Piccolo Teatro di milano che, dopo aver ospitato nella scorsa stagione Le retour diretto da Luc Bondy, interpretato da un cast importante di attori del teatro e del cinema francese, propone quest’anno in cartellone il testo del 1964 di Harold Pinter Il ritorno a casa, nella versione diretta da Peter Stein, al Teatro Grassi fino all’1 dicembre.

Il ritorno a casa è un testo della maturità, corrosivo quanto aperto, aperto in una modernità che lascia spesso anche il gusto del piacere incompiuto perchè inquieta, crea spazio all’inconscio. La drammaturgia è assai particolare e per certi punti di vista controversa, perché scarta su un doppio focus drammaturgico, il secondo dei quali arriva inaspettato e abbastanza politicamente scorretto a indagare il ruolo ambiguo della donna.

La trama è quella della classica riunione di famiglia che si trasforma in un’occasione per tirar fuori veleni, irrisolti, derive psicotiche e sentimentali, esasperate da una presenza femminile ambigua che nel secondo atto farà letteralmente saltare il banco. Un padre, suo fratello, e tre figli (Paolo Graziosi, Alessandro Averone, Elia Schilton, Rosario Lisma, Andrea Nicolini, tutti bravissimi), uno dei quali professore negli States che per combinazione arriva nella casa dove convivono gli altri quattro con la moglie (Arianna Scommegna). Costei, apostrofata come una puttana dagli altri, si rivelerà dotata di un’indole quantomeno plurale, disposta ad accettare di restare con i quattro mettendo in campo persino la possibilità di prostituirsi, abbandonando marito e figli oltreoceano, per una vita in cui, però, da sfruttata finirà per diventare sfruttatrice. Il perché di questa scelta e dei veloci passaggi psicologici e decisionali della donna restano la vera incognita della drammaturgia, che, infatti, gioca proprio sui non detti e gli irrisolti, come se una serie di questioni appartenesse più all’emergere dell’inconscio che al reale.

Cosa c’è in scena e in cosa il lavoro di Stein risulta interessante in assoluto e in comparazione con la proposta di Bondy?

In scena c’è un interno inglese classico, proletario, di quelli da film di Loach, periferia, umanità avariata, fra piccolo brigantaggio di periferia, simpatiche canaglie cresciute e diventati disadattati pressochè cronici, con la coazione all’abitazione per evidente stato di indigenza e di fallimento del progetto di vita.
Il lavoro di Stein è ormai da anni focalizzato su testo e attore, sulla modalità dialogica fra questi elementi, fino quasi a consentire marginali adattamenti del primo ai secondi, come conferma Schilton in un’intervista agli attori disponibile sulla web tv del Piccolo Teatro.

Da questo punto di vista, la lettura che Stein dà sia del testo e del lavoro degli attori è come al solito di altissimo profilo. Anzi, forse in questo allestimento, complice anche un numero di attori più ridotto rispetto al kolossal I Demoni, il gruppo sembra più compatto e la direzione del recitato, volta a creare caratteri differenti ed esasperati ma che trovano tutti ragionevole spazio dentro le maglie di un testo equivoco, appare davvero la scelta più ricca ed azzeccata del lavoro.

Con particolare riferimento poi alla figura chiave della protagonista femminile, l’interpretazione della sempre notevole Arianna Scommegna, finalmente in una grande produzione, mette fortemente in luce una serie di sfaccettature che Bondy aveva del tutto taciuto, preferendo l’immagine della donna bella, sciocca ma pronta poi ad approfittare.

