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giovedì, Settembre 19, 2024
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La realtà è parola: Omero, Quintiliano e le Ariette

Omero quintilianoRENZO FRANCABANDERA | “La tua azienda favorisce la mobilità”. Così mi capitava di leggere su un banner nella homepage di una intranet aziendale in questi giorni. Un messaggio a qualche decina di migliaia di dipendenti di un grande gruppo sparsi nel mondo e chiamati a salpare con l’audacia di Ulisse. Verso dove? Da- a? E per quanto tempo? Mi imbarco ma tornerò a casa?
“Nessuno potrebbe superare Omero per sublimità negli argomenti di grande importanza e per proprietà in quelli di minore importanza: è ricco e conciso, ma è serio, degno di ammirazione per l’abbondanza per la concisione, supera tutti non solo per le sue capacità poetiche, ma anche per il suo vigore oratorio.”
E’ la versione data oggi per la maturità. Quintiliano che parla di Omero e dice “Ci ha dato infatti un modello” e Luciano Canfora in una esegesi del testo per Repubblica dice che il commentatore latino solleva una questione di fondo ovvero la centralità della parola nella comprensione del reale. La realtà è parola.

E Odisseo è un modello che regge a circa tremila anni di tradizione rapsodica. Ma è proprio la figura di Ulisse che evidentemente in questo tempo, nel nostro tempo, ha da dire. Anche Bob Wilson ha scelto di recente di dire la sua sul poema, con ricco dispiegamento di forze, trasformando l’Odissea in una sorta di avvincente cartoon dove mostri ed epifanie fantastiche si confondono al limitare fra coscienza e incoscienza.
L’Odissea è diventata un po’ la Bibbia del nostro tempo. Non per diffusione, perchè una qualsiasi biografia di Justin Bieber ha sicuramente molti più lettori fra i giovani. E perchè se giri telecamera alla mano nei mercati di Comasina a Milano c’è gente che ti guarda candida e ti dice che Omero non sa chi sia, e anche su Ulisse ha qualche dubbio.

E’ diventata la Bibbia perchè incorpora il sentimento dell’incerto, quell’angoscia della partenza senza certezza d’approdo per l’uomo del Duemila, lo stessoche non è nemmeno sicuro di riuscire a sopravvivere ancora 100 anni come specie vivente ma che trova in sè la scatenante forza di mettere al mondo suoi simili. Ecco, in tutto questo c’è qualcosa che 2800 anni fa evidentemente era uguale e che i rapsodi cantavano in modo molto chiaro.
Ulisse è sempre esistito.
E il teatro sembra averne fortissimo bisogno. Aveva un che di Ulisse l’Amleto padre di Latella, che cercava un alfabeto del contemporaneo nell’Hamlet’s project. E’ esistito in quegli esperimenti di Cesar Brie con il teatro delle Ande, in cui guerre e migrazioni erano proprio il codice di riporto per la spiegazione del reale da parte del regista italo argentino ai suoi attori boliviani.
Ed è la proposta che fa in questi giorni ad Olinda il Teatro delle Ariette, con un gruppo di abitanti del quartiere Comasina di Milano. Persone arrivate in Italia o che sono nate qui, ma che forse il destino spingerà a nuove migrazioni. O esseri viventi che un palmo di terra ferma alla propria coscienza non l’hanno mai potuto dare. A governare il progetto sono Stefano e Paola delle Ariette, con il loro modo di fare scena semplice, tradizionale, edibile, e che ha da sempre come centro proprio la parola attorno al desco. In fondo è quello che accade nell’Odissea con Ulisse che racconta nel dopocena qualche anno di vita.
Qui sono le periferie che, addentando brandelli di testo omerico, lo porgono all’ascoltatore. E la preghiera dell’accoglienza supplicata in tre o quattro dialetti africani diversi, in spagnolo latinoamericano, in afgano, in italiani diversi, con accenti di ogni regione. Insomma quanti Odisseo sono approdati a Comasina? Il Teatro delle Ariette ha scelto cinque episodi. Ha concentrato il fuoco sul racconto orale e sul porgerlo agli ascoltatori come l’eroe di Itaca ai Feaci. E in poche immagini qualificanti.
Pochi oggetti, le parole del misterioso Omero, una barca, il pubblico a bordo di un’imbarcazione in balia delle onde. E noi, marinai del contemporaneo, naufraghi appesi alle gabbie dei pescatori nel Canale di Sicilia per sopravvivere, favoriti o costretti alla mobilità e per di più obbligati, mentre siamo li’ appesi a sentire qualche sciocca rilasciar dichiarazioni che “beh, questo è un buon motivo per smettere di mangiare tonno”.
Faceva bene Circe a trasformarci in porci.

