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Il libro di Giobbe e Vita di Galileo: la fame di Dio di E. Nekrosius

teatro olimpico 16-09-13NICOLA ARRIGONI | «L’intero valore del teatro è che tutto quello che è stato creato scompare immediatamente. Come accade per la nebbia cresce, cresce e poi improvvisamente svanisce. Questo è il valore del teatro: la raccolta e poi l’improvviso svanire», così Eimuntas Nekrosius definisce il teatro e ovviamente il suo modo di fare teatro in cui tutto vive nell’immagine, nell’emozione impalpabile che simboli e racconto, parola e gesto, attore e pubblico vivono in quell’istante. Ma questo si può dire del teatro in genere, ma in Nekrosius assume quasi un valore esegetico, aiuta a vivere il susseguirsi delle situazioni che il regista lituano racconta, mette insieme i tasselli di una felice creatività visionaria che cresce pian piano come la nebbia svanisce, ma poi è destinata a risorgere, germogliare come racconto che persiste nell’anima e negli occhi dello spettatore. In questo senso Il libro di Giobbe da un lato e la Vita di Galileo di Brecht dall’altro – entrambi gli spettacoli andati in scena all’Olimpico di Vicenza – raccontano di un’estetica, raccontano di una persistenza del maestro lituano nell’interrogare l’uomo, nell’indagare il suo rapporto con Dio, il suo spazio nel creato, demiurgo e fragile omuncolo al tempo stesso.

C’è una coerenza interna al teatro di Eimuntas Nekrosius che offre a chi lo frequenta con appassionata ostinazione e continuità di legare uno spettacolo all’altro, di trovare in ogni nuovo allestimento delle invarianti che sono il rafforzamento di un segno estetico e al tempo stesso il proseguimento di un pensiero/dialogo che il regista mette in atto col suo magistero teatrale. Questo accade nella Vita di Galileo di Brecht in cui l’interrogarsi sul mondo, sulle regole che lo governano, sulla possibilità che queste regole possano preannunciare lo sfratto di Dio sono un tutt’uno. Allora anche il workshop tenuto dal regista lituano a Vicenza in qualità di direttore artistico e artista residente del Ciclo di spettacoli classici al Teatro Olimpico e dedicato a giovani attori in formazione è un’occasione per proseguire la ricerca sul rapporto col sacro, sul ruolo dell’uomo come elemento dell’universo, iniziato col Cantico dei Cantici, proseguito con la messinscena della Divina Commedia e ovviamente con l’elegiaco Libro di Giobbe, visto sempre all’Olimpico di Vicenza. C’è un chiedere senso, c’è un voler andare al cuore del creato con l’analisi, meglio col simbolo che tutto contiene e non tutto svela, che è sintesi e al tempo dilatazione del senso, immersione nel sema per coltivare la curiosità dell’uomo.

giobbe nekrosiusQuesta esigenza si ravvede in primis nella storia di Giobbe, nel suo interrogare Dio e chiedere il perché di tanto dolore. Giobbe che piega, ripone in un cassetto, poi riprende e reindossa la sua giacca e lo fa con pazienza e ostinazione, la stessa determinazione che non l’ha indotto a maledire il suo Dio anche di fronte alla perdita delle sue ricchezze, dei figli e della salute del suo corpo, la stessa determinazione con cui vorrebbe che Dio gli spiegasse perché tanto dolore. E’ l’immagine che commuove: Dio ridà a Giobbe i suoi averi, una mela divisa in due da cui poi attinge la nuova progenie del saggio timorato di Dio e coloro che sempre hanno avuto in Giobbe un punto di riferimento. Così come accadde nel Cantico dei Cantici, così come è accaduto ne Il Paradiso di Dante, ma in fondo come capita sempre con Nekrosius, il racconto in scena è pensiero, è gesto che tutto comprende, è recitazione viva, pulsante, è danza dello spirito, è parola incarnata, è l’incontenibile che c’è nel simbolo, nei grandi simboli che più che dire suggeriscono. Nel Libro di Giobbe Eimuntas Nekrosius parte alla grande con Dio che potente racconta la storia di Giobbe e subito si ha l’impressione che la parola detta, il suo ripetersi possa equivalere ad una sorta di canto accompagnato da musiche variate di poco che dicono dell’interrogarsi sul dolore e sul senso della sofferenza di fronte ad un Dio inconoscibile e iroso, come è quello dell’Antico Testamento. Pochi elementi scenici: alcuni scranni, una scrivania che rappresenta forse il banco degli imputati, il tribunale che giudicherà Giobbe, un corsetto di lampadine che scottano come le piaghe sul corpo del vecchio Giobbe, ma che sono anche sigaretta, simbolo di pensiero.

E se Giobbe interroga Dio e chiede il perché di tanto dolore, il Galileo di Brecht/Nekrosius è ben piantato a terra, quasi ‘crocifisso’ – uomo vitruviano – su una materasso che fa da giaciglio e da casa, inchiodato a terra ma con lo sguardo volto alle stelle, con il de-siderio di conoscere come si muove il mondo; immerso nel quotidiano del vivere eppure proiettato nel tempo/spazio del cosmo infinito. E’ uomo a confronto con il voler esperire, è lo sguardo gettato nel cannocchiale moltiplicato come volo fra gli allievi che dovrebbero servire al sostentamento di Galileo, ma che egli rifiuta per non togliere tempo alla sua ricerca. Nekrosius racconta il suo Galileo con pochi e intesi segni che si ripetono e si ricorrono, che sono gesti coreografici di danza, di abbracci e lotte, di lenzuola che assomigliano alle oche che un visitatore di passaggio offre allo scienziato prigioniero e ormai quasi cieco. Oche che sono carne da mangiare, ma anche il procedere con un’unica prospettiva dell’uomo che si accontenta dei canoni culturali in cui vive e non va oltre, non rompe le righe. E allora basta un ombrello aperto con un cima una croce di stagnola per simboleggiare la chiesa, un’immagine semplice e tanto maestosa che rende piccolo piccolo quell’uomo che sfida la visione culturale e teologica dell’universo per aprire l’universo allo sguardo analitico della scienza, ma alla fine abiura proprio perché uomo del quotidiano, abiura per non finire come Giordano Bruno, abiura per la paura che lo statu quo mette in atto per mantenersi potente.