In un finale da tableau vivent da incisione di Kempff di fine Ottocento, la donna-sfinge, domatrice più che doma, con gli uomini cagnolini ai suoi piedi, vale davvero lo spettacolo e propone un enigma nell’enigma che invece l’allestimento di Bondy non sfruttava, limitandosi a giocare su dinamiche sceniche e recitative in apparenza più eterodosse, ma nella sostanza più piatte. Il palco era quello dello Strehler, una casa garage, un’autorimessa della vita, con la scenografia votata all’eye catching, che lasciava intravedere vie di fuga e spazi ulteriori.
Stein sceglie un profilo sicuramente più tradizionale e meno centrifugo, creando un interno asfissiante e senza vie di fuga. Il mondo è in un interno senz’anima, senza dialogo col mondo, così che l’alternarsi di giorno e notte lo intuiamo solo da quello che fanno gli abitanti della casa. Sopraffazioni, abusi di posizione e di ruolo: potrebbero persino leggersi, i diversi caratteri, come parti di un’unica psiche in lotta fra loro. Abitanti schizofrenici di una sola personalità le cui diverse anime giocano a mettersi sotto scacco e a giocare/far sul serio nel provocarsi piccoli dolori. Come quando si torna a casa. E fra frecciatine e cattiverie si allude alle fortune di questo o quello, alla miseria del parente sfortunato, a quegli sguardi stanchi di famiglie logore, come quando si resta soli con se stessi, a fare i conti con la parte che in noi ha vinto e soggiogato le altre. E difficile, se non impossibile, è capire se ce n’è una davvero migliore.

Mondocane#23 – La vita effimera del pensiero

Disegno di Renzo Francabandera
Disegno di Renzo Francabandera

MARAT | Tutto mi scivola via. Fra le dita. Incontri, visi, chiacchiere, batticuori. Spettacoli (ovviamente). Letture, parole. “Marat, ti ricordi cosa mi hai detto quella notte?”. No, non mi ricordo. Non mi ricordo mai. O quasi. Forse è per quello che scrivo. Non ricordo dichiarazioni d’amore e insulti, provocazioni e silenzi. In fin dei conti, il mio è un continuo atto di fiducia in chi mi aggiorna su me stesso. E così vola via il pezzo che ho scritto ieri. Sans souci. Penso a tutte le parole che si rincorrono. La loro (la mia) costruzione. Alla volontà di arrivare al lettore, stuzzicarlo, incuriosirlo. Dare una mano ad alzarsi da quel divano (da quella stanchezza). Chissà. Ogni giorno, sul quotidiano. Ma ovunque è lo stesso. Tutto a scivolarmi di nuovo fra le dita. Mentre a volte vorrei solo che quello che ho scritto potesse avere un sussulto ulteriore. Di vita effimera. Fermarsi un attimo. E intanto leggo i pezzi degli altri: poeti e polemisti, talenti e ignoranti. Ad alcuni chiederei indietro il mio tempo, altri hanno il dono di rallentarlo. Solo negli ultimi giorni ho letto nei dintorni almeno tre/quattro pezzi che meriterebbero vita molto più lunga, fosse solo per la volontà di espansione che possiedono. Come l’universo. Volontà frustrata. O così mi pare. M’importa ‘na sega del buono e del cattivo, del bello e del brutto. Se è questo che ci interessa, meritiamo le stelline nelle recensioni. Vado alla ricerca di un pensiero critico allargato, dove spettacoli, libri, mostre siano (quasi) pretesti. Ma anche quando lo trovo, in realtà tutto scivola via. E in pochi minuti siamo già alla prossima Amaca di Serra, all’oroscopino, al pezzo che ci indigna, al giochino goliardico. La decadenza di Berlusconi e la galleria fotografica di una smutandata (cit. mia nonna), sono solo tessere di un mosaico iperinformativo di cui si distinguono a fatica i colori. Dove si sfiora, senza acciuffare. Come da piccino sulle giostre. Talmente pigro che a un certo punto il peluche del giro gratis me lo facevano dondolare davanti agli occhi. E io niente. Come nella Chiesa dei Francesi a Roma. Che sei lì davanti al San Matteo di Caravaggio e si spengono le luci. Non ci sono più monetine. Si va da un’altra parte. È un attimo. Quando magari la sfumatura che stavi cercando era proprio lì, fra la caotica massa dell’altro giorno. In quella bulimia. Che ormai non mastichi neppure.

Oltre il Volo: il Macello di Ivano Ferrari

ferrari poesiaCARIBALDI | Si fa un gran parlare in questi giorni di Fabio Volo, soprattutto da quando è stato ospitato nelle pagine del Corriere della sera. Per molti è un’onta, uno sgarbo, un’offesa ai “dotti, medici e sapienti”. L’ex fornaio ha venduto circa sette milioni di copie e credo sia questo il solo dato interessante sul quale dovremmo effettivamente riflettere. Sono forse tutti dei superficiali semianalfabeti e dal cervello fuso i suoi lettori? Non lo credo. Per di più non c’è stata la stessa reazione a casi simili: tutti a parlare di Volo, ma ci sono anche i libri di Moccia, quelli di Walter Veltroni (con relativa recensione entusiasta dell’allora direttore Gianni Riotta sull’inserto domenicale del Sole24ore) o la raccolta di poesie dall’enigmatico titolo I fiori sul parabrezza di Silvana Giacobini per aggiungere esempi recenti. Ma sono in pochi ad essersi realmente adontati. Erano forse opere di altro calibro?

