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giovedì, Novembre 14, 2024
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Teatro del fare per ripensare la scuola

cassanelli_castigliaNICOLA ARRIGONI | «La parola ‘teatro’ mi squarciò il cuore come uno squillo di tromba. La fantasia si risvegliò tutta d’un tratto. Ma la traccia che la fantasia poi seguì non fu quella che portava dietro al palco e che inseguito indirizza il fanciullo, ma quella delle persone serene e sagge, che avevano convinto i propri genitori a lasciarli andare a teatro al pomeriggio». Quanto scrive Walter Benjamin in Figure dell’infanzia. Educazione, letteratura, immaginario, volume a cura di Francesco Cappa e Martino Negri, pubblicato da Raffaello Cortina Editore (pagine 384, euro 17,50) permette di andare al cuore della natura bifronte che caratterizza il rapporto fra teatro ed educazione. Se da un lato, infatti, Benjamnin mette in evidenza che il teatro che porta dietro al palco indirizzi il fanciullo, lo faccia crescere, gli faccia fare esperienza, non meno importante sembra essere – e lo è – l’esperienza da spettatore laddove per Benjamin così descrive l’andare a teatro: «Vi si entrava attraverso una breccia nel tempo, distruggendo quella nicchia del giorno rappresentata dal pomeriggio, nella quale si assaporava già l’odore del lume e del coricarsi per la notte». E ancora piace sottolineare cosa il filosofo si aspettasse dall’essere a teatro: «Vi era piuttosto uno scopo più alto – rispetto a quello di assistere alo spettacolo -: essere seduto a teatro fra gli altri che erano lì». Si pone dunque l’accento sulla natura di esperienza comune che caratterizza sempre e comunque il rito teatrale che chiede di essere lì presenti, in quel momento, in quel preciso spazio per assistere a un racconto che è per sua natura condivisione di ascolto e partecipazione.

In tutto questo ben si capisce come il teatro sia esperienza totalizzante, sia laboratorio del fare e dell’essere, in stretta connessione col mondo della scuola, malgrado rischi sempre e comunque di essere percepito come corpo estraneo. Da almeno trent’anni con vicende alterne, con protocolli di intesa fra ministeri o semplicemente con iniziative autonome portate avanti da uffici scolastici e teatri o assessorati alle politiche educative i laboratori teatrali nelle scuole italiane di ogni ordine e grado sono una realtà e si dimostrano mezzi formativi ed espressivi assolutamente unici ed efficaci in una scuola sempre più bisognosa di affinare le proprie dinamiche relazionali. A tracciare la parabola di questo strano rapporto, di questa coppia di fatto: teatro e scuola è Claudio Facchinelli nel volume Dramatopedia. Spunti di storia, etica e poetica per il teatro della scuola, volume pubblicato a Edizionicorsare (pagine 196, 10 euro). Claudio Facchinelli è stato dall’inizio degli anni Novanta un osservatore privilegiato del rapporto fra teatro e scuola, dai tempi dei primi progetti di Educazione alla salute ai tentativi di rendere curricolari le azioni teatrali nelle scuole, di questa vicenda artistica, politica, pedagogica Facchinelli traccia una sorta di excursus, attingendo a piene mani dall’esperienza personale di uomo di scuola e di critico militante, oltre che di organizzatore teatrale. Claudio Facchinelli prende in esame non solo il percorso normativo che ha portato il teatro a entrare nelle aule scolastiche, ne evidenzia le specifiche educative e le potenzialità espressive, senza dimenticare i nodi problematici che – spesso e volentieri guarda caso – riguardano più che altro il mondo degli aduli. Il difficile rapporto fra insegnanti e operatori, l’ansia da prestazione che la scuola di progetto richiede e che non è sempre necessaria quando non dannosa nel processo laboratoriale sono alcuni dei temi presi in esame.

DRAMATOPEDIAInsomma se il volume di Facchinelli traccia lo scenario della storia recente del rapporto fra scula e teatro Fabrizio Cassanelli e Guido Castiglia nel volume Il teatro del fare, pubblicato da Titivillus (pagine 210, 16 euro) non si limitano a descrivere metodologie di lavoro ed esperienze del teatro in classe on attenzione al comico e alle sue connessioni didattiche, ma si spingono oltre e propongono il ‘teatro’ come modello didattico per un nuovo modo di apprendimento, per far sì che l’esperire porti ad una conoscenza dei principi anche teorici basati sul fare. I due autori individuano «la possibilità per il teatro di presentarsi agli insegnanti e agli operatori come un’alternativa all’approccio della trasmissione frontale tradizionale proprio perché è un linguaggio interdisciplinare in grado di contendere dentro di sé il gesto, il movimento, il suono, la parola, l’immagine l segno che tiene conto delle ragioni e delle emozioni dei soggetti», scrivono i due autori. Ed è questa vocazione al fare, al condivider, al partecipare insieme che fa del linguaggio teatrale uno straordinario mezzo espressivo che permette di fare scuola con impegno e intelligenza, con anima e corpo, tenendo conto dell’altro e nel confronto con l’altro costruire la cognizione di sé. La scuola questo lo sa, e se pure con incostanza e in maniera del tutto autonoma, non manca di affidarsi al linguaggio della scena con entusiasmo e con risultati sempre spiazzanti e per questo utili. Ancora immaturo il progetto di fare di questo una costante, ma oggi – non solo nella scuola – le costanti sono la sperimentazione perenne, che on vuol dire ricerca ma piuttosto fare, andare in avanti in cerca prima o poi di un orizzonte condiviso e comune che non c’è. E questo non solo nella scuola.