Il libro di Giobbe messo in scena dalla compagnia di Nekrosius e Vita di Galileo frutto del workshop tenuto dal regista lituano in quel di Vicenza al termine del suo incarico di direttore artistico del Ciclo di Spettacoli Classici dell’Olimpico di Vicenza hanno peso specifico diverso, il primo si avvale di una potenza attoriale assoluta che ha finito col rendere intime, suggerite le grandi invenzioni gestuali e visive del regista, l’altro con un gruppo di attori necessariamente acerbi ha fatto crescere in potenza le immagini sceniche per dare corpo, spessore ad un gruppo di attori che bisognava sostenere con la poesia della regia, laddove nel lavoro di Giobbe gli attori erano parte integrante della poetica di Eimuntas Nekrosius, erano semplicemente lo strumento di una riflessione teatrale condivisa, portata avanti in stretta simbiosi col regista/maestro. Ma ciò che arriva dal teatro del demoniaco lituano è un senso di speranza e laica fiducia nel mondo o come ha detto il regista commentando la scena finale del suo Giobbe in cui l’umanità si ciba della mela divisa in due da Giobbe, donatagli dal Dio di cui i progetti sono inconoscibili: «una speranza vitale e umana. Avidità di mangiare, inghiottiendo la vita, forse afferma che nessuno da nessuna parte sparisce all’improvviso senza una ragione, niente passa senza un significato. Ogni cosa in questa vita ha un significato».

Il libro di Giobbe, regia di Eimuntas Nekrosius, scene: Marius Nekrošius, costumi: Nadežda Gultiajeva, musiche originali: Leon Somov, luci: Audrius Jankauskas, assistente alla regia: Tauras Čižas, suono: Arvydas Dūkšta, oggetti di scena: Genadij Virkovskij, assistente ai costumi: Lina Akstinaitė, con Remigijus Vilkaitis (Giobbe), Salvijus Trepulis, Vaidas Vilius, Darius Petrovskis, Vygandas Vadeiša, Marija Petravičiūtė, Beata Tiškevič, Teatro Olimpico di Vicenza, Vicenza, 19 settembre 2013, prima mondiale.

Vita di Galileo di Bertolt Brecht, esito del workshop a cura di Eimuntas Nekrosius, assistente alla regia e music designer Tauras Cizas, costumi di Carolina Cubria, con la partecipazione di Alessandro Lombardo e con gli attori selezionati per il workshop: Anna Bellato, Chiara Catalano, Sara Borghi, Federica Castellini, Emilia Verginelli, Valerio Mazzucato, Emanuele Piovene Porto Godi, Pinheiro Amandio, Luca Damiani, Vittorio Vaccaro, Luigi Maria Rausa, Lorenzo Marangoni, Francesco Aiello, Giuseppe Gandini, al teatro Olimpico di Vicenza, 4 ottobre 2013, prima nazionale.

Se anche sala e critica sono «Poveracce»

poverine

VINCENZO SARDELLI | Io di Poveracce non volevo parlarne. Non tanto perché questo spettacolo (soggetto di Scotti e Coletti, con Gianna Coletti, Beatrice Schiros e Vanessa Korn) è malriuscito. Neppure perché muovere rilievi decisi mi turba. Dante diceva che «perder tempo a chi più sa più spiace». Io sapiente non sono. Ma ci tengo a non precipitare.

Intendiamoci. Le poveracce non è un obbrobrio. Ho visto di peggio. E si sa che il pubblico, quando sceglie, un po’ guarda il portafogli, un po’ le presentazioni sui media. Se annusa che c’è da ridere rompe gli indugi. Tanto più se a teatro ci va con groupon. Della serie: «io a teatro voglio rilassarmi dopo una giornata di lavoro. Sennò m’addormento». Una volta ho visto gente che si sbellicava mentre Otello strangolava Desdemona. Aveva pagato per ridere.

La folla a teatro ci va per i volti noti. Megapubblico davanti ai comici di Zelig. Una volta mi sono avventurato anch’io al Nuovo per la La dodicesima notte. Con Paolantoni. Pienone. Una noia. La gente rideva. Sono uscito a metà spettacolo.

La folla va assecondata. Vent’anni fa me lo confidò il direttore del San Babila. Quello che proponeva non era teatro. Ma la gente vuol ridere. E allora giù con Feydeau. E con Salemme. Qualche anno dopo ne riparlai con Syxty. Dirigeva da poco il Litta. Gli chiesi perché non facesse più gli spettacoli belli dell’Out Off. Rispose ironico: «devo pur mangiare».

Il cattivo gusto impera. Colpa della famiglia o della scuola? Della tv o dei politici che dicono che «con la cultura non si mangia»? Corrado Accordino, direttore del Binario 7 di Monza, ha smesso di rodersi il fegato: «le scelte del pubblico sono incomprensibili». Per César Brie «chi è troppo bravo, fa paura nel deserto del teatro italiano».