Ecco, per farla breve, credo che questi siano, in modi diversi, autori che intercettano pubblico, ovvero riescono, grazie al loro talento a trovare lettori interessati alle loro storie. Ma in questi casi, senza troppa puzza sotto il naso, ci si dovrebbe interrogare sul perché, sui motivi compositi che portano a tali successi. Anche, e soprattutto, sono i lettori/acquirenti a svolgere un ruolo fondamentale, ma di questo poco si parla. Non ci possiamo fermare alla punta dell’iceberg. Sembra, talvolta, in questo mare magnum di polemiche, che non ci siano alternative o meglio, che nessuno abbia voglia di cercarne o di parlarne e polemizzando su Fabio Volo non si fa altro che continuare ad alimentare il suo focherello.

Ma invece di fare una bella solfa sociologica, di quelle che partono da Drive in, per seguire la deriva italica da televisione commerciale, forse è più interessante cercare di parlare ed interessarci noi di altro. Ci sono le alternative, eccome, che magari cercano di confrontarsi col nostro passato letterario tenendo presente che noi siamo anche, e soprattutto, il paese di autori come De Roberto, Fenoglio, Gadda, Primo Levi, Landolfi, Malaparte, solo per citarne alcuni. Poi, in tutto questo dibattito su Volo, non preoccupatevi troppo. Non dimenticate quell’attento osservatore del Tempo, educato gentiluomo che senza strepito alcuno, lascia che nel corso degli anni gli strilli si trasformino in lievi sussurri e poi ciascuno torni al posto che gli compete. La fama attuale di Prati e Aleardi, poeti di grido nel secolo dell’Unità d’Italia, ne sia testimone.

ivano ferrariQuindi, ripeto, cerchiamo noi per primi di interessarci di altro. Ci sono autori poco conosciuti che meritano attenzione. Un nome? Ivano Ferrai del quale Einaudi ha da poco pubblicato la quarta raccolta, La morte moglie. Mi viene in aiuto una frase di Antonio Moresco che appare sulla quarta di copertina: “Se non vivessimo in un paese di morti, questa voce dissonante ed unica non sarebbe solo una voce marginale intesa da pochi ma voce centrale della poesia italiana di questi anni”. Mi piacerebbe che Ferrari fosse conosciuto da coloro che leggono queste righe, ma credo (forse?) di sbagliarmi. Ed è un peccato. Ferrari, classe 1948, ha al suo attivo solo quattro raccolte: La franca sostanza del degrado, Macello, Rosso epistassi e la sopra menzionata. Poche righe non bastano per parlarne, sarebbe riduttivo. Nel mio piccolo mi limito a  fornire solo spunti tratti dalla sua raccolta, a mio parere, più intensa: Macello. Questo detto senza nulla togliere alle altre. Credo, tuttavia,  che questa raccolta, pubblicata nel 2004, nella sua liricità e verità intense, sia straordinaria. Poesia nella sua più alta accezione. È una piccola silloge dalla quale propagano una forza e un’energia lirica dirompenti. Siamo in un mattatoio –Ferrari ha lavorato per alcuni nel macello comunale della sua città natale, Mantova- e qui si svolge quella cruenta e spietata sopraffazione, violenza silenziosa e quotidiana dell’uomo sull’animale e di conseguenza dell’uomo sui suoi simili. Nella silloge è soprattutto dell’essere umano che si parla, della sua indifferenza, del suo protervo profanare, del suo istinto primordiale di sopraffazione e di indifferente cupidigia. Dentro –e non paiano retorici questi riferimenti- ci sono la Siria, la Palestina, la Cina, Quarto Oggiaro e Scampia, gli episodi di bullismo, la prepotenza del nostro vicino d’auto a un incrocio, il nostro camminare svelti a testa bassa per non fare tardi a un appuntamento. Detto con banalità, c’è la vita. E lascio a due sue poesie il compito di terminare:

 

È fuggito un toro nero

erra sul cavalcavia

impaurendo il traffico,

lo rincorriamo

impugnando coltelli

bastoni elettrici e birre

corre si ferma torna

arrivano i carabinieri coi mitra,

ora è steso su un velo d’erba

e sussurra qualcosa alle mosche.