Per questo il teatro può declinarsi al plurale e diventare Teatri Re-esistenti come recita l titolo del volume a cura di Laura Gobbi e Federica Zanetti, pubblicato da Titivillus (pagine 164, 16 euro) in cui l’esperienza della scena e del teatro laboratoriali vengono letti come strumenti per l’invenzione di un nuovo senso di cittadinanza, una cittadinanza attiva che si esprime attraverso quell’apparente surplus di finzione che regala il teatro e che in realtà va a incidere sulla realtà e la coscienza che noi abbiamo del mondo che viviamo. Per questo motivo il teatro laddove viene meno la democrazia è oscurato, osteggiato, vessato perché è strumento di partecipazione, è pungolo alla coscienza, è idea che agisce e trasforma… a scuola come nell’ambito sociale.

Walter Benjamin, Figure dell’infanzia. Educazione, letteratura, immaginario, volume a cura di Francesco Cappa e Martino Negri, Raffaello Cortina Editore, pagine 384, euro 17,50

Claudio Facchinelli, Dramatopedia. Spunti di storia, etica e poetica per il teatro della scuola, Edizionicorsare, pagine 196, 10 euro.

Frabrizio Cassanelli e Guido Castiglia, Il teatro del fare, Titivillus, pagine 210, 16 euro

Laura Gobbi e Federica Zanetti, a cura di, Teatri Re-esistenti. Confronti su teatro e cittadinanze, Titivillus, pagine 164, 16 euro

Al “Garofano Verde”, Bennett in forma di reading. Ed è già teatro.

bruni_decapitaniLAURA NOVELLI | Parola scritta e parola recitata, pronunciata, porta al pubblico/uditorio. L’impressione più vivida che resta dopo il reading con cui Elio De Capitani e Ferdinando Bruni hanno aperto la rassegna romana “Il Garofano Verde. Scenari di teatro omosessuale” è quella di una ricerca verbale e testuale che recuperi alla scena la sacralità del dire e la raffinatezza di un raccontare con intelligenza, originalità, arguzia, consapevolezza, bellezza. Non si tratta solo, cioè, di scegliere autori “sicuri” in tal senso – il cartellone di questa ventesima edizione, per esempio, assembla, insieme con questo Alan Bennett iniziale, due intellettuali italiani molto diversi tra loro come Giovanni Testori (sulle cui poesie religiose raccolte in “Nel tuo sangue” e “Ossa mea” si concentra l’intervento di Valter Malosti) e Walter Siti (di cui Massimo Popolizio affronta uno dei racconti de “La magnifica merce”) – ma si tratta anche di convogliare traduttori, registi, artisti, attori capaci di dare un “come” decoroso alla “cosa” detta. Per cui, è vero, nel caso di “Il vizio dell’arte” di Bennett (titolo originale, “The Habit of Art”) parliamo di reading, di lettura, ma in realtà dentro quella mise en espace c’è già un’aura di spettacolo, un senso interpretativo forte, un’armonia di segni e significati, un’idea compositiva chiara.

La storia narrata qui dal pregevole scrittore inglese (di cui proprio Teatridithalia ha prodotto di recente l’incisivo “The History Boys”, vincitore di sei Tony Award) è assai semplice: il poeta Wystan Hugh Auden (affidato all’ironia baldanzosa di Bruni) e il compositore Benjamin Britten (un De Capitani compassato e sottilmente elusivo) si rivedono dopo decenni dal loro ultimo incontro e parlano di arte, musica, poesia,malattie, desiderio, etica, vita. Poi si salutano, Britten se ne va. Non prima, però, di aver vezzosamente conversato con una giovane marchetta (Alejandro Bruni Ocaña) rimorchiata da Auden e affascinata – appunto – dall’abilità con cui quest’ultimo maneggia e valorizza la parole, anche quelle meno auliche come “cazzo”.

Che si tratti, dunque, di un omaggio alla sapienza fabulatoria e alla forza di una facondia (persino lirica) che non scende a compromessi  con la volgarità e l’approssimazione, ce lo dice anche un altro fatto: il testo di Bennett (autore ottantenne amatissimo in patria e noto, qui da noi, soprattutto per opere come “La pazzia di Re Giorgio” e “La cerimonia del massaggio”) è in realtà organizzato come fosse la prova di una messinscena incentrata sull’incontro tra i due amici artisti (si erano conosciuti durante la lavorazione del documentario “La posta di notte”, di cui Auden aveva elaborato i testi e Britten la colonna sonora), con tanto di continue domande poste dagli attori all’autore.

Un gioco pirandelliano, dunque, denso di ricadute metateatrali e metaletterarie di cui gli stessi De Capitani e Bruni ci mettono al corrente prima della loro prova, laddove introducono testo e autore con divertito trasporto. Quando le luci calano si entra nel ventre delle parole. Ci sono solo gli attori in piedi sul palcoscenico, e tre leggii. Tanto basta per far capire che leggere un’opera sintonizzandosi sui toni giusti e disegnando personaggi credibili è come allenarsi bene – e allenare il pubblico – allo spettacolo futuro. Probabilmente – e ce lo auspichiamo –  nel 2015 il progetto arriverà a buon fine: chi ha assistito a questo iniziale approccio al testo avrà il privilegio di commisurare la ragionata lievità di un reading parziale, ma già di altissimo livello espressivo, con una messinscena integrale dell’opera.

In mezzo ci sono ovviamente gli ostacoli economici e produttivi. Questa, però, è un’altra faccenda. E qui le parole, per quanto incisive, hanno purtroppo un assai misero potere.

