fbpx
mercoledì, Novembre 13, 2024
Home Blog Page 423

Arrostimi, ma di teatro saziami: l'Ubu Roi di Roberto Latini

Ubu Roi Roberto LatiniRENZO FRANCABANDERA | La distinzione fra teatro di ricerca e teatro di tradizione? “E’ una roba completamente italiana, ed è soltanto una distinzione per categoria che va a proteggere alcuni poteri effettivamente capaci di dare, ad esempio, a questo spettacolo qui nessun prosieguo, dopo le appena diciannove repliche che ha fatto al suo debutto”: così ha dichiarato in un’intervista alla web tv del Piccolo Teatro Roberto Latini, un talento che in Francia sarebbe alla direzione artistica di un grande teatro a Parigi già da alcuni anni e che invece in Italia ha dovuto lasciare la gestione del Teatro San Martino a Bologna per disperazione.

Eppure di Latini non si è mai vista una cosa mediocre, in cui non si respirasse l’anima vera dell’indagine sul testo, il cercare di dargli voce (e tanto spesso che voce!), di azzardare letture e marchingegni scomodi in cui non far adagiare la signora in poltrona. Forse in Italia accessibilità del codice deve coincidere con la bagaglinesca banalizzazione, tale che il pubblico non debba mai fare alcuno sforzo, non debba mai prendersi la briga di andare oltre la proposta legger leggera della proto-operetta commediola recitata dal protagonista della serie tv: di certo rientra per comodo e per politica nella volontà di quei non-decisori pubblici, che hanno nel tempo svuotato i teatri, spingendo generazioni di giovani fuori dalle sale o avvinghiandoli a rappresentazioni dell’emarginazione e della precarietà fatte di una leggerezza e una superficialità disarmante. Gli stessi che negli ultimi trent’anni invece che continuare a proporre il teatro anche in tv (com’era fino a prima dell’avvento della tv commerciale in Italia), hanno iniziato a proporre la tv a teatro.

Il tema posto da Latini con questa lettura del potere è in fondo anche il tema dell’Italia, intesa come collettività pinocchiesca, chiusa, messa alla catena, soffocata da anni da un blocco sociale di conservazione che, ai tempi del democristianesimo monolitico per mancanza di alternative, era moderato nelle sue derive più autoritarie dalla capacità di quel contenitore (che non ci ha visti mai fra i suoi estimatori) di  inglobare, cercare mediazione totale, finanche laida, di sacche di consenso, salsicce equanimemente ripartite fra i pescatori al suo interno. E alfaniani intrighi, macbethiane lotte di successione fra un dittatore e un altro, fra first lady assassine e troie di regime incipriate e sgomitanti, pur di mettersi nel quadretto di famiglia: è l’Italia.
Eccolo lì, il banchetto di pazienti arrostitori del senso comune, parata di burocrati tutti uguali, vero e sordido potere statuale, che apre lo spettacolo, maschere tutte uguali in tunica bianca, pronte a riversare sulla piastra rovente il malcapitato, la vittima sacrificale, e senza distinzione l’Aldo Moro o il Mauro Rostagno di turno, quelli di Piazza Fontana, del DC9 di Ustica o dell’Italicus. Il pubblico in sala entra e sente odore di carne arrosto. Era da un po’ che non si vedeva un meccanismo scenico così complesso e ricco, pur nella sua elementare povertà di mezzi, come quello che Roberto Latini sta proponendo in questi giorni al Piccolo Teatro di Milano con il suo Ubu Roi, prodotto dal Metastasio di Prato e che ha debuttato nel febbraio 2012.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=gTb4G4n4D9s&w=280&h=157]

Una lettura ovviamente del potere, dell’autorappresentazione del potere, che si incornicia in una serie di rimandi che attraversa tutto il pensiero sul teatro, tornando indietro fino a Jarry, e capace di fare costantemente contrappunto con l’arte, ma non nella logica del copiato smaccato, quanto proprio nella rivitalizzazione dell’opera d’arte come riflessione sulla società: ed ecco che durante lo spettacolo si può ben comprendere come e cosa possa aver ispirato feroci elegie del potere e del rapporto di dominanza, dalle pose melliflue e decadenti di Alma Tadema, al dialogo fra uomo e belva che in ognuno alberga, come in Fernand Khnopff, per arrivare ovviamente agli anni Trenta in Germania, dipinti sul volto e sul corpo di Mamma Ubu (un Ciro Masella perfetta maschera espressionista, ma anche personaggio della commedia dell’arte e tableau vivant).

Che Ubu restituiscono Roberto Latini e i suoi? Una visionaria e crudele opera d’arte, che ha in sè rampe d’accesso per ogni pubblico e per ogni livello, e per ogni livello un ascensore per salire un piano più in alto, per non fermarsi davanti al primo stronzo che vuole comprarti con una salsiccia, al pescatore che non ti insegna a pescare. Questo Ubu, come da anni non si vedeva, sviluppa in pieno quel senso di sospensione, di claustrofobica chiusura su se stessi e di decadenza, tipico delle età di mezzo come la nostra, riportando al centro del teatro davvero un pensiero. Un pensiero debole e forte allo stesso tempo, una lettura dalla parte dei vinti, ma che lascia intendere come nessuno vinca una volta per sempre, e che dietro ogni dittatore c’è un plebeo pronto a litigare nel suo idioma originario per capriccio o isteria (come fanno in pugliese stretto Savino Paparella nei panni di padre Ubu, con la sua consorte).

