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domenica, Novembre 10, 2024
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Ranuncoli metropolitani #2 – Bob Wilson, gli happy few e il valore della cultura

bob_wilson_in_veste_di_attore_ne_l_ultimo_nastro_di_krapp_di_beckettCOSIMA PAGANINI | Chi ci sarà a vedere Bob Wilson domenica 20 ottobre a Milano?
Gli happy few? Tutte le ragazze e i ragazzi del «petit clan»?
E quelli che resteranno fuori (è inevitabile) chi sono? Ma anche loro tutti ragazzi del gruppo, un altro. In questi tempi buoi (sic) i piccoli clan prosperano, le classi avanzano, le avanguardie non sono mai state meglio, i classici sono in ottima forma, il pop va alla grande, il trash spacca, i luoghi della cultura li trovi ad ogni angolo di strada (come gli psicanalisti a Buenos Aires) e l’arte ha un sacco di officianti e adepti, insomma la bellezzanonècheiltremendoalsuoinizio ecc. ecc..

Per fortuna il classismo (e la classe non è acqua) ci salva dalla frustrazione (e dalla ruggine), soffoca ogni tentativo di rivolta e ci fa essere tutti felici a fine giornata dopo aver parlato di: ma ronconi fa ancora teatro? se ci fosse carmelo, i “figli” degeneri del professore, e franco che direbbe? il teatro fuori dai teatri, vogliamo il pubblico vero, basta applaudire chiunque, jerome o pippo? meglio daria (che non è la fulvia del sabato sera), finalmente un bray, vabbé faceva la notte della taranta.
E poi appuntamenti e incontri e tavole rotonde su: VALORE CULTURA, FUS e Fondazioni lirico-sinfoniche, buone pratiche, funzione del teatro pubblico e l’accesso e il ricambio generazionale (‘sti GIOVANI che non possono aspettare ancora ché se diventano vecchi tanto vale tenersi i 50enni).

Comunque io ci sarò a vedere il piccolo Bob (e il 2 novembre a vedere il grande Bob).

A sinistra di quella riga

renzi civatiALICE CANNONE | “Dì qualcosa di sinistra”, o al massimo fatti la riga. Il nuovo trend in tema di politica, e che accomuna tutti i leader maximi in pectore, è senza dubbio la riga, a sinistra. Renzi, Cuperlo, Civati: sono solo alcuni dei fulgidi esempi di come  si possa chiaramente e coerentemente farsi promotori dei propri più alti ideali. Nonostante le inutili titubanze delle malelingue, per l’elettore da fidelizzare questi sono veri e propri dettagli che possono fare la differenza: diceva infatti Celine, nel film “Prima dell’Alba”: “Io credo di potermi innamorare veramente quando so tutto di una persona, come si farà la riga ai capelli, quale camicia metterà quel giorno, conoscere esattamente quale storia racconterà in quella data situazione. Allora saprò di essere veramente innamorata”. E si sa dall’innamorarsi al tapparsi il naso e portar giù la spazzatura , o votare, il passo è decisamente breve.

Ed è proprio quella riga, e quella camicia o quella giacchetta di finta pelle sfoggiata nelle più disparate situazioni nazional-pop, e quella storia, raccontata al momento giusto che ci fa innamorare. Stuoli di donne, restano in trepidante attesa per i post su Ciwati.it più che per l’oroscopo di Brezsny. E a noi, creature così dolcemente complicate, che possiamo perdonare con un battito di ciglio il tradimento con la sorella della cugina della nostra migliore amica, possiamo perdonarvi tutto, e votarvi pure, pur di immaginarvi mentre vi scompigliamo quel crine da intellettuale ribelle e quella riga, a sinistra.

E quindi, per amor del cielo, se non riuscite a dire proprio nulla di sinistra, quanto meno a sinistra continuate a farvi la riga .

Teatro in casa e fuori: videoconfronto con Renato Cuocolo e Roberta Bosetti

the walk - foto Ilaria Costanzo
the walk – foto Ilaria Costanzo

RENZO FRANCABANDERA | Per anni in Australia, dove hanno fondato l’IRAA Theatre, Renato Cuocolo e Roberta Bosetti da un decennio propongono con una certa continuità i loro lavori anche in Italia. L’efficacia della loro proposta risiede nell’insistita volontà di praticare il genere del teatro entro le mura domestiche, con spettacoli per pochi, a volte per un solo spettatore.

Le loro drammaturgie hanno l’abilità di costruirsi attorno a temi universali, ma sono sapientemente aggiunte di un pizzico di misterioso, di inquieto, che porta fra le mura domestiche non i colori caldi e pastellati da mulino bianco, ma assenze, mancanze, irrisolti. E questo finisce necessariamente per risvegliare nello spettatore l’ancestrale.