Connettersi con l’Europa per salvare il teatro italiano: intervista a Fabrizio Arcuri

foto Michele Tomaiuolo
foto Michele Tomaiuolo

LAURA NOVELLI | Ottocento spettatori a sera, millecinquecento presenze nei week-end, ricca partecipazione agli incontri e ai dibattiti: l’ottava edizione di “Short Theatre” (svoltasi dal 5 al 18 settembre negli spazi de La Pelanda, a Roma) si è chiusa con un bilancio assolutamente positivo, affermandosi come un appuntamento ormai irrinunciabile dell’offerta spettacolare capitolina. Irrinunciabile tanto più in un momento storico in cui a rinunciare sono in molti e in cui la mancanza di risorse economiche rischia di paralizzare gran parte delle attività e delle iniziative culturali. Ne abbiamo parlato con Fabrizio Arcuri, curatore della vetrina e caparbio teatrante intenzionato a non mollare. A non rinunciare.

Come sei riuscito, in una situazione così disastrosa come quella attuale, a mettere in piedi questa nuova edizione di Short Theatre?

Contando su una squadra che lavora insieme da anni e che crede nel progetto. Abbiamo lavorato accontentandoci di un semplice rimborso spese, facendo leva sulla volontà delle persone e chiedendo agli artisti di testimoniare la loro presenza a budget molto ridotto. C’è poi da dire che la rete di contatti internazionali tessuta negli anni scorsi ha portato i suoi frutti. All’estero, malgrado la crisi ci sia, si avverte meno ed esiste ancora una progettualità europea in cui noi italiani potremmo inserirci con maggiore facilità se non avessimo tanti impedimenti dovuti al sistema. Il rapporto con le istituzioni, infatti, non ci aiuta in questo, perché non sappiamo mai se riusciremo ad usufruire di determinati fondi e ciò ci limita nella partecipazione ai bandi della Comunità Europea. Credo che le istituzioni italiane non abbiano ancora capito che a noi artisti non serve l’assistenzialismo ma maggiore elasticità per permettere alla creatività italiana di avere un respiro internazionale.

Il cartellone di quest’anno è stato non solo ricco di presenze straniere ma ha anche focalizzato l’attenzione su alcuni progetti emblematici in questa ottica transnazionale. Su che binari si muove Short con l’estero?

Come ho già detto, i rapporti con l’estero sono un’opportunità che non va sprecata e che anzi va urgentemente incentivata. I tre contenitori di “Fabulamundi”, “Transarte” e “Finestate Festival” rappresentano, ad esempio, tre modalità per resistere alla crisi in modo costruttivo, garantendo alle compagnie estere una circuitazione in Italia ma anche studiando modalità per cui il nostro teatro possa trovare delle prospettive in Europa: una visibilità di rilievo e circuiti distributivi adatti agli specifici lavori.

Entrando nel merito di queste iniziative, possiamo tracciarne brevemente la fisionomia?

Per quanto riguarda “Finestate Festival”, Short è capofila del progetto. Si tratta di sei realtà italiane, sei rassegne estive, che hanno creato una sinergia al fine di innescare opportunità di scambio e promozione delle culture teatrali. Il percorso è un po’ tutto da costruire ma già abbiamo ottimi esiti. “Fabulamundi. Palywriting Europe” è invece un piattaforma che ci vede partner in seconda battuta perché il leader italiano dell’iniziativa è la società di progettazione culturale PAV. L’idea è quella di realizzare un programma interamente dedicato alla promozione della drammaturgia contemporanea. Vi partecipano venti realtà europee, o vicine all’Europa, e la prima riunione, cui hanno partecipato personalità emblematiche della scena attuale, si è svolta proprio all’interno di Short Theatre. Infine “Transarte” (IYMT , International Young Makers in Transit), di cui siamo partner dal 2010, costituisce una network di festival europei di teatro e danza sempre studiato a sostegno dei giovani artisti. Insomma, l’obiettivo di questa ampia progettualità con l’estero non è solo quello di trarre economie dall’Europa ma di pensare proprio ad una circuitazione europea dei lavori e delle compagnie.

short2013lasolfataraAnche in questi progetti si può dunque intercettare quella contaminazione di generi che caratterizza da sempre Short Theatre?

Il risultato positivo della vetrina, in termini di affluenza e di adesione da parte del pubblico, credo sia dovuto proprio al fatto che Short contiene generi diversi, dal teatro alla danza alla performance. Anche i momenti di dibattito e il dj-set conclusivo delle serate sono stati molto frequentati. Segno che la trasversalità ripaga sempre in iniziative di questo tipo. E quando parlo di trasversalità alludo anche alla contaminazione tra generazioni artistiche diverse. Nell’ultima edizione abbiamo messo insieme, solo per fare qualche esempio, Babilonia Teatri e Lenz Rifrazioni, Fanny & Alexander e Teatro Sotterraneo. E non è un caso che siano venuti a trovarci molti giovani ma anche spettatori di età più mature.

Perché hai scelto un titolo come “Democrazia della felicità” ?

Ovviamente il titolo è preso dalla Costituzione americana, documento che riconosce la felicità come un diritto fondamentale del cittadino. Abbiamo pensato a questo tema riflettendo sull’idea di futuro. Su come, cioè, il teatro, il nostro lavoro possano cambiare il mondo, la società, e migliorare noi stessi. Short si propone da sempre di creare un territorio di pensiero che persegua questo scopo, che è poi il fine ultimo del nostro fare teatro. Credo che perdere di vista la natura politica del nostro impegno artistico significhi perdere di vista il senso stesso del teatro.