Anche al cinema abbiamo sdoganato Giovannona Coscialunga, L’esorciccio e La polizia s’incazza. Boldi e De Sica (figlio) sono maître à penser, Habemus papam un filmone.

Io di Poveracce non volevo parlarne. Ma come si fa a tacere quando anche certa critica riesce a dire che è uno spettacolo «espressionistico», «un prezioso momento di autoanalisi collettiva», da cui sia gli attori sia il pubblico «traggono enorme giovamento»? E poi la prova delle attrici: la Korn che «cresce a vista d’occhio», la Schiros il cui talento «straripa, esonda in maniera incontenibile», la Coletti che svetta al punto che «senza paura di esagerare» si può osare «un parallelo con Franca Valeri».

Minchia… E intanto sold out, applausi, bene-brave-bis. Possibile?

Poveracce. Perché i personaggi sono inconsistenti, ripetitivi. Macchiette a partire dal nome: Fortunata Speranza patita di gioco d’azzardo; l’Avvocato delle Pene malata di “pene” (femminile plurale) d’amore; Zocco Lara malata della stessa roba di prima (stavolta maschile singolare). Tre monologhi che non fanno una storia. Che non superano i venti minuti ciascuno. Perché, gira e rigira, non hanno niente da dire. E allora che t’inventano? Appiccicano i monologhi con la saliva, li montano in sequenza alternata e arrivano al minimo sindacale di un’ora di spettacolo. Nessun intreccio, nessun epilogo. Regia zero, luci da oratorio, pubblico che ride, critica (una parte) che plaude.

Poveracce. Perché loro a recitare sono brave. Ed è vero che la Korn sta migliorando. E la Schiros se la cava sempre. E la Coletti, buttala via. Ma il teatro «è tutto un complesso di cose».

Poveracce quelle persone che fanno critica e si chiedono solo se l’attore entra nel personaggio con una buona gestualità. Perché la critica è anch’essa «tutto un complesso di cose».

Forse ha ragione Corrado d’Elia quando dice che la critica sta morendo. Perché se ci fermiamo alla didascalia, agli ammiccamenti, al «mi piace» (come stigmatizza Serena Sinigaglia) non siamo solo morti: puzziamo di cadavere. E di piaggeria. Capito l’eufemismo?

Mondocane#21 – Sad Sad Song

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Lour Reed segnato da Renzo Francabandera

MARAT | Pornografia. Giornalistica. Un uomo perde moglie e due figli in un incidente stradale. Me lo racconta il servizio di un tg. Che chiude dicendo che sto poveraccio non potrà più prendere il piccolo sulle sue ginocchia. E chiamarlo col nomignolo con cui l’ha sempre chiamato. Ecco, collega (per così dire). Io se ti avessi di fronte ti prenderei a ciaffoni, come un Mascetti incazzato. Perché tu mi devasti il paese. Facendo leva sulle emozioni più basse: la commozione, la paura, l’euforia, il senso di appartenenza. Fai pornografia. Giornalistica. Sperando di cogliermi con le difese basse. O senza strumenti. Quanto siamo oggetti e non più soggettivi attivi nella comunicazione? Finisco a leggere l’Irish News. Si racconta di una ragazzina tolta alla famiglia rom per dei controlli sul dna, dopo il caso saltato fuori in Grecia. Mi sorprende (tanto) la forma. L’origine straniera della famiglia è citata solo all’interno del pezzo. Il titolo si può riferire tranquillamente a una famiglia nata e cresciuta a Dublino, in Temple Bar. E il fatto specifico che siano rom non è menzionato. Ma noi a furia di leggere quotidianamente pornografia, abbiamo da tempo abbassato la guardia. E quando si abbassa la guardia si diventa fragili. Molto. Come George Foreman nel 1974 di fronte a Muhammad Ali. A Kinshasa, in Zaire. Con lui a menare come un fabbro per otto riprese, senza capirci niente. E poi crollare a terra stremato, nel momento decisivo. Incapace perfino di alzare i guantoni. Ci hanno sfiancato. E ora siamo alla mercé di chi è in grado di toccare le nostre corde. Con una risata, uno slogan, una lacrima, una speranza. Con la retorica di un intervento alla Leopolda. O portando sul palcoscenico un ragazzino down a far le mossette. Già, il teatro. Maestro di pupi quando si parla d’emozioni. Ma quanta responsabilità ci vuole nel maneggiare i sentimenti altrui? Confine labile. Eppure… Eppure me ne accorgo. Mi accorgo quando vuoi solo il mio applauso, con quella mentalità da bottegaio. O quando invece stai davvero condividendo qualcosa con me. Senza malizia, senza astuzie. Mi succede mentre ascolto Berlin di Lou Reed. Mille volte più una. E improvvisamente mi emoziono osservando che con me c’è chi lo sta ascoltando per la prima volta. Sorride e (non) capisce. Ci sono cuore e talento, nient’altro. Le uniche cose che cerchiamo, no? E allora noi Lou, lo rimettiamo di nuovo tutto da capo. Così, giusto per salutare.

La luce in fondo agli occhi di Gianfranco Berardi

tiresia

VINCENZO SARDELLI | Che cosa vedi, Gianfranco Berardi? Che cosa vedi sul palcoscenico mentre in mutande intoni un allucinante rap su un cubo, o quando, sferzante, cinico, scendi in platea e arringhi gli spettatori? E li inviti a deriderti, a intonare in coro «cieco di merda»?

Sei irriverente. Sei impudico. Sfidi il primo che ti capita. E magari la poltrona davanti a te è vuota. Affronti il rischio di parlare al vuoto. Male che vada ne esce una gag più esilarante.