Renato Cuocolo ha fatto per anni di questo la sua cifra, affidando spesso del tutto la presenza fisica e attorale a Roberta Bosetti, attrice capace, nella sua elegante pacatezza, di tonalità molto varie, con una presenza fisica imponente e un’espressione dolce ma che facilmente vira al doloroso. E’ proprio questa facilità di mutare il sembiante che ha fatto finora la forza dei loro lavori, non di rado proposti nella forma di audaci uno a uno, come quello in camera da letto di Secret Room, visto a Torino alcuni anni fa al Festival delle Colline Torinesi, in cui la dimensione voyeuristica viene esaltata a tal punto da munire lo spettatore di occhiali ad infrarossi per decidere se vedere o non vedere la stanza in cui si trova da solo con l’attrice in vestaglia.

Prima a Terni e ora a Prato per Contemporanea, i due stanno affrontando tuttavia per la prima volta una serie di esperimenti di cambio radicale del paradigma narrativo, uscendo dalla dimensione casalinga.

Gli spettatori muniti di cuffie. Lei racconta, e pian piano, partendo, immaginiamo, da un luogo lontano, si approssima. Fino a rendersi visibile. E’ lei che da questo momento in poi guida il gruppo di 15-20 persone in giro per la città, narrando la vicenda di un amico, vicenda che come sempre vira verso l’onirico, l’irreale, il flusso di coscienza.

Qui la scommessa: riesce il giro nella città con le suggestioni, le vetrine, i tempi, gli imprevisti, a mantenere integro quel codice diretto a cui hanno abituato il loro pubblico, un flusso legato agli sguardi suadenti di lei, alle epifanie di lui, sempre contornate da un alone misterioso? Lo scarto non è facile, i cambiamenti sono molti, la passeggiata nelle vie cittadine è una scommessa non agevole, e abbiamo approfondito con gli artisti le tematiche legate alla scelta ambientale. Abbiamo registrato la parte finale della nostra chiacchierata per condividerla con il pubblico e gli appassionati, ripercorrendo gli anni di esperienza e la caparbietà di questa nuova scommessa non facile, i cui equilibri sono ancora in assestamento. Prato da questo punto di vista è stata una tappa importante. Ecco il videoreportage, registrato in una casa in cui i due artisti hanno in passato realizzato anche un loro spettacolo.

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Un circo di gravità permanente: idoli e vite precarie

circo-boteroGIULIA INDORATO | I favolosi anni 80, il punk rock all’apice, idoli con occhi colorati, giacche di pelle e chitarre elettriche riempiono gli stadi e schizzano per dieci anni in vetta alle classifiche. Poi arriva il grunge, l’olimpo di borchie viene scosso, sembrano crollare i grandi nomi. Dopo piccoli scivoloni discografici, sul finire degli anni 90 c’è chi riprende l’equilibrio e si rilancia con canzoni natalizie di sound rockabilly: Billy Idol, star del rock e acrobata del pop. Dopo un decennio di gloria par dimenticato, ma ritorna sulla scena e prova a rimanere sul precario filo della gloria musicale.

Il termine precario, infatti deriva dal latino è significa preghiera, implorazione. Giornali e inchieste puntano il dito su questo lemma, messo alla gogna e in pessima luce. La P scarlatta.
L’essere umano (Billy compreso) par desiderare di avere i suoi due piedi ben piantati a terra (soprattutto se concimata con la notorietà). Non è nato trampoliere.
Eppure i trampolieri esistono. Eppure l’arte circense si basa sul presupposto che ci sia gente che vuole camminare a molti metri da terra. Il nouveau cirque ha sbalordito grandi e piccini con la sua spettacolare eterogeneità di acrobati precari.

C’è chi si impegna per andare in alto e non cadere, e ne fa un mestiere. Salta da una parte all’altra di un tendone, sorride al pubblico pagante e avanza nel vuoto.
La Orfei ci ha fatto un businnes sul mito dell’altezza, ci ha basato pure l’acconciatura.
C’è chi paga per vederli esibire. C’è chi gioisce nel vedere il funambolo e ha una scarica d’adrenalina in corpo quando lo stesso par stia per cadere. Lo spettatore rimane seduto al suo posto, mangia pop corn e osserva estasiato.

C’è un popolo nascosto di precari felici, entusiasti ed estimatori dell’assenza di stabilità? È un popolo silenzioso, che non se ne fa vanto e non fa rumore?
Il dubbio persiste. Il dubbio si insinua. C’è un popolo che punta il dito sul precario, ma poi paga per averlo sotto casa quando serve spettacolo, adrenalina e comodità?