Non si fa a tempo a pensare un “Che bello! Che idea!”, che la scena successiva te ne fa irrompere in testa un altro. Con cosa poi? Con un telo di stoffa rossa sette metri per sette, agitato mare del sangue di guerra, e la morte nera; con uno scheletro dipinto di nero e legato alla catena, come se Pinocchio si trascinasse dietro la carcassa di Melampo; con una bicicletta da bambino, due cornici dorate giganti, all’interno delle quali il potere si autorappresenta; sei maschere di quelle di gomma siliconata da carnevale e i bellissimi costumi di Marion D’Amburgo; il resto lo fanno le luci di Max Mugnai che dentro questo spazio bianco sanno costruire di volta in volta universi.

Così Roberto Latini, un talento che in Francia sarebbe alla direzione artistica di un grande teatro a Parigi già da alcuni anni e che invece in Italia ha dovuto lasciare la gestione del Teatro San Martino a Bologna per disperazione, ci regala un gioiello assoluto, che dovrebbe girare ed essere rappresentato in tutta Italia. E invece… chissà… Mai comunque rinunciare, dare le salsicce definitivamente per morte. Come titaniche incarnazioni dell’emarginazione dell’arte, ancora illusi che si possa aiutare a pensare con un Jarry qualunque, si sta come arrosticini di periferia, sperando di poter smettere di fare i cani alla catena o le foche da circo, esseri umani che non si rassegnano a diventare un commissario Rex qualunque. E forse il cane ha più interviste lui che Latini. Per dire.

“E quindi sono con noi Ettore Bassi e il Commissario Rex”. Applauso!

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=Nd96pL4k2v8&w=560&h=315]

Ranuncoli metropolitani #1 – 7 giorni a Milano

ranuncoli metropolitaniCOSIMA PAGANINI | “Hanno tutti ragione” la grande bruttezza e basta non fare domande.
Il primo concerto di Milano Musica – San Simpliciano: Morton Feldman ti sfiora, ti ricorda cose gia’ sentite e cosi’ ti piace e ti riconosci.
“Ora non hai più paura” – Out Off: un concerto bellissimo da ascoltare anche alla radio. E Valdoca?  Ricordateli negli anni 80.
Nobel letteratura: come quasi sempre vince il massimo del medio (vedi Feldman). Per questo mi aspettavo che vincesse prima Philip Roth.
“Milano, Vienna, Berlino” allo spazio Oberdan. Quando i pittori vomitano nelle sale da bagno dei ricchi collezionisti e morivano per droga o aids; quando i grandi nudi maschili te li tenevi in salotto. Quando gli artisti erano “selvaggi” e non volevano decorare le case o scandalizzare le piazze.
Pollock e gli irascibili – Palazzo Reale: 49 “capolavori”, cominci la conta e ti fermi a 4. Gli altri tutti piacevoli e vorresti portarteli a casa che accarezzano la vista. Accattivante il merchandise.
E il settimo giorno ti rincuori con qualche pagina de  “I Fratelli Karamazov”: tutte le età sono buone per ri-leggerlo (dove il trattino è una cortesia concessa a quelli che non  ammettono di non averlo ancora letto)

Castellana Bandiera: la strada sola di Emma Dante fra cinema e teatro

castellana bandieraCARLA RUSSO | “Più che una strada, Via Castellana Bandiera è un budello a doppio senso in cui, se due auto si incrociano, una deve per forza cedere il passo…”. Con queste parole si apre la prefazione del romanzo d’esordio di Emma Dante, “Via Castellana Bandiera”, edito da Rizzoli nel 2008, che ora è diventato un film, con la regia della stessa autrice alla sua opera prima cinematografica e che le ha permesso di sbarcare a Venezia per la 70° edizione del Festival, dove Elena Cotta si è aggiudicata la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile.

Cambia il medium, ma la mano della Dante ripropone sullo schermo i topoi della sua scrittura drammaturgica. La famiglia, luogo ambiguo in cui si sviluppano odio, opportunismo, costrizione, esemplarmente dipinta dalla regista negli spettacoli della sua Trilogia della famiglia siciliana (mPalermu, Carnezzeria, Vita mia). L’omosessualità, che genera esclusione e desiderio di fuga, tematica esibita e sviscerata senza tabù a più riprese. E soprattutto la poetica del silenzio, ricercato e ostentato (non vi è musica nel film, tranne che nel finale), affinché possa emergere la musica della vita, fatta di rumori, parole, respiri. Un silenzio paradossalmente assordante accompagna il caparbio duello tra Samira (Elena Cotta) e Rosa (Emma Dante) a suon di clacson, di sguardi feroci, di gesti provocatori che, a mano a mano, livellano le vite delle due donne, rendendole partecipi, per molti versi, di un comune destino. Si respira aria di Sicilia ad ogni frame che scorre dinanzi agli occhi. Sembra di sentirlo sulla pelle il vento rovente che con forza s’insinua in ogni vicolo, ricoprendo ogni cosa con la polvere che solleva. Non bastano l’acqua e i tergicristalli azionati da Rosa a ripulire e a fare chiaro. Tutto è annebbiato, la vista, i cuori, le vite stesse. Samira e Rosa, una di fronte all’altra, due straniere in terra straniera, vittime di un sistema da cui entrambe attuano un piano di fuga. Rosa sceglie un’altra città, Milano, in cui vivere liberamente la propria omosessualità. Samira si consegna alla morte, sottraendosi così ai giochi manipolatori dei suoi parenti acquisiti. Donne che rivendicano la propria libertà attraverso scelte estreme, assurde, mosse dalla caparbietà di chi “ha le corna più dure” e non è disposto a cedere, a lasciarsi “passare sopra” per l’ennesima volta.