Li vedi i nostri occhi spaesati? Che magari qualcuno del pubblico neppure ti conosce. Viene a teatro alla cieca. Anche lui. E se davvero non ti guarda negli occhi neppure si accorge che non ci vedi, tanto ti muovi bene, reciti bene. E danzi, salti, volteggi. Con quel tuo fisico sottile che si rimodella ogni giorno nell’arte.

Ci sei o ci fai? C’è più sentimento o risentimento quando ci rinfacci i nostri sciocchi eufemismi, “non vedente”, “disabile”, “diversamente abile”? C’è discrimine tra vita e arte? Che cos’è la finzione?

Metti subito le cose in chiaro. Con una ramazza spazzi via il pietismo, ogni residuo d’afflizione. È un rito liberatorio. Ci disorienti. Ci sbatti in faccia la nostra ipocrisia, il buonismo patetico. Ci insegni che si vede attraverso l’anima, piccolo principe del teatro. E puoi imprecare contro Dio. E maledirlo pure. Dio che ti ha dato una vista più aguzza. Quella che mostri in questo spettacolo con Gabriella Casolari, e siete una bella coppia.

E può darsi che In fondo gli occhi, che abbiamo visto al Cooperativa, non sia un capolavoro memorabile. Che la regia sobria di quell’altro zingaro del teatro che è César Brie serva soprattutto a contenere la tua esuberanza, la tua vitalità. Che la scena minimalista serva a non distogliere l’attenzione da voi. Tu che prendi il nome di un Tiresia in maglia azzurra col numero dieci. Quello dei fuoriclasse. Anche il nome è quello di un fuoriclasse, un asso della cecità, un veggente omerico. I Greci sapevano che i ciechi ci vedono meglio, da fare tutt’uno di passato, presente e futuro. E anche Gino Paoli quando intona Il cielo in una stanza gli occhi li deve chiudere, sennò la poesia che c’ha dentro la perde di vista. Qua Gabriella è la barista Italia, donna delusa abbandonata dal suo uomo, e tu, Tiresia, sei il suo socio e amante. Raccontate la vostra storia, i sogni mancati, debolezze e speranze in un bar che è metafora di un paese dove non è rimasto più niente. La tua cecità è filtro per analizzare l’oggi; per scudisciare un paese rabbioso e smarrito, che brancola verso una via d’uscita improbabile. Lasciano il segno anche dentro di noi le staffilate di Gabriella che percuote la tua schiena con quell’asciugamani, e ci mette dentro la sua energia femminile. L’energia del vostro sentimento, anche senza i segni della nostra quotidianità: salutare la persona amata da lontano, finché non diventa un puntino; riconoscerne gli occhi, tra mille altri, nella folla.

Uno spettacolo spiazzante all’inizio, crudo, un pugno in un occhio. Poetico e ironico nel suo dipanarsi, con qualche vena di realismo magico che si tiene alla larga da derive melense. Pochi elementi scenici, niente effetti speciali, tanto movimento, mai a vuoto.

Su quel palcoscenico scudisciate noi, la nostra malattia sociale. La nostra retorica. La nostra a rinuncia a sogni e prospettive. La nostra superficialità quando cediamo al vittimismo e ci rassegniamo alla crisi, incapaci di metterci in gioco. E ci insegnate a guardare con gli occhi dell’anima, di là del vociare confuso della folla, del frastuono di chi apre la bocca senza emettere suoni, e ascolta senza udire. Ci lasciate la vostra vista dolcemente rabbrividente, che vìola le pareti della notte e scalfisce i muri della nostra stupidità.

Trailer dello spettacolo

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Il podcast curato dal nostro Andrea Ciommiento
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I dubbi sull’informazione nel web. Ha ancora senso parlare di giornalismo?

Internet Festival 1VALENTINA SOLINAS | Si è conclusa da poco a Pisa la seconda edizione dell’Internet Festival, il cui focus è stato quest’anno sull’editoria digitale; l’obiettivo era portare alla luce altri aspetti dell’informazione online e offrire uno spazio per un confronto sui reali vantaggi e i problemi che stanno caratterizzando il mondo dell’editoria in questo passaggio storico.

Il presidente del Gruppo L’Espresso – Repubblica, Carlo De Benedetti nel suo Keynote Speech  alla Scuola Superiore di San’Anna, ha posto l’attenzione sulla forbice apertasi fra giornalismo tradizionale e informazione digitale, due  realtà che si trovano a coesistere nonostante la prima debba combattere sempre più seriamente contro il cambiamento delle abitudini dei lettori e la prospettiva di un ingresso nel mondo digitale, mentre la seconda è ancora alla ricerca di un ambiente stabile e sicuro che ne tuteli i contenuti e la credibilità.

Tema, quello della difesa dei contenuti digitali, cui è stato dedicato il dibattito “Muore il cartaceo, viva il re digitale? Gli editori europei e la transizione più drammatica”, con tre ospiti del giornalismo digitale europeo: Angela Wade Mills direttrice esecutiva presso l’European Publisher Council, Florian Nehm capo delle realazioni e delle politiche istituzionali di Alex Springer AG, e Nikos Gouraros presidente di Online Publisher Association Europe: hanno discusso della possibilità di trovare norme di protezione che tutelassero i contenuti delle testate online per evitare i furti di proprietà intellettuale che spesso danneggiano l’editoria digitale.