 

(Macello, Einaudi)

 

***

Macellatori contro facchini

palla il cuore sodo del toro

terreno scivoloso

pali due paranchi vuoti

arbitra un vigile sanitario.

 

(Macello, Einaudi)

 

Macbeth ha ucciso il sonno o il sonno ha ucciso Macbeth?

20131119_192624_LLSELENA SCOLARI | Ad accoglierci in sala è il trono di sangue di Macbeth, futuro re di Scozia. Una rossa lingua che dallo scranno scende verso la platea. A istinto, promette bene.

Il Piccolo Teatro Studio Melato di Milano (produttore dello spettacolo) ospita fino all’1 dicembre “Shakespeare, streghe, ribelli e altre passioni”, Laura Curino si prova con il classico Macbeth, scegliendo la prospettiva delle streghe. Le tre orride sorelle entrano con bellissime maschere rosso cupo (purtroppo non più usate in seguito), naso lungo e mantelli misteriosi, si presentano come spiriti, esseri strani, elementi fatti d’aria ma con immenso potere sulle azioni umane. A partire dalla profezia che predice a Macbeth, ora signore di Glamis, il suo prossimo titolo reale, il comportamento del protagonista, della sua perfida Lady, di Duncan, Banquo, Macduff sarà fatalmente influenzato da quelle parole indovine.

I tre esseri, insieme maschi e femmine, irreali e volutamente contraddittori, si trasformano negli altri personaggi della tragedia modificando la postura e la foggia dei mantelli (che spesso però si attorcigliano e rendono macchinosi i passaggi d’identità), l’idea è quindi che azioni e pensieri siano raccontati attraverso gli spiritati occhi delle streghe, che tutto dovrebbero ammantare di diabolica magia. Questa operazione però riesce abbastanza bene a Laura Curino, che ci appare comunque un po’ meno brillante del solito, ma non riesce affatto ai due comprimari, i giovani Mariamaddalena Gessi e Matthieu Pastore, visibilmente emozionati di trovarsi in cotanto luogo, sicuramente volenterosi ma – almeno alla prima – poco incisivi e inutilmente enfatici.

Citiamo volentieri le belle luci di Claudio De Pace, che donano alla scena un effetto di rarefazione cromatica saturo di atmosfera.

Curino è autrice (con Lucio Diana) di un testo collage tra Shakespeare, storie popolari e altre fonti di epoca elisabettiana, in questo complesso e interessante lavoro di assemblaggio e traduzione a sostegno del punto di vista “stregato”, abbiamo trovato qualche punto in cui la lingua non rotola scorrevole come dovrebbe e qualche incongruo ammicco alla contemporaneità televisiva, la scivolosa tentazione di attualizzare…

Ma noi continuiamo a guardare quella lingua di tessuto rosso che, intanto, si è avvicinata: come il trono è sempre meno lontano per Macbeth così l’indelebile traccia del delitto che verrà si fa prossima. Stranamente però il delitto ci risulta meno odioso del solito: come mai non ci disgusta l’irrefrenabile ambizione di un uomo accecato dal desiderio di potere? Perché non ci spaventano i cruenti pugnali che scintillano nella notte del misfatto? Ci accorgiamo che in questo allestimento, tutto considerato, mancano la ferinità, la ferocia, il tormento, di Macbeth. Il filtro recitativo delle streghe produce uno scarto per il quale si perde il senso maledetto del sangue, dell’assassinio, che si indebolisce.

Macbeth ha ucciso il sonno! Ma la sua inquietudine non è qui abbastanza tormentata: a nostro avviso, il sonno sembra essere sopravvissuto.

