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giovedì, Novembre 14, 2024
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Il bunraku l'amore e la morte

sonezakiBRUNA MONACO | A Roma quest’anno si è festeggiato il cinquantesimo anniversario della fondazione dell’Istituto giapponese di cultura. Attraverso mostre, concerti e conferenze la cultura nipponica è stata al centro dell’agenda culturale della capitale. E per congedarsi da quest’anno di festa, il Teatro Argentina ha ospitato al il fotografo Hiroshi Sugimoto e la sua suggestiva ultima creazione Doppio suicidio d’amore a Sonezachi, che nulla ha a che vedere con la fotografia.
Ricordate il geniale prologo di Dolls, il film con cui nel 2002 Kitano partecipò al Festival di Venezia? Quello era bunraku, patrimonio culturale immateriale dell’umanità dal 2003. Una delle più prestigiose forme teatrali giapponesi accanto al Noh e al Kabuki. Un’arte fragile e antica che ha vissuto periodi di crisi e di splendore, i cui protagonisti sono marionette dalle dimensioni ragguardevoli. I manipolatori in scena sono tanti, tre per marionetta, vestiti di nero dal cappuccio alle scarpe. Defilati rispetto al palco, due musicisti suonano lo shamisen, uno strumento della famiglia dei liuti, a tre corde, dalla musicalità metallica. Accanto a loro c’è il narratore che racconta la storia, descrive l’ambientazione, pronuncia le parole dei personaggi.
Doppio suicidio d’amore a Sonezachi è appunto uno spettacolo di bunraku. Il testo, composto nel ‘700 da uno dei più grandi drammaturghi giapponesi, Chimatsu Monzaemon segna l’inizio del rinnovamento del bunraku che viene introdotto al tema dell’amore, fino ad allora appannaggio esclusivo delle altre arti della scena nipponica. Doppio suicidio d’amore a Sonezachi in effetti parla d’amore, e di morte, certamente. Di come due amanti, Toku e Ohatsu, a cui per questioni sociali è negato l’amore in terra, lo possano vedere compiuto attraverso il suicidio, nel paradiso buddista della Terra Pura.
Nel bunraku i volti delle marionette, scolpiti in legno di cipresso, hanno i tratti marcati. Ma quando si muovono quelle maschere che paiono monolitiche, riescono ad aprirsi a una gamma di nuance psicologiche inimmaginate. La disarticolazione delle marionette è tale da consentire uno spettro di variazione espressiva molto ampio: così il petto di Ohatsu può vibrare quando è scosso dal pianto o da una disperazione trattenuta. Le dita della sua mano possono aprirsi e protendersi verso quelle di Toku. Le palpebre si chiudono amplificando l’impressione di verosimiglianza e l’emozione degli spettatori. Nei momenti di grazia dello spettacolo, agli apici tragici della narrazione, le marionette sembrano vive, almeno quanto degli attori veri. Come gli attori di Ariane Mnouchkine nel celebre Tambours sur la digue spettacolo “sottoforma di pièce per marionette interpretata da attori”, in cui è raccontata la tragedia di un’inondazione esplorando tutte le tecniche di teatro di figura orientale, fra cui il bunraku. E si fa vivo anche il rapporto con i manipolatori: uno stuolo di servi e cortigiani che serve i propri padroni, queste bambole giganti nei loro costumi ampi e rifiniti. Agevolano il loro incedere e li accompagnano nella bambagia, così paiono i manipolatori a servizio delle loro creature.
Dalla fotografia, arte contemporanea per eccellenza, Hiroshi Sugimoto è passato alla tradizione. Un ritorno all’autenticità e alla sicurezza del passato, una fuga dall’ossessionata ricerca di novità che inseguono i contemporanei e da cui “siamo ormai quasi annoiati” confessa Sugimoto. Eppure non mancano i tratti innovativi in questa sua messa interpretazione di Doppio suicidio d’amore a Sonezachi. Dei contributi video riempiono lo spazio scenico, fanno da scenario all’azione riproducendo ambientazioni stilizzate o riproponendo l’ingrandimento di alcuni dettagli: Ohatsu che abbassa le palpebre e inclina la testa è così ben visibile anche al pubblico dei posti più lontani.
D’altronde pare che la storia del bunraku sia intessuta su un doppio filo che unisce tradizione e innovazione se questo di Chimatsu Monzaemon, testo tradizionale per eccellenza, fu rivoluzionario all’epoca della sua uscita. E poi il bunraku è certamente fra le tecniche di manipolazione delle figure, quella che più è stata osservata e studiata, a cui più i contemporanei hanno attinto per approdare ai “nuovi” linguaggi del teatro di figura.
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Spaghetti, mandolino e immagine della donna: Boldrini, ore 11

Roma_ore_11IGOR VAZZAZ | Viviamo in un paese strano. Lo sentiamo ripetere da quando siam nati e, alla fine, ne siamo convinti, perpetrando l’assunto ogniqualvolta ci venga richiesto di proporre qualche sparuta, parzialissima osservazione su quanto ci circonda. Inzuppati sino al midollo nella comunicazione, invasiva, violenta, interstiziale, il dilemma su quale e quanta importanza debba concedersi al mondo come rappresentazione rispetto alle sue strutture è tutt’altro che lezioso, avendo ben coscienza di quanto ciò che viene propalato dai mezzi di comunicazione incida sulle strutture stesse, in un vortice di rimandi che ci pare tra i più complicati problemi della nostra contemporaneità.

Nondimeno, la nostra personale natura novecentesca (senza orgoglio: sinora, abbiamo vissuto più nel secolo, e millennio, scorso che nel presente) si desta dal dormiveglia, quando, è il caso di qualche giorno fa, scorrendo i giornali, ci capita di notare due notizie apparentemente slegate tra loro, eppure unite da un irriducibile, almeno ai nostri occhi, fil rouge. Da un lato, l’appello, ennesimo, di Laura Boldrini circa lo sfruttamento del corpo femminile in ambito pubblicitario, paventando la possibilità d’ipotetiche (a parer nostro demenziali, oltreché poco applicabili) censure sul tema; dall’altro, la notizia delle cinquecento donne in fila, a Genova, per tre, leggasi tre, posti di lavoro in un negozio di abiti per bambini. Cinquecento giovani e meno giovani, italiane e straniere, curriculate e non, convenute col sogno di un lavoro, guadagnare dei soldi, chissà, campare la famiglia, per quelle temerarie che ne abbiano voluta costruire una, sia essa tradizionale, innovativa o quant’altro.