Certi esseri umani pendono dal tetto del tendone del circo per un tempo quasi infinito, vengono spinti da destra a sinistra e viceversa. Volteggiano senza sosta. Quando hanno paura, guardano in alto e pregano San Precario di trovar un ulteriore trapezio a cui appendersi dopo il salto.
Felicità o meno, la gravità è una forza reale e il processo evolutivo della specie non ci ha donato le ali.

Non sarà che c’è chi al circo si è unito per fame? Magari chi sorride sui trampoli vorrebbe star in terra con i clown, ma non trova posto in pista.

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Pechino Express e il format delocalizzato

Marchesa ALESSANDRO MASTANDREA | Anche nelle sue forme più leggere la TV, più o meno coscientemente, è capace di restituirci un’immagine dei tempi incerti che stiamo vivendo e, paradossalmente, agli occhi di uno spettatore smaliziato “Presa diretta” di Riccardo Iacona o “Pechino Express” di Costantino della Gherardesca pari sono.

Se poco più di un mese fa Iacona ci raccontava, con stile a metà tra l’inchiesta e il documentario, delle disfunzioni che affliggono la società italiana dei nostri giorni, del divario sempre più marcato tra le classi benestanti e nuovi poveri, su Rai Due con Pechino Express la via del disimpegno portava, in fondo, a esiti non dissimili.
Chi infatti ritiene che i problemi del ceto medio dipendano unicamente dalla nuova aristocrazia, dalle oligarchie di manager, banchieri e lobbisti, non avrebbe mai immaginato che anche quella vecchia, di aristocrazia, avrebbe preteso per sè la propria parte, erodendo l’ultima conquista di cui, l’ormai ex, classe media potesse ancora vantarsi: la TV dei reality show e del miraggio democratico di una fama a buon mercato.
Ritenuti fino a ieri sull’orlo dell’estinzione, cancellati dalla più agguerrita specie dei talent come lo furono i dinosauri con l’arrivo del famigerato meteorite, ai reality ha giovato il nuovo sangue – delle tonalità di un blu aristocratico – che Pechino Express porta in dote. In effetti se “l’ozio è una appendice della nobiltà” pare strano che solo oggi si sia consumato questo matrimonio d’interessi corrisposti. Sicché la crisi, come balsamo sulle nostre coscienze, ci ha fatto accettare di buon grado anche la perdita di quest’ultimo bastione. E se a Pechino Express di ozio ce n’è pochino, di classe, per contrasto, ce n’è a vagonate.

E gli indici di ascolto sembrano premiare, a dispetto di un canovaccio liturgico che rientra perfettamente nei canoni del genere: un gruppo di concorrenti, fame e patimenti vari, una prova da affrontare, contrasti e dispute interne da superare con immunità o eliminazione alla fine di ogni tappa. Il merito di questa miracolosa rinascita è da attribuirsi fuor di dubbio alla conduzione austera, quasi regale, di Costantino della Gherardesca, ma anche alla partecipazione della marchesa D’Aragona (al secolo Daniela Del Secco), donna d’ infinita classe pur se dal discusso blasone.

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Quasi si trattasse di marziani precipitati d’improvviso sulla terra, per provare l’esperienza della finitezza della condizione umana, entrambi paiono adattarsi piuttosto bene all’ambiente circostante, non rinunciando a farci partecipi dei loro sentimenti profondi; la Marchesa in particolare, che nonostante il lignaggio, ama cimentarsi senza tema in situazioni “ che non ho mai visto nemmeno al cinematografo”. Facendolo per giunta con una certa classe, purché possa concedersi ancora qualche vezzo: un ombrellino di pizzo bianco per difendersi dal sole, almeno un completo di seta per dormire come si conviene a una nobildonna, e l’insostituibile maggiordomo Gregor, persona squisita e affidabile poiché “parla solo se interrogato”.
Eccolo, dunque, il vero personaggio. Per le altre coppie in gara non ce n’è. Nemmeno per la perfida coppia de “i figli di”. Temuti, costoro, in egual misura sia dalle popolazioni indigene che dai concorrenti, trovano nella marchesa uno scoglio insormontabile, poiché i loro velenosi commenti – “Io mi chiedo come mai i ricchi in Italia siano così stronzi”- tradiscono la loro subalternità a una nobiltà acquisita per diritto di nascita.