Ultime da Bar: una chitarra lesa e una tinozza

collettivo lesoCLARISSA VERONICO | Ancora mi capitava di chiedermi cosa è teatro e cosa non lo è. Un tormentone tutto mio e nel difficile compito di dissimularlo, soprattutto agli spettatori che invece si pongono proprio altre domande e che io, proprio io, avrei invece il compito di stimolare a vederlo il teatro, in giorni strani, in mezzo alla settimana, fuori orario, a biglietto ridotto, a biglietto di cortesia, in coppia, in gruppo, attraverso newsletter, partecipazioni a eventi fb, sorprese regalo e tutta una stimolazione dell’offerta già antica, che proprio non ce la fa a stare al passo con la complessità delle ragioni e delle necessità che mi spingerebbero a dire un semplice “vieni”, proprio così, alla seconda persona singolare. “Vieni tu”, che non c’è più un gruppo, una comunità, una collettività. Che di quello abbiamo parlato e ragionato tanto e potremmo farlo ancora per anni, ma adesso vieni tu e basta, che si sta bene e che comunque dopo ne possiamo parlare.

Ma per mettere in ordine le cose riepilogo. Un non più giovane attore-performer-musicista-tecnico, un amico sopratutto, mi invita a vedere “Pietre blue’s”. Siamo ancora nel sottoscala di un’associazione, siamo ancora in venti, si possono mangiare polpette marocchine con un bicchiere di vino e c’è lui, che per la cronaca è Nicola Eboli, con una sedia, una tinozza e una chitarra. Pietre inizia come una specie di flusso di parole, c’è Ulisse forse di mezzo, ci sono sicuramente delle sirene ammaliatrici e Circe, c’è molta Grecia e molto mare, e ci sono tante parole che non riescono a comporre nella mia testa un unico filo conduttore. C’è soprattutto una chitarra, ogni tanto la prende e suona. La suona bene, a tratti canta. Poi eccolo un momento di teatro. Piedi nell’acqua della tinozza, un mazzolino di fiori in mano e un addio o un arrivederci struggente e comico. Pietre finisce. Ulisse se ne è andato ubriaco e non aveva voglia di tornare a nessuna pietrosa Itaca. L’atmosfera è serena, calda, peccato che non si possa fumare altrimenti saremmo davvero in Grecia. Mi chiedo se è teatro. A guardarmi intorno direi che me lo chiedo solo io, perché i venti spettatori presenti erano semplicemente lì in quell’atto. Mi viene in mente che forse è blues, forse è jazz o è rock and roll. Poi ricordo frammenti di un viaggio greco. Da poco avevo letto il libro di Vinicio Capossela, Tefteri, e girando per le strade di Lefkada aveva cercato con un’ottima guida un locale dove si suonasse Rebetiko. Anche lì c’era un bar e questa strana musica di nostalgia, rabbia e periferia. Poi per tutta l’estate la mia guida aveva stretto amicizia con ristoratori e baristi da isola, quelli che a novembre tornano ad Atene e fanno tutta un’altra vita e che nei bar per turisti ti sparano la musica pop. Appena gli nominava il Rebetiko lo abbracciavano e gli offrivano da bere e dicevano, in greco inglese italiano, che quello è il vero rock.

Ecco Pietre mi ha fatto pensare al rebetiko. Anche lì per ascoltarlo si scende in un sottoscala, si beve vino, e si sta lenti lenti ad aspettare un’emozione che dipende da te. Che musica è? Io non lo so dire. Che teatro è? Teatro rebetiko d’occidente forse.

Altro giro altro bar. Trovo il neonato collettivo L.E.S.O (all’anagrafe gli attori Leoci, Eboli, Stella, Ocelli) in “Parvemi udire uno sparo”. Stretti stretti in una saletta annessa a bar in voga nella città vecchia 4 attori in accappatoio sono incorniciati nel più classico esercizio da teatro generazionale: provare Shakespeare. Tra battute, improvvisazioni e finti litigi, ognuno ha il suo pezzo ben fatto. C’è Otello e il suo rimando a una fidanzata un po’ leggera, c’è Riccardo in occhiali da sole, Amleto e le sue noie. Sono bravi, Francesco Ocelli veramente molto bravo. Si ride di gusto, si segue bene, e poi a sorpresa parte un mimato e esilarante “ Stai, stella stai su di me” di Umberto Tozzi ed è l’apoteosi. Si può fare solo in un bar forse un teatro così, mi chiedo nel solito tormentone. Ne sono quasi sicura perché qui il pubblico gli sta addosso. Gli attori lo sentono respirare, devono chiedere permesso tra le sedie per fare qualche movimento di scena, devono chiedere al barista di accendere le luci di sala per parlare con le persone. Ma le persone non lo sanno. Stanno semplicemente lì.

