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domenica, Settembre 8, 2024
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Teatri di Vetro 2013: le visioni degli artisti possono aiutarci a superare la crisi odierna

tdvetroLAURA NOVELLI | “Io non ho paura”: ricorda il titolo di un celebre romanzo di Niccolò Ammaniti il filo conduttore tematico che lega insieme le diverse proposte messe in campo da Teatri di Vetro 2013 e che Roberta Nicolai, direttrice artistica della vetrina romana, ha scelto per raccontare uno spaccato di nuova creatività italiana, figlia giocoforza della crisi attuale ma anche capace di aprire prospettive di riflessione sul mondo di domani.
Il ricco programma di questa settima edizione, al via domenica 21 e con eventi fino a martedì 30 dislocati in diversi spazi della capitale (teatro Palladium, Centrale Preneste, Forte Fanfulla, Fonderie Digitali e lotti del quartiere Garbatella), non risparmia nessun ambito della creazione contemporanea e anzi, a fronte di risorse economiche pressoché dimezzate, rafforza il suo legame con l’oggi aprendosi a nuove forme espressive: installazioni site-specific, arti visive, audio-documentari, video-arte (comprensiva di video-danza e video-teatro), performance, percorsi musicali sospesi tra digitale e analogico si insinuano tra scritture coreografiche e operazioni specificatamente teatrali che – e qui sta forse la scommessa più stimolante della vetrina – entrano in dialogo con le costole più nuove e sperimentali del cartellone per chiedere allo spettatore, tutte insieme e tutte con pari autorevolezza, di porsi delle domande, di ascoltare le sue necessità, di interrogarsi sui suoi bisogni culturali.
“Ogni anno – spiega Roberta Nicolai – mi propongo di indagare il contemporaneo inteso come un luogo in cui coesistono molteplici modi di pensare e rielaborare la realtà. Quando io e gli altri curatori della vetrina selezioniamo i progetti da inserire nel cartellone, ciò che cerchiamo di ritrovarvi non riguarda solo la praticità del fare artistico ma anche, e direi soprattutto, il senso teorico di un’indagine, di un percorso di pensiero e di conoscenza. Personalmente, entro in contatto molto stretto con gli artisti che sostengo, li curo da vicino, cerco di conoscerli bene. Poi ovviamente devo scegliere, selezionare e lo faccio prediligendo sempre quelle operazioni che, a prescindere dal fatto che siano già approdate ad una forma finita o viceversa ancora in fase embrionale, hanno provocato uno spostamento, anche lieve, del mio pensiero. Penso infatti che, tanto più in questi tempi di angoscia e di crisi, chi crea debba pretendere dal pubblico l’attitudine ad un’indagine, la voglia di fare un’esperienza, di interrogarsi sulle necessità proprie e dell’artista stesso. Non mi interessa cioè l’arte come semplice oggetto commerciale, cibo da consumare e digerire”.
Consiste dunque in questa vigile attenzione verso il reale ma anche verso il pensiero che progetta e immagina il futuro (“quando Strehler fondò il Piccolo di Milano, non ebbe forse una visione? E non sono stati forse visionari tutti i padri fondatori del teatro del Novecento?”) la battaglia contro la paura, personale e collettiva, che il teatro e l’arte in genere possono intraprendere in momenti duri e difficili come quello attuale. “Abbiamo scelto Io non ho paura perché è uno slogan espresso in prima persona, ci chiama singolarmente alla responsabilità della scelta. Se non ci mettiamo in testa, noi artisti, operatori, critici, intellettuali di cambiare, di ascoltare le trasformazioni in atto nel mondo reale, di riformulare le nostre possibilità e i nostri ruoli, rischiamo di diventare sempre più marginali”.
Ciò significa ovviamente riformulare anche i codici estetici, le definizioni di genere, i confini di “parentela” tra arte e arte. “Non credo che oggi noi possiamo chiamare teatro solo ciò che è sempre stato teatro. Credo anzi che nella contemporaneità anche un video o una performance possano entrare di diritto nella definizione, o possano almeno confondere le acque al punto di stimolare una riflessione a riguardo. Dipende, appunto, da cosa quell’opera cerca di dirmi come spettatore, quale necessità esprime o intercetta”.
Mettiamoci dunque in ascolto di “opere” come, ad esempio, gli sconfinamenti nel tessuto urbano previsti dal contenitore Overlab Project e dalla tappa finale della maratona studentesca tra le “paure” dei cittadini, Across Lightblack il titolo, ideata da Dynamis teatro. Cerchiamo di interpretare la necessità di un artista come Filippo Berta, cui la rassegna dedica una personale, o di una cronista come Ornella Bellucci, curatrice di tre reportage giornalistici pensati per un ascolto live.
E lasciamoci ovviamente sollecitare dalla ricca programmazione drammaturgica, assemblata anch’essa secondo un’ottica di fluida contaminazione tra linguaggi e forme: Andrea Cosentino approfondisce lo studio “Not here, not now” già avviato in seno al laboratorio Perdutamente del Teatro di Roma; “La società” si intitola invece il lavoro della compagnia Musella/Mazzarelli che, sorretto da una scrittura solida e concreta e da una recitazione quasi cinematografica, arriva a Roma prodotto dallo Stabile delle Marche; Carrozzeria Orfeo figura in cartellone con “Robe dell’altro mondo”, produzione già molto apprezzata da pubblico e critica che affronta le paure metropolitane in chiave fumettistica e grottesca, mentre la giovane formazione Leviedeifool rilegge in modo assolutamente originale il capolavoro di Collodi e, in “Requiem for Pinocchio”, confeziona uno spettacolo sovraesposto che viaggia su piani diversi. Pari interesse suscitano poi “Grattati e vinci” di Quotidiana.com, “Col tempo” di Clinica Mammut, “Religions – 1.studio” di Farmacia Zooe’ e la lettura scenica, a cura della compagnia Biancofango, di “Las Vegas” di Tobia Rossi, testo vincitore del bando Urgenze.
Questo è tuttavia solo un timido assaggio di quanto programmato. Vi consigliamo perciò di consultare l’accurato catalogo on-line sul sito (ma anche www.teatridivetro.it e www.romaeuropa.net/palladium) e di seguire più eventi possibile. Portando sempre con voi alcune domande centrali: cosa mi sta dicendo questo artista? Cosa mi sta chiedendo? Come e quanto sta spostando il mio pensiero? Che tipo di esperienza sto facendo?