Weegee. Il crimine in primo piano

al metropolitan

MARIA CRISTINA SERRA | Il mondo è spietato, senza mezze tinte nelle foto di strada, virate al nero, di Uscher-Arthur Fellig, divenuto celebre nell’America degli anni Trenta col nome d’arte di Weegee. Sono le notti di piombo ad offrire documenti per i suoi reportage, attraversate dalle pallottole delle Smith&Wesson e dalle sirene della polizia, con i cadaveri ancora caldi a terra, ricoperti di stracci occasionali e di pagine sgualcite dei tabloid, i rivoli di sangue a formare irregolari pozzanghere sull’asfalto. Lui arrivava spesso prima dei detective sul luogo del delitto a bordo della sua Chevrolet, attrezzata a camera oscura mobile, con tanto di radio sintonizzata sulle frequenze della Omicidi di New York. “La radio della polizia era la mia ancora di salvezza. La macchina fotografica era tutta la mia vita, la mia lanterna di Aladino”. Lisette Model, che delle persone ritraeva l’anima, lo immortalò nel ‘45 con l’inseparabile Speed Graphic a tracolla, dotata di flash a lampadine per squarciare l’oscurità della scena con un fascio di luce abbagliante, per raccogliere i dettagli più disparati, in apparente contrasto con la scena madre, in una essenziale inquadratura, per raccontare i fatti più efficacemente delle sue didascalie e dell’articolo che le accompagnava. Una buona dose di cinismo, distacco emotivo, senso della misura e autentico sentimento di pietà erano i suoi ingredienti: rievocati nella mostra “Weegee. Murder is my business”, a Palazzo Magnani di Reggio Emilia (fino al 14 luglio).

Non era un mistero per lui che fra la vita e la morte scorreva un sottile e debolissimo filo, sempre pronto a spezzarsi. Uscher Fellig era destinato fin da piccolo a guardare la realtà senza preliminari né filtri che ne addolcissero le asprezze. Era appena sbarcato con la famiglia ad Ellis Island, nel 1910, proveniente da Zloczew, terra al confine dell’impero austro-ungarico, per sfuggire alla povertà e ai pogrom, che subito l’Ufficio immigrazione gli cambiò nome, americanizzandolo in Arthur. Il Nuovo Mondo lo accolse in quel groviglio di promiscuità etnica e culturale, affanni e delusioni miste a speranze, che era il Lower East Side di New York. Da lì partì la sua avventura alla conquista della prima pagina sulla cronaca di nera; da quella consuetudine a respirare l’odore della fatica a fine giornata, misto ai vapori densi delle zuppe che bollivano per la cena, riempiendo di respiro vitale gli androni dei fatiscenti caseggiati sovrappopolati. Era allenato a confrontare i tanti volti della miseria che insieme alle differenti lingue si mischiavano in un unico universo; a registrare le condizioni della classe operaia; a osservare i giochi e i riti dei bambini che celebrerà poi in foto come: “Children on Fire Escape” e “Summer of the Lower Est Side, divenute simbolo di un’epoca.

Arthur Fellig iniziò nel ’14 a misurarsi con la vita, lasciando la scuola e facendo i mestieri più umili. Negli anni ’20 da tecnico di laboratorio passa a fotoreporter per l’Agenzia Acme News Pictures, che riforniva di scoop tre quotidiani della Mela: “Daily News”, “World Telegraph” e “Herald Tribune”. Poi, nel ’35, arriva la notorietà come free lance e firma le sue foto con un timbro speciale: “Credit photo by Weegee. The Famous”. Gli angoli malfamati di N.Y., come quelli scintillanti dei club dove risuonavano le note dello swing e i ritmi sincopati del jazz, non avevano segreti per lui. Erano impercettibili i confini fra criminalità e legalità, ma il suo “Occhio Indiscreto” (film di Howard Franklin, con Joe Pesci, che si ispirò alla sua figura) riusciva sempre a penetrare nelle ambiguità fra le luci della ribalta e le ombre sinistre del National Crime Syndicate. Sono l’audacia, l’ironia, le angolazioni spericolate e il gusto delle contrapposizioni a regolare il suo obiettivo, “sparato, senza pensare troppo”. A volte usando una luce radente, soffusa, per non far vedere troppo sangue; in modo che “lo sguardo rigido del cadavere si potesse confondere con quello di un povero diavolo che schiacciava un pisolino”. A volte, la vittima è circondata da un’umanità curiosa, che si affaccia nella foto, per avere un attimo di celebrità, indifferente alla compassione, assuefatta alla violenza .

offenders

Vogliono invece celare la loro identità i due arrestati di “Offenders in the Poddy Wagon”, col viso coperto dai cappelli. Solo una borsetta accanto ad un lenzuolo bianco, che buca la notte sulla Park Avenue, ci dice che lì sotto giace una donna. C’è la simultaneità del racconto nell’arresto di Anthony Esposito: un guizzo di reazione bloccato da imponenti poliziotti ripresi di spalle. Domina il sarcasmo in “The Critic”, con la concretezza della cronaca a contrapporre ricchezza e povertà: l’entrata al Metropolitan Opera delle vecchie dame agghindate è macchiata dall’avanzare di una barbona ubriaca. Incongruenze della vita. I tanti volti della metropoli, “in cui bellezza e bruttezza si sovrappongono; tutti amano la bellezza, ma la bruttezza permane”.

Trailer da “Occhio indiscreto”