Forse fallimentare come tentativo di esperimento sociale e antropologico, questo reality funziona invece sotto il profilo narrativo. Con il viaggio dei concorrenti alla scoperta di luoghi esotici e paesaggi meravigliosi, di tramonti struggenti sul fiume Mekong, alla scoperta di se stessi e del diverso, dello straniero, sempre disponibile e generoso, purché colto dalla lente di una telecamera nel proprio habitat e lontano dalle nostra coste. Ancor più attuale Pechino Express in ottica New Economy, a dimostrazione del fatto che il “made in Italy”, anche per i prodotti televisivi, può essere ancora vincente a patto che la sua produzione venga opportunamente delocalizzata.

Qui ancora qualche fotogramma…

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-127c12e6-ddd5-4ab6-be8d-4ab66e88aa23-pechino.html#p

Arrostimi, ma di teatro saziami: l’Ubu Roi di Roberto Latini

Ubu Roi Roberto LatiniRENZO FRANCABANDERA | La distinzione fra teatro di ricerca e teatro di tradizione? “E’ una roba completamente italiana, ed è soltanto una distinzione per categoria che va a proteggere alcuni poteri effettivamente capaci di dare, ad esempio, a questo spettacolo qui nessun prosieguo, dopo le appena diciannove repliche che ha fatto al suo debutto”: così ha dichiarato in un’intervista alla web tv del Piccolo Teatro Roberto Latini, un talento che in Francia sarebbe alla direzione artistica di un grande teatro a Parigi già da alcuni anni e che invece in Italia ha dovuto lasciare la gestione del Teatro San Martino a Bologna per disperazione.

Eppure di Latini non si è mai vista una cosa mediocre, in cui non si respirasse l’anima vera dell’indagine sul testo, il cercare di dargli voce (e tanto spesso che voce!), di azzardare letture e marchingegni scomodi in cui non far adagiare la signora in poltrona. Forse in Italia accessibilità del codice deve coincidere con la bagaglinesca banalizzazione, tale che il pubblico non debba mai fare alcuno sforzo, non debba mai prendersi la briga di andare oltre la proposta legger leggera della proto-operetta commediola recitata dal protagonista della serie tv: di certo rientra per comodo e per politica nella volontà di quei non-decisori pubblici, che hanno nel tempo svuotato i teatri, spingendo generazioni di giovani fuori dalle sale o avvinghiandoli a rappresentazioni dell’emarginazione e della precarietà fatte di una leggerezza e una superficialità disarmante. Gli stessi che negli ultimi trent’anni invece che continuare a proporre il teatro anche in tv (com’era fino a prima dell’avvento della tv commerciale in Italia), hanno iniziato a proporre la tv a teatro.

Il tema posto da Latini con questa lettura del potere è in fondo anche il tema dell’Italia, intesa come collettività pinocchiesca, chiusa, messa alla catena, soffocata da anni da un blocco sociale di conservazione che, ai tempi del democristianesimo monolitico per mancanza di alternative, era moderato nelle sue derive più autoritarie dalla capacità di quel contenitore (che non ci ha visti mai fra i suoi estimatori) di  inglobare, cercare mediazione totale, finanche laida, di sacche di consenso, salsicce equanimemente ripartite fra i pescatori al suo interno. E alfaniani intrighi, macbethiane lotte di successione fra un dittatore e un altro, fra first lady assassine e troie di regime incipriate e sgomitanti, pur di mettersi nel quadretto di famiglia: è l’Italia.
Eccolo lì, il banchetto di pazienti arrostitori del senso comune, parata di burocrati tutti uguali, vero e sordido potere statuale, che apre lo spettacolo, maschere tutte uguali in tunica bianca, pronte a riversare sulla piastra rovente il malcapitato, la vittima sacrificale, e senza distinzione l’Aldo Moro o il Mauro Rostagno di turno, quelli di Piazza Fontana, del DC9 di Ustica o dell’Italicus. Il pubblico in sala entra e sente odore di carne arrosto. Era da un po’ che non si vedeva un meccanismo scenico così complesso e ricco, pur nella sua elementare povertà di mezzi, come quello che Roberto Latini sta proponendo in questi giorni al Piccolo Teatro di Milano con il suo Ubu Roi, prodotto dal Metastasio di Prato e che ha debuttato nel febbraio 2012.

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Una lettura ovviamente del potere, dell’autorappresentazione del potere, che si incornicia in una serie di rimandi che attraversa tutto il pensiero sul teatro, tornando indietro fino a Jarry, e capace di fare costantemente contrappunto con l’arte, ma non nella logica del copiato smaccato, quanto proprio nella rivitalizzazione dell’opera d’arte come riflessione sulla società: ed ecco che durante lo spettacolo si può ben comprendere come e cosa possa aver ispirato feroci elegie del potere e del rapporto di dominanza, dalle pose melliflue e decadenti di Alma Tadema, al dialogo fra uomo e belva che in ognuno alberga, come in Fernand Khnopff, per arrivare ovviamente agli anni Trenta in Germania, dipinti sul volto e sul corpo di Mamma Ubu (un Ciro Masella perfetta maschera espressionista, ma anche personaggio della commedia dell’arte e tableau vivant).