Poi a teatro ci vado veramente. Nel teatro che è anche un po’ mio. Al Nuovo Teatro Abeliano c’è “In fondo agli occhi” di Berardi Casolari. Con Gianfranco Berardi avevo parlato tanto dei bar e della loro ricerca in giro per l’Italia a sentire storie, conoscere persone, chiedersi cosa pensano e cosa vedono. “In fondo agli occhi” è nato così, in giro per l’Italia due anni e ne ha conservato la storia di Italia e Tiresia e del loro micro-macro cosmo italiano e perso. Di quei bar sulla scena non c’è quasi più niente. Una scelta di Cesar Brie che ne ha curato la regia e che è meno fissato di noi con i giri da caffè corretti forse. Ma dei bar c’è la rabbia, le bugie, i dubbi, le paure. Dei bar c’è il tutti e il nessuno. C’è l’io in prima persona, il loro che stanno fuori, il noi che viviamo la stessa condizione. E di teatro c’è soprattutto un piacere dello sgaruppamento, della non confezione, dell’imperfezione a favore di una verità più profonda, di una domanda senza risposta, di una contraddizione. C’è la poesia, la provocazione diretta, la ripetizione a tratti. Alla seconda replica dello spettacolo, quando già tra il pubblico non ci sono più gli amici pugliesi di Berardi che approfittano delle poche repliche regionali per fare centinaia di chilometri in lunghezza, gli applausi sono lunghissimi e sentiti. Sono spettatori normali. Non un critico né un teatrante. Gente della parrocchia vicina, gente del quartiere, gente chiamata una per una con quel “vieni tu” . Che teatro è? Bah, quello che sta in fondo agli occhi, che sta fuori dalle regole, anche fuori dal marketing e che ti permette di essere lì, con lui e con te.

Croce e delizia del cambiamento per Teatri Alchemici

ergo15 GIULIA MURONI | Ci sono degli incontri che cambiano la vita. La cambiano non perché portino in sé delle novità effettive, ma perché ingenerano un meccanismo, fanno scattare una molla. Come in Reality, quando al protagonista, Luciano (Aniello Arena) vengono promesse delle chance per il grande fratello. Di qui la sua vicenda tortuosa e paranoide. Non dall’incontro in sé, ma a partire da esso come causa prossima di un cambiamento.

Abbiamo visto al teatro Vittoria di Torino, all’interno della rassegna Concentrica, “Ergo non sei” della compagnia palermitana Teatri Alchemici, compagnia impegnata in questi giorni anche allo Spazio Tertulliano di Milano.
Michele Zingales (Luigi di Gangi) è un quarantenne, ateo e razionalista, assistente alla cattedra di filosofia (storia della filosofia antica?) che vive con la madre anziana, attiva frequentatrice di parrocchia. La vedova (Ugo Giacomazzi), devota esemplare, è onnipresente e iperprotettiva con il figlio al punto di sbirciare nel suo diario privato. Lui, viziato in casa, nel lavoro subisce le ben note soverchierie del mondo accademico da parte del suo docente di riferimento e del suo collega Nicolini. La routine familiare, fatta di pranzi domenicali e peperoni ripieni, viene interrotta dall’apparizione a Michele della Madonna del Ponte. Incontro inevitabilmente imprevisto e destabilizzante, trova l’assurdo nella rivelazione: Zingales è stato scelto come nuovo eletto. È a partire da questo momento che l’evento-incontro con la Madonna perde la sua centralità, per diventare il movente di una molteplicità di reazioni e trasformazioni di Michele nei confronti di se stesso, della madre e della trascendenza.

La scena, spoglia, viene tracciata da un disegno luci articolato ed elegante e dai due attori che vi si muovono senza lena, imitando i gesti e i suoni della quotidianità. Belli anche gli inserti musicali a cura di Gianluca Porcu. Nonostante una recitazione di livello i due autori-interpreti sembrano invischiati in una costruzione del personaggio che scivola a tratti nel bozzetto, nella caricatura.

Dopo “Desideranza” (segnalazione speciale Scenario 2007) Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi ritornano sulle dinamiche familiari, dando vita ad una pièce nel complesso gradevole e che apre numerosi varchi di riflessione e di senso, benché abbia la tendenza a mantenersi su una superficie divertente e rassicurante.