Le grottesche «Memorie del sottosuolo» di Trifirò

trifiròVINCENZO SARDELLI | Ogni uomo nasconde un sottosuolo. C’è un istinto borderline in ciascuno di noi. Qualche volta ne restiamo schiacciati. A tratti, un’inesorabile provvisorietà inchioda le nostre vite. Se riuscissimo a vivere nel presente saremmo già degli illuminati. Invece, spesso, ci compiacciamo del dolore, non calcoliamo la felicità.
Nella trasposizione teatrale di Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, di scena al Sala Fontana di Milano, Roberto Trifirò scende in mutandoni di lana attraverso il pubblico. Si dirige, sardonico e stordito come un pugile che ne ha prese tante, verso un palcoscenico di cartoni impolverati e tavolini grezzi, rimasti da sparecchiare da un tempo indefinito.
Le note potenti della chitarra di Lou Reed accompagnano un essere neghittoso verso un’autoironica esplorazione di sé. Egli infierisce su se stesso, tra facezia e maledizione. Svela il sottosuolo di una personalità malata. Parla dell’educazione ricevuta, del complesso di qualità e difetti che lo definiscono. Rende pubblica una vita ammorbata da solitudine e melanconia.
L’occasione del riscatto ha il volto trasparente della prostituta Liza (Caterina Bajetta). Lui cerca di trasferire in lei la propria ansia di redenzione. La invita a emanciparsi da un destino degradante.
Liza si lascia convincere. Riappare con la nostalgia di una vita pura. Adesso è lei che cerca di trascinare lui. Invano. Liza s’allontana con dignità. Lui sprofonda, attraverso una botola sul palco, nelle viscere sordide del sottosuolo. Si sollevano le note di Arancia meccanica. Il sottosuolo diventa prigione e tomba.
Di questo spettacolo colpisce la simbologia. La scena-tugurio di Gianni Carluccio è vagamente metafisica. Lo studio su luci e colori è attento. Il buio asseconda l’isolamento, marca la separatezza del personaggio dagli altri, ridotti a proiezioni schizofreniche. Un azzurro-cielo-imbrunire fa da sfondo all’analisi esistenziale iniziale. Nella prima parte del dramma le luci sono ferme. È il protagonista che le cerca. Vi si adatta, ora lasciandosene lambire, ora rifugiandosi in zone d’ombra.
Quando compare Liza le atmosfere si fanno lunari, le luci iniziano a muoversi. Le tonalità sfumano dal fucsia al rosso, con un sottofondo soft grigio, azzurro, verde, ancora più metafisico.
La recitazione piana, senza sussulti, della Bajetta è sinonimo di un minimo equilibrio psichico ed etico. Trifirò invece ruggisce e squittisce. La sua voce oscilla, tra tonalità roche e buffi acuti infantili.
Anche i costumi hanno una valenza allegorica. Trifirò esordisce in mutandoni, esibisce la sua sgraziata disumanità. Poi indossa, senza camicia, precari gilet e pantaloni intrisi di borotalco. Infine prova, con un cappotto, ad arginare il gelo esistenziale verso cui sprofonda.
Se il livello semiotico dello spettacolo è valido, qualche dubbio rimane invece sulle scelte registiche di fondo. I toni farseschi di quest’interpretazione sporcata di napoletano intendono ammorbidire la pièce. La pantomima vuol temperare la tragedia. Questa scelta di registri “tradisce” il testo, l’annacqua, un po’ lo banalizza. Non ci sono particolari variazioni , il ritmo è sostanzialmente monocorde, l’esito un po’ statico.
La semplificazione (abbiamo visto cose migliori di Trifirò) inficia l’appeal scenico, ma non la riflessione dello spettatore. Che di fronte alla miseria morale del protagonista può concludere, con Ennio Flaiano, che «la situazione è grave ma non è seria».
Aforismi di Dostoevskij
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Dostoevskij a scuola con D’Avenia
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=_DnDo7mH19Q&w=420&h=315]
Fëdor Dostoevskij, Roberto Trifirò, Caterina Bajetta, Gianni Carluccio, Ennio Flaiano, Lou Reed, Teatro Sala Fontana, vincenzo sardelli

Dante Hailighieri

ANDY VIOLET | Anche nei più ottimistici paradigmi di interpretazione storiografica, quelli che vedono nel susseguirsi degli eventi del mondo un continuo progresso, un’inarrestabile evoluzione verso forme migliori di convivenza umana, non è possibile estromettere la presenza del male dalla storia: che siano solo il polo negativo di una necessaria dialettica del divenire storico, ineludibile effetto collaterale dell’esistenza, o che siano l’essenza stessa del mondo, come ritengono le correnti più radicali, la violenza, la morte, il conflitto, la guerra, sono parti integranti della realtà del passato come del presente. La letteratura, che racconta la realtà, ma ne fa anche parte, come prodotto storico ben definito e profondamente radicato nell’humus del proprio tempo, non sfugge a questo postulato: ogni atto artistico è un atto di riflessione che si colloca nella circolarità del rapporto tra scrittura e realtà, poiché interpreta il reale, ma ne è a sua volta influenzato, così come è influenzato dalla rete interpretativa costituita dalle opere precedenti.