In quest’ottica va anche inquadrata l’attenzione posta sul ruolo degli intellettuali nel ciclo di incontri curati dai Quaderni del Teatro di Roma. Cosa è emerso da questi dibattiti?

Il titolo di questa iniziativa era: Cosa possono fare le parole. Un futuro senza intellettuali? Dunque, essenzialmente una domanda. Ci siamo chiesti: perché le parole della politici riescono, nel bene e nel male, a cambiare il mondo mentre quelle degli intellettuali no? Ci è sembrato opportuno tentare di rispondere definendo uno spazio, un territorio appunto, in cui convogliare una collettività che si riconosce; un gruppo di persone che non si ritrovano se stesse nelle parole della televisione ma in quelle del pensiero, della riflessione, degli intellettuali appunto.

Da qualche giorno il teatro Valle occupato ha visto riconosciuto il su statuto di Fondazione. Come commenti questa vicenda?

Senza una politica culturale che regolamenti lo spettacolo dal vivo e che arrivi a determinate scelte attraverso tavoli di discussione condivisi, c’è solo da sperare che cose del genere succedano spesso. Non vedo cosa altro debba accadere per far cambiare il sistema. Non ho seguito tutti i passaggi della vicenda ma, come teatrante, non posso che essere lieto che si sia riusciti a scippare uno spazio artistico all’ennesimo centro commerciale. Certamente non si può negare che l’occupazione di un teatro come il Valle sia un gesto forte e non so se il luogo fosse quello giusto. Però, se in futuro si parlerò di cose importanti, lo si dovrà senza dubbio anche ad azioni di questo tipo.

Veniamo ora ad Arcuri regista dell’Accademia degli Artefatti. Proprio a Short 2013 avete presentato due lavori: “Villa Dolorosa” della tedesca Rebekka Kricheldorf e “Io, Fiordipisello” di Tim Crouch. Progetti futuri?

Fino al 2015 porteremo in tournée vecchi lavori e quelli debuttati all’ultima Biennale di Venezia (il progetto “I Shakespeare”, ndr). Diciamo che come compagnia ci troviamo ad un punto in cui le necessità espressive non corrispondono alle caratteristiche economiche. Motivo per cui, da regista, preferisco fare pochi lavori e prendermi tempi lunghi, in attesa di attivare nuove strategie produttive.

E l’Arcuri organizzatore e operatore che cosa farà nei prossimi mesi?

Continua la mia collaborazione con il teatro della Tosse di Genova, alla quale tengo molto. E poi ovviamente inizierò presto a tessere nuove relazioni internazionali in vista di Short 2014.

«Una specie di Alaska»: Binasco e il “male di sopravvivere”

alaskaVINCENZO SARDELLI | Silenzio assordante di camera d’ospedale. Attesa ibernata. Una donna sulla quarantina giace inerte in un letto, gli occhi chiusi in un lancinante rigor mortis. Il busto è sollevato. Il volto svuotato è perpendicolare al pubblico che entra in sala e si dispone attorno sulla scena, a distanza ravvicinata.

È un rito iniziatico o sacrificale? A collegare donna dormiente e pubblico entrante un barbuto uomo elegante sulla cinquantina, in attesa, appoggiato a un freddo tavolo lucido di fòrmica verde e di metallo.

È questa la cornice nuda in cui il regista Valerio Binasco racchiude Una specie di Alaska, terribile e straniante commedia di Harold Pinter che abbiamo visto al Teatro Libero di Milano.

La protagonista Deborah è rimasta in stato comatoso per quasi trent’anni. Si risveglia, convinta di andare alla festa del suo quindicesimo compleanno. La festa non c’è. Non c’è il padre. Non c’è la madre, che le aveva preparato il vestitino per l’evento. A traghettare Deborah verso la realtà sono un dottore amico di famiglia, che ha sperimentato su di lei una nuova cura, e la sorella prediletta.

Tra sguardi allucinati e risate infantili, tra vezzi puerili, accessi d’ira e strazianti lampi di coscienza, Deborah compone davanti a sé il puzzle della propria sconclusionata vicenda. Che personaggio complesso propone Sara Bertelà. Quante torsioni, sorrisi dolorosi, lacrime attraverso quegli occhi affossati e arrossati, birichini e assorti.

Una performance intensa eppure di una semplicità disarmante. Statica, asciutta quanto a impatto scenico. Eppure straordinariamente dinamica grazie a una recitazione sopra le righe, tra cenni di mimo e danza, sprazzi ironici e assurdo, in cui è impossibile tracciare il confine tra attore e personaggio.

Luci spietate sottolineano orbite vuote, scavate dalla malattia e dal tempo. Il pallore fatica a sciogliersi, come i dubbi mortificanti di Deborah che non afferra il senso di quanto le è accaduto. Note di pianoforte come stille di una flebo danno corpo al dialogo maieutico tra la donna e il dottore (Nicola Pannelli). La verità è una radiografia su una lastra sfocata. Neppure la comparsa della sorella (Orietta Notari) è risolutiva.

Chiusure, silenzi, sfoghi. La paura di guardarsi allo specchio di Deborah, l’impatto devastante con una normalità persa per sempre, è metafora della condizione dell’uomo, costretto ogni giorno a ripensarsi, morire e rinascere qualcosa di nuovo e diverso. La pièce è rappresentativa anche di una certa crisi del ruolo dello scrittore, del tutto distante dal mito romantico del poeta mago, dell’autore onnisciente.

Ambiguità, pause, senso dell’inadeguatezza espressiva sono la sostanza di questo testo, che raramente si colora come la coperta di lana ricamata variopinta con cui Deborah tenta invano di scaldarsi. Un metronomo scandisce il rifluire del tempo, gocciolio insistente di un rubinetto che batte a vuoto.