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Nonostante l’Italia sorda, La Capria canta

un giorno di impazienzaEMANUELE TIRELLI | Se qualcuno mi chiedesse un consiglio sui libri di Raffaele La Capria da leggere necessariamente, risponderei subito Ferito a morte  e Un giorno d’impazienza. Certo, sul primo si va giù facile perché è il suo romanzo più famoso, più venduto e più esposto in libreria. Su Un giorno d’impazienza c’è invece qualche difficoltà. E sì, perché la storia in questione (meravigliosa e che anticipa lo stesso Ferito a morte) è fuori catalogo, non è più in circolazione in edizione singola, cosa che ci costringe alla speranza dell’usato o al Meridiano Mondadori da, prezzo intero, 65 ricchissimi euro. Stiamo parlando, attenzione, di uno degli autori più interessanti, colti e appassionati che l’Italia abbia mai avuto. Di un Maestro della letteratura che, riferendosi al mestiere dello scrittore, appunto, ci ha regalato un’immagine splendida nel descriverlo come il movimento di un’anatra “che senza sforzo apparente fila via tranquilla e impassibile sulla superficie, mentre sott’acqua le zampette palmate tumultuosamente e faticosamente si agitano”. Stiamo parlando di un artista che ha pubblicato una lista interminabile di volumi, ma che se lo cercate sugli scaffali delle librerie lo ritroverete di certo in Ferito a morte e, se vi va bene, in un altro paio di pubblicazioni, magari le più recenti. Quando scrivo recente, prendetemi alla lettera, perché nel 2013 La Capria è uscito con Novant’anni d’impazienza. Un’autobiografia letteraria per Minimum Fax e con Umori e malumori per Nottetempo, e ha già annunciato il suo nuovo Romae per Mondadori all’inizio del 2014. Senza considerare quelli firmati negli anni precedenti, che non sono pochi.

Un sabato dello scorso ottobre, il quotidiano il Foglio accoglie una lettera dell’autore napoletano che, innanzitutto, spara a zero sul lettore italiano medio colpevole di non leggerlo o non leggerlo abbastanza. E, infine, annuncia il suo ritiro, quasi per punizione.

la capriaPochi giorni dopo, però, in un’intervista rilasciata a Repubblica, La Capria ci dice di stare tranquilli perché non ha affatto intenzione di abbandonarci. Quindi quella lettera è uno scherzo? No, chiarisce lui, è solo una provocazione. È un modo per fare pubblicità ai suoi ultimi due libri e per annunciare l’uscita di quello sulla capitale. Ci tiene però a confermare il suo atteggiamento critico nei confronti dell’italiano che presta poca attenzione ai suoi romanzi. Dice che “alcuni hanno avuto molto successo come Ferito a morte o L’armonia perduta. Ma per gli altri siamo sulle 10 mila, massimo 20 mila copie vendute. Mentre in testa alle nostre classifiche ci sono libri che non valgono niente”. E su quest’ultima affermazione, come fare a dargli torto? Poi sostiene che la letteratura sia elitaria. E anche qui, dice forse una bugia? Non parliamo mica di pubblicazioni in generale, parliamo di letteratura, quella vera. Ed è realmente qualcosa di elitario, perché pochi sono in grado di apprezzarla davvero. Altrimenti dovremmo immaginare che chiunque abbia studiato fisica al liceo sia in grado di avvicinarsi al Bosone H da Premio Nobel. O che chiunque abbia iniziato a scrivere in prima elementare verso i 30 anni sia capace di partorire un ottimo romanzo. La Capria sfonda una porta aperta e fa bene a pronunciarsi in questi termini decisi. Dice che alla sua età, novant’anni, si può permettere di affermare certe cose, di dire come stanno i fatti. Anche se poi preferisce non fare nomi di bestseller negativi. Ma se non se lo può permettere lui di fare ‘sti nomi, con l’autorità del Maestro, con gli anni che consentono di scontentare qualcuno senza temere sensibili ripercussioni professionali, chi potrebbe azzardarsi?