Che Ubu restituiscono Roberto Latini e i suoi? Una visionaria e crudele opera d’arte, che ha in sè rampe d’accesso per ogni pubblico e per ogni livello, e per ogni livello un ascensore per salire un piano più in alto, per non fermarsi davanti al primo stronzo che vuole comprarti con una salsiccia, al pescatore che non ti insegna a pescare. Questo Ubu, come da anni non si vedeva, sviluppa in pieno quel senso di sospensione, di claustrofobica chiusura su se stessi e di decadenza, tipico delle età di mezzo come la nostra, riportando al centro del teatro davvero un pensiero. Un pensiero debole e forte allo stesso tempo, una lettura dalla parte dei vinti, ma che lascia intendere come nessuno vinca una volta per sempre, e che dietro ogni dittatore c’è un plebeo pronto a litigare nel suo idioma originario per capriccio o isteria (come fanno in pugliese stretto Savino Paparella nei panni di padre Ubu, con la sua consorte).

Non si fa a tempo a pensare un “Che bello! Che idea!”, che la scena successiva te ne fa irrompere in testa un altro. Con cosa poi? Con un telo di stoffa rossa sette metri per sette, agitato mare del sangue di guerra, e la morte nera; con uno scheletro dipinto di nero e legato alla catena, come se Pinocchio si trascinasse dietro la carcassa di Melampo; con una bicicletta da bambino, due cornici dorate giganti, all’interno delle quali il potere si autorappresenta; sei maschere di quelle di gomma siliconata da carnevale e i bellissimi costumi di Marion D’Amburgo; il resto lo fanno le luci di Max Mugnai che dentro questo spazio bianco sanno costruire di volta in volta universi.

Così Roberto Latini, un talento che in Francia sarebbe alla direzione artistica di un grande teatro a Parigi già da alcuni anni e che invece in Italia ha dovuto lasciare la gestione del Teatro San Martino a Bologna per disperazione, ci regala un gioiello assoluto, che dovrebbe girare ed essere rappresentato in tutta Italia. E invece… chissà… Mai comunque rinunciare, dare le salsicce definitivamente per morte. Come titaniche incarnazioni dell’emarginazione dell’arte, ancora illusi che si possa aiutare a pensare con un Jarry qualunque, si sta come arrosticini di periferia, sperando di poter smettere di fare i cani alla catena o le foche da circo, esseri umani che non si rassegnano a diventare un commissario Rex qualunque. E forse il cane ha più interviste lui che Latini. Per dire.

“E quindi sono con noi Ettore Bassi e il Commissario Rex”. Applauso!

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Arrostimi, ma di teatro saziami: l'Ubu Roi di Roberto Latini

Ubu Roi Roberto LatiniRENZO FRANCABANDERA | La distinzione fra teatro di ricerca e teatro di tradizione? “E’ una roba completamente italiana, ed è soltanto una distinzione per categoria che va a proteggere alcuni poteri effettivamente capaci di dare, ad esempio, a questo spettacolo qui nessun prosieguo, dopo le appena diciannove repliche che ha fatto al suo debutto”: così ha dichiarato in un’intervista alla web tv del Piccolo Teatro Roberto Latini, un talento che in Francia sarebbe alla direzione artistica di un grande teatro a Parigi già da alcuni anni e che invece in Italia ha dovuto lasciare la gestione del Teatro San Martino a Bologna per disperazione.

Eppure di Latini non si è mai vista una cosa mediocre, in cui non si respirasse l’anima vera dell’indagine sul testo, il cercare di dargli voce (e tanto spesso che voce!), di azzardare letture e marchingegni scomodi in cui non far adagiare la signora in poltrona. Forse in Italia accessibilità del codice deve coincidere con la bagaglinesca banalizzazione, tale che il pubblico non debba mai fare alcuno sforzo, non debba mai prendersi la briga di andare oltre la proposta legger leggera della proto-operetta commediola recitata dal protagonista della serie tv: di certo rientra per comodo e per politica nella volontà di quei non-decisori pubblici, che hanno nel tempo svuotato i teatri, spingendo generazioni di giovani fuori dalle sale o avvinghiandoli a rappresentazioni dell’emarginazione e della precarietà fatte di una leggerezza e una superficialità disarmante. Gli stessi che negli ultimi trent’anni invece che continuare a proporre il teatro anche in tv (com’era fino a prima dell’avvento della tv commerciale in Italia), hanno iniziato a proporre la tv a teatro.