Parte dell’importanza della Divina Commedia di Dante, come per altri nodi apicali della letteratura mondiale, sta proprio nella sua capacità di rappresentare la Weltanshauung di un’intera epoca: è il frutto maturo, la summa enciclopedica di una visione medievale del mondo, destinata a dissolversi nel giro di una sola generazione. E’ più che naturale che in questa visione onnicomprensiva dell’esistenza umana rientrino temi scomodi, scabrosi, elementi che giudicati con l’occhio del nostro tempo risultano inaccettabilmente lesivi della dignità della persona, ma che nell’europa tardo duecentesca erano la norma.
Ebbene sì, dunque, Dante era omofobo, antisemita, antislamico, proprio come denuncia il gruppo Gherush92, che ha proposto l’eliminazione della Commedia di Dante dalle scuole per via dei versi contenenti invettive contro i sodomiti e la figura di Maometto. Ciò che forse stupirà l’associazione Gherush92 è che tutti questi aspetti dell’opera di Dante sono noti a qualunque insegnante di Italiano, e non vengono affatto sottaciuti. Da un punto di vista didattico e formativo è anzi essenziale che il lato oscuro che accomuna Dante all’antislamismo delle Chansons de Geste o all’antisemitismo Mercante di Venezia di Shakespeare venga studiato, spiegato, criticato, poiché esso è il lato oscuro dell’intera cultura europea, quel calderone da cui sono scaturite, di volta in volta, le crociate, l’eccidio dei nativi americani, la Shoà.
Censurare tutto questo per il timore che lo studio del Sommo Poeta spinga intere generazioni ad aderire in massa a partiti neonazisti non farebbe che produrre l’effetto contrario, favorendo quell’ignoranza che alla base del plagio mentale su cui fa perno il semplicismo razzista della propaganda ideologica, che non a caso assume la forma acritica dello slogan come mezzo elettivo di comunicazione. Al contrario, riannodare i fili del lungo percorso storico-culturale sotteso alle manifestazioni più bieche di intolleranza può servire a decostruire il pregiudizio, a dimostrarne l’infondatezza, a smantellare la catasta di menzogne in cui esso si radica.  Dunque, proprio come quei bambini che, troppo protetti da madri apprensive, vengono lavati di continuo, sterilizzati, disinfettati per timore di infezioni, finiscono poi per essere più deboli di fronte alle malattie, così le menti ingenuamente preservate dal male attraverso il silenzio della censura non  vengono salvate: esse saranno le prime a cadere, vittime della mancanza di mezzi critici e d’autonomia di pensiero di fronte alle manifestazioni più becere e violente dell’incultura.

The dead: la nostalgia secondo Città di Ebla

Città-di-Ebla_The-deadGIULIA MURONI | Un corpo, sovraesposto e dissezionato nelle proiezioni, in penombra. Un corpo silenzioso, che non produce narrazione.

L’ultimo lavoro della compagnia Città di Ebla, The dead, presentato al Teatro Gobetti nell’ambito della 18esima edizione del Festival del Colline Torinesi, prende liberamente le mosse da un’ opera letteraria, alla ricerca di un dispositivo originale di rappresentazione. Dopo la “Metamorfosi” di Kafka, la compagnia sceglie come riferimento il celebre racconto di Joyce, “The dead”, ultimo brano della raccolta “Gente di Dublino”, qui assunto come fonte ispirazione e molla di un meccanismo creativo che di proposito non vuole volgersi verso una riproposizione dell’opera nel suo registro testuale, ma si pone alla ricerca di un’autonomia nei linguaggi, nei contenuti e nell’estetica.

Sigarette, una caffettiera, un baule, calze. Dettagli quotidiani che popolano una stanza anonima. Fotografie scattate da un uomo di cui si intravedono solo le mani. Versa il caffè, lo porge alla donna, ma soprattutto la ritrae con insistenza, in modo impressionistico, quasi morboso. Uno sguardo maschile invadente, onnipresente, voyeuristico, che non si disperde mai nella donna, ma ribadisce sempre la propria posizione di soggetto. Lei, muta, spesso nuda, è resa oggetto di questa attenzione incessante. Sappiamo dal flyer che è una danzatrice (ma non la vediamo mai danzare) e che in lei si ricompone il ricordo di un amante perduto (ma non riusciamo a cogliere, nell’atmosfera rarefatta e frammentata, quel senso di nostalgia). Il suo corpo, sovraesposto e dissezionato nelle proiezioni, resta in penombra sulla scena, distante dallo sguardo del pubblico. Soprattutto il suo corpo resta silenzioso, non produce alcuna narrazione.

La scena, allestita come una qualunque stanza da letto, è tagliata sul proscenio da un velo di tulle.  Su di esso vengono proiettate le fotografie, scattate sul palco da Luca Ortolani, che si intersecano con le poche azioni compiute dalla performer Valentina Bravetti: mettersi le calze, toglierle, guardarsi allo specchio, fumare. Lo sfalsamento dei piani produce un senso di vertigine: qual è la realtà? La perdita dello sguardo verso molteplici piani conduce alla messa in discussione del punto di vista assodato, della visuale protetta e rincuorante. Il tappeto sonoro, curato da Franco Nardi, alterna rumori provenienti dall’esterno con sequenze di suoni che, nella relazione con le immagini, fanno da contraltare emotivo e percettivo alla narrazione.  Come nel racconto, il finale è segnato dalla caduta della neve, che, celando i contorni di tutte le cose, le rende indifferenziate e ne determina la fine.

E la sua anima gli svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva lieve cadere la neve sull’universo, e cadere lieve come la discesa della loro estrema fine sui vivi e sui morti.

Del celebre racconto viene ricercata l’aura epifanica dell’emersione del ricordo, ma lo spettacolo sembra scivolare nel formalismo e, intriso com’è di compositi effetti scenici, finisce col dare vita ad una narrazione effimera. La performer sulla scena compie un numero veramente esiguo di azioni, non particolarmente significative, l’atmosfera sembra sospesa, in attesa di qualcosa che non arriva.
La ricerca estetica di Angelini risulta interessante, ricca di immagini intense, tagli di luce non banali e sonorità incalzanti, pur non riuscendo a trasformarne l’intima struttura in una forma spettacolare, e rimanendo prossima ad una sorta di elaborazione installativa, di cui anche la dimensione scenica (come già era successo per il lavoro su Kafka) amplifica il nesso.  Nel sempre difficile equilibrio dei contesti scenico performativi in cui la parola è assente, nella mancanza di quell’elemento umano, non-mediato, la narrazione del corpo, magari attraverso il movimento, può costruire una drammaturgia autonoma e convincente.
Ma la regia pare voler chirurgicamente sottrarre anche questo elemento di costruzione intellegibile di significato, e così se per un verso l’uso di strumenti e tecniche che allarghino la gamma di azioni e possibilità può essere una fonte di ricchezza, rimane tangibile il rischio per chi assiste di non raccogliere sufficienti elementi o di avvertirli come sfuggenti per la costruzione dei regimi di senso, fondanti l’opera d’arte stessa.