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Premessa: le considerazioni alla base dei discorsi della Boldrini sono intuibili, ci illudiamo di comprenderne il senso, pure una certa necessità, eppure, l’evidenza dell’altro fatto ci pare di tutt’altra entità, al punto da far slittare in secondo piano (non obliterare) la questione posta dalla presidente della Camera. Proviamo a spiegare: la televisione, e la pubblicità in particolare, è uno strumento di registrazione, sciente campionamento  del reale, riproposto in forma potenziata ed efficace. Provare a “correggere” un’ingiustizia partendo dal piano mediatico, quello dell’immagine televisiva, ci pare davvero ipotesi ardita, come costruire un edificio partendo dal tetto e non dalle fondamenta. In questo senso, fondamenta sono le condizioni reali, di lavoro, di inserimento sociale, di dignità professionale, non certo la diffusione di modelli magari criticabili, ma che trovano riscontro, ahinoi, in rappresentazioni ben più sedimentate nell’immaginario comune. E, in questo senso, ci pare di riscontrare la vera impasse della sinistra contemporanea, che, da un lato, pensa di potersi permettere la ricusa di Marx, orpello inservibile, dall’altra, ignorandolo, finisce per smarrire completamente qualsiasi legame solido con i suoi interlocutori principali, relegandosi in una terra di nessuno autoreferenziale e velleitaria.

La questione dello sfruttamento del corpo femminile è, purtroppo, un problema secolare nella nostra cultura, checché ne possano dire gli anti-islamici dell’ultim’ora (o dell’ultimo decennio). La stessa storia del teatro moderno nasce grazie allo sfruttamento muliebre: tra le principali “armi” dei comici dell’arte, nel Cinquecento, i primi professionisti dello spettacolo, dove arte sta, appunto, per mestiere, lavoro, c’era l’impiego di attrici in scena, opzione inusitata e scandalosa per l’epoca, giacché il palcoscenico era spazio da sempre riservato ai maschi. Non è che gli Andreini, e le varie famiglie di teatranti che hanno attraversato i secoli, fossero femministi egalitari: macché. Semplicemente, pure all’epoca, la presenza di una donna tirava di più, specie se bella. Alla fin fine, un evento di questo genere, sorto da una necessità non particolarmente nobile (ma, per chi scrive, la sussistenza ha sempre quarti di nobiltà), ha comportato un risultato positivo.

Tornando al giorno d’oggi, pensare d’impugnare la bacchetta e pretendere di imparare alla pubblicità come rappresentare il mondo, ci sembra davvero voler drizzar le zampe ai cani, con la realtà di una sinistra che, per paradosso, da parte avanzata e progressiva della società, si ritrova, e non solo su questo campo, a svolgere battaglie di retroguardia, dai contorni conservativi. Convinti come siamo che l’etica sia un momento dell’estetica, pensiamo che il machismo, più o meno implicito, proposto dai mass media sia da combattere sul campo culturale, con l’umorismo, la parodia, l’assurdo, la rappresentazione stessa, e non con altre leggi, altre righe di codice, altri comandamenti da disattendere. Certo, per farlo si dovrebbe avere la forza di sobbarcarsi uno sforzo culturale, avere una sparuta visione da proporre, cosa che questa sinistra, benché non abbia (ancora) abiurato a Gramsci, sembra non saper sciorinare. Del resto, se così fosse, sarebbe anche ben chiara la gravità della situazione rappresentata dal caso genovese: se le donne potessero lavorare (e usufruire di leggi eque al riguardo), la pubblicità si adeguerebbe di conseguenza.

A proposito, restando in tema: della Barilla tacciamo. La pasta ci piace buona.

Vivo e Coscienza: il Pasolini crossmediale di Veggetti con la Paolo Grassi

vivoecoscienza_veggetti.jpgRENZO FRANCABANDERA | Che titolo straordinario per un lavoro “Vivo e Coscienza”. Il libretto per questa coreografia è stato scritto da Pier Paolo Pasolini negli anni Sessanta in collaborazione con il compositore e direttore d’orchestra Bruno Maderna e l’attrice Laura Betti. Gli allievi del terzo corso di Teatrodanza Paolo Grassi di Milano lo hanno rivissuto con la regia del coreografo Luca Veggetti, uno dei talenti italiani della coreografia che pare avere più seguito all’estero, con commissioni non di secondo piano fra le quali quelle del New York City Ballet e dalla Martha Graham Dance Company, per non dire delle serate di presentazione del suo lavoro al museo Guggenheim a NY e il recentissimo riconoscimento con la Maschera d’oro al Teatro Bolshoi di Mosca per il suo “Meditation on Violence”.

La delicata rilettura, operata su partitura musicale e sonora originale del compositore Paolo Aralla e lo straordinario contributo artistico in forma di voce registrata di Francesco Leonetti, ha debuttato al Mittelfest 2013 di Cividale del Friuli e viene replicato proprio il 7 ottobre a Milano all’interno della vetrina MilanOltre, presso il Teatro dell’Elfo.

E’ la storia di un bacio mancato, vissuta attraverso il personaggio di Vivo che di salto in salto nella Storia, fra Seicento, Rivoluzione Francese, Italia fascista e Resistenza, vive il suo conflitto con Coscienza. Vivo e Coscienza vogliono un incontro, vorrebbero scambiarsi un bacio, ma il destino, pur avvincendoli, li separa. Interpretano l’eterno dissidio in cui la condizione umana arriva a trovarsi i i giovani allievi della scuola Paolo Grassi di Milano che, partendo dalle scarne indicazioni lasciate da Pasolini hanno potuto sviluppare quadri emotivi suggeriti dall’analisi di Veggetti, che pare aver rivisto, come ci conferma nella videointervista che vi proponiamo, l’eco del tempo familiare, del rapporto e la memoria con la sua figura paterna, mentre nella memoria e nello spettacolo risuona, distorta, la voce di Domenico Modugno che canta “Cosa sono le nuvole”.

La videointervista è stata registrata a Cividale del Friuli in occasione del Mittelfest, all’interno del bellissimo chiostro della Chiesa di San Francesco.

