NICOLA ARRIGONI | «L’intero valore del teatro è che tutto quello che è stato creato scompare immediatamente. Come accade per la nebbia cresce, cresce e poi improvvisamente svanisce. Questo è il valore del teatro: la raccolta e poi l’improvviso svanire», così Eimuntas Nekrosius definisce il teatro e ovviamente il suo modo di fare teatro in cui tutto vive nell’immagine, nell’emozione impalpabile che simboli e racconto, parola e gesto, attore e pubblico vivono in quell’istante. Ma questo si può dire del teatro in genere, ma in Nekrosius assume quasi un valore esegetico, aiuta a vivere il susseguirsi delle situazioni che il regista lituano racconta, mette insieme i tasselli di una felice creatività visionaria che cresce pian piano come la nebbia svanisce, ma poi è destinata a risorgere, germogliare come racconto che persiste nell’anima e negli occhi dello spettatore. In questo senso Il libro di Giobbe da un lato e la Vita di Galileo di Brecht dall’altro – entrambi gli spettacoli andati in scena all’Olimpico di Vicenza – raccontano di un’estetica, raccontano di una persistenza del maestro lituano nell’interrogare l’uomo, nell’indagare il suo rapporto con Dio, il suo spazio nel creato, demiurgo e fragile omuncolo al tempo stesso.
C’è una coerenza interna al teatro di Eimuntas Nekrosius che offre a chi lo frequenta con appassionata ostinazione e continuità di legare uno spettacolo all’altro, di trovare in ogni nuovo allestimento delle invarianti che sono il rafforzamento di un segno estetico e al tempo stesso il proseguimento di un pensiero/dialogo che il regista mette in atto col suo magistero teatrale. Questo accade nella Vita di Galileo di Brecht in cui l’interrogarsi sul mondo, sulle regole che lo governano, sulla possibilità che queste regole possano preannunciare lo sfratto di Dio sono un tutt’uno. Allora anche il workshop tenuto dal regista lituano a Vicenza in qualità di direttore artistico e artista residente del Ciclo di spettacoli classici al Teatro Olimpico e dedicato a giovani attori in formazione è un’occasione per proseguire la ricerca sul rapporto col sacro, sul ruolo dell’uomo come elemento dell’universo, iniziato col Cantico dei Cantici, proseguito con la messinscena della Divina Commedia e ovviamente con l’elegiaco Libro di Giobbe, visto sempre all’Olimpico di Vicenza. C’è un chiedere senso, c’è un voler andare al cuore del creato con l’analisi, meglio col simbolo che tutto contiene e non tutto svela, che è sintesi e al tempo dilatazione del senso, immersione nel sema per coltivare la curiosità dell’uomo.
Questa esigenza si ravvede in primis nella storia di Giobbe, nel suo interrogare Dio e chiedere il perché di tanto dolore. Giobbe che piega, ripone in un cassetto, poi riprende e reindossa la sua giacca e lo fa con pazienza e ostinazione, la stessa determinazione che non l’ha indotto a maledire il suo Dio anche di fronte alla perdita delle sue ricchezze, dei figli e della salute del suo corpo, la stessa determinazione con cui vorrebbe che Dio gli spiegasse perché tanto dolore. E’ l’immagine che commuove: Dio ridà a Giobbe i suoi averi, una mela divisa in due da cui poi attinge la nuova progenie del saggio timorato di Dio e coloro che sempre hanno avuto in Giobbe un punto di riferimento. Così come accadde nel Cantico dei Cantici, così come è accaduto ne Il Paradiso di Dante, ma in fondo come capita sempre con Nekrosius, il racconto in scena è pensiero, è gesto che tutto comprende, è recitazione viva, pulsante, è danza dello spirito, è parola incarnata, è l’incontenibile che c’è nel simbolo, nei grandi simboli che più che dire suggeriscono. Nel Libro di Giobbe Eimuntas Nekrosius parte alla grande con Dio che potente racconta la storia di Giobbe e subito si ha l’impressione che la parola detta, il suo ripetersi possa equivalere ad una sorta di canto accompagnato da musiche variate di poco che dicono dell’interrogarsi sul dolore e sul senso della sofferenza di fronte ad un Dio inconoscibile e iroso, come è quello dell’Antico Testamento. Pochi elementi scenici: alcuni scranni, una scrivania che rappresenta forse il banco degli imputati, il tribunale che giudicherà Giobbe, un corsetto di lampadine che scottano come le piaghe sul corpo del vecchio Giobbe, ma che sono anche sigaretta, simbolo di pensiero.