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La sindrome di Wesselmann e la solitudine dell'artista

Spam_SalvatorePastore-NTFI 2013RENZO FRANCABANDERA | “Come capire Burri? Eh, è una parola!”
Ci  sono cose che occorre fare quando si è da soli. Quando si è certi di essere da soli. O non fare proprio. Anche per chi fa arte, o per chi ne fruisce.
L’arte è piena di questo tipo di eventi, e quella performativo-contemporanea riluce di esempi, e altrettanto le pagine della critica, in un meccanismo spesso coinvolto a tal punto in quello produttivo da non riuscire più a prendere le distanze e a valutare il dialogo fra la proposta di un artista e i suoi contemporanei. Al netto della capacità visionaria e anticipatrice che sempre all’artista viene riconosciuta, non è raro assistere a produzioni stanche, mancanti del nerbo della urgenza, o a gesti di tale autocompiacimento da non riuscire a trovare senso del limite.
Ho sempre trovato mirabilissima evocazione dei conflitti fra sensibilità di massa e arte in una chicca della commedia all’italiana che si trova nella pellicola Il mistero di Bellavista, in cui due uomini di pochi mezzi, consapevoli della loro esile sovrastruttura, si confrontano dopo una visita alla Galleria d’Arte Moderna, in merito all’effetto sul loro sensibile di opere come quelle di Burri, Fontana e Wesselmann. Ve ne raccomandiamo la visione a fine lettura.
E il pensiero torna forte in gola dopo i due cazzotti presi all’apertura del Napoli Teatro Festival.
Partiamo con Peter Brook e dal suo “Lo spopolatore”di Beckett, proposto dal regista come un’estenuante mise en espace, una lettura scenica praticamente, con la sua storica attrice Miriam Goldschmidt che copione alla mano, legge e di tanto in tanto leva gli occhi dal testo, per muoversi lentamente qui e lì sul palco, verso uno o l’altro dei pochissimi elementi scenici (uno sgabello entro una piccola isoletta di sabbia, tre lunghe scale di legno addossate alle quinte). L’ottantottenne maestro, che sceglie questo testo per raccontare di un’umanità chiusa in una sorta di cupa caverna senza via di fuga, con un incombente senso di morte, a fine spettacolo si dice contento. Il pubblico non si capacita della visione. Il critico osserva profondamente l’attrice, prova a scrutarne la movenza cercando di renderla avulsa dal testo, cerca di respirare il peso di quelle parole provando ad intuire nei rari sguardi infuocati dell’attrice un ideale sottotesto non alla portata di tutti. Sopravvive il testo. Bello, ricco, ma non troviamo ragione di una residenza di un mese per arrivare ad un esito dal peso specifico onestamente inconsistente.

Passiamo allora alla drammaturgia contemporanea e al lanciatissimo Rafael Spregelburd (prima a Napoli e poi a Torino alle Colline) che firma testo e regia del monologo “Spam”, affidato all’attore Lorenzo Gleijeses con contrappunto sonoro digitale eseguito dal vivo da Alessandro Olla (che segnaliamo). Il testo dell’autore argentino sarebbe anche (ove molto asciugato) interessante, avendo il canone del thriller spezzettato in poco più di trenta episodi giornalieri che l’attore porge con casualità da arte eventuale (sulle dinamiche randomiche nell’arte si leggano gli interessanti studi del nostro Sergio Lombardo, fra i massimi esponenti appunto della corrente), affidando ad un sorteggio iniziale l’ordine delle portate. La drammaturgia ha inserti di arte e semiologia di carattere straniante, che introducono nel plot elementi di disturbo, come un lungo (ma sempre frammentato) excursus sulla lingua che usavano gli abitanti dell’antica città di Ebla, ad esempio. Come la comunicazione del nostro tempo, frammentata, insulsa, cambiando l’ordine della quale pare non cambiare nulla della trama di fondo del nostro vivere: il testo ogni sera cambia per non cambiare, in un eterno gioco del quindici dove l’ordine finale non arriva mai. Ma così per due ore e mezza… un calvario, con l’interprete a portare la croce. Fra slanci promettenti ed inarrestabili folate di vigile incoscienza, dopo due ore scegliamo di non assistere all’arrivo al Golgota. Almeno Brook, in difetto di lucidità artistica, non fa ancora sentire la mancanza del senso della misura e del tempo.
Il Masticator di teatro borghese può cercare di affidare ad un epsilon piccolo a piacere le ragioni della mancata comprensione dell’inarrivabile profondità delle due proposte.
Il Masticator di teatro borghese può cercare allora di leggere segni superiori, con cui la plebaglia del pubblico pagante debba necessariamente essere incapace di porsi in relazione (non che il pubblico pagante abbia poi sempre ragione nell’esaltare o criticare, anzi, è giusto vada spronato sempre a studiare per capire i plagi, le mediocrità, il consumato).
Ma lo stomaco ribolle, la ragione abbaia.
Per parte di chi scrive, l’arte resta ancora possibilmente analizzabile in senso gramsciano con l’artista che è tale “in quanto segna esteriormente, oggettivizza, storicizza i suoi fantasmi” e con l’opera da studiare nella sua manifestazione materiale, all’interno della realtà, che va analizzata per storicità, comunicatività e specificità. Dei due lavori in questione, invece, più forte di tutto resta la sensazione di solipsistica volontà auto centrata sull’esperimento artistico, il cui potenziale comunicativo, il cui impatto sul pubblico, viene messo totalmente in secondo piano.