Il tema posto da Latini con questa lettura del potere è in fondo anche il tema dell’Italia, intesa come collettività pinocchiesca, chiusa, messa alla catena, soffocata da anni da un blocco sociale di conservazione che, ai tempi del democristianesimo monolitico per mancanza di alternative, era moderato nelle sue derive più autoritarie dalla capacità di quel contenitore (che non ci ha visti mai fra i suoi estimatori) di  inglobare, cercare mediazione totale, finanche laida, di sacche di consenso, salsicce equanimemente ripartite fra i pescatori al suo interno. E alfaniani intrighi, macbethiane lotte di successione fra un dittatore e un altro, fra first lady assassine e troie di regime incipriate e sgomitanti, pur di mettersi nel quadretto di famiglia: è l’Italia.
Eccolo lì, il banchetto di pazienti arrostitori del senso comune, parata di burocrati tutti uguali, vero e sordido potere statuale, che apre lo spettacolo, maschere tutte uguali in tunica bianca, pronte a riversare sulla piastra rovente il malcapitato, la vittima sacrificale, e senza distinzione l’Aldo Moro o il Mauro Rostagno di turno, quelli di Piazza Fontana, del DC9 di Ustica o dell’Italicus. Il pubblico in sala entra e sente odore di carne arrosto. Era da un po’ che non si vedeva un meccanismo scenico così complesso e ricco, pur nella sua elementare povertà di mezzi, come quello che Roberto Latini sta proponendo in questi giorni al Piccolo Teatro di Milano con il suo Ubu Roi, prodotto dal Metastasio di Prato e che ha debuttato nel febbraio 2012.

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Una lettura ovviamente del potere, dell’autorappresentazione del potere, che si incornicia in una serie di rimandi che attraversa tutto il pensiero sul teatro, tornando indietro fino a Jarry, e capace di fare costantemente contrappunto con l’arte, ma non nella logica del copiato smaccato, quanto proprio nella rivitalizzazione dell’opera d’arte come riflessione sulla società: ed ecco che durante lo spettacolo si può ben comprendere come e cosa possa aver ispirato feroci elegie del potere e del rapporto di dominanza, dalle pose melliflue e decadenti di Alma Tadema, al dialogo fra uomo e belva che in ognuno alberga, come in Fernand Khnopff, per arrivare ovviamente agli anni Trenta in Germania, dipinti sul volto e sul corpo di Mamma Ubu (un Ciro Masella perfetta maschera espressionista, ma anche personaggio della commedia dell’arte e tableau vivant).

Che Ubu restituiscono Roberto Latini e i suoi? Una visionaria e crudele opera d’arte, che ha in sè rampe d’accesso per ogni pubblico e per ogni livello, e per ogni livello un ascensore per salire un piano più in alto, per non fermarsi davanti al primo stronzo che vuole comprarti con una salsiccia, al pescatore che non ti insegna a pescare. Questo Ubu, come da anni non si vedeva, sviluppa in pieno quel senso di sospensione, di claustrofobica chiusura su se stessi e di decadenza, tipico delle età di mezzo come la nostra, riportando al centro del teatro davvero un pensiero. Un pensiero debole e forte allo stesso tempo, una lettura dalla parte dei vinti, ma che lascia intendere come nessuno vinca una volta per sempre, e che dietro ogni dittatore c’è un plebeo pronto a litigare nel suo idioma originario per capriccio o isteria (come fanno in pugliese stretto Savino Paparella nei panni di padre Ubu, con la sua consorte).

Non si fa a tempo a pensare un “Che bello! Che idea!”, che la scena successiva te ne fa irrompere in testa un altro. Con cosa poi? Con un telo di stoffa rossa sette metri per sette, agitato mare del sangue di guerra, e la morte nera; con uno scheletro dipinto di nero e legato alla catena, come se Pinocchio si trascinasse dietro la carcassa di Melampo; con una bicicletta da bambino, due cornici dorate giganti, all’interno delle quali il potere si autorappresenta; sei maschere di quelle di gomma siliconata da carnevale e i bellissimi costumi di Marion D’Amburgo; il resto lo fanno le luci di Max Mugnai che dentro questo spazio bianco sanno costruire di volta in volta universi.