E se Giobbe interroga Dio e chiede il perché di tanto dolore, il Galileo di Brecht/Nekrosius è ben piantato a terra, quasi ‘crocifisso’ – uomo vitruviano – su una materasso che fa da giaciglio e da casa, inchiodato a terra ma con lo sguardo volto alle stelle, con il de-siderio di conoscere come si muove il mondo; immerso nel quotidiano del vivere eppure proiettato nel tempo/spazio del cosmo infinito. E’ uomo a confronto con il voler esperire, è lo sguardo gettato nel cannocchiale moltiplicato come volo fra gli allievi che dovrebbero servire al sostentamento di Galileo, ma che egli rifiuta per non togliere tempo alla sua ricerca. Nekrosius racconta il suo Galileo con pochi e intesi segni che si ripetono e si ricorrono, che sono gesti coreografici di danza, di abbracci e lotte, di lenzuola che assomigliano alle oche che un visitatore di passaggio offre allo scienziato prigioniero e ormai quasi cieco. Oche che sono carne da mangiare, ma anche il procedere con un’unica prospettiva dell’uomo che si accontenta dei canoni culturali in cui vive e non va oltre, non rompe le righe. E allora basta un ombrello aperto con un cima una croce di stagnola per simboleggiare la chiesa, un’immagine semplice e tanto maestosa che rende piccolo piccolo quell’uomo che sfida la visione culturale e teologica dell’universo per aprire l’universo allo sguardo analitico della scienza, ma alla fine abiura proprio perché uomo del quotidiano, abiura per non finire come Giordano Bruno, abiura per la paura che lo statu quo mette in atto per mantenersi potente.
Il libro di Giobbe messo in scena dalla compagnia di Nekrosius e Vita di Galileo frutto del workshop tenuto dal regista lituano in quel di Vicenza al termine del suo incarico di direttore artistico del Ciclo di Spettacoli Classici dell’Olimpico di Vicenza hanno peso specifico diverso, il primo si avvale di una potenza attoriale assoluta che ha finito col rendere intime, suggerite le grandi invenzioni gestuali e visive del regista, l’altro con un gruppo di attori necessariamente acerbi ha fatto crescere in potenza le immagini sceniche per dare corpo, spessore ad un gruppo di attori che bisognava sostenere con la poesia della regia, laddove nel lavoro di Giobbe gli attori erano parte integrante della poetica di Eimuntas Nekrosius, erano semplicemente lo strumento di una riflessione teatrale condivisa, portata avanti in stretta simbiosi col regista/maestro. Ma ciò che arriva dal teatro del demoniaco lituano è un senso di speranza e laica fiducia nel mondo o come ha detto il regista commentando la scena finale del suo Giobbe in cui l’umanità si ciba della mela divisa in due da Giobbe, donatagli dal Dio di cui i progetti sono inconoscibili: «una speranza vitale e umana. Avidità di mangiare, inghiottiendo la vita, forse afferma che nessuno da nessuna parte sparisce all’improvviso senza una ragione, niente passa senza un significato. Ogni cosa in questa vita ha un significato».
Il libro di Giobbe, regia di Eimuntas Nekrosius, scene: Marius Nekrošius, costumi: Nadežda Gultiajeva, musiche originali: Leon Somov, luci: Audrius Jankauskas, assistente alla regia: Tauras Čižas, suono: Arvydas Dūkšta, oggetti di scena: Genadij Virkovskij, assistente ai costumi: Lina Akstinaitė, con Remigijus Vilkaitis (Giobbe), Salvijus Trepulis, Vaidas Vilius, Darius Petrovskis, Vygandas Vadeiša, Marija Petravičiūtė, Beata Tiškevič, Teatro Olimpico di Vicenza, Vicenza, 19 settembre 2013, prima mondiale.
Vita di Galileo di Bertolt Brecht, esito del workshop a cura di Eimuntas Nekrosius, assistente alla regia e music designer Tauras Cizas, costumi di Carolina Cubria, con la partecipazione di Alessandro Lombardo e con gli attori selezionati per il workshop: Anna Bellato, Chiara Catalano, Sara Borghi, Federica Castellini, Emilia Verginelli, Valerio Mazzucato, Emanuele Piovene Porto Godi, Pinheiro Amandio, Luca Damiani, Vittorio Vaccaro, Luigi Maria Rausa, Lorenzo Marangoni, Francesco Aiello, Giuseppe Gandini, al teatro Olimpico di Vicenza, 4 ottobre 2013, prima nazionale.