Piana, sottovoce e sottotono, la recitazione di Pannelli e Notari mette in risalto ancora di più il ruolo incisivo di Deborah-Bertelà. Consente agli spettatori di identificarsi, passo dopo passo, con la paura di scoprirsi fantasmi.

I tre atti unici di Checov riletti da Rustioni

rustioni_cechov_3atti_uniciNICOLA ARRIGONI | Una serie di sedie ai lati del palco, quando gli spettatori entrano gli attori sono già in scena. Antonio Gargiulo, Valentina Picello, Roberta Rovelli e Roberto Rustioni si muovono nervosi, sciolgono il corpo, in una sorta di riscaldamento pre-icontro, in una sorta di training mente/corpo. Eh sì perché lo spazio scenico di Tre atti unici può richiamare una sorta di ring e al tempo stesso nulla concede alla verosimiglianza e tutto alla finzione in quel preparare la scena che è come dire: qui si fa teatro. Un movimento di danza che pone elegantemente in evidenza tic, nevrosi di quei personaggi che sono lì pronti a sfidarsi, a mettere in atto il loro duello con la vita e al tempo stesso sono attori che vestono i panni di personaggi, una pausa, uno sguardo d’intesa, e si va a cominciare.
Roberto Rustioni posiziona un tavolo al centro della scena e si parte con Domanda di matrimonio in cui un proprietario terriero chiede in sposa la vicina di casa e si trova alla fine con litigare sui confini delle rispettive proprietà.
Ciò che interessa in Tre atti unici non è tanto cosa accade ma come accade, come le parole di Cechov siano state trattate da Roberto Rustioni come tutto anche ne L’orso – in cui un creditore chiede ad una vedova inconsolabile di saldare i propri debiti e finisce con l’innamorarsene – ruoti intorno a questo bisogno di relazione, ad innamoramenti mancati o cercati, ma soprattutto ad una sorta di inquietudine del cuore che è a tratti comica, ma disperatamente comica.
Ne L’anniversario il quindicesimo della banca si divide fra i conti che non tornano, la moglie ubriaca del banchiere e l’arrivo di un’altra donna in cerca di lavoro… Nei Tre atti unici di Anton Cechov riscrive con assoluto rigore la partitura cechoviana, lo fa con parole di oggi ma efficaci e mai banali, affida la situazione tratteggiata nel testo a dinamiche attoriali ben calibrate, un corpo a corpo che fa sorridere e un po’ inquieta. C’è un ansia di relazione, c’è un vuoto solitario che si fatica a riempire e che tiene in sospeso l’azione, anche laddove la caratterizzazione della figura del personaggio – eccitate e nevrotiche le due attrici – confina con la caricatura, il sorriso, la comicità arrivano ma si finisce col sorridere o ridere a denti stretti perché in quell’essere buffo, nell’ubriacatura della moglie, nell’impacciata timidezza dell’aspirante sposa c’è qualcosa di irrisolto, di inquietante, c’è l’ombra non troppo velata della delusione. Roberto Rustioni lavora con intelligenza sui ritmi e respiri di una recitazione secca, incisiva, vera, laddove la verità è costruita con stridente ossimoro con il disvelamento dell’atto teatrale, con quel prepararsi alla sfida dei sessi.

Tre atti unici da Anton Cechov, traduzione e adattamento Roberto Rustioni; ideazione e regia Roberto Rustioni , dramaturg Chiara Boscaro;
consulenza Fausto Malcovati con Antonio Gargiulo, Valentina Picello, Roberta Rovelli, Roberto Rustioni;
assistente alla regia Luca Rodella;
movimento e coreografie Olimpia Fortuni
AssociazIone Teatro C/R – Fattore K – Olinda, Casalmaggiore Teatro Comunale, 26 settembre 2013.

 

Voci da Mombello

Locandina-MOMBELLOELENA SCOLARI | La settecentesca Villa Crevelli Pusterla, sede dell’ex manicomio di Mombello e oggi scuola di agraria,  è stata  quartier generale – niente meno – di Napoleone Bonaparte. Che ironia: lo stereotipo del matto che si crede Napoleone… eppure qui può darsi si sentisse la sua presenza passata, chissà.

100.000 pazienti in 130 anni. La struttura psichiatrica nei pressi di Limbiate, tra le più grandi d’Europa,  ha “contenuto” vite, malattie, storie, drammi, risate, follie ma soprattutto persone. Persone con voci e corpi, che la regista Paola Manfredi e i suoi attori hanno voluto rendere teatro.

Il pubblico è seduto su un’unica fila lungo la parete di un corridoio e guarda le porte davanti, porte chiuse di stanze che furono contenzione, furono luogo di illusa protezione e di presunta cura. Ora si fa buio, buio denso, si sente la voce di una donna “dov’è il reparto?”, e poi le voci degli infermieri e lo sbattere di porte, la prima porzione dello spettacolo Voci da dentro il manicomio è fatta tutta di suoni (curati da Luca De Marinis), lo spettatore è immerso in un’oscurità che fa subito pensare ad un mondo chiuso, costituito da poche cose, tutte follemente amplificate. La luce fioca di alcune spoglie lampadine (disegno luci di Andrea Violato) illumina il graduale comparire di una galleria di pazienti, non c’è distanza, sono a pochi centimentri da noi, forse sono noi, perchè se avessimo vissuto per anni con loro non sapremmo più così bene cosa ci distingue. Li vediamo agitarsi, imbambolarsi davanti alle telenovelas, cercare di fregare l’infermiere facendo sparire la pillola. Scampoli di giornate scandite da “soldi sigarette Serenase”. Qualche moneta per comprarsi qualcosa al bar, il desiderio di fumare come unico segno di libera scelta e la somministrazione del miracoloso farmaco, che tutto calma, che tutto offusca. 