La prospettiva della macchina da presa ci offre, in più occasioni, i protagonisti “di spalle”, come il Kantor de La macchina dell’amore e della morte la cui visione al Biondo di Palermo folgorò la giovane Emma Dante (nel lontano 1987) che, in quell’occasione, decise che non le interessava fare “certo teatro” e che preferiva fare come lui: dare irriverentemente le “spalle al pubblico” e fare ricerca. Le riprese restituiscono il movimento delle auto e dei protagonisti, con un effetto di realtà che rimanda a tanta poetica cinematografica, dal neorealismo alla Nouvelle Vague (come non ricordare le inquadrature della coppia Belmondo-Seberg in auto e a spasso per gli Champs-Élysée in À bout de souffle?).

Gli specchietti retrovisori catturano volti, cose, paesaggi come un prisma che, con le sue molteplici facce, raccoglie frammenti di realtà per restituirceli in una sintesi visiva percepibile in un solo colpo d’occhio. Dettagli essenziali di una realtà filtrata che lascia precipitare, come macigni, verità/immagini scomode e dolorose.

“Com’è sula sta’ strata”, intonano i fratelli Mancuso, mentre il film scivola verso il finale. Tutto è compiuto, il duello ha visto solo vinti sulla scena ed ognuno abbandona il proprio “rifugio” omertoso per accorrere ad assistere all’ennesima tragedia giunta al suo inesorabile epilogo.

Film metafora di una Sicilia (o Italia?) immobile, atavica nel suo ristagnare imperturbabile, dove i ritmi sono scanditi dall’eterna lotta scatenata in nome di diritti da far prevalere, di soldi da intascare disonestamente, di vite da maltrattare fino all’ultimo spasimo.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=tye3bzqKwvg&w=560&h=315]

Mondocane#19 – Lo zeitgeist di Carletto Mazzone

Carletto mazzone visto da Renzo Francabandera
Carletto Mazzone visto da Renzo Francabandera

MARAT | Perché la sensazione è sempre un po’ quella. Che non si è mai nel tempo giusto. Si sta lì fermi riscaldati di luce riflessa, mentre tutti ci ricordano che il teatro vero è stato prima, la musica non sappiamo più nemmeno cosa sia, del cinema non ne parliamo e le avanguardie dove si trovano? Che io con lui ci prendevo l’aperitivo, si vedeva dal semaforo quanto stava storto. Ma quando si metteva davanti alla tela, lo capivi eccome il motivo per cui era a questo mondo. E adesso? Adesso è tutto marketing Marat, figli di papà radical-chic del cazzo che gli chiedi di Modigliani e manco sanno chi sia. Figurarsi inventarsi una burla. Questi dei teatri poi, a fare da quarant’anni la stessa cosa perché una sera del 1975 quella cosa ha funzionato. Ora pure le performance, pensano che sia la rivoluzione. E invece hanno solo spolverato l’argenteria andata fuori moda, lucidata che pare nuova. Marat te lo dico io, vale un cazzo. Manco c’avete una guerra seria contro cui far casino.

E io bevo. E penso che in tutta onestà, non ne ho più mezza di ascoltare di questi discorsi. Che lo so che Brancusi si è fatto mezza Europa a piedi per andare a bottega da Rodin. Che quell’altro ha pulito scarpe agli angoli delle strade e che tizio suonava nelle feste di compleanno. E lo so che voi credete che a un certo punto tutto questo sia finito. Ed è arrivata una massa di gente sempre un pochettino troppo in là per aver vissuto veramente le cose. E sempre un pochettino troppo molle per farne di nuove. Sarà. Ma io invece tutt’intorno vedo gente che ha una passione che non si tiene. Una passione talmente grande, da farli divenir fragili come le caviglie di Van Basten. Gente sottopagata, sfruttata, che nun c’ha l’acqua corrente (ma chi me sente). Messa in condizione di non nuocere, non scegliere. Il teatro ne è pieno. Ma non solo. Eppure mentre riascolto l’album di Keyne West, penso che chi mi parla non ha capito. E il fatto che per generazioni abbiate chiuso con le Big Babol tutte le serrature delle nostre porte, non significa che non stiamo uscendo. A fatica, certo. Ma stiamo uscendo. Condividendo uno zeitgeist silenzioso e violento, dai contorni indefiniti. Ma dal messaggio chiarissimo. Che può essere sintetizzato nella reazione di Carletto Mazzone al termine del derby Brescia-Atalanta, pareggiato dai suoi all’ultimo minuto. “Figli de ‘na mignotta!” urla mentre s’alza dalla panchina e corre verso la curva avversaria. Divincolandosi dal buon senso. Lanciandosi nell’(in)atteso.