Così Roberto Latini, un talento che in Francia sarebbe alla direzione artistica di un grande teatro a Parigi già da alcuni anni e che invece in Italia ha dovuto lasciare la gestione del Teatro San Martino a Bologna per disperazione, ci regala un gioiello assoluto, che dovrebbe girare ed essere rappresentato in tutta Italia. E invece… chissà… Mai comunque rinunciare, dare le salsicce definitivamente per morte. Come titaniche incarnazioni dell’emarginazione dell’arte, ancora illusi che si possa aiutare a pensare con un Jarry qualunque, si sta come arrosticini di periferia, sperando di poter smettere di fare i cani alla catena o le foche da circo, esseri umani che non si rassegnano a diventare un commissario Rex qualunque. E forse il cane ha più interviste lui che Latini. Per dire.

“E quindi sono con noi Ettore Bassi e il Commissario Rex”. Applauso!

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Ranuncoli metropolitani #1 – 7 giorni a Milano

ranuncoli metropolitaniCOSIMA PAGANINI | “Hanno tutti ragione” la grande bruttezza e basta non fare domande.
Il primo concerto di Milano Musica – San Simpliciano: Morton Feldman ti sfiora, ti ricorda cose gia’ sentite e cosi’ ti piace e ti riconosci.
“Ora non hai più paura” – Out Off: un concerto bellissimo da ascoltare anche alla radio. E Valdoca?  Ricordateli negli anni 80.
Nobel letteratura: come quasi sempre vince il massimo del medio (vedi Feldman). Per questo mi aspettavo che vincesse prima Philip Roth.
“Milano, Vienna, Berlino” allo spazio Oberdan. Quando i pittori vomitano nelle sale da bagno dei ricchi collezionisti e morivano per droga o aids; quando i grandi nudi maschili te li tenevi in salotto. Quando gli artisti erano “selvaggi” e non volevano decorare le case o scandalizzare le piazze.
Pollock e gli irascibili – Palazzo Reale: 49 “capolavori”, cominci la conta e ti fermi a 4. Gli altri tutti piacevoli e vorresti portarteli a casa che accarezzano la vista. Accattivante il merchandise.
E il settimo giorno ti rincuori con qualche pagina de  “I Fratelli Karamazov”: tutte le età sono buone per ri-leggerlo (dove il trattino è una cortesia concessa a quelli che non  ammettono di non averlo ancora letto)

Castellana Bandiera: la strada sola di Emma Dante fra cinema e teatro

castellana bandieraCARLA RUSSO | “Più che una strada, Via Castellana Bandiera è un budello a doppio senso in cui, se due auto si incrociano, una deve per forza cedere il passo…”. Con queste parole si apre la prefazione del romanzo d’esordio di Emma Dante, “Via Castellana Bandiera”, edito da Rizzoli nel 2008, che ora è diventato un film, con la regia della stessa autrice alla sua opera prima cinematografica e che le ha permesso di sbarcare a Venezia per la 70° edizione del Festival, dove Elena Cotta si è aggiudicata la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile.

Cambia il medium, ma la mano della Dante ripropone sullo schermo i topoi della sua scrittura drammaturgica. La famiglia, luogo ambiguo in cui si sviluppano odio, opportunismo, costrizione, esemplarmente dipinta dalla regista negli spettacoli della sua Trilogia della famiglia siciliana (mPalermu, Carnezzeria, Vita mia). L’omosessualità, che genera esclusione e desiderio di fuga, tematica esibita e sviscerata senza tabù a più riprese. E soprattutto la poetica del silenzio, ricercato e ostentato (non vi è musica nel film, tranne che nel finale), affinché possa emergere la musica della vita, fatta di rumori, parole, respiri. Un silenzio paradossalmente assordante accompagna il caparbio duello tra Samira (Elena Cotta) e Rosa (Emma Dante) a suon di clacson, di sguardi feroci, di gesti provocatori che, a mano a mano, livellano le vite delle due donne, rendendole partecipi, per molti versi, di un comune destino. Si respira aria di Sicilia ad ogni frame che scorre dinanzi agli occhi. Sembra di sentirlo sulla pelle il vento rovente che con forza s’insinua in ogni vicolo, ricoprendo ogni cosa con la polvere che solleva. Non bastano l’acqua e i tergicristalli azionati da Rosa a ripulire e a fare chiaro. Tutto è annebbiato, la vista, i cuori, le vite stesse. Samira e Rosa, una di fronte all’altra, due straniere in terra straniera, vittime di un sistema da cui entrambe attuano un piano di fuga. Rosa sceglie un’altra città, Milano, in cui vivere liberamente la propria omosessualità. Samira si consegna alla morte, sottraendosi così ai giochi manipolatori dei suoi parenti acquisiti. Donne che rivendicano la propria libertà attraverso scelte estreme, assurde, mosse dalla caparbietà di chi “ha le corna più dure” e non è disposto a cedere, a lasciarsi “passare sopra” per l’ennesima volta.