La giusta scelta registica di Paola Manfredi non impietosisce, non è didascalica, non vuole spiegare. Lo spettacolo mostra un estratto documentaristico della vita in manicomio, un attento lavoro di rielaborazione dei materiali raccolti durante la ricerca su Mombello ha  prodotto un testo asciutto, non narrativo, ironico quanto basta, che Dario Villa e Loredana Troschel hanno costruito come lo svolgersi di una pellicola cinematografica, i metri del corridoio-scena sono metri di vite, fotogrammi paralleli che compongono una sequenza umana. Gli attori hanno ascoltato i racconti dei pazienti, dei medici, degli infermieri di Mombello, e si sono sovrapposti a queste figure con la trasparenza del vero, quasi annullando il filtro della recitazione.

Teatro Periferico, residenza di Cassano Valcuvia, ha saputo trovare una chiave equilibrata e forte per aprire le porte del manicomio, per parlare di una malattia che ottunde la ragione e per questo fa ancora paura.

100.000 pazienti sono una folla, folle, che è giusto ricordare.

Interpreti: Giorgio branca, Elisa Canfora, Antonello Cassinotti, Alessandro Luraghi, Laura Montanari, Raffaella Natali, Loredana Troschel, Lilli Valcepina, Dario Villa.

Tramedautore, Piccolo Teatro tra India e Nord Est italiano

guaritore

VINCENZO SARDELLI | Un patrimonio da custodire, Tramedautore– festival internazionale della nuova drammaturgia, kermesse di scena dal 13 al 22 settembre al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Quest’anno il festival, diretto da Angela Calicchio e Tatiana Olear, è stato dedicato per metà al subcontinente indiano con spettacoli teatrali, letture sceniche, musica, installazioni e film. L’altra metà della rassegna, intitolata La Giovine Italia al tempo della crisi, ha riunito dieci spettacoli italiani di drammaturghi contemporanei.

Da una parte un’occhiata al Sud del mondo, letterature e drammaturgie in via di sviluppo in ogni senso. Dall’altra una riflessione italiana, rappresentativa della crisi globale, sul fallimento del modello del Nord-Est: disoccupazione, imprenditoria imbrigliata, scelte estreme fino al suicidio.

Da riproporre, Tramedautore. Perché l’intercultura è ricchezza e destino, specie nella Milano proiettata verso l’Expo, seconda solo a New York per numero di consolati e ambasciate.

Anche da rilanciare, Tramedautore. Che non può limitarsi a contenitore generico. Non ci si ferma alle buone intenzioni di un «cammino verso una nuova idea di cittadinanza» (Sergio Escobar, direttore del Piccolo). Non basta come chiave di lettura l’improvvisata direttrice India-Nord Est italico: «la multiculturalità, quella che viene definita la nuova povertà; la caduta degli dei rispetto a un’economia forzata» (Angela Calicchio). Il teatro dev’essere incontro reale e prodotto artistico. Altrimenti diventa moralismo didascalico, come la pittura sovietica durante la Guerra Fredda.

Questo festival era privo del quid assoluto, di una proposta che rinsaldasse il tutto.

Ha deluso lo spettacolo indicato come cavallo di battaglia, quello che doveva sublimare l’incontro tra culture, arti, professionalità. Parliamo di Borderline, soggetto dello scrittore pakistano Hanif Kureishi, traduzione quadrumane dell’inglese Margaret Rose e dell’italiano Salvatore Cabras, regia dell’albanese Ana Shamataj, cast multietnico, tre scenografi, quattro consulenti, tre collaborazioni di spessore (Università di Milano, Scuola Paolo Grassi, Teatro Piccolo Orologio di Reggio Emilia). Invece mancava più di un soldo per fare una lira in questo racconto della comunità pakistana in Inghilterra ai tempi di Margaret Thatcher. Molto rumore per nulla. A partire dal testo, datato 1981. Solite tensioni sociali di sottofondo. Solito amore interetnico contrastato. Solite oscillazioni tra desiderio d’integrazione e riflussi nostalgici da cuore emigrato. Solita giornalista occidentale idealista in cerca di squarci su sofferenza e sfruttamento. Solito stereotipo degli inglesi pallidi e malaticci. Compresa quella cattivona della signora Thatcher, la cui maschera sardonica faceva capolino su grotteschi torsi maschili, ed era, ahinoi, l’unica trovata registica di rilievo. Qualche battutaccia volgare doveva servire a tirarcelo su, l’umore. Uno spettacolo davvero borderline: tutte le volte che provava a decollare rischiava d’affondare, zavorrato anche dalla recitazione parrocchiale dei giovani attori.

Meglio il teatro italiano. Come il Guaritore, bel testo di Michele Santeramo già recensito su PAC, trama di dialoghi serrati e orditi senza fiato, pantomima di sogni e deliri, di storie che s’incrociano e delineano soluzioni. Solo qualche stallo qua e là, quando i dialoghi diventano monologhi, quando le alchimie taumaturgiche del guaritore (che sana gli altri e perde se stesso) diventano un minimo pedestri.