L’esperienza del buio: a Torinodanza la Partita della De Keersmaeker

atdkGIULIA MURONI | Non è forse il buio un’esperienza anonima e per definizione impenetrabile, qualcosa che non è diretto a noi e non può, perciò, riguardarci? Al contrario, il contemporaneo, è colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo, qualcosa che, più di ogni luce, si rivolge direttamente e singolarmente a lui. Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo. (AGAMBEN, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo)
Così Agamben, in una lezione introduttiva a Venezia, descrive l’atteggiamento di colui che, nel rapporto conflittuale e quindi vivo con la contemporaneità, è in grado di vedere il buio. L’oscurità cessa di esistere come mero spazio inerte di non-visione per manifestarsi come attività e al contempo capacità di vanificare le luci che lo insidiano. Su questa impronta si situa l’esperienza totale di buio (nonché esperienza di buio totale) architettata da Anna Teresa De Keersmaeker, che abbiamo visto nel suo “Partita 2-sei solo”, in scena al Carignano la scorsa domenica, in occasione del festival Torinodanza.
Il teatro è rimasto immerso per oltre venti minuti nel buio, privato in via del tutto eccezionale della fioca luce dei segnali di emergenza e riempito dal suono della Partita n.2 per violino di Bach e della febbrile attenzione di quasi mille persone. Come per gli scandalosi 4.33 di silenzio di Cage, la radicalità di una tale azione teatrale sembra motivata dalla scelta etica di scandagliare e dissezionare le componenti dell’opera d’arte, così che emerga con semplicità e chiarezza il valore intrinseco di ciascuna di esse. Per questo Gigi Cristoforetti, direttore del Torinodanza, invita il pubblico dapprima a limitarsi ad ascoltare, per poi guardare e soltanto infine fare entrambe le cose. Come per isolare le singole azioni percettive, setacciarle e campionarle in uno stato di bramosa concentrazione. La partita n.2 in re minore eseguita da George Alexander Van Dam sulla scena tetra avvolge lo spazio con un suono maestoso, ricco, drammatico.
Sembra il ritorno ad una scansione matematica, interiore, ripetitiva del tempo musicale, trent’anni dopo la prima pièce della coreografa fiamminga, Violin Phase, sulle note di Steve Reich. D’altronde De Keersmaeker non è nuova allo studio dell’infinito ventaglio di combinazioni danza-musica. Se En atendant osava un ardito confronto con una complessa polifonia del XIV secolo, Ars Subtilior, il successivo Cesena ha lavorato sull’abbattimento del confine tra danzatori e musicisti, costruendo una musica con le sole voci dei performer. Quella stessa atmosfera rarefatta, dilatata, interrotta da lunghi momenti di fermo immagine si ritrova anche in “Partita 2”, laddove erano i 19 performers ad arrestarsi in un attimo sospeso, qui è il flusso immaginifico del violino nel buio, sono i passi modulati dal gioco di riflessi distorti del duo, il denso effetto dello spostamento reciproco, fra peso e contrappeso.
La regia misura geometricamente lo spazio scenico in ordinate e ascisse, dalle quali scaturiscono gli incontri dei due vettori De Keersmaeker e Charmatz. Il centro dello spettacolo, in totale silenzio, è intessuto dalle trame dei loro incontri dinamici, di una danza come gioco serioso, serio ludere, fatta di corse e rincorse, salti e gesti. L’intensità gestuale e la presenza esperta della coreografa accompagnano e talvolta guidano il giovane partner fino all’atto finale in cui si ricompongono tutti gli elementi. È una ricostruzione perché il movimento si mostra perfettamente cadenzato sui contrappunti e sulla corposa armonia di Bach, il suono e il movimento si combinano in un quadro rigorosissimo e essenziale. Qui trova l’apice emotivo uno spettacolo che, senza sbavature, ha la sua forza nell’aver orchestrato senza alcun timore reverenziale la celebre musica di Bach con una danza affascinante, benché priva di enfasi espressionistiche.
In quel magico momento di condivisione di senso, elevato al quadrato dalla forza di un’oscurità fuori dall’ordinario, l’esperienza sensoriale ha acuito i sensi, li ha resi affamati di cogliere la sottile vibrazione presente, in modo sempre diverso, in ciascun momento dello spettacolo. Anna De Keersmaker voleva questo? Scalfire la razionalità analitica, giudicante, verso un ascolto profondo, libero, in tensione verso la misteriosa complessità degli elementi semplici? Il paradosso si trasforma in quesito insolubile. Può il buio rischiarare l’abisso?

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=fkc02E_VBCE&w=560&h=315]