I tre, in piena sintonia, hanno portato esempi a sostegno del giornalismo del web, difendendone il bisogno e i vantaggi nell’era della connessione, tutti concordi sull’inevitabile avanzamento del giornalismo online, e l’urgenza di rendere unici i contenuti di ogni testata, per mantenere inalterato il rispetto della qualità da parte degli utenti.
Il problema ruota intorno alla pubblicità: gli articoli delle testate online vengono spesso rubati e inseriti nei blog e nei siti non autorizzati, con lo scopo di avere pezzi su cui inserire banner pubblicitari, fonti di guadagno per i motori di ricerca. Un esempio è google che gestisce uno dei più importanti circuiti pubblicitari del web. L’immaginario attuale pare essere poco rassicurante, giacché l’unico paese europeo che ha provveduto alla tutela delle testate digitali è la Germania; mentre a Bruxelles, ancora, si sta discutendo per trovare soluzioni a difesa del giornalismo online di tutta Europa.

In un ambiente in evoluzione, poco tutelato e precario, il giornalismo professionale resiste; l’ha confermato Lucia Annunziata, conduttrice della trasmissione di RAItre Mezz’ora e direttrice del Huffington post italiano, ha voluto portare il suo contributo elogiando le potenzialità dell’informazione digitale,  i vantaggi del web nella velocità della comunicazione, e menzionando come abbia tutto questo ri-valorizzato la scrittura: “Internet ha rivalorizzato la parola. Vi rendete conto di quanta intelligenza è necessaria per scrivere un pensiero o un’ultim’ora in 140 caratteri?”

Le parole dell’Annunziata rimandano ancora all’analisi sul presente del giornalismo, un presente dove la vendita e la produzione di Tablet e Iphone è in continuo aumento, e le app hanno incrementato a dismisura l’interesse dei lettori; tanto che parafrasando De Benedetti si potrebbe definire l’ultimo decennio come la miglior stagione del giornalismo.

Il fermento e l’interesse per l’informazione non manca, ma deve tornare la consapevolezza del valore del mestiere da parte del lettore. Il timore è che la notizia scritta si perda attraverso la rete, confondendosi con il dilettantismo, senza distinzione tra le testate online e i siti web privati, lasciando solo il ricordo di una professione, durata oltre 400 anni.

Pere Faura: corpo, parola, significato e danza multimediale

Foto di Ilaria Costanzo
Foto di Ilaria Costanzo

RENZO FRANCABANDERA | Era dalla performance al Dance Base durante il Festival di Edimburgo del 2010 che non incontravo Pere Faura, uno dei più allegri e istrionici “animali da palcoscenico” incrociato in questi anni.

Fautore di un’arte accessibile ma intrigante, il giovane danzatore performer, formatosi ad Amsterdam e ora tornato a Barcellona, si fa interprete di un linguaggio in cui la multimedialità e l’interazione con il pubblico condiscono momenti spettacolari al passo con il linguaggio e i segni del contemporaneo, con gli equivoci e le allitterazioni, le metonimie e i controsensi del nostro tempo.

Il lavoro proposto di recente a Contemporanea Prato indaga uno spazio di ricerca particolarmente vicino alle questioni di significante e significato a cui PAC ha deciso, con leggerezza, di votarsi. Abbiamo quindi incontrato, nella video intervista che proponiamo oggi e registrata a Prato, sia Pere Faura che Iñaki Alvarez, coautore dell’ultima proposta in tournèe in Europa, Diari d’Accions.

Ma davvero viviamo in un mondo a senso unico? C’è ancora spazio per il doppio senso, o per l’inversione di marcia?

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Anteprima89: l’inarrestabile flusso delle “Indipendenze” a Milano

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VINCENZO SARDELLI | C’è una periferia che non vuole illanguidire. Che strappa cultura a morsi, e apre spiragli di centralità a chi non si rassegna agli onanismi esistenziali di schermi piccoli e medi. Spazio Teatro 89, Milano, quartiere Quarto Cagnino, prende forse il nome da un semplice numero civico di via Fratelli Zoja. La mente, però, va al ‘68 capovolto, all’altra faccia di una rivoluzione epocale, quel 1989 che sancì la caduta degli steccati ideologici e ridiede respiro ai cittadini d’Oltrecortina. Non stupisce sia stata questa la location del Festival Anteprima89, alla quarta edizione, nel 2013 dedicato al tema Indipendenze.

IndipendenzeIn…dipendenzeIndi…pendenze. Si può giocare sul nome di questa rassegna che dal 10 al 19 ottobre ha accolto sei rappresentazioni teatrali e un film (Tra Cinque Minuti in Scena, produzione Rossofilm) il tutto preceduto da aperitivi e talks. Il festival, intellettualmente intrigante, dedica la sua attenzione a nuove produzioni teatrali della rete milanese nella fase del debutto. Quest’anno ha evidenziato le pressioni che incidono sulla vita delle compagnie, i meccanismi che portano i produttori a scelte che troppo spesso favoriscono la commercialità a scapito della qualità. Assenza di visibilità da parte dei teatri, silenzio della critica, mancanza di spazi di confronto tra artisti, sono una mannaia sull’esistenza stessa di queste compagnie. La riflessione di Davide Gorla di Odemà sul nostro magazine ne è testimonianza.

PAC non è mancato all’appuntamento diretto da Gianluca Di Lauro. Nel corridoio che conduce alla sala la mostra fotografica di Livio Moiana, Corpi in_dipendenza, fa da viatico alle compagnie che si susseguono in scena: Collettivo Pirate-Jenny, Cristina Castigliola, LeCall Theatre, SanPapié, Teatro dell’Albero, Teatro della Madrugada. Il bianco e nero di Moiana, fotografo di moda e ritrattista, è un intreccio di corpi statuari scolpiti dalla luce e animati dal contrasto, che sfidano se stessi per diventare altro. Lo sdoppiamento nasce dalle relazioni: la dipendenza crea un’entità nuova: in-dipendente appunto.