Mondocane#4 – L’insostenibile leggerezza dell’artista

MOndocane 4MARAT | Ho un’amica borderline. Tutti hanno (almeno) un’amica borderline. E se non la si riconosce, probabilmente siamo noi gli amici borderline, come il pollo al tavolo da poker. Comunque di solito è facile: alla prima chiacchierata, trovano presto il modo di parlare del loro analista. La mia amica borderline ovviamente fa l’attrice. Perché c’è questa cosa strana al mondo per cui se fai un mestiere artistico, ogni cosa ti è più o meno permessa. Quindi se fai l’attrice, hai diritto di scassare la balle al mondo intero. Perché sei fragile, sei sensibile, sei delicata, sei paolograssina. Sei creativa, sei in un rush creativo, sei in crisi, sei in un periodo inquieto, ti senti (ir)risolta, fai colazione con l’insofferenza, vai a letto con l’ansia. Al femminile perché la mia amica è (appunto) un’amica.
Ma il corrispettivo maschile è identico. Solo un pochetto più sul maledettismo rock’n’roll baudelairiano esistenzialista adolescenza forever di ‘sticazzi. Quindi più droghe e meno farmaci, nottate alcoliche, logorree da poetastri, la mitologia del maledetto, la mitologia del “non è che non ce l’ho fatta, non ce l’ho voluta fare”, una donna ogni sera (poi scopri che stanno con la stessa dalle lezioni di analisi logica delle medie), la domenica in barca a vela e i lunedì al Leoncavallo.
“Come campi?” chiedeva Moretti e mi chiedo io ogni tanto. Con tutto l’affetto, s’intende. Che il ristorante lo offro uguale senza paturnie. Ma più che altro poi mi vengono in mente quelle amiche (e quegli amici) fra tecnici, organizzatori, uffici stampa che paiono mangiarsi il mondo per correre da un appuntamento all’altro. Si spupazzano il pupo e nel frattempo trastullano il partner. Perdono gli occhi a ritoccare comunicati, il cellulare sorta di protesi cyberpunk acceso 24 ore su 24, sette giorni su sette. Come un alimentare libanese. Aziendalisti per missione, martiri per contesto socio-politico e allineamento degli astri, che non s’allineano mai come dovrebbero. Se loro cominciassero a lamentarsi sul serio, sarebbe davvero l’apocalisse. Altro che scioperi del lunedì sera… Forse per tenerli buoni si potrebbe almeno invertire l’ordine nelle locandine. Se proprio non li si vuole pagare dignitosamente, almeno dar loro un po’ di visibilità. Sperando poi che non si scoprano fragili pure loro.
Che non sentano la necessità di un analista. O di un giro in India. A ritrovar sé stessi. Ed esportare piadine romagnole.

