RENZO FRANCABANDERA | La distinzione fra teatro di ricerca e teatro di tradizione? “E’ una roba completamente italiana, ed è soltanto una distinzione per categoria che va a proteggere alcuni poteri effettivamente capaci di dare, ad esempio, a questo spettacolo qui nessun prosieguo, dopo le appena diciannove repliche che ha fatto al suo debutto”: così ha dichiarato in un’intervista alla web tv del Piccolo Teatro Roberto Latini, un talento che in Francia sarebbe alla direzione artistica di un grande teatro a Parigi già da alcuni anni e che invece in Italia ha dovuto lasciare la gestione del Teatro San Martino a Bologna per disperazione.
Eppure di Latini non si è mai vista una cosa mediocre, in cui non si respirasse l’anima vera dell’indagine sul testo, il cercare di dargli voce (e tanto spesso che voce!), di azzardare letture e marchingegni scomodi in cui non far adagiare la signora in poltrona. Forse in Italia accessibilità del codice deve coincidere con la bagaglinesca banalizzazione, tale che il pubblico non debba mai fare alcuno sforzo, non debba mai prendersi la briga di andare oltre la proposta legger leggera della proto-operetta commediola recitata dal protagonista della serie tv: di certo rientra per comodo e per politica nella volontà di quei non-decisori pubblici, che hanno nel tempo svuotato i teatri, spingendo generazioni di giovani fuori dalle sale o avvinghiandoli a rappresentazioni dell’emarginazione e della precarietà fatte di una leggerezza e una superficialità disarmante. Gli stessi che negli ultimi trent’anni invece che continuare a proporre il teatro anche in tv (com’era fino a prima dell’avvento della tv commerciale in Italia), hanno iniziato a proporre la tv a teatro.
Il tema posto da Latini con questa lettura del potere è in fondo anche il tema dell’Italia, intesa come collettività pinocchiesca, chiusa, messa alla catena, soffocata da anni da un blocco sociale di conservazione che, ai tempi del democristianesimo monolitico per mancanza di alternative, era moderato nelle sue derive più autoritarie dalla capacità di quel contenitore (che non ci ha visti mai fra i suoi estimatori) di inglobare, cercare mediazione totale, finanche laida, di sacche di consenso, salsicce equanimemente ripartite fra i pescatori al suo interno. E alfaniani intrighi, macbethiane lotte di successione fra un dittatore e un altro, fra first lady assassine e troie di regime incipriate e sgomitanti, pur di mettersi nel quadretto di famiglia: è l’Italia.
Eccolo lì, il banchetto di pazienti arrostitori del senso comune, parata di burocrati tutti uguali, vero e sordido potere statuale, che apre lo spettacolo, maschere tutte uguali in tunica bianca, pronte a riversare sulla piastra rovente il malcapitato, la vittima sacrificale, e senza distinzione l’Aldo Moro o il Mauro Rostagno di turno, quelli di Piazza Fontana, del DC9 di Ustica o dell’Italicus. Il pubblico in sala entra e sente odore di carne arrosto. Era da un po’ che non si vedeva un meccanismo scenico così complesso e ricco, pur nella sua elementare povertà di mezzi, come quello che Roberto Latini sta proponendo in questi giorni al Piccolo Teatro di Milano con il suo Ubu Roi, prodotto dal Metastasio di Prato e che ha debuttato nel febbraio 2012.
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Una lettura ovviamente del potere, dell’autorappresentazione del potere, che si incornicia in una serie di rimandi che attraversa tutto il pensiero sul teatro, tornando indietro fino a Jarry, e capace di fare costantemente contrappunto con l’arte, ma non nella logica del copiato smaccato, quanto proprio nella rivitalizzazione dell’opera d’arte come riflessione sulla società: ed ecco che durante lo spettacolo si può ben comprendere come e cosa possa aver ispirato feroci elegie del potere e del rapporto di dominanza, dalle pose melliflue e decadenti di Alma Tadema, al dialogo fra uomo e belva che in ognuno alberga, come in Fernand Khnopff, per arrivare ovviamente agli anni Trenta in Germania, dipinti sul volto e sul corpo di Mamma Ubu (un Ciro Masella perfetta maschera espressionista, ma anche personaggio della commedia dell’arte e tableau vivant).
Che Ubu restituiscono Roberto Latini e i suoi? Una visionaria e crudele opera d’arte, che ha in sè rampe d’accesso per ogni pubblico e per ogni livello, e per ogni livello un ascensore per salire un piano più in alto, per non fermarsi davanti al primo stronzo che vuole comprarti con una salsiccia, al pescatore che non ti insegna a pescare. Questo Ubu, come da anni non si vedeva, sviluppa in pieno quel senso di sospensione, di claustrofobica chiusura su se stessi e di decadenza, tipico delle età di mezzo come la nostra, riportando al centro del teatro davvero un pensiero. Un pensiero debole e forte allo stesso tempo, una lettura dalla parte dei vinti, ma che lascia intendere come nessuno vinca una volta per sempre, e che dietro ogni dittatore c’è un plebeo pronto a litigare nel suo idioma originario per capriccio o isteria (come fanno in pugliese stretto Savino Paparella nei panni di padre Ubu, con la sua consorte).
Non si fa a tempo a pensare un “Che bello! Che idea!”, che la scena successiva te ne fa irrompere in testa un altro. Con cosa poi? Con un telo di stoffa rossa sette metri per sette, agitato mare del sangue di guerra, e la morte nera; con uno scheletro dipinto di nero e legato alla catena, come se Pinocchio si trascinasse dietro la carcassa di Melampo; con una bicicletta da bambino, due cornici dorate giganti, all’interno delle quali il potere si autorappresenta; sei maschere di quelle di gomma siliconata da carnevale e i bellissimi costumi di Marion D’Amburgo; il resto lo fanno le luci di Max Mugnai che dentro questo spazio bianco sanno costruire di volta in volta universi.
Così Roberto Latini, un talento che in Francia sarebbe alla direzione artistica di un grande teatro a Parigi già da alcuni anni e che invece in Italia ha dovuto lasciare la gestione del Teatro San Martino a Bologna per disperazione, ci regala un gioiello assoluto, che dovrebbe girare ed essere rappresentato in tutta Italia. E invece… chissà… Mai comunque rinunciare, dare le salsicce definitivamente per morte. Come titaniche incarnazioni dell’emarginazione dell’arte, ancora illusi che si possa aiutare a pensare con un Jarry qualunque, si sta come arrosticini di periferia, sperando di poter smettere di fare i cani alla catena o le foche da circo, esseri umani che non si rassegnano a diventare un commissario Rex qualunque. E forse il cane ha più interviste lui che Latini. Per dire.
“E quindi sono con noi Ettore Bassi e il Commissario Rex”. Applauso!
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