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Teatro nei bar, nei locali, nelle cantine. E quant’altro. Interroghiamoci un attimo.

aretè ensembleCLARISSA VERONICO | Si è appena inaugurata la sede di un’associazione culturale. In pieno centro ma un po’ nascosta, senza far rumore e senza l’attenzione da eventificio che a volte, e a seconda di chi ne è fondatore, accompagna tali appuntamenti. Un’associazione dal nome un po’ sentito “Torre di Babele” solo che questa volta effettivamente le molte lingue ci sono, perché a fondarla sono 4 italiani e 4 migranti di origine nordafricana.
Ingresso pulito e una scala che porta giù, in un sottoscala appunto, ma dotatissimo di uscite di sicurezza (tocca dirlo perché non si era ancora stappata la bottiglia inaugurale che è arrivata la SIAE). Ed ecco che ci accoglie una compagnia teatrale. Sono gli Aretè Ensemble.
Non certo degli sconosciuti per chi frequenta i teatri, perché loro, cioè Saba Salvemini e Annika Strohm, di teatri e festival ne hanno girati in questi ultimi dieci anni e appartengono anche a quella “generazione pugliese” che però non è in residenza, non è in albo, non è in generazione in buona sostanza perché…perché non parlano mai della Puglia, uno ha l’accento piemontese e l’altra è norvegese, non sono sempre autori dei loro testi, non raccontano il sociale, insomma sono attori e ci mettono anche molto tempo per preparare uno spettacolo o scrivere una lettera a un critico o a un organizzatore.
L’uscita di sicurezza si apre, si chiede il silenzio e delle belle sedie rosse ci accomodano sulla rampa un po’ in salita che conduce all’esterno. Inizia X – Three e Saba Salvemini scende appunto dalla rampa. E’ sempre un po’ stralunato e dall’atteggiamento mattoide questo attore. Si presenta come X e con un “chi sono?”, una domanda insistita e sorridente, gioiosa quasi, che sembra solo per un attimo riferirsi a questioni esistenziali di altro genere. Poi invece va al muro bianco e intonso e comincia a scrivere la sua espressione aritmetica, allora è figlio di due genitori di cui scrive solo le iniziali, che sono figli di altrettante iniziali, che sono figli di altrettante iniziali e poi si scopre che queste iniziali appartengono a tanti luoghi diversi e che X è piemontese, pugliese, norvegese, finlandese, russo, thailandese, greco. Che X è figlio lontano di Dostoevskji, ma anche di Socrate e di Gengis Kahn. Che per burla è addirittura figlio di Adamo e Eva, che è nel vuoto, che nel vuoto io è Dio. Che deve uscire. Che ci vuole una uscita teatrale. Un bel pianto o una bella risata. Che sta nascendo. E va a nascere.
Mezzora divertente e ben tenuta. Saba è sempre bravo e generoso. Poi vengono i ringraziamenti e anche il pancione di Annika che evidentemente ha mosso questo X e ne ha animato le domande. Aretè Ensemble ha chiesto di rimanere dieci giorni in questo spazio, per fare ogni giorno la performance, per farsi nuove domande, cambiare, vedere che succede se X nasce femmina o ha altri parenti. Quello che potrà ricevere è il contributo libero, davvero poca cosa, di un posto così piccolo.
Né si può dire o pensare che gli Aretè abbiano una rete di reddito che gli permetta di lavorare a così basso costo e tanto meno che gli torni utile in alcun altro modo, che non ci sono né critici né opinion leader da queste parti. Vogliono semplicemente farlo, perché ne hanno bisogno, perché altrimenti lo farebbero a casa loro ma questa volta senza spettatori. E allora molte domande si affacciano in questo clima che reclama un profondo ripensamento su tutto. Questo è teatro e loro sono senz’altro teatranti. Quando fanno spettacoli si versano i contributi e la siae. Ciò, secondo le regole, equivale a dire che sono professionisti.
Perché allora non hanno chiesto a un teatro di ospitare il loro percorso? E quel contributo libero, così lontano da un minimo sindacale, che tipo di contrattazione e di patto con se stessi e con gli spettatori inaugura? In un teatro una cosa del genere non si può fare, sarebbe antieconomica e un contributo libero o un biglietto di 1 euro sarebbe concorrenza sleale secondo le leggi di mercato, ma allora se è vero che un teatro solo per aprire le porte e accendere la luce spende 500 euro, come può salvarsi e salvare la ricerca? E questi dieci giorni di lavoro senza le regole del lavoro come potranno mai essere contati nei parametri quantitativi di ministeriale e regionale memoria?
Mi sembra che oltre l’ingessatura degli Stabili, la vecchiaia dei direttori artistici, la distanza acuta tra critica e arte, la fatica del costruire quotidianamente una comunità culturale, la platealità di annunci e proclami, ci sia qualcosa d’altro che riguarda le persone-attori, le vite-teatrali, il reddito e le forme di finanziamento, il lavoro che merita una discussione a partire dalle pratiche reali del teatro, diffuso, sotterraneo, cercato.
Bari è molto lontana dai teatri occupati di varie città d’Italia, è lontana persino dal percorso di barbonaggio teatrale proposto da Ippolito Chiarello alcuni anni fa, e nel frattempo già si riuniscono commissioni e convegni per discutere le nuove regole di attribuzione del FUS e del FURS. Mentre il teatro si fa altrove, in strane periferie, e i teatranti e gli spettatori si pongono altre domande e hanno altri bisogni.