La prospettiva della macchina da presa ci offre, in più occasioni, i protagonisti “di spalle”, come il Kantor de La macchina dell’amore e della morte la cui visione al Biondo di Palermo folgorò la giovane Emma Dante (nel lontano 1987) che, in quell’occasione, decise che non le interessava fare “certo teatro” e che preferiva fare come lui: dare irriverentemente le “spalle al pubblico” e fare ricerca. Le riprese restituiscono il movimento delle auto e dei protagonisti, con un effetto di realtà che rimanda a tanta poetica cinematografica, dal neorealismo alla Nouvelle Vague (come non ricordare le inquadrature della coppia Belmondo-Seberg in auto e a spasso per gli Champs-Élysée in À bout de souffle?).

Gli specchietti retrovisori catturano volti, cose, paesaggi come un prisma che, con le sue molteplici facce, raccoglie frammenti di realtà per restituirceli in una sintesi visiva percepibile in un solo colpo d’occhio. Dettagli essenziali di una realtà filtrata che lascia precipitare, come macigni, verità/immagini scomode e dolorose.

“Com’è sula sta’ strata”, intonano i fratelli Mancuso, mentre il film scivola verso il finale. Tutto è compiuto, il duello ha visto solo vinti sulla scena ed ognuno abbandona il proprio “rifugio” omertoso per accorrere ad assistere all’ennesima tragedia giunta al suo inesorabile epilogo.

Film metafora di una Sicilia (o Italia?) immobile, atavica nel suo ristagnare imperturbabile, dove i ritmi sono scanditi dall’eterna lotta scatenata in nome di diritti da far prevalere, di soldi da intascare disonestamente, di vite da maltrattare fino all’ultimo spasimo.

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Mondocane#19 – Lo zeitgeist di Carletto Mazzone

Carletto mazzone visto da Renzo Francabandera
Carletto Mazzone visto da Renzo Francabandera

MARAT | Perché la sensazione è sempre un po’ quella. Che non si è mai nel tempo giusto. Si sta lì fermi riscaldati di luce riflessa, mentre tutti ci ricordano che il teatro vero è stato prima, la musica non sappiamo più nemmeno cosa sia, del cinema non ne parliamo e le avanguardie dove si trovano? Che io con lui ci prendevo l’aperitivo, si vedeva dal semaforo quanto stava storto. Ma quando si metteva davanti alla tela, lo capivi eccome il motivo per cui era a questo mondo. E adesso? Adesso è tutto marketing Marat, figli di papà radical-chic del cazzo che gli chiedi di Modigliani e manco sanno chi sia. Figurarsi inventarsi una burla. Questi dei teatri poi, a fare da quarant’anni la stessa cosa perché una sera del 1975 quella cosa ha funzionato. Ora pure le performance, pensano che sia la rivoluzione. E invece hanno solo spolverato l’argenteria andata fuori moda, lucidata che pare nuova. Marat te lo dico io, vale un cazzo. Manco c’avete una guerra seria contro cui far casino.

E io bevo. E penso che in tutta onestà, non ne ho più mezza di ascoltare di questi discorsi. Che lo so che Brancusi si è fatto mezza Europa a piedi per andare a bottega da Rodin. Che quell’altro ha pulito scarpe agli angoli delle strade e che tizio suonava nelle feste di compleanno. E lo so che voi credete che a un certo punto tutto questo sia finito. Ed è arrivata una massa di gente sempre un pochettino troppo in là per aver vissuto veramente le cose. E sempre un pochettino troppo molle per farne di nuove. Sarà. Ma io invece tutt’intorno vedo gente che ha una passione che non si tiene. Una passione talmente grande, da farli divenir fragili come le caviglie di Van Basten. Gente sottopagata, sfruttata, che nun c’ha l’acqua corrente (ma chi me sente). Messa in condizione di non nuocere, non scegliere. Il teatro ne è pieno. Ma non solo. Eppure mentre riascolto l’album di Keyne West, penso che chi mi parla non ha capito. E il fatto che per generazioni abbiate chiuso con le Big Babol tutte le serrature delle nostre porte, non significa che non stiamo uscendo. A fatica, certo. Ma stiamo uscendo. Condividendo uno zeitgeist silenzioso e violento, dai contorni indefiniti. Ma dal messaggio chiarissimo. Che può essere sintetizzato nella reazione di Carletto Mazzone al termine del derby Brescia-Atalanta, pareggiato dai suoi all’ultimo minuto. “Figli de ‘na mignotta!” urla mentre s’alza dalla panchina e corre verso la curva avversaria. Divincolandosi dal buon senso. Lanciandosi nell’(in)atteso.