L'esperienza del buio: a Torinodanza la Partita della De Keersmaeker

atdkGIULIA MURONI | Non è forse il buio un’esperienza anonima e per definizione impenetrabile, qualcosa che non è diretto a noi e non può, perciò, riguardarci? Al contrario, il contemporaneo, è colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo, qualcosa che, più di ogni luce, si rivolge direttamente e singolarmente a lui. Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo. (AGAMBEN, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo)
Così Agamben, in una lezione introduttiva a Venezia, descrive l’atteggiamento di colui che, nel rapporto conflittuale e quindi vivo con la contemporaneità, è in grado di vedere il buio. L’oscurità cessa di esistere come mero spazio inerte di non-visione per manifestarsi come attività e al contempo capacità di vanificare le luci che lo insidiano. Su questa impronta si situa l’esperienza totale di buio (nonché esperienza di buio totale) architettata da Anna Teresa De Keersmaeker, che abbiamo visto nel suo “Partita 2-sei solo”, in scena al Carignano la scorsa domenica, in occasione del festival Torinodanza.
Il teatro è rimasto immerso per oltre venti minuti nel buio, privato in via del tutto eccezionale della fioca luce dei segnali di emergenza e riempito dal suono della Partita n.2 per violino di Bach e della febbrile attenzione di quasi mille persone. Come per gli scandalosi 4.33 di silenzio di Cage, la radicalità di una tale azione teatrale sembra motivata dalla scelta etica di scandagliare e dissezionare le componenti dell’opera d’arte, così che emerga con semplicità e chiarezza il valore intrinseco di ciascuna di esse. Per questo Gigi Cristoforetti, direttore del Torinodanza, invita il pubblico dapprima a limitarsi ad ascoltare, per poi guardare e soltanto infine fare entrambe le cose. Come per isolare le singole azioni percettive, setacciarle e campionarle in uno stato di bramosa concentrazione. La partita n.2 in re minore eseguita da George Alexander Van Dam sulla scena tetra avvolge lo spazio con un suono maestoso, ricco, drammatico.
Sembra il ritorno ad una scansione matematica, interiore, ripetitiva del tempo musicale, trent’anni dopo la prima pièce della coreografa fiamminga, Violin Phase, sulle note di Steve Reich. D’altronde De Keersmaeker non è nuova allo studio dell’infinito ventaglio di combinazioni danza-musica. Se En atendant osava un ardito confronto con una complessa polifonia del XIV secolo, Ars Subtilior, il successivo Cesena ha lavorato sull’abbattimento del confine tra danzatori e musicisti, costruendo una musica con le sole voci dei performer. Quella stessa atmosfera rarefatta, dilatata, interrotta da lunghi momenti di fermo immagine si ritrova anche in “Partita 2”, laddove erano i 19 performers ad arrestarsi in un attimo sospeso, qui è il flusso immaginifico del violino nel buio, sono i passi modulati dal gioco di riflessi distorti del duo, il denso effetto dello spostamento reciproco, fra peso e contrappeso.
La regia misura geometricamente lo spazio scenico in ordinate e ascisse, dalle quali scaturiscono gli incontri dei due vettori De Keersmaeker e Charmatz. Il centro dello spettacolo, in totale silenzio, è intessuto dalle trame dei loro incontri dinamici, di una danza come gioco serioso, serio ludere, fatta di corse e rincorse, salti e gesti. L’intensità gestuale e la presenza esperta della coreografa accompagnano e talvolta guidano il giovane partner fino all’atto finale in cui si ricompongono tutti gli elementi. È una ricostruzione perché il movimento si mostra perfettamente cadenzato sui contrappunti e sulla corposa armonia di Bach, il suono e il movimento si combinano in un quadro rigorosissimo e essenziale. Qui trova l’apice emotivo uno spettacolo che, senza sbavature, ha la sua forza nell’aver orchestrato senza alcun timore reverenziale la celebre musica di Bach con una danza affascinante, benché priva di enfasi espressionistiche.
In quel magico momento di condivisione di senso, elevato al quadrato dalla forza di un’oscurità fuori dall’ordinario, l’esperienza sensoriale ha acuito i sensi, li ha resi affamati di cogliere la sottile vibrazione presente, in modo sempre diverso, in ciascun momento dello spettacolo. Anna De Keersmaker voleva questo? Scalfire la razionalità analitica, giudicante, verso un ascolto profondo, libero, in tensione verso la misteriosa complessità degli elementi semplici? Il paradosso si trasforma in quesito insolubile. Può il buio rischiarare l’abisso?

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=fkc02E_VBCE&w=560&h=315]