Ricordo con un certo maturo imbarazzo l’irrompere genitoriale in stanza durante le prime scoperte del sé, del corpo in adolescenza. E ancor più son convinto: ci sono cose che occorre fare quando si è da soli. O non fare proprio. Almeno in certi momenti della propria vita.

Foto: Salvatore Pastore
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Le Centoporte di Rosa Pristina: teatro dei sensi

pietrarsa treniALESSANDRO VOLTA | Quali caratteristiche ci aspettiamo da uno spettacolo di teatro contemporaneo? E come si può raccontarne uno che per la maggior parte si svolge in silenzio e con i viaggiatori (così vengono detti gli spettatori) bendati? Come si può scrivere adeguatamente, e in modo analitico, di un’esperienza squisitamente emozionale? Queste le prime domande che salgono alla mente dopo «Centoporte» della compagnia Teatro dei Sensi Rosa Pristina al Napoli Teatro Festival, ospitato nella Sala delle Carrozze, entro la bellissima cornice della stazione di Pietrarsa, quartiere di San Giovanni a Teduccio.
I viaggiatori vengono accompagnati fin dall’inizio attraverso un percorso sensoriale che parte scegliendo una destinazione: vicino, lontano, altrove.
Attraversato un deposito di carrozze di treni, il viaggio prosegue: a tratti con gli occhi bendati da un nastro intriso di profumo alla lavanda, a tratti sotto una luce soffusa dove gli attori (chiamati “abitanti” perché abitano lo spazio scenico) raccontano il loro viaggio cercando di rispondere ad una precisa domanda: «Se dovessi partire per un viaggio fino alla fine del mondo, cosa porteresti con te?». Ogni viaggiatore partecipa in prima persona, condotto delicatamente attraverso profumi, suoni, sensazioni tattili e gustative. In questo viaggio la parola non ha importanza, è un soffio gentile dietro all’orecchio.
Diversamente dalla precedente edizione del Festival – in cui la compagnia presentò il lavoro «Quando eravamo lupi», altrettanto bello spettacolo sensoriale ma per viaggiatori singoli – questa volta il percorso si sviluppa per un gruppo di ventiquattro persone, accomunate per un’ora dallo stesso destino, anche se l’esser divisi in sottogruppi all’interno della carrozza lascia il dubbio che altri possano aver esplorato un cammino differente. Anche per questo è apprezzabile lo spettacolo: ognuno vive la propria esperienza, che sia singolare o di gruppo, come unica. È in questa unicità, nella cura dei dettagli, nell’attenta accoglienza dei viaggiatori, nella delicatezza dei gesti, nella sincronia dei tempi, che lo spettacolo si fa interessante e conquista l’adesione dei viaggiatori.
centoporteI simboli archetipici del buio e del silenzio, connotati negativamente nella nostra coscienza, in questa occasione assumono la funzione di amplificare la percezione, di attivare una dimensione onirica; la metafora del viaggio ha la funzione di portarci lontano e di restituirci alla realtà cambiati, così come si conviene quando s’intraprende un cammino esperienziale.
Raccontata la bellezza di quest’esperienza, resta da chiedersi quali siano le ragioni per cui uno spettatore, al quale è stato raccomandato più volte di depositare ogni oggetto per avere le mani libere, decide di portare con sé il cellulare per scattare delle foto. Forse è solo maleducazione, figlia delle cattive abitudini promosse dalla peggiore televisione, che ammaestra alla legittimità indisponente dei propri capricci; o forse è il sintomo di quella pericolosa ipnosi da tecnologia che rischia di diseducare all’arte e che inibisce il piacere di lasciarsi trasportare in un altrove dove la quotidianità compulsiva smette di scandire la vita.
Riteniamo che il teatro contemporaneo debba rispondere almeno a due esigenze: quella di muovere lo stupore (cioè mostrare qualcosa – anche solo un lembo della rappresentazione – che lo spettatore ancora non conosce); e quella di provocare l’emozione (suscitare il senso di poeticità accessibile ad ognuno), come succede ai bambini di fronte alla sorpresa. Operazione ben riuscita alla regista Susanna Poole e alla compagnia che prende ispirazione per il proprio lavoro dall’incontro fecondo con il Teatro de Los Sentidos di Enrique Vargas.
Un’ultima domanda: come sarà stato il viaggio del bambino che era presente l’altra sera?