Stimolante quanto abbiamo visto sul palco. A partire da Mario Barzaghi (Teatro dell’Albero), indecifrabile ibrido tra Frate Indovino e Garibaldi lupo di mare, con il suo burlesco Sancio Panza e Non Chisciotte (regia Tage Larsen, luci Marcello D’Agostino). Il panciuto, barbuto e capelluto protagonista propone un Sancio che si ribella all’autore e rivendica un ruolo da big. Cavalcando a suon di tip-tap in groppa a un ciuco di compensato, Barzaghi, movenze da burattino stile Totò a colori, usa una pantagruelica koinè tra francese, latino, spagnolo, meneghino, inglese e tedesco. A recitare, in quest’esibizione marionettistica, sono glutei, gambe, polpacci, ginocchia e piedi, dotati d’insospettata energia semovente. Torace e addome sono cassa di risonanza per vocalizzi da operetta e ritmi rap. Corpo e scena sono tutt’uno in questo vecchio goliardo cresciuto a pane e katakhali, dalla mimica comicamente didascalica.

Straniante Mi sono perso a Milano di Sanpapié, esperimento di teatro canzone in bilico tra psicanalisi e musica elettroacustica, con escursioni techno e luci intimistiche che deflagrano nello stroboscopico. Più affini a Leonard Cohen che a Giorgio Gaber, i Sanpapié propongono una metropoli che è luogo delle occasioni ma anche labirinto di depressione. Un’ansiogena sensazione di precarietà e un’ironia autodistruttiva affiorano attraverso testi che ricordano Dario Vergassola d’antan versione impegnata, e raccontano una crisi sempre più di moda. Uno spettacolo minimalista, dalla surreale comicità sottovoce, che denuncia le convenzioni borghesi e prova a esorcizzare le frustrazioni contemporanee.

Preceduto da una deterministica lezione del filosofo Alberto Giovanni Biuso su libertà e indipendenza, lo spettacolo La bomba. Della necessità del fare di LeCall Theatre è una ballata multimediale che mette insieme Storia di un impiegato di Fabrizio De André e storie di vite dismesse nell’Italia del terzo millennio. A parte la riflessione sulla genialità evergreen del cantautore genovese, emerge, in quest’intreccio di musica, video e recitazione la buona prova di Valentina Rho, in perenne equilibrio su una putrella di ferro a 30° su un perno. L’attrice vi si erge, vi striscia, si arrampica, si aggrappa. Vi si china malinconica. Vi depone davanti a un giudice. Dietro di lei scorrono (forse troppo a lungo) immagini di auto e cravatte, di corse e paesaggi desolati. Le elaborazioni elettroacustiche di Maurizio Corbella danno il la alla fusione dei linguaggi. Uno spettacolo sull’alienazione che è narrazione, canto e commozione. Il testo e la regia di Chiara Tarabotti evocano quadri tra Kerouac e Ginsberg. Con atmosfere tra Metropolis di Lang e il soliloquio finale del Grande Dittatore, anche La bomba si inserisce nel filone del festival, viaggio toccante per riflettere su quello che ci rimane e su quello che stiamo perdendo.

Il Sancio de sostanza di Barzaghi

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I Sanpapié ci credono
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Ranuncoli #3 – Perché vogliono farti sentire in colpa se non vai a teatro?

pope okCOSIMA PAGANINI | Io vado a teatro spesso. L’ultimo spettacolo che mi è veramente piaciuto ed è stato importante per me l’ho visto nel 2004. Da allora tanti spettacoli perdibili, interessanti, ruffiani, ridicoli,  carini, brutti. Continuo ad andare a teatro per lo stesso motivo per cui a quelli come me piacciono: i lari frustrati, i lapi gessati e i papi passati (e rivalutati), pechino express, le formine dei dolci e le mele smozzicate, la ‘cultura’ discauntica, l’oroscopo dell’internazionale,  mad man, breaking bad, l’uovo  (strapazzato e non), il “qui e se non ora”, il teatro d’arte pertuttiperpochi,  il performativo,  i cancelletti e le fortezze vuote o in compagnia, le strade secondarie e i sentieri interrotti dei perplessi.

In fondo non siamo altro che masochisti egocentrici o sadici vigliacchi.

E così ho risposto alla domanda.

Qualche riferimento in ordine sparso: Maimonide, Angelini, Heidegger, Gilligan, Grassi, Elkann, Twain, Bettelheim, Cléry, Weiner, Parodi, Boninsegna, Mancuso

Wilson al Teatro dell’Arte: famo ‘na cosa a tre!

robertoVINCENZO SARDELLI | Aveva ragione Renato Zero. Che in Triangolo sentenziava: «la geometria non è un reato». E allora ci provo anch’io a fare «una cosa a tre». Ad articolare un simposio teatrale con due «firme» di questo magazine: Elena Scolari e Marat. Tutti e due cresciuti a pane e teatro. Format nuovo, evento straordinario, di cui siamo stati testimoni: il ritorno a teatro, e sul palco, di quel funambolo della drammaturgia che è Bob Wilson. Serata unica, domenica 20 ottobre 2013. L’Ultimo nastro di Krapp per la riapertura del Teatro dell’Arte. E allora riparto da Zero. Anzi. Ricomincio da tre!