Disastri climatici in scena al Romaeuropa

SfumatoBRUNA MONACO | Il riscaldamento terrestre e le sue conseguenze non tanto sul pianeta quanto sulle persone. Le conseguenze a breve, brevissimo termine: popoli costretti ad abbandonare i propri villaggi e migrare in cerca di una terra migliore. Villaggi interi coercitivamente allontanati dalla campagna, dopo estenuanti e inutili manifestazioni. I rifugiati ambientali sono una nuova categoria di esuli, in pericoloso e rapido aumento, poco conosciuta dall’opinione pubblica, poco seguita dai mass media.
Parla di loro, anche di loro, l’ultimo spettacolo di Rachid Ouramdane portato al Teatro Eliseo dal Romaeuropa Festival. Sempre attento a tematiche sociali, il coreografo francese di origine algerina questa volta ha scelto un tema trasversale che va dall’uomo alla natura per ricadere tragicamente sull’uomo. In Sfumato l’uomo-carnefice, causa dei disastri, è una presenza immateriale. Ma vediamo l’uomo-vittima, in una duplice forma, che sembra un ossimoro: dal vivo i danzatori lo rappresentano, in video invece lo incarnano i testimoni reali. Visi dai tratti orientali, cinesi e vietnamiti, appaiono uno dopo l’altro su uno schermo che copre tutto il fondo-scena. I primi piani sono strettissimi e fissi, la camera sembra voler entrare nella pelle dell’intervistato per partecipare (e far partecipare il pubblico) della sua sofferenza. Una voce off racconta in prima persona le disavventure di questi personaggi. Sui rappresentati dell’uomo-vittima in scena, invece, imperversa la natura nei suoi quattro elementi, natura che qui è carnefice dopo essere stata anch’essa vittima dell’uomo.
Lo spettacolo si apre col fuoco, il riscaldamento terrestre: a terra due corpi accasciati emanano fumo. Loro non si muovono, sembrano morti, ma il fumo aumenta e riempie la scena, arriva al pubblico. Arriva l’aria a spazzare via il fumo, ma non in modo pacifico: è un uragano. Lora Juodkaite rotea su se stessa per più di sei minuti, ininterrottamente. Nulla che somigli a uno stato di trans: Lora è lucida mentre ruota, modifica l’effetto della rotazione muovendo le braccia, la schiena, la testa. Un microfono sull’avambraccio registra il suono dell’aria che si sposta. Poi arrivano le piogge delle foreste pluviali. L’acqua scroscia sul palcoscenico, bagna i danzatori che si dibattono al suolo come animali in cattività. E per alleggerire la scena un riferimento pop: mentre sul fondo l’acqua abbatte due danzatori, si affaccia alla ribalta un terzo interprete che in scarpe da tip tap ritma e intona un inatteso Singin’ in the rain.
Sfumato di Rachid Ouramdane è un spettacolo dalla grande efficacia visiva. Ma lo stile del regista è ben più che riconoscibile: i moduli coreografici che propone in questo spettacolo sono molto simili a quelli visti l’anno scorso in Ordinary Witnesses: danza roteante, break dance, il rallenty che periodicamente si insinua e rompe il movimento naturale delle azioni. A differenza Ordinary Witnesses, però, in Sfumato c’è poca coesione, forse poco coraggio. E’ uno spettacolo che sembra soprattutto ricercare l’effetto e senza dubbio lo trova. Ma una volta raggiunto, l’effetto svanisce, non c’è nulla che penetri e si sedimenti nello spettatore.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=kxYj2thg_g0&w=560&h=315]

La storia antica nella modernità: a Romaeuropa lo splendido “Continu” di Sasha Waltz

continu-sasha waltzLAURA NOVELLI | Dinnanzi ad un capolavoro come “Continu” di Sasha Waltz non si può che restare ammirati, incantati, rapiti. Insieme alla raffinatezza formale, affidata a ventitré danzatori di diversa nazionalità che eseguono in modo perfetto una coreografia a quadri modulata su un’efficace alternanza di scene di massa e momenti più intimi, stacchi violenti e intarsi silenziosi, colpisce la sensibilità espressiva con cui la grande coreografa tedesca fa “parlare” i corpi restituendo, nel complesso della piéce, un universale messaggio di “pietà”. Il palcoscenico (quello dell’Auditorium Conciliazione che ha ospitato l’evento per il Romaeuropa Festival) è vuoto.
Abiti e luci prediligono le tinte fredde: colori non colori che vanno da nero al bianco al beige e al marrone. Si danza l’idea del dolore, della sopraffazione, della guerra, della morte. E lo si fa in una cerimonia compassata, visionaria, ancestrale, dove l’impianto classico, imbastito però su musiche del ‘900 (per lo più attinte al repertorio del greco Iannis Xenakis e del francese Edgar Varèse), sembra voler tradurre in una fisicità fluida e trasformabile la fissità statuaria della Storia e dell’Arte.

Non è un caso che questa magnifica opera nasca, nel 2010, come terza tappa di un percorso creativo che ha visto la Waltz firmare due installazioni site specific concepite per due importanti musei europei quali il Neues Museum di Berlino e il MAXXI di Roma. E’ da questi due spazi espositivi, dalle loro architetture, dalle collezioni che ospitano, dallo spirito che li attraversa che scaturisce l’idea di una composizione ispirata essenzialmente all’arte antica, alla pittura egizia, a reperti preistorici, a incisioni tramandateci su oggetti di milioni di anni fa. Ed è proprio tale richiamo all’antico a plasmare l’eleganza statuaria dei movimenti geometrici e composti che vanno via via disegnando questo tuffo nell’umano. Movimenti ciclici eppure sempre primigeni, leggiadri e insieme forti, sensuali e al contempo duri. Mai però l’orchestrazione d’insieme cede al didascalico, all’archeologia, al richiamo esplicito. Motivo per cui è proprio questa straordinaria capacità di sublimare e personalizzare una materia tanto lontana nel tempo a costituire uno dei più raffinati pregi di “Continu”. Perché se, da una parte, la coreografa si allontana enormemente dalla concretezza e dall’ironia riscontrabili in altri suoi titoli (basti citare quel “Travelogue I – Twenty to Eight”, spettacolo del ’93 riproposto l’anno scorso all’Eliseo sempre nell’ambito del Romaeuropa, di cui avevamo scritto sul numero del 16 ottobre di www.paneacqua.info), dall’altra, ci consegna una visione allusiva della parabola umana, del costante bisogno di violenza (e amore) che la attraversa, assorbendo l’antico nel moderno e raccontando con astrattezza classicheggiante l’eterna trasformazione dell’uomo, della vita, del mondo.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=swDdo9HGmNs&w=280&h=158]