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=exY0MC59w04]

L’arte contemporanea è (anche) una questione di genere

Anna Maria MaiolinoMARCELLA MANNI | Due mostre in corso possono fornire lo spunto per un dibattito sulla prospettiva femminista nell’arte, che, almeno in Italia, vive un vuoto teorico quantomeno singolare. Partendo proprio dalla scena italiana la mostra Autoritratti.
Iscrizioni del femminile nell’arte italiana contemporanea si pone come obiettivo quello di tracciare una ideale mappatura, a partire da una esperienza concreta che di arte contemporanea vive, cioè il MAMbo, Museo d’Arte Moderna di Bologna. Compiendo una rilettura critica della propria collezione permanente, il Museo si trasforma in un laboratorio aperto a esperienze interne ed esterne al Museo, chiamate a dialogare e a fare proposte a partire proprio da una prospettiva di genere, come scrive Emanuela De Cecco “Se da un lato ci sono ottime ragioni per pensare che la questione relativa al genere sessuale sia superata, dall’altra il contrasto tra la scarsa presenza delle artiste sulla scena italiana dal secondo dopoguerra all’inizio degli anni Novanta e la visibilità del lavoro delle artiste oggi […] è talmente stridente da suscitare alcune riflessioni” e quindi la necessità di promuovere un dibattito si concretizza in un processo espositivo che si può definire “partecipato” sia dalle artiste sia dalle numerose studiose e operatrici di settore coinvolte. L’avvio è affidato alle Costruzioni dell’isteria di Maria Antonietta Trasforini che ha realizzato, negli anni … un lavoro di ricerca prendendo spunto da una mostra fotografica sulle isteriche di Salpetrière, ritratti di fine Ottocento che nelle intenzioni dei medici dovevano avere uno scopo tassonomico di catalogazione di una patologia femminile per eccellenza. Si prosegue idealmente con “le circostanze date” di Maria Lai realizzate in Legarsi a una montagna in cui la storia – i Caduti in Guerra – si intreccia a una leggenda centenaria del luogo – Ulassai, Sardegna – per dare forma a una performance collettiva che è più forte di qualsiasi monumento alla memoria. Non può mancare in mostra il riferimento alla maternità: le (M)others selezionate da Arabella Natalini sono simboli di un rapporto, quello madre/figlia che è memoria ma anche materia, una eredità che è spesso ombra difficilmente rappresentabile. E’ quindi significativo che i lavori scelti siano proprio sul filo della rappresentazione, dai ritratti di Letizia Renzini che nel dittico risolve una distanza fatta di pose e di ambienti o l’autoritratto Por um Fio di Anna Maria Maiolino in cui tre generazioni di donne sono legate fisicamente da un filo che entra ed esce dalle bocche in un gioco quasi performativo, Fotopoesiazione, appunto.

MUHOLI_04-faces-and-phaces_lowHanno una matrice dichiaratamente politica le Three true stories allestite a Modena alla Fondazione Fotografia, dove l’immagine fotografica è lo strumento per documentare raccogliere testimonianze con una forte connotazione critica. I punti di vista sono quelli di tre artiste donne, Zanele Muholi, Ahlam Shibli e Mitra Tabrizian che esplorano temi di violenza, di emarginazione sessuale e di conflitto culturale e religioso. La tematica di genere è il fulcro del lavoro dell’artista sudafricana Zanele Muholi, i suoi Faces and Phases ambiscono a costruire una mappatura della comunità nera di lesbiche che vivono in Sud- Africa per dotarla di una “identità visiva” del tutto assente e allo stesso tempo riscattandola da una storia di emarginazione e di violenza alla quale a tutt’oggi sembra impossibile sottrarsi. Ahlam Shibli attraverso la rappresentazione della morte nei campi profughi della Cisgiordania presenta un campionario di omaggio ai martiri che va dalle fotografie ai poster, ai graffiti, ai dipinti che si trovano non solo nelle strade, ma anche all’interno delle abitazioni, tradotte in una sorta di culto quotidiano. La strategia di Mitra Tabrizian è invece quella di muoversi tra realtà e costruzione fittizia; immigrata nel Regno Unito dall’Iran negli anni Ottanta, Tabrizian mette in scena delle situazioni irreali, sospese geograficamente: se da un lato le immagini rivelano i tratti di una società e di una cultura musulmana, dall’altro tradiscono la loro collocazione geografica non “originaria”. La sospensione dello spettatore, il suo smarrimento, è l’effetto che si richiede, lo stesso di chi vive un conflittuale processo di integrazione.
Che sia confronto “duro e puro” con la realtà o riflessione con taglio quasi introspettivo, la micro-lezione che se ne può trarre è che qualunque prospettiva femminista debba essere comunque esplorata nel senso di una apertura e, soprattutto, debba essere praticata come strumento perché, citando Griselda Pollock “fare la differenza è lavorare per creare i mezzi per significare la differenza, e non significa soltanto cambiare angolazione e prospettiva”.

Autoritratti. Iscrizioni del femminile nell’arte contemporanea italiana
MAMbo, Bologna
Fino al 1 settembre 2013

Three True Stories
Fondazione Fotografia
Fino al 23 giugno 2013

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FOTOGRAFIE

per Muholi courtesy Fondazione Fotografia
per Anna Maria Maiolino courtesy MAMbo
copyright degli autori