Teatro nei bar, nei locali, nelle cantine. E quant'altro. Interroghiamoci un attimo.

aretè ensembleCLARISSA VERONICO | Si è appena inaugurata la sede di un’associazione culturale. In pieno centro ma un po’ nascosta, senza far rumore e senza l’attenzione da eventificio che a volte, e a seconda di chi ne è fondatore, accompagna tali appuntamenti. Un’associazione dal nome un po’ sentito “Torre di Babele” solo che questa volta effettivamente le molte lingue ci sono, perché a fondarla sono 4 italiani e 4 migranti di origine nordafricana.
Ingresso pulito e una scala che porta giù, in un sottoscala appunto, ma dotatissimo di uscite di sicurezza (tocca dirlo perché non si era ancora stappata la bottiglia inaugurale che è arrivata la SIAE). Ed ecco che ci accoglie una compagnia teatrale. Sono gli Aretè Ensemble.
Non certo degli sconosciuti per chi frequenta i teatri, perché loro, cioè Saba Salvemini e Annika Strohm, di teatri e festival ne hanno girati in questi ultimi dieci anni e appartengono anche a quella “generazione pugliese” che però non è in residenza, non è in albo, non è in generazione in buona sostanza perché…perché non parlano mai della Puglia, uno ha l’accento piemontese e l’altra è norvegese, non sono sempre autori dei loro testi, non raccontano il sociale, insomma sono attori e ci mettono anche molto tempo per preparare uno spettacolo o scrivere una lettera a un critico o a un organizzatore.
L’uscita di sicurezza si apre, si chiede il silenzio e delle belle sedie rosse ci accomodano sulla rampa un po’ in salita che conduce all’esterno. Inizia X – Three e Saba Salvemini scende appunto dalla rampa. E’ sempre un po’ stralunato e dall’atteggiamento mattoide questo attore. Si presenta come X e con un “chi sono?”, una domanda insistita e sorridente, gioiosa quasi, che sembra solo per un attimo riferirsi a questioni esistenziali di altro genere. Poi invece va al muro bianco e intonso e comincia a scrivere la sua espressione aritmetica, allora è figlio di due genitori di cui scrive solo le iniziali, che sono figli di altrettante iniziali, che sono figli di altrettante iniziali e poi si scopre che queste iniziali appartengono a tanti luoghi diversi e che X è piemontese, pugliese, norvegese, finlandese, russo, thailandese, greco. Che X è figlio lontano di Dostoevskji, ma anche di Socrate e di Gengis Kahn. Che per burla è addirittura figlio di Adamo e Eva, che è nel vuoto, che nel vuoto io è Dio. Che deve uscire. Che ci vuole una uscita teatrale. Un bel pianto o una bella risata. Che sta nascendo. E va a nascere.
Mezzora divertente e ben tenuta. Saba è sempre bravo e generoso. Poi vengono i ringraziamenti e anche il pancione di Annika che evidentemente ha mosso questo X e ne ha animato le domande. Aretè Ensemble ha chiesto di rimanere dieci giorni in questo spazio, per fare ogni giorno la performance, per farsi nuove domande, cambiare, vedere che succede se X nasce femmina o ha altri parenti. Quello che potrà ricevere è il contributo libero, davvero poca cosa, di un posto così piccolo.
Né si può dire o pensare che gli Aretè abbiano una rete di reddito che gli permetta di lavorare a così basso costo e tanto meno che gli torni utile in alcun altro modo, che non ci sono né critici né opinion leader da queste parti. Vogliono semplicemente farlo, perché ne hanno bisogno, perché altrimenti lo farebbero a casa loro ma questa volta senza spettatori. E allora molte domande si affacciano in questo clima che reclama un profondo ripensamento su tutto. Questo è teatro e loro sono senz’altro teatranti. Quando fanno spettacoli si versano i contributi e la siae. Ciò, secondo le regole, equivale a dire che sono professionisti.
Perché allora non hanno chiesto a un teatro di ospitare il loro percorso? E quel contributo libero, così lontano da un minimo sindacale, che tipo di contrattazione e di patto con se stessi e con gli spettatori inaugura? In un teatro una cosa del genere non si può fare, sarebbe antieconomica e un contributo libero o un biglietto di 1 euro sarebbe concorrenza sleale secondo le leggi di mercato, ma allora se è vero che un teatro solo per aprire le porte e accendere la luce spende 500 euro, come può salvarsi e salvare la ricerca? E questi dieci giorni di lavoro senza le regole del lavoro come potranno mai essere contati nei parametri quantitativi di ministeriale e regionale memoria?
Mi sembra che oltre l’ingessatura degli Stabili, la vecchiaia dei direttori artistici, la distanza acuta tra critica e arte, la fatica del costruire quotidianamente una comunità culturale, la platealità di annunci e proclami, ci sia qualcosa d’altro che riguarda le persone-attori, le vite-teatrali, il reddito e le forme di finanziamento, il lavoro che merita una discussione a partire dalle pratiche reali del teatro, diffuso, sotterraneo, cercato.
Bari è molto lontana dai teatri occupati di varie città d’Italia, è lontana persino dal percorso di barbonaggio teatrale proposto da Ippolito Chiarello alcuni anni fa, e nel frattempo già si riuniscono commissioni e convegni per discutere le nuove regole di attribuzione del FUS e del FURS. Mentre il teatro si fa altrove, in strane periferie, e i teatranti e gli spettatori si pongono altre domande e hanno altri bisogni.