Buono Babel City, testo dell’(italo) brasiliana Ana Candida De Carvalho Carneiro sull’Occidente in crisi, amara riflessione sul business che fagocita valori e genera solitudine, sull’intreccio di sentimenti malati e posti di lavoro che naufragano insieme a solidarietà e fratellanza. La regia di Sabrina Sinatti armonizza forme e contenuti, dosa musiche e luci. Anche se è un po’ statica la scansione delle scene. È ancora geometrica, spigolosa, con i cinque protagonisti, legati in cerchio l’un l’altro da un filo sottile, che compaiono in sequenze a due a due sulla scena. Vanno aumentate le foto, proiezioni non didascaliche, sullo sfondo. Vanno rifiniti cambi d’abito e mimica, danza ed elementi surreali. Si può rendere la pièce più dinamica caricando il registro grottesco, rimpolpando nella colonna sonora quel po’ di rock capace di dare la scossa. Sono dettagli, la materia prima c’è.

Chiusura in bellezza con Senza Niente dei mantovani di Teatro Magro. I due monologhi di Marina Visentini (Il Presidente) e Andrea Caprini (L’Amministratore), con la regia di Flavio Cortellazzi, sono intensi e vibranti. La comicità è intelligente, si riempie di variazioni e citazioni d’autore, unisce fiaba e cronaca. Denuncia con vivacità il desolante panorama del teatro contemporaneo italiano, la crisi della Cultura, l’assenza di risorse economiche, la latitanza delle istituzioni e dello stesso pubblico (pagante). Non latitano, invece, fantasia e abilità attoriale dei protagonisti.

Tramedautore: speriamo, l’anno prossimo, di ripartire da questo livello.

Mondocane#18 – Storie di ordinario Bene Comune

Anna Magnani vista da Renzo Francabandera
Anna Magnani vista da Renzo Francabandera

MARAT | David Foster Wallace mi sta torturando. Lo fa da troppo tempo. Eppure lo intervallo con qualsiasi cosa: Simenon, Emma Dante, Walter Siti, AlVolante. Ma non serve a niente. Ammetto che scrive bene. Ma c’è anche questo giochetto di non raccontarmi mai come vanno a finire le cose. Una buona idea. Ma che un po’ mi dà noia. Comunque io volevo parlare del Valle, il Bene Comune di cui sono proprietario giù a Roma. Dopo una colletta me l’hanno fatto diventare una Fondazione, che di solito è una parola che si associa ad altre parole. C’è stata una festa e io credo che tutto questo sia molto bello. Nel senso, che non potrei proprio dire diversamente. Chi mi aveva mai dato un teatro prima d’ora? E poi c’è questa cosa che i ragazzi sono tutti compagni e non si parla mai male dei compagni. È una regola non scritta. Che poi sembra che stai lì a rosicare. Che loro c’hanno la tua età e ancora possono apparecchiare rivoluzioni, pomiciare nei sacchi a pelo. Questo concetto poi del Bene Comune è bellino, niente da dire. Eppure… eppure finisce che il Valle non lo sento mio. Al contrario di tanti teatri in cui non sono nemmeno stato. Teatri in cui vedo tagliare il personale perché non sanno come pagare gli stipendi, i contributi, le tasse. Che siano loro il mio Bene Comune? Teatri che fanno i salti mortali per ospitare quegli stessi artisti che vanno gratis (o quasi) al Valle. La coerenza dev’essere una caratteristica del pensiero debole. Teatri che non danno per scontato che qualcuno paghi loro le bollette. Che mi suona un po’ come a 14 anni quando dai per scontato che la roba sporca torni pulita e piegata nei cassetti. O forse non lo sento mio perché ho il carattere fumino. E quando leggo che il Valle è cosa buona e giusta perché ci sono dei ragazzi che fanno qualcosa, mi parte l’embolo. E mi parte anche quando sento dire che forse (forse) alcune cose sono opinabili, ma comunque c’è chi fa peggio. E quindi zitti e mosca. Ecco: a me questa cosa mi dà proprio noia. Ma allo stesso tempo mi accorgo che è una grande idea. Perché così posso scendere di casa e prendere la prima macchina che mi piace. Un furtarello. Ma vuoi mettere con quello che fanno gli altri? E poi la tassa sui rifiuti non la pago. Anzi, getto tutto dalla finestra, tanto con quello che fanno nelle discariche abusive, vuoi mettere? E poi è tutto un magna magna, sta gente fa un cazzo, non se ne salva uno. Ecco, per dirla alla romana, come argomentazione a me pare un po’ paracula. E ora capisco perché mi è venuto in mente Wallace, lassù all’inizio: è (stata) una grande idea. Ma ora il Valle mi dà proprio noia.

Greco e Dubois a Torinodanza 2013: la complessità del danzare oggi

ElegieGIULIA MURONI | Fuori dalla crisi con uno sguardo verso l’esterno che oltrepassi gli orizzonti stagnanti e i tavoli da gioco protetti dai confini del territorio. La formula di Gigi Cristoforetti, direttore artistico del Torinodanza Festival, si esprime in una trasformazione dell’identità del festival nell’ottica di un progetto dal respiro europeo.  Le numerose collaborazioni e la speciale connessione con Lyon hanno creato un terreno solido su cui costruire un comune sentire sociale e artistico. L’inaugurazione di venerdì 13 alle Fonderie Limone a Moncalieri si è articolata in due parti: lo spettacolo dell’italiano Emio Greco e “Elégie” del francese Olivier Dubois, entrambi messi in scena dal Balletto di Marsiglia.
Il coreografo pugliese, insieme a Pieter C. Scholten, ha lavorato in occasione di Marsiglia Capitale Europea e “Double points: Extremalism” e mostra a più riprese e con differenti linguaggi la città francese. Il pubblico in sala è accolto dalla proiezione di fotografie di scorci differenti della città, sulle note della Marsigliese. La presenza dei danzatori e dello stesso coreografo nelle immagini va a sostituirsi alla presenza concreta, carnale dei performer che animano la scena con una danza ricca e rigorosa. Un piano cadenzato di luci e ombre, il tappeto sonoro con la Marsigliese originale e reinterpretata, le chitarre elettriche, le dissonanze dell’organo, i costumi bianco cangiante e le giacche preziose sono i tasselli di un  racconto scrupoloso che non affida nulla al caso. I movimenti degli interpreti, di solida formazione classica, vengono sfrondati da ogni lirismo e leziosità ballettistica per formare un codice puro e asciutto, nell’ottica di un ritorno ai valori propri della coreografia, che sembra rivendicare la sua completa autonomia su ogni linguaggio.  Questa costruzione formale del movimento ha l’intento dichiarato di indagare l’esperienza della carne con rigore minimale, da cui il titolo “Extremalism”.