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Mondocane#10 – Lo sguardo puro di Viola Valentino

figurina sTANISLawskij copiaMARAT | “Teatri vuoti e chiusi potrebbero affollarsi se tu ti proponessi di recitare te”. Credo che i CCCP siano il (mio) corrispettivo di certe filosofie orientali. Di quei libri che apri a caso e in cui trovi (o credi di trovare) qualche tipo di verità. Ma è ortodossia, non santità. Chissene della santità. Con buona pace di Giovanni Lindo Ferretti sugli Appennini, di cui non voglio parlare oltre. Dolore. Che sto ancora cercando di elaborare il lutto del cambiamento. Che a trovarlo con una rubrica su Avvenire sai com’è, quasi mi viene un colpo. Comunque ascoltavo Emilia paranoica in macchina. Credo di essere la persona che più ha ascoltato al mondo Emilia paranoica in macchina. “Teatro vuoti e chiusi potrebbero affollarsi se tu ti proponessi di recitare te”. Già, ma cosa comporterebbe? Il senso è che sento profonda la mancanza di un’urgenza, per dirla con Bergonzoni. Di comunicare qualcosa senza rimandare oltre. Di mettere sul palco sé stessi, magari fragili e minuscoli, ma sporchi del vero. Con quell’ovosodo da sputar fuori a voce piena appena la gente ti si siede innanzi. Si è recentemente parlato di una suddivisione del teatro fra chi racconta della realtà e chi estetizza, con derive da esercizi di stile. Mi suona un po’ vecchia come cosa. Un po’ facile. E mi rendo conto che nella mia testa ciò che invece discrimina è un senso di verità. Che quello che ho di fronte sia vero per qualcuno, sia un’inderogabile necessità. Di comunicare, emozionare, indignare. Ho superato la soglia. E preferisco uno spettacolo imperfetto ma vero, alle vostre raffinatezze. La pancia a un trenino senza destinazione. Di chi ragiona per mode, abbonamenti, critica. Di chi prende un’immagine e la stiracchia per 40 minuti, una fede e ne abusa, un aggancio produttivo e si prona. Che il fascino dei ciarlatani è sfumato da tempo, intorno ai 18 anni. E di mestieranti è pieno il mondo. L’ho visto giù a Napoli, fra gente arrivata. L’ho visto qui a Milano, in mezzo a chi ha fame. L’ho visto in registi residenti, stanchi come pensionati. E in operatori ottusi come medici obiettori. Perché c’è ancora una purezza di fondo nel mio (nostro) sguardo, che merita d’essere conquistata. Senza sotterfugi. E a cui basta una parola, un gesto, una poesia, per venir via. Come cantava Viola Valentino. Che era tanta roba. Aspetto un’emozione sempre più (in)definibile.

Il volo leggero di InQuanto teatro

volare-1-new-300x225VINCENZO SARDELLI | «Oggi ho imparato a volare / sembra strano ma è vero / ci ho pensato e mi son sentito sollevare / come da uno strano capogiro. / Il cuore mi si è quasi fermato / ho avuto paura e sono caduto / ma per fortuna mi son rialzato / e ho riprovato» (Eugenio Finardi). Volare via dal mondo. Uscire da se stessi. Sollevarsi. Bucare quello spazio onirico, pur sempre materiale, che sono le pareti di un teatro . Cresce la compagnia fiorentina InQuanto Teatro. Questi ragazzi hanno stile. L’ultima performance non è di quelle che ambiscono a restare nella memoria. Però dimostra che Floor Robert, Giacomo Bogani e Andrea Falcone hanno la capacità di osare. Volare via dal mondo è una mezz’ora di spettacolo lieve che interagisce con gli spazi che l’accolgono. Luoghi aperti, come loft o cortili. Spazi che si proiettano verso l’alto. Come le terrazza dell’associazione Isolacasateatro, Milano, quartiere Isola, dove Zona K ha trovato un’altra realtà per dialogare e chiudere una stagione briosa. Tra balconi di ringhiera e panni stesi all’aria decolla la performance di InQuanto teatro. Floor Robert è un’aviatrice sospesa tra Belle Époque e primo dopoguerra. Andrea Falcone di verde (vagamente militare) vestito e Giacomo Bogani in maniche di camicia bianca si esibiscono in microfono davanti a due ventilatori. Anacronismi. I ventilatori deformano il suono. Evocano eliche e rombi d’aeroplano. Spazzano via quella calura virtuale che non vuol saperne di atterrare sul giugno milanese. Voli di uomini e donne coraggiose che hanno fatto la storia: dai fratelli Montgolfier ad Amelia Earhart, diva che appare e scompare sorvolando l’oceano; da Viole Spencer, che dopo tanti salti dal cielo, ne fa uno, l’ultimo, che le permette di librarsi, a Amy Johnson, che si lancia nel mare simile a Icaro. Per terminare con le preghiere-capriole di san Giuseppe da Copertino. La leggerezza è la cifra di questa compagnia. Che si alza oltre la gravità spazio-temporale. Oltre il pregiudizio di Isaac Newton, secondo cui «l’uccello può fare quello che nessun uomo può, ossia volare con le sue sole forze». Floor e Andrea si muovono rarefatti. Con eleganza e ironia. Leggeri «come la rondine, non come la piuma» (Paul Valéry). Planano con le musiche eseguite al violino da Giacomo, Saint-Exupéry di ringhiera, che si produce anche nel canto solennemente farsesco di madrigali tra Rinascimento e Barocco. Con il testo ideato da un Andrea Falcone che non si prende mai sul serio. Puntellato qua e là di rime e rimalmezzo che svelano una levità sofisticata, una ricercatezza capace di dirottare su registri scherzosi. Sempre tre metri sopra ovvietà e volgarità. Che buffe quelle coreografie asimmetriche, astrattamente eclettiche. Che regalano sorrisi sornioni, e mai la risata di pancia. [youtube https://www.youtube.com/watch?v=KmDI_e5fxh0&w=560&h=315]