Se Desiderare è fare la rivoluzione: J. Lacan riletto da M. Recalcati

jacques-lacan3NICOLA ARRIGONI | «Una convinzione di fondo permea questo volume – scrive Massimo Recalcati nell’introduzione a Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione – : Jacques Lacan è stato il più grande pensatore del soggetto di tutto il Novecento. Nessuno come lui è riuscito a fare propria e a sviluppare con forza e originalità tutte le conseguenze che il doppio trauma provocato da Freud – quello del soggetto dell’inconscio e quello della pulsione di morte – ha rappresentato per la ragione occidentale».
Si crede che quanto scritto in apertura dell’importante tomo dedicato a Lacan e pubblicato da Raffaello Cortina Editore (pagine 648, 39 euro) possa fare da viatico all’idea e al lavoro di esegesi che Massimo Recalcati opera sul pensiero di Lacan, come modello ermeneutico per capire come «dare senso all’esistenza stessa se essa è, nel suo fondo, priva di senso? Come, insomma, si può vivere senza perdere il sorriso?».
Per questo motivo pare plausibile intrecciare la lettura del volume su Jacques Lacan, primo tomo di un’opera che intende dare sistema allo studio che Recalcati ha condotto su Lacan, un saggio più agile, ma non per questo meno intenso che poggia le basi sul pensiero lacaniano e che propone i Ritratti del desiderio, pubblicato sempre da Raffaello Cortina Editore (pagine 190, euro 14).
E dopotutto – scrive sempre Recalcati – «desiderio è il nome che Lacan attribuisce alla possibilità di ritrovare un godimento svincolato dal narcisismo autistico dell’Uno e capace di potenziare la vita, di sottrarla al circolo vizioso dello Stesso e alle spirali mortifere della pulsione di morte». Esattamente l’opposto di quanto accade oggi laddove «non casualmente il desiderio è parola che il discorso capitalista anziché liberare – come falsamente promette – prova ad abrogare, a estirpare, ad annientare offrendo, in contropartita a questa distruzione, la falsa promessa della guarigione del soggetto dalla divisione che lo affligge». Il desiderio è metafora dell’esistenza ed è per questo che interrogarsi sul desiderio alla fin fine è interrogare quel senso di ‘mancanza’ che contraddistingue il nostro vivere, alla ricerca dell’altro/altra, dell’altrove, alla ricerca di una completezza, a suo tempo ben già espressa da Platone.
«La mancanza di cui è fatta l’esistenza umana – la mancanza da cui il desiderio sorge (si desidera sempre quello che non si ha, quello che manca) – non si deve mai estinguere», scrive Recalcati.
In questo senso il desiderio è desiderio dell’altro, e quindi – implicitamente – anche riconoscimento nell’altro di una parte di noi che se non ci appartiene e si crede possa completarci. «Il desiderio come desiderio dell’Altro mostra che il desiderio umano ha una struttura relazionale. «Non esiste desiderio senza l’Altro, perché il desiderio non può bastare a se stesso» e ancora il desiderio «è il dono della mancanza dell’Altro, è il dono di quello che l’Altro non ha, è il dono della mancanza che la tua presenza e la tua assenza sanno aprire in me», scrive sempre Recalcati facendo l’esegesi di Lacan.
E’ da questa mancanza dell’altro e riconoscimento dell’altro che bisogna ripartire in direzione di un desiderio che è comportamento etico, e dopotutto «per umanizzare la vita è necessario che intervenga il desiderio dell’Altro, perché è solo questo desiderio che può rendere la vita umana vivente». E Recalcati/Lacan individua la prima forma di riconoscimento dell’altro da sé nel rapporto padre e figlio, laddove «il desiderio come desiderio dell’Altro si soddisfa solo attraverso l’esperienza del riconoscimento».
La figura paterna è figura di riconoscimento dell’altro da sé. Nella dialettica del riconoscimento fra padre e figlio c’è il dono della parola, in questo dono si compie il dissolvimento del padre che è in realtà la sua realizzazione più piena, negando se stesso e dando il volo al figlio, «perché il dono della parola porta con sé la rottura definitiva dell’identità, l’impossibilità di uniformare la parola dell’altro alla propria, l’inesistenza di un’ultima parola sul senso della vita e della morte». In questo senso il dono della parola dal padre al figlio è viatico alla vita, è l’incoraggiare ad un altrove, al desiderare un altrove e l’incontro con l’altro, nella consapevolezza che il senso di mancanza proprio del de-siderare e lo sguardo verso il cielo e la volta stellata in ceca di un nostro posto nel mondo siano il lancio all’essere nel mondo, al costruire il sé come relazione con l’altro, scontro con l’altro, definizione del proprio essere in confronto/scontro con chi si incontra. E dopotutto – osserva Recalcati – «il passo inaugurale dell’insegnamento di Lacan consiste nel mettere in scacco la nozione di Io e ogni supposizione di padronanza che essa comporta. (…) il problema del soggetto per Lacan si configura da subito come il problema della totale irriducibilità della vita psichica all’immagine personalistica di un’autocoscienza o di una coscienza riflessiva». Come dire la costruzione dell’Io è condivisa per quanto solitaria, è senso di mancanza, è desiderio dell’altro, dell’incontro con l’altro, e dell’altrove.
Ma cosa succede se questo altrove, questa alterità vengono meno? La vita appassisce, si mortifica, s’inchioda sterilmente al puro esistente. Ed è quanto accade oggi in cui il soggetto dal capitalismo al declino è «ridotto a pura macchina pulsionale, a un consumatore iperadattato di gadget, abrogando la dimensione creativa e indomabile del desiderio». E allora tornare a desiderare l’altro come completezza di sé, tornare a desiderare l’altrove può essere una rivolta nei confronti del nostro orizzonte presente, può rendere reale l’altrove, provocare una rottura, dare vita all’indignazione «che non obbedisce al principio di realtà, che non si adatta a ciò che esiste, ma che invoca il cambiamento, la trasformazione dell’esistente come esigenza della vita». Insomma desiderare è un po’ fare la rivoluzione.

Massimo Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina Editore, pagine 648, 39 euro.
Massimo Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina Editore, pagine 190, euro 14.

Le impalpabili «Notti Bianche» di Corrado d’Elia

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VINCENZO SARDELLI | Un racconto pieno di passione. Una scelta registica poco teatrale, statica, antidrammaturgica, monocroma. Che però restituisce lucentezza a una storia di descrizioni, paesaggi dell’anima e atmosfere.

È la poesia del testo a risaltare in queste Notti Bianche che Corrado d’Elia ha riportato in scena al Teatro Libero di Milano. Le Notti Bianche, opera giovanile di Fëdor Dostoevskij di ascendenze gogoliane, è un racconto sentimentale e allucinato. Protagonista è un giovane sognatore che s’innamora di una ragazza incontrata per caso. Ne nasce un dialogo serrato che dura per quattro notti, durante le quali sembra delinearsi la prospettiva di una vita insieme. Un sogno, che deve fare i conti con la vita reale.

Estrema la scelta di Corrado d’Elia, dopo la versione più “ricca” del Litta di qualche anno fa: la nuova versione è quella di un monologo o, come dice lui, un “album”. È un rifugio nel minimalismo, per dare risalto all’Autore, alla parola. Per “pulire”. Per enfatizzare il potere del gesto e dell’evocazione che qui, in una specie di trance ipnotica, prevale sulla recitazione.

Una messinscena nuda. Bianco lo sgabello da bar al centro del palco, dominato da un azzurro lucente (le scene sono di Francesca Marsella). Una cascata di lampadine cade dal soffitto, animando suggestioni e parole. Bianco il costume di d’Elia, scarpe e bretelle smaltate, camicia e calzoni.