Olivier Dubois, da gennaio direttore del Centre Chorégraphique National di Roubaix, si è ispirato alle elegie di Rilke per la sua creazione intimista e melancolica. “Elégie” è guidato da un’intuizione portata con coerenza fino alla fine. La scena si svolge dentro gli assi di una scenografia-gabbia . Avvolta nell’oscurità emerge una figura seminuda che si dimena su dei corpi, nascosti per intero. Sagome che, come un organismo unico, si plasmano in forme mutevoli, per attaccare e sostenere il corpo che li cavalca. Un fascio di luce dall’alto illumina le movenze del performer che si barcamena nel mare di corpi in tempesta.  Da principio è un danzatore ad avere questo ruolo, ma lo spettacolo si riavvolge su se stesso e inizia nuovamente. Questa volta però è un corpo femminile a subire-agire la calca informe dei corpi. Se da una parte la dinamica di genere sembra dare dei significati differenti a quel medesimo ruolo, d’altro canto il pubblico sembra avvertire una certa insofferenza per la durata dello spettacolo. Ciononostante gli interpreti del Balletto di Marsiglia hanno ricevuto un riscontro assai caloroso in termini di applausi.

L’edizione 2013 di Torinodanza parte con due spettacoli pregevoli, in cui la centralità del linguaggio dettato dai corpi ha evocato atmosfere molto differenti: se il primo si è delineato come un’astratta evocazione di Marsiglia, l’altro ha dato vita a un racconto angosciante e monocorde con un’eco biblica di sottofondo. Forse non è stato a nostro parere l’inizio “cangiante” auspicato, per via dello spessore formale e a tratti scarsamente intellegibile delle due proposte, ma comunque un’apertura che lascia intuire il tentativo di proporre ragionamenti robusti sul ruolo della proposta coreografico-coreutica nel nostro tempo.

Un video su DOUBLE POINTS: EXTREMALISM – Greco / C. Sholten
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=LJaEG-m-42g&w=560&h=315]
ÉLÉGIE – Olivier Dubois | Ballet National de Marseille
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=MpIBZxMJFmw&w=560&h=315]

Mondocane#16+1 – Il lavoro culturale

Luciano Bianciardi visto da renzo francabandera
Luciano Bianciardi visto da Renzo Francabandera

MARAT | “Marat, che facciamo oggi?”
“A Milano non c’è un’anima. Che ne dici di presentare tizio al festival senonseihipsterpuoianchestareacasa?”
“E chi è?”
“Non è male. Dieci anni che fa teatro, l’ultimo lavoro mi ha emozionato”.
“È quello che ha fatto quella cosa in tv?”
“Quale?”
“Non so, mi ricorda qualcosa”
“Credo non abbia la tv nemmeno a casa”
“Uhm… Come hai detto che si chiama che ne parlo col direttore?”
“Tizio”.
“Pizio?”
“No, tizio. Ma non ti è arrivato il comunicato? La bionda dell’ufficio stampa ne manda uno ogni due ore”
“Ma è quello che fa quella cosa con quelli che mangiano?”
“Gente che mangia?”
“Sì, tipo che ti fa ridere mentre ti fa la lasagna, presente?”
“…”
“Deve essere un altro. Ma dov’è, a Sesto?”
“No, al festival senonseihipsterpuoianchestareacasa, l’abbiamo presentato in apertura la scorsa settimana”
“Ma secondo te da Milano ci vanno?”
“Boh, me lo auguro”
“Non so. Sai Marat è estate, questa roba intellettuale. Se riprendessimo invece quell’idea di sentire Gianfranco D’Angelo sui suoi progetti per la prossima stagione? Gli anni Ottanta funzionano bene”.
“Il Tenerone?”
“Massì, una cosa un po’ brillante, balneare”.
“Perché non Tinì Cansino?”
“Sì, cose così. Poi con te la gente parla”
“E con tizio che facciamo?”
“Io comunque ne parlo al direttore. Sai che se fosse per me… Ti chiamo dopo la riunione”
Vita (redazionale) vissuta. Ogni giorno fingo che tizio mi interessi più d’ogni altra cosa al mondo. Che le scelte non vengano fatte in base alle foto, alle amicizie, alla pigrizia. E intanto mi racconto che questa sia anche una sorta di battaglia per il bello, per l’arte, per il nuovo. Ma la prossima che mi chiama per parlarmi dell’imprescindibile poeta in dialetto comasco che legge i Promessi Sposi in culonia e poi si sorprende che non sia in pagina… beh, sai che c’è? Che io con la Tinì mi ci farei pure la foto insieme, come i pizzaioli. Dopo averle domandato se preferisce dormire nuda o con un pigiama da uomo. Cose così. Da Lavoro Culturale. E speriamo che Bianciardi non mi senta.