Il primo quadro è già emblematico in tal senso: alcune danzatrici vestite con un lungo abito nero abitano lo spazio primitivo e funesto evocato dalle percussioni suonate dal vivo e sembrano preannunciare, nelle loro movenze larghe e a tratti nervose (tanto da ricordare lo stile di Pina Bausch ma anche quello di Marta Graham), l’ambivalenza “storica” che attraversa il lavoro: la sensualità della scena successiva cede, infatti, subito dopo ad una cruda visione di esecuzione con quel “pam pam” solennemente recitato sotto i cui tiri cadono i corpi, uno dopo l’altro. Ma ecco poi la seconda parte aprirsi su uno scenario del tutto nuovo. In una terra desolata dal biancore accecante una danzatrice esegue un assolo in costume. C’è qui un forte contatto con la terra (sottolineato anche dai colori degli abiti), con il basso, con l’animalità: qualcosa di ctonio che accomuna anche le scene corali successive. I corpi si legano tra loro. Uomini e donne si incontrano e si scontrano, fino alla cerimonia sacra introdotta da tre figure femminili trasportate in scena sulle spalle dei partner. Sono loro ad aprire gli ultimi, vitali, momenti della pièce, laddove i piedi dei danzatori disegnano sul palcoscenico bianco strisce, cerchi, righe, figure geometriche dai colori lividi e cupi. Un tappeto di segni, di antichità moderna, di morti e rinascite che – siamo all’epilogo – si arrotola poi su stesso come un sudario di dolore. Un arazzo di vergogne umane da cui ripartire.

Il bunraku l’amore e la morte

sonezakiBRUNA MONACO | A Roma quest’anno si è festeggiato il cinquantesimo anniversario della fondazione dell’Istituto giapponese di cultura. Attraverso mostre, concerti e conferenze la cultura nipponica è stata al centro dell’agenda culturale della capitale. E per congedarsi da quest’anno di festa, il Teatro Argentina ha ospitato al il fotografo Hiroshi Sugimoto e la sua suggestiva ultima creazione Doppio suicidio d’amore a Sonezachi, che nulla ha a che vedere con la fotografia.

Ricordate il geniale prologo di Dolls, il film con cui nel 2002 Kitano partecipò al Festival di Venezia? Quello era bunraku, patrimonio culturale immateriale dell’umanità dal 2003. Una delle più prestigiose forme teatrali giapponesi accanto al Noh e al Kabuki. Un’arte fragile e antica che ha vissuto periodi di crisi e di splendore, i cui protagonisti sono marionette dalle dimensioni ragguardevoli. I manipolatori in scena sono tanti, tre per marionetta, vestiti di nero dal cappuccio alle scarpe. Defilati rispetto al palco, due musicisti suonano lo shamisen, uno strumento della famiglia dei liuti, a tre corde, dalla musicalità metallica. Accanto a loro c’è il narratore che racconta la storia, descrive l’ambientazione, pronuncia le parole dei personaggi.

Doppio suicidio d’amore a Sonezachi è appunto uno spettacolo di bunraku. Il testo, composto nel ‘700 da uno dei più grandi drammaturghi giapponesi, Chimatsu Monzaemon segna l’inizio del rinnovamento del bunraku che viene introdotto al tema dell’amore, fino ad allora appannaggio esclusivo delle altre arti della scena nipponica. Doppio suicidio d’amore a Sonezachi in effetti parla d’amore, e di morte, certamente. Di come due amanti, Toku e Ohatsu, a cui per questioni sociali è negato l’amore in terra, lo possano vedere compiuto attraverso il suicidio, nel paradiso buddista della Terra Pura.

Nel bunraku i volti delle marionette, scolpiti in legno di cipresso, hanno i tratti marcati. Ma quando si muovono quelle maschere che paiono monolitiche, riescono ad aprirsi a una gamma di nuance psicologiche inimmaginate. La disarticolazione delle marionette è tale da consentire uno spettro di variazione espressiva molto ampio: così il petto di Ohatsu può vibrare quando è scosso dal pianto o da una disperazione trattenuta. Le dita della sua mano possono aprirsi e protendersi verso quelle di Toku. Le palpebre si chiudono amplificando l’impressione di verosimiglianza e l’emozione degli spettatori. Nei momenti di grazia dello spettacolo, agli apici tragici della narrazione, le marionette sembrano vive, almeno quanto degli attori veri. Come gli attori di Ariane Mnouchkine nel celebre Tambours sur la digue spettacolo “sottoforma di pièce per marionette interpretata da attori”, in cui è raccontata la tragedia di un’inondazione esplorando tutte le tecniche di teatro di figura orientale, fra cui il bunraku. E si fa vivo anche il rapporto con i manipolatori: uno stuolo di servi e cortigiani che serve i propri padroni, queste bambole giganti nei loro costumi ampi e rifiniti. Agevolano il loro incedere e li accompagnano nella bambagia, così paiono i manipolatori a servizio delle loro creature.

Dalla fotografia, arte contemporanea per eccellenza, Hiroshi Sugimoto è passato alla tradizione. Un ritorno all’autenticità e alla sicurezza del passato, una fuga dall’ossessionata ricerca di novità che inseguono i contemporanei e da cui “siamo ormai quasi annoiati” confessa Sugimoto. Eppure non mancano i tratti innovativi in questa sua messa interpretazione di Doppio suicidio d’amore a Sonezachi. Dei contributi video riempiono lo spazio scenico, fanno da scenario all’azione riproducendo ambientazioni stilizzate o riproponendo l’ingrandimento di alcuni dettagli: Ohatsu che abbassa le palpebre e inclina la testa è così ben visibile anche al pubblico dei posti più lontani.