Nessuna concessione a effetti speciali. Solo le luci, dosate da Alessandro Tinelli, che si accendono e si spengono, brillano e sfumano. Pochi secondi, appena uno stacco, per la voce fuori campo di Monica Faggiani. Neppure danze mimate o duetti virtuali. D’Elia recita seduto. Le variazioni sono nelle sonorità emesse dalla voce, negli occhi strabuzzati, negli sguardi, nelle mani avvolgenti.

Luce e viso, occhi affilati. Il pianoforte di Chopin e Brahms è sottofondo a un sentimento un po’ tormento spirituale, un po’ amicizia e affetto fraterno. Una storia senza preamboli né orpelli. Un racconto intimo, concitato, reso convulso da rapidità e ripetizioni, che danno risalto alle pause. È un flusso di emozioni, confessioni sommesse e sfoghi di rabbia. La voce amplificata dal microfono, fa di questa performance quasi un radiodramma, assorbe gli spettatori in un tempo sospeso. D’Elia, assistito alla regia da Emanuela Ferlito, dà corpo a due facce della stessa medaglia: all’incontro di due anime che si riconoscono, e aprendosi vicendevolmente si amano.

L’incontro non dissipa la solitudine. Il sogno nella sospensione, la speranza nell’incertezza, sono le vere vibrazioni.

La materia del racconto sfuma in una dimensione essenzialmente e convulsamente morale e religiosa. Affetti smisurati muovono “lui” e “lei”. Gli stati morbosi non degenerano nella violenza: diventano lirismo.

L’amore è declinato in mille sfumature, stanco, stravolto, ebbro, trasognato, ideale, sbagliato. Amore che è miraggio e dono, reciprocità e disillusione. È l’empatia con il pubblico, che l’attore crea in scena.

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“Le Notti Bianche” anche nella letteratura e nel cinema italiano
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Una roba fra Spregelburd, Almodovar e una sit com scorretta

thanks for vaselina 1RENZO FRANCABANDERA | “Domani sera vado all’Out off a vedere “Thanks for Vaselina” – mi scrive un’amica qualche minuto fa, mentre sono ancora intento a scrivere due pensieri sul nuovo spettacolo di Carrozzeria Orfeo in scena in questi giorni a Milano – Lo hai già visto?
io: Ieri. Ne sto scrivendo
lei: Com è? O ti leggo domattina?
io: Scritto bene, recitato bene, non rivoluzionario ma divertente.
lei: Ok
io: Una roba fra Spregelburd, Almodovar e una sit com scorretta in cui si sente odore di maria dall’inizio alla fine dello spettacolo
lei: Odore di Santa Maria?
io: non proprio…

Cosa è stato in questi anni il progetto Carrozzeria Orfeo e come arrivano il drammaturgo Gabriele Di Luca e gli altri membri storici della compagnia Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi, a Thanks for Vaselina? E’ il 2008 e con Sul Confine vincono il Dante Cappelletti e sono selezionati fra i finalisti di Kilowatt. E’ un anno in cui riescono a proporre la loro semplice ma ben congegnata storia ad un pubblico nazionale. Nessuno di loro è forse un mattatore di scena (magari qualcuno sta crescendo bene) ma questo consente di sviluppare drammaturgie orizzontali, popolate da personaggi comuni.
E storie domestiche, di strada, sono quelle che poi Di Luca proporrà anche nei successivi Idoli, Robe dell’altro mondo e Thanks for Vaselina, vicende metropolitan-periferiche, raccontate attraverso gli occhi, i gesti e le parole di gente normale, proprio come in quella drammaturgia latino-americana che sta invadendo i nostri teatri (a volte anche senza ragione, come il giocatore pacco ma esotico della tua squadra del cuore).
Se Idoli resta il primo tentativo più strutturato di drammaturgia a incastro e Robe dell’altro mondo è il confronto con l’uso della maschera, Thanks for Vaselina è una sfida drammaturgica almodovariana, simpsoniana quanto a scorrettezza, in cui i protagonisti parlano esattamente come gli abitanti di un caseggiato proletario, fra coltivazioni domestiche di maria, madri disadattate dipendenti di slot machine (Beatrice Schiros), giovanetti protorivoluzionari (Massimiliano Setti) pronti a telare non appena si sente puzza di guaio, adolescenti grassocce e stordite, suggestionate dalla psicomagia e da Jodorowsky (Francesca Turrini) e derise per tutto il tempo nella loro debolezza.
La risata cattiva condisce tutto. Di fianco a me una spettatrice un po’ in carne, forse anche lei come la protagonista per questioni di metabolismo, odia lo spettacolo per tutto il tempo e vorrebbe scappare, ma la sala è piena e così resta livorosa a seguire la storia di Pastasciutta che si fa infilare degli ovuli di maria su per il culo, sperando di riuscire a portarli così in Messico, per salvare con il ricavato il suo fratello down dalle angherie domestiche. Dal Messico ritorna invece il padre (un efficace e poetico Alessandro Tedeschi) del coltivatore diretto di thc (Gabriele Di Luca), scappato quando il ragazzo era ancora piccolo, e diventato trans, finendo in una comunità di santoni.
Ecco, una roba del genere la puoi vivere ogni giorno in Via Padova e dintorni a Milano, o all’Esquilino a Roma: non sono in fondo le abbondanti parolacce e il linguaggio grasso la nota scorretta dello spettacolo, che invece proprio per questa sincerità basica trova ascolto agevole in un pubblico molto giovane, che infatti riempie l’Out Off.
Beatrice Schiros è un acquisto cruciale per il ritmi da commedia semi-noir di “Thanks”. E’ lei il metronomo recitativo, sul suo volto scorre con la consumata abilità dell’attrice esperta, il tragico e il comico senza soluzione di continuità.
Il testo regge per tutto il tempo e, per paradosso, penetra meno allorquando, qui e lì, ha la velleità di voler penetrare di più, di farsi di tanto in tanto poetica (e forse involontaria) morale: questa storia, infatti, funziona perchè nella sua surrealtà è tragicamente reale, racconta un tempo di espedienti e delusioni, abbandoni e solitudini, e di situazioni in cui il giovane pusher prova a rifilare a qualcuno l’inculata che la vita ha molto tempo prima rifilato a lui. Ci riuscirà?
A fine spettacolo, mentre la mia vicina di posto non applaude, il resto della sala va in delirio. Penso fra me e me che è un lavoro che funziona bene, con un po’ di sana malizia drammaturgica e una rodata capacità di scrittura e di interpretazione, che potrà girare, scandalizzando anche qualche circolo ultracattolico e qualche padre Voldemort di provincia: attendiamo quindi gli articoli sul Gazzettino di Roccacannuccia, in cui il notabile borghese del luogo, da anni deputato alla notazione sulla proposta culturale del teatro cittadino, si chiederà, commentando “Thanks”, dove sia finito Il Teatro. In culo, appunto, insieme agli ovuli di maria.
E penso a fine recita, bevendo una birra con amici dal kebabbaro di Viale Mac Mahon, che in fondo, specie per le giovani compagnie come Carrozzeria Orfeo, fra le poche dal 2008 ad oggi a non essere implose (o esplose) di intellettualismi e pippe fashion, inserti video, trucco colato e tacchi 12, e tentativi di vendercela come ammorbante crossmedialità dalle tinte finto-omo, penso, dicevo, che in questo momento occorra anche far proposte che avvicinino e creino nuovi spettatori e dialoghino con il nostro tempo senza filtri ma anche senza furberie. E a questo giro, secondo me, gli è riuscita. Quasi tutto gira a tempo, come la composizione per tazzine di caffè e disadattati in penombra, una chicca assoluta.
Non è un lavoro ancora perfetto. La scenografia è didascalica, non lascia al testo la possibilità di respirare surrealtà (come invece aveva più furbescamente fatto, con Lucido di Spregelburd, Rustioni, semplicemente tenendo un tavolino fuori dal gioco dell’interno giorno, o Ronconi con La modestia, col via vai di mobili dall’ambiente fisso): quella è un po’ d’esperienza scenico-registica che alla compagnia manca.
Ecco, forse alla compagnia manca che ogni tanto la regia sia anche di qualcun altro. Così. Per sparigliare le carte. Per mischiare il sangue, consentire ad un occhio esterno alla redazione testuale di piazzare in scena il tavolino visionario dell’illusione, che tanto bene sta in queste storie: è questo il vulnus di crescita, forse il punto ancora debole di un percorso per altri versi di assoluto interesse.