VINCENZO: Corti e taglienti. Su Wilson a Milano. Uno scambio a tre, Zazie e Marat. Che ne pensate? Non dico dell’idea (ci siete dentro fino al collo!). Ma di questo Wilson d’antan, innovatore e tradizionalista. Del suo silenzio smorfioso eppure terribilmente teatrale per i primi venti minuti, dopo che uno squarcio tuonante ci ha svegliati dal torpore e ha dato il via allo spettacolo. Di questo beckettiano Ultimo nastro che sembrava Aspettando Godot, se non altro perché è iniziato con un’ora di ritardo. Di questa scenografia e di queste atmosfere così contemporanee eppure grigie, in continuità con quella Milano del ‘76 al punto che sembrava dovesse sbucare da un momento all’altro una Giulietta all’inseguimento di una macchina di rapinatori. Quell’anno lo stesso Wilson, in maniera catacombale, fece un solitario spettacolo d’avanguardia in via Ulisse Dini. Pochi soldi e tante idee allora. Adesso mezzo milione di euro dalle istituzioni per il nuovo CRT, qualche luccichio, un bel parterre. Ma forse qualche idea in meno? Sta di fatto che domenica Milano era proprio livida come in quegli Anni di Piombo.

MARAT: Con lui in ritardo come neanche Mick Jagger. Un’ora in più per le babysitter. Ma con la pioggia più bella mai vista in scena. Che pareva una graphic-novel. Con i primi venti minuti fortissimi. Nonostante la qualità dell’audio. Nonostante le banane. Ma sono venti minuti.

VINCENZO: Già. Venti minuti di silenzi, movenze caracollanti e gorgheggi. Con quegli urli spettrali terribilmente evocativi. Così veri. Come quelli dei miei alunni di quarta Itis quando sprigionano il loro disagio. Con la differenza che, diversamente da Wilson, loro dagli zaini non tirano fuori banane da sbucciare, mangiare, e lanciare sul pavimento, ma Smartphone e sigarette da confezionare sui banchi.

ELENA: Ma c’è un incidente: un proiettore bruciato costringe a spostare l’asse di proiezione dei sottotitoli in italiano su una parete laterale. Questo imprevisto ci porta a fare una riflessione che rende unica la serata deluxe al Teatro dell’Arte di Milano. E che le regala un soffio di calore teatrale.

MARAT: Sarà, ma mi deve un torcicollo. E non lo perdono.

ELENA: Torcicollo a parte, prima di scoprirne la ragione banalmente tecnica, l’accidentale cambio di prospettiva ci ha fatto pensare che lo spostamento avesse un senso concettuale. Sì perché tutte le parole che ascoltiamo sono le parole registrate negli anni da Krapp, gli avvenimenti, minuti e no, della sua vita, messi su infiniti nastri, classificati per scatole e bobine, riproducibili a piacere. O dispiacere. Ascoltiamo il passato, e il passato non ha uno spazio, non lo stesso del presente. E così, voltandoci, diamo sussistenza reale allo scarto tra ora e allora.

MARAT: Però mi viene da pensare che ci sia più scena che Krapp. Più forma che sostanza. Più per lui che per noi. E mi capita ogni tanto di pensarlo. Con Bob. E le faccette buffe, l’orango e i mimi hanno pure iniziato a dare un po’ noia. Diciamolo. Che poi una chiusa come Perhaps my best years are gone. When there was a chance of happiness. But I wouldn’t want them back. Not with the fire in me now. No, I wouldn’t want them back, farebbe venire giù il teatro anche ci fossi io in scena. E ho detto tutto.

VINCENZO: Che poi non capisco, Marat, con il tuo inglese fluente, che motivo avessi di farti venire il torcicollo leggendo i sottotitoli proiettati all’estrema sinistra dello spettatore.

MARAT: A volte fingo di sapere quello che non so. E viceversa. Ma soprattutto c’è un grande bisogno di conferme.

VINCENZO: Io invece ho pensato che l’espediente fosse un atto di deferenza al mitico Bob. Che non ha bisogno di didascalie. Neppure per un pubblico pigro come quello italiano che non ama sentir recitare direttamente in inglese. Però a me il torcicollo non è venuto perché ero all’ultima fila. In platea, ma sempre all’ultima fila.

ELENA: Certo questo spettacolo non andrà nella mia top ten. Guai però a chi dice che non ha toccato il cuore, la pancia. Che queste critiche anatomiche noi PACchiani non le facciamo, vero? Il punto centrale è che Bob non ha incantato la platea da ci piacerebbe essere nella New York di Andy Warhol e ci comportiamo come se Milano lo fosse. Problemi di cervicale a parte.

MARAT: Alla fine mi gira un po’ la testa. Come quando saluto troppa gente nel foyer, ormai ho una certa. Ma è Bob. Bob Wilson, mica quello cattivissimo di Laura Palmer. Anche lui ha una certa, mica è più il giovane texano sperduto nella periferia milanese. Ma mi piace comunque uscire a causa sua la domenica pomeriggio, con fuori che piove un mondo freddo. E lasciare per un paio d’ore quell’accappatoio azzurro. Che neanche Lebowski vale sempre la pena. Diciamolo.

VINCENZO: Amici, romani, colleghi d’ammucchiata… Onorato di essermi ubriacato con voi e chissà, ci saranno altre occasioni orgiastico-artistiche. Sperando che l’operazione-Frankenstein non sia stata sgradita al lettore.

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Wilson al Teatro dell’Arte: famo 'na cosa a tre!

robertoVINCENZO SARDELLI | Aveva ragione Renato Zero. Che in Triangolo sentenziava: «la geometria non è un reato». E allora ci provo anch’io a fare «una cosa a tre». Ad articolare un simposio teatrale con due «firme» di questo magazine: Elena Scolari e Marat. Tutti e due cresciuti a pane e teatro. Format nuovo, evento straordinario, di cui siamo stati testimoni: il ritorno a teatro, e sul palco, di quel funambolo della drammaturgia che è Bob Wilson. Serata unica, domenica 20 ottobre 2013. L’Ultimo nastro di Krapp per la riapertura del Teatro dell’Arte. E allora riparto da Zero. Anzi. Ricomincio da tre!