D’altronde pare che la storia del bunraku sia intessuta su un doppio filo che unisce tradizione e innovazione se questo di Chimatsu Monzaemon, testo tradizionale per eccellenza, fu rivoluzionario all’epoca della sua uscita. E poi il bunraku è certamente fra le tecniche di manipolazione delle figure, quella che più è stata osservata e studiata, a cui più i contemporanei hanno attinto per approdare ai “nuovi” linguaggi del teatro di figura.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=QNG-qh40Tl0&w=420&h=315]

Il bunraku l'amore e la morte

sonezakiBRUNA MONACO | A Roma quest’anno si è festeggiato il cinquantesimo anniversario della fondazione dell’Istituto giapponese di cultura. Attraverso mostre, concerti e conferenze la cultura nipponica è stata al centro dell’agenda culturale della capitale. E per congedarsi da quest’anno di festa, il Teatro Argentina ha ospitato al il fotografo Hiroshi Sugimoto e la sua suggestiva ultima creazione Doppio suicidio d’amore a Sonezachi, che nulla ha a che vedere con la fotografia.
Ricordate il geniale prologo di Dolls, il film con cui nel 2002 Kitano partecipò al Festival di Venezia? Quello era bunraku, patrimonio culturale immateriale dell’umanità dal 2003. Una delle più prestigiose forme teatrali giapponesi accanto al Noh e al Kabuki. Un’arte fragile e antica che ha vissuto periodi di crisi e di splendore, i cui protagonisti sono marionette dalle dimensioni ragguardevoli. I manipolatori in scena sono tanti, tre per marionetta, vestiti di nero dal cappuccio alle scarpe. Defilati rispetto al palco, due musicisti suonano lo shamisen, uno strumento della famiglia dei liuti, a tre corde, dalla musicalità metallica. Accanto a loro c’è il narratore che racconta la storia, descrive l’ambientazione, pronuncia le parole dei personaggi.
Doppio suicidio d’amore a Sonezachi è appunto uno spettacolo di bunraku. Il testo, composto nel ‘700 da uno dei più grandi drammaturghi giapponesi, Chimatsu Monzaemon segna l’inizio del rinnovamento del bunraku che viene introdotto al tema dell’amore, fino ad allora appannaggio esclusivo delle altre arti della scena nipponica. Doppio suicidio d’amore a Sonezachi in effetti parla d’amore, e di morte, certamente. Di come due amanti, Toku e Ohatsu, a cui per questioni sociali è negato l’amore in terra, lo possano vedere compiuto attraverso il suicidio, nel paradiso buddista della Terra Pura.
Nel bunraku i volti delle marionette, scolpiti in legno di cipresso, hanno i tratti marcati. Ma quando si muovono quelle maschere che paiono monolitiche, riescono ad aprirsi a una gamma di nuance psicologiche inimmaginate. La disarticolazione delle marionette è tale da consentire uno spettro di variazione espressiva molto ampio: così il petto di Ohatsu può vibrare quando è scosso dal pianto o da una disperazione trattenuta. Le dita della sua mano possono aprirsi e protendersi verso quelle di Toku. Le palpebre si chiudono amplificando l’impressione di verosimiglianza e l’emozione degli spettatori. Nei momenti di grazia dello spettacolo, agli apici tragici della narrazione, le marionette sembrano vive, almeno quanto degli attori veri. Come gli attori di Ariane Mnouchkine nel celebre Tambours sur la digue spettacolo “sottoforma di pièce per marionette interpretata da attori”, in cui è raccontata la tragedia di un’inondazione esplorando tutte le tecniche di teatro di figura orientale, fra cui il bunraku. E si fa vivo anche il rapporto con i manipolatori: uno stuolo di servi e cortigiani che serve i propri padroni, queste bambole giganti nei loro costumi ampi e rifiniti. Agevolano il loro incedere e li accompagnano nella bambagia, così paiono i manipolatori a servizio delle loro creature.
Dalla fotografia, arte contemporanea per eccellenza, Hiroshi Sugimoto è passato alla tradizione. Un ritorno all’autenticità e alla sicurezza del passato, una fuga dall’ossessionata ricerca di novità che inseguono i contemporanei e da cui “siamo ormai quasi annoiati” confessa Sugimoto. Eppure non mancano i tratti innovativi in questa sua messa interpretazione di Doppio suicidio d’amore a Sonezachi. Dei contributi video riempiono lo spazio scenico, fanno da scenario all’azione riproducendo ambientazioni stilizzate o riproponendo l’ingrandimento di alcuni dettagli: Ohatsu che abbassa le palpebre e inclina la testa è così ben visibile anche al pubblico dei posti più lontani.
D’altronde pare che la storia del bunraku sia intessuta su un doppio filo che unisce tradizione e innovazione se questo di Chimatsu Monzaemon, testo tradizionale per eccellenza, fu rivoluzionario all’epoca della sua uscita. E poi il bunraku è certamente fra le tecniche di manipolazione delle figure, quella che più è stata osservata e studiata, a cui più i contemporanei hanno attinto per approdare ai “nuovi” linguaggi del teatro di figura.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=QNG-qh40Tl0&w=420&h=315]