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Odemà e il dio «A sua immagine»

 a tua immagineVINCENZO SARDELLI | È artisticamente più che riuscito, filosoficamente soggettivo e parziale, questo A tua immagine degli Odemà, via crucis d’avanspettacolo che ha aperto la stagione del Teatro della Contraddizione di Milano. Una sequela di sferzanti denunce su origine, storia ed essenza del Cristianesimo. Uno spettacolo dinamico, di sorprendente artigianato teatrale, che diventa spunto di riflessione per lo spettatore, qualunque sia il suo sentimento religioso.

L’atmosfera è straniante sin dall’abbrivo. Un grottesco dialogo tra due lampadine intermittenti asseconda con alterna intensità il volume di due voci, una femminile l’altra maschile. Poi, sotto un lenzuolo alla maniera di Kantor, tre bozzoli, tre essenze, con michelangiolesca irruenza si strappano alla materia e diventano forme. Quali forme? Quella di un dio-donna interpretato da una superba Giulia D’imperio; quella di un povero cristo martire (l’introspettivo Davide Gorla) che stenta ad arrendersi ai progetti galattici del dio padre-madre; quella di un diavolo derelitto (Enrico Ballardini) la cui incosciente oscurità serve solo a dare risalto alla luce divina.

È il preludio alla Creazione, dialogo fra eternità, confronto fra ruoli complementari solo all’apparenza, in cui cerca d’insinuarsi il dubbio. Dio irremovibile prefigura una storia di sacrifici e martirî, di guerre sante, stragi, supplizi e penitenze. Cristo, preda dei rimorsi, tenta invano di ribellarsi. Il diavolo, che un cuore ce l’ha, prova a ricucire il luciferino strappo originale. Vorrebbe essere riaccolto in cielo; non ne può più di irretire le anime solo per assecondare la bizzarra dialettica tra bene e male su cui si fonda il potere divino.

Tanta ironia in questa pièce costruita a sei mani, recitata con carattere ed energia, nata da impulsi culturali di spessore (Goethe, Saramago, Pessoa, ovviamente la Bibbia) e declinata in una miriade di temi: il significato delle religioni, il senso del potere, il valore del dogma, il machiavellismo nei rapporti umani, l’eterno conflitto tra genitore e figlio, il confine indefinito tra bene e male.

Tanti, anche, i linguaggi usati: il teatro di figura, l’animazione a vista, il teatro delle ombre, l’accompagnamento musicale di un istrionico Enrico Ballardini, chitarra incerottata, testi e stile a metà tra La Buona Novella di De André e i Gufi. Un tip-tap in costumi scalcinati scandisce i passaggi di scena, tra danze sbilenche e pantomime vivificate da vocette strambe, botta e risposta rinforzati dall’uso della rima.

Il lenzuolo bianco sulla scena è scenograficamente impacchettamento stile Christo, sipario, costume, diaframma, schermo per ombre cinesi, involucro, nascondiglio. Simbolicamente è sindone, velo che dà il la a giochi di prestigio o inaugurazioni, tonaca da rito sacrificale.

A tua immagine è una creazione organica, ritmata, tra espressionismo e avanspettacolo, allucinazione, lirismo e fisicità. Le atmosfere sono “dantesche”, nel senso più di Emma che dell’Alighieri. Affiora solo la sensazione che il testo si avviti un po’ su se stesso, batta troppo su crimini e misfatti della storia bimillenaria della Chiesa. Senza che ci sia una voce credibile che faccia da contrappunto. Senza che sia proposta, anche lateralmente, una verità “altra”.