VINCENZO: Corti e taglienti. Su Wilson a Milano. Uno scambio a tre, Zazie e Marat. Che ne pensate? Non dico dell’idea (ci siete dentro fino al collo!). Ma di questo Wilson d’antan, innovatore e tradizionalista. Del suo silenzio smorfioso eppure terribilmente teatrale per i primi venti minuti, dopo che uno squarcio tuonante ci ha svegliati dal torpore e ha dato il via allo spettacolo. Di questo beckettiano Ultimo nastro che sembrava Aspettando Godot, se non altro perché è iniziato con un’ora di ritardo. Di questa scenografia e di queste atmosfere così contemporanee eppure grigie, in continuità con quella Milano del ‘76 al punto che sembrava dovesse sbucare da un momento all’altro una Giulietta all’inseguimento di una macchina di rapinatori. Quell’anno lo stesso Wilson, in maniera catacombale, fece un solitario spettacolo d’avanguardia in via Ulisse Dini. Pochi soldi e tante idee allora. Adesso mezzo milione di euro dalle istituzioni per il nuovo CRT, qualche luccichio, un bel parterre. Ma forse qualche idea in meno? Sta di fatto che domenica Milano era proprio livida come in quegli Anni di Piombo.

MARAT: Con lui in ritardo come neanche Mick Jagger. Un’ora in più per le babysitter. Ma con la pioggia più bella mai vista in scena. Che pareva una graphic-novel. Con i primi venti minuti fortissimi. Nonostante la qualità dell’audio. Nonostante le banane. Ma sono venti minuti.

VINCENZO: Già. Venti minuti di silenzi, movenze caracollanti e gorgheggi. Con quegli urli spettrali terribilmente evocativi. Così veri. Come quelli dei miei alunni di quarta Itis quando sprigionano il loro disagio. Con la differenza che, diversamente da Wilson, loro dagli zaini non tirano fuori banane da sbucciare, mangiare, e lanciare sul pavimento, ma Smartphone e sigarette da confezionare sui banchi.

ELENA: Ma c’è un incidente: un proiettore bruciato costringe a spostare l’asse di proiezione dei sottotitoli in italiano su una parete laterale. Questo imprevisto ci porta a fare una riflessione che rende unica la serata deluxe al Teatro dell’Arte di Milano. E che le regala un soffio di calore teatrale.

MARAT: Sarà, ma mi deve un torcicollo. E non lo perdono.

ELENA: Torcicollo a parte, prima di scoprirne la ragione banalmente tecnica, l’accidentale cambio di prospettiva ci ha fatto pensare che lo spostamento avesse un senso concettuale. Sì perché tutte le parole che ascoltiamo sono le parole registrate negli anni da Krapp, gli avvenimenti, minuti e no, della sua vita, messi su infiniti nastri, classificati per scatole e bobine, riproducibili a piacere. O dispiacere. Ascoltiamo il passato, e il passato non ha uno spazio, non lo stesso del presente. E così, voltandoci, diamo sussistenza reale allo scarto tra ora e allora.

MARAT: Però mi viene da pensare che ci sia più scena che Krapp. Più forma che sostanza. Più per lui che per noi. E mi capita ogni tanto di pensarlo. Con Bob. E le faccette buffe, l’orango e i mimi hanno pure iniziato a dare un po’ noia. Diciamolo. Che poi una chiusa come Perhaps my best years are gone. When there was a chance of happiness. But I wouldn’t want them back. Not with the fire in me now. No, I wouldn’t want them back, farebbe venire giù il teatro anche ci fossi io in scena. E ho detto tutto.

VINCENZO: Che poi non capisco, Marat, con il tuo inglese fluente, che motivo avessi di farti venire il torcicollo leggendo i sottotitoli proiettati all’estrema sinistra dello spettatore.

MARAT: A volte fingo di sapere quello che non so. E viceversa. Ma soprattutto c’è un grande bisogno di conferme.

VINCENZO: Io invece ho pensato che l’espediente fosse un atto di deferenza al mitico Bob. Che non ha bisogno di didascalie. Neppure per un pubblico pigro come quello italiano che non ama sentir recitare direttamente in inglese. Però a me il torcicollo non è venuto perché ero all’ultima fila. In platea, ma sempre all’ultima fila.

ELENA: Certo questo spettacolo non andrà nella mia top ten. Guai però a chi dice che non ha toccato il cuore, la pancia. Che queste critiche anatomiche noi PACchiani non le facciamo, vero? Il punto centrale è che Bob non ha incantato la platea da ci piacerebbe essere nella New York di Andy Warhol e ci comportiamo come se Milano lo fosse. Problemi di cervicale a parte.

MARAT: Alla fine mi gira un po’ la testa. Come quando saluto troppa gente nel foyer, ormai ho una certa. Ma è Bob. Bob Wilson, mica quello cattivissimo di Laura Palmer. Anche lui ha una certa, mica è più il giovane texano sperduto nella periferia milanese. Ma mi piace comunque uscire a causa sua la domenica pomeriggio, con fuori che piove un mondo freddo. E lasciare per un paio d’ore quell’accappatoio azzurro. Che neanche Lebowski vale sempre la pena. Diciamolo.

VINCENZO: Amici, romani, colleghi d’ammucchiata… Onorato di essermi ubriacato con voi e chissà, ci saranno altre occasioni orgiastico-artistiche. Sperando che l’operazione-Frankenstein non sia stata sgradita al lettore.

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