Insomma, a La Capria fa male che molti autori tirino su palazzi di piccioli con libri scarsi e molto pubblicizzati. Ma forse… con un numero minore di uscite annuali… per dare almeno la possibilità al lettore… di abituarsi, di conoscere le sue nuove pubblicazioni, leggerle, amarle, suggerirle con il passaparola. Senza tornare però all’esperienza degli esordi (i suoi primi tre romanzi sono pubblicati a dieci anni di distanza l’uno dall’altro) che pure è un po’ spiazzante. E forse, oltre al lettore medio, due paroline potrebbe dirle anche alle case editrici che lo pubblicano, perché ci sono alcune che gli fanno un’ottima distribuzione e una sincera pubblicità, ma altre…

Il soccombente vs il genio di Glenn Gould

soccombenteMARIA PIA MONTEDURO | Thomas Bernhard tra il 1983 e il 1985 scrive “Il soccombente” (“Der Untergeher”), primo atto di una trilogia che lo scrittore austriaco compose dedicata alle arti (musica “Il soccombente” appunto, teatro “A colpi d’ascia” e pittura “Antichi maestri”). Nel romanzo in questione, ridotto a forma teatrale da Ruggero Cappuccio, un io narrante (Roberto Herlitzka) in un lungo e, per certi versi, estenuante flusso di memoria racconta il suo incontro al Mozarteum di Salisburgo, a un corso di interpretazione pianistica tenuto da Vladimir Horowitz, con il pianista Wertheimer e con Glenn Gould, universalmente riconosciuto come uno dei maggiori interpreti musicali del ‘900, se non dell’intera storia della musica. Il soccombente, colui che cede alle pressioni della vita, è Wertheimer, secondo la spietata, ma molto realistica definizione, che Gould darà del suo compagno di studi. Gould è un genio, vuole diventare (e ci riesce) un prolungamento dell’oggetto-pianoforte, non uno che suona il pianoforte, ma il pianoforte stesso, attaccato maniacalmente allo studio, alla ricerca della perfezione interpretativa.
L’io narrante dello spettacolo (Herlitzka, impeccabile come sempre) racconta come si sviluppano le vite di tre giovani studenti: Gould diventerà il grande interprete che si conosce, soprattutto delle Variazioni Goldberg di Bach; Wertheimer sceglierà il suicidio, scatenato – forse – dalla morte per ictus di Gould; l’io narrante abbandonerà la musica, quasi infastidito, ma sopravviverà al ciclone Gould. Il testo bernhardiano, così come lo spettacolo diretto da Nora Baldi, sviscera il perché e il come qualcuno sia quasi un predestinato per bravura e determinazione: Gould non ha bisogno di fare scommesse sul proprio futuro, di fare progetti, perché è, ontologicamente in sé, un artista, un grande artista. Il testo, e la riduzione teatrale insieme, possono essere visti anche come una magistrale variazione romanzesco-teatrale sul tema della grazia e dell’invidia, mediamente riconducibili a rapporto Mozart/Salieri, ma ancor più sul tema terribile del non riuscire a essere.
Gould vive la musica, Werheimer non sa neppure vivere la vita, l’io narrante osserva, quasi disincantato, le alterne vicende dei suoi ex-compagni salisburghesi. Il tono è sempre quello tipico della Weltanschauung di Berhnard: spiazzante, alieno, spesso quasi dada, che non risparmia critiche a come il mondo – anche quello ufficialmente colto – conservi delle grandi menti pensanti solo aforismi, dotte citazioni, banalizzando l’essenza del pensiero umano. Il tutto corroborato da una scelta registica che presenta l’esposizione dell’io narrante come una lezione, con tanto di lavagna e gessetto.
L’io narrante, perno di una narrazione che riattiva il passato e àncora il presente al passato stesso, è coadiuvato da un’inquietante e sfuggente personaggio (la pur brava Marina Sorrenti) che interpreta una non ben identificata figura femminile (la memoria? La Musica?), che poco aggiunge all’icasticità del testo e all’intensa interpretazione del protagonista. Come sempre Bernhard, affascinato da figure borderline e dal tema della morte, regala una pagina indimenticabile, consegnata, per interposta persona di Roberto Herlitzka, all’attenzione dello spettatore. In questi casi è quasi obbligatorio consigliare “spettacolo da non perdere”…

Per saperne di più:

www.teatroeliseo.it

www.youtube.com/watch?v=ajASTZYhYc4