Teatro del fare per ripensare la scuola

cassanelli_castigliaNICOLA ARRIGONI | «La parola ‘teatro’ mi squarciò il cuore come uno squillo di tromba. La fantasia si risvegliò tutta d’un tratto. Ma la traccia che la fantasia poi seguì non fu quella che portava dietro al palco e che inseguito indirizza il fanciullo, ma quella delle persone serene e sagge, che avevano convinto i propri genitori a lasciarli andare a teatro al pomeriggio». Quanto scrive Walter Benjamin in Figure dell’infanzia. Educazione, letteratura, immaginario, volume a cura di Francesco Cappa e Martino Negri, pubblicato da Raffaello Cortina Editore (pagine 384, euro 17,50) permette di andare al cuore della natura bifronte che caratterizza il rapporto fra teatro ed educazione. Se da un lato, infatti, Benjamnin mette in evidenza che il teatro che porta dietro al palco indirizzi il fanciullo, lo faccia crescere, gli faccia fare esperienza, non meno importante sembra essere – e lo è – l’esperienza da spettatore laddove per Benjamin così descrive l’andare a teatro: «Vi si entrava attraverso una breccia nel tempo, distruggendo quella nicchia del giorno rappresentata dal pomeriggio, nella quale si assaporava già l’odore del lume e del coricarsi per la notte». E ancora piace sottolineare cosa il filosofo si aspettasse dall’essere a teatro: «Vi era piuttosto uno scopo più alto – rispetto a quello di assistere alo spettacolo -: essere seduto a teatro fra gli altri che erano lì». Si pone dunque l’accento sulla natura di esperienza comune che caratterizza sempre e comunque il rito teatrale che chiede di essere lì presenti, in quel momento, in quel preciso spazio per assistere a un racconto che è per sua natura condivisione di ascolto e partecipazione.

In tutto questo ben si capisce come il teatro sia esperienza totalizzante, sia laboratorio del fare e dell’essere, in stretta connessione col mondo della scuola, malgrado rischi sempre e comunque di essere percepito come corpo estraneo. Da almeno trent’anni con vicende alterne, con protocolli di intesa fra ministeri o semplicemente con iniziative autonome portate avanti da uffici scolastici e teatri o assessorati alle politiche educative i laboratori teatrali nelle scuole italiane di ogni ordine e grado sono una realtà e si dimostrano mezzi formativi ed espressivi assolutamente unici ed efficaci in una scuola sempre più bisognosa di affinare le proprie dinamiche relazionali. A tracciare la parabola di questo strano rapporto, di questa coppia di fatto: teatro e scuola è Claudio Facchinelli nel volume Dramatopedia. Spunti di storia, etica e poetica per il teatro della scuola, volume pubblicato a Edizionicorsare (pagine 196, 10 euro). Claudio Facchinelli è stato dall’inizio degli anni Novanta un osservatore privilegiato del rapporto fra teatro e scuola, dai tempi dei primi progetti di Educazione alla salute ai tentativi di rendere curricolari le azioni teatrali nelle scuole, di questa vicenda artistica, politica, pedagogica Facchinelli traccia una sorta di excursus, attingendo a piene mani dall’esperienza personale di uomo di scuola e di critico militante, oltre che di organizzatore teatrale. Claudio Facchinelli prende in esame non solo il percorso normativo che ha portato il teatro a entrare nelle aule scolastiche, ne evidenzia le specifiche educative e le potenzialità espressive, senza dimenticare i nodi problematici che – spesso e volentieri guarda caso – riguardano più che altro il mondo degli aduli. Il difficile rapporto fra insegnanti e operatori, l’ansia da prestazione che la scuola di progetto richiede e che non è sempre necessaria quando non dannosa nel processo laboratoriale sono alcuni dei temi presi in esame.

DRAMATOPEDIAInsomma se il volume di Facchinelli traccia lo scenario della storia recente del rapporto fra scula e teatro Fabrizio Cassanelli e Guido Castiglia nel volume Il teatro del fare, pubblicato da Titivillus (pagine 210, 16 euro) non si limitano a descrivere metodologie di lavoro ed esperienze del teatro in classe on attenzione al comico e alle sue connessioni didattiche, ma si spingono oltre e propongono il ‘teatro’ come modello didattico per un nuovo modo di apprendimento, per far sì che l’esperire porti ad una conoscenza dei principi anche teorici basati sul fare. I due autori individuano «la possibilità per il teatro di presentarsi agli insegnanti e agli operatori come un’alternativa all’approccio della trasmissione frontale tradizionale proprio perché è un linguaggio interdisciplinare in grado di contendere dentro di sé il gesto, il movimento, il suono, la parola, l’immagine l segno che tiene conto delle ragioni e delle emozioni dei soggetti», scrivono i due autori. Ed è questa vocazione al fare, al condivider, al partecipare insieme che fa del linguaggio teatrale uno straordinario mezzo espressivo che permette di fare scuola con impegno e intelligenza, con anima e corpo, tenendo conto dell’altro e nel confronto con l’altro costruire la cognizione di sé. La scuola questo lo sa, e se pure con incostanza e in maniera del tutto autonoma, non manca di affidarsi al linguaggio della scena con entusiasmo e con risultati sempre spiazzanti e per questo utili. Ancora immaturo il progetto di fare di questo una costante, ma oggi – non solo nella scuola – le costanti sono la sperimentazione perenne, che on vuol dire ricerca ma piuttosto fare, andare in avanti in cerca prima o poi di un orizzonte condiviso e comune che non c’è. E questo non solo nella scuola.

Per questo il teatro può declinarsi al plurale e diventare Teatri Re-esistenti come recita l titolo del volume a cura di Laura Gobbi e Federica Zanetti, pubblicato da Titivillus (pagine 164, 16 euro) in cui l’esperienza della scena e del teatro laboratoriali vengono letti come strumenti per l’invenzione di un nuovo senso di cittadinanza, una cittadinanza attiva che si esprime attraverso quell’apparente surplus di finzione che regala il teatro e che in realtà va a incidere sulla realtà e la coscienza che noi abbiamo del mondo che viviamo. Per questo motivo il teatro laddove viene meno la democrazia è oscurato, osteggiato, vessato perché è strumento di partecipazione, è pungolo alla coscienza, è idea che agisce e trasforma… a scuola come nell’ambito sociale.

Walter Benjamin, Figure dell’infanzia. Educazione, letteratura, immaginario, volume a cura di Francesco Cappa e Martino Negri, Raffaello Cortina Editore, pagine 384, euro 17,50

Claudio Facchinelli, Dramatopedia. Spunti di storia, etica e poetica per il teatro della scuola, Edizionicorsare, pagine 196, 10 euro.

Frabrizio Cassanelli e Guido Castiglia, Il teatro del fare, Titivillus, pagine 210, 16 euro

Laura Gobbi e Federica Zanetti, a cura di, Teatri Re-esistenti. Confronti su teatro e cittadinanze, Titivillus, pagine 164, 16 euro