Marta Paganelli porta in scena la vita, i sogni e la morte di Rachel Corrie

martaVINCENZO SARDELLI | Fa piacere vedere il tradizionale un po’ obsoleto teatro di narrazione rigenerato da una fluida crema antigeriatrica. L’operazione di restyling è riuscita alla pisana Marta Paganelli, che ha portato in scena al teatro I di Milano “Mi chiamo Rachel Corrie”, monologo tratto dagli scritti di Rachel Corrie, volontaria 24enne uccisa il 16 marzo 2003 da un bulldozer israeliano a Gaza. Lo spettacolo ha vinto lo scorso anno, ex aequo con “Il protagonista” di Tec Teatro, la Borsa Teatrale Anna Pancirolli.
Anna Pancirolli, scomparsa nel 2000 a 24 anni, credeva nel teatro come antidoto vitale. Combatteva la propria malattia partecipando a un laboratorio al Crt. L’associazione che porta il suo nome (www.amicidianna.it) è nata per «far diventar realtà i sogni di altri giovani che credono nel teatro come medicina dello spirito».
Anna e Rachel condividevano una forte carica idealista. Credevano nell’arte, nella bellezza, nella possibilità per ciascuno di noi di incidere un poco nel mondo rendendolo un posto migliore. Anna amava il teatro come forma espressiva identificante, come scavo alla ricerca della felicità. Rachel credeva nei diritti civili, nella politica come lotta per bucare il silenzio che ci circonda.
“Mi chiamo Rachel Corrie”, coniuga anima artistica e giudizio civile. Tratto dai diari della giovane pacifista americana, curati nella versione teatrale da Alan Rickman e Katharine Viner, con la traduzione di Monica Capuani e Marta Gilmore, lo spettacolo si serve di simboli cari a Rachel. Felpa e jeans, Marta Paganelli, attrice e regista in scena, si muove con semplicità tra due sedie, una poltrona, uno zaino da viaggio, pagine di diario, una kefiah, davanti a un pannello rosso con appese delle foto. Dalle estemporanee vibrazioni di chitarra eseguite dal vivo da Adriano Russo si materializzano le note, a sprazzi incalzanti, dei Magnetic Fields, gruppo Indie-rock amato da Rachel.
Il monologo si articola in due parti. Nella prima una Paganelli descrittiva, con la sua tagliente dizione “sporcata “di toscano, rievoca la fanciullezza geniale, divorante, schizzata, istericamente disordinata di Rachel. È una giostra psicotica da cui emerge il guazzabuglio d’idee del personaggio che si racconta, il fuoco che le ardeva in pancia, ben reso dagli occhi sgranati e dal ghigno dell’attrice, capace anche di cocenti acuti canori.
Entriamo nel mondo sognante di un’adolescente denti-aguzzi, occhi-a-spillo e speranze; ne esploriamo gli amori, le utopie, con quel po’ d’autoironia che l’attraversava costantemente.
Seconda parte. Lo zaino si riempie di tutto quanto era sparpagliato sul palco, la kefiah viene indossata, il pannello rosso ruota di 180 gradi e diventa una lavagna. Marta-Rachel vi segna con un gessetto a una a una le date cruciali delle ultime settimane di vita: da quel 25 gennaio 2003 quando si unì all’International Solidarity Movement (l’organizzazione finalizzata a “sostenere la resistenza non violenta del popolo palestinese all’occupazione militare israeliana”) al 16 marzo 2003, quando morì schiacciata da un bulldozer israeliano mentre cercava d’impedire la demolizione di abitazioni palestinesi.
Le atmosfere si fanno grigie. È l’incolore della guerra, dei profughi, delle torrette, dell’Intifada contro i carri armati. Sono le sfumature livide dei morti, dei bambini di otto anni così consapevoli degli orrori della vita, degli uomini che vivono l’angoscia costante della distruzione. È il silenzio della voce di Rachel.
Percepiamo in questo spettacolo il senso di una giovane vita e di un benessere strangolati.
Le lacrime di Marta sulla scena sono le lacrime di Rachel, ferita di quanto orrore si riesce a sopportare nel mondo. Rachel sognatrice come Che Guevara. Rachel realista più di Anna Frank nella disincantata riflessione pre-mortem: “Sto mettendo in dubbio la mia fiducia nella natura umana”.
Marta Paganelli si immedesima. Si appropria del testo. Si avvicina fortemente a una credibilità complessiva da autorizzare a pensare che ciò che porta in scena faccia parte del suo mondo interiore.

Helmut Newton. La forza della seduzione.

Nude e VestiteMARIA CRISTINA SERRA | La celebre fotografia, scattata per Vogue nel 1981 “Les Nus et le Vetus”, in duplice versione, in cui le quattro modelle avanzano verso gli spettatori come moderne valchirie wagneriane, prima svestite, ondeggiando sui tacchi a spillo, poi indossando con nonchalance morbidi abiti YSL, è emblematica dello stile e del sentire artistico del grande fotografo di origine tedesca Helmut Newton. Di come il suo occhio irriverente da “voyeur professionista” ha riscritto i vecchi codici estetici imbalsamati, rivoluzionando la foto di moda negli anni’70. Non più un sogno da vendere, impresso sulle pagine patinate delle più importanti riviste di settore, ma fantasie da rielaborare, sulle quali imbastire sogni in libertà. “Una buona immagine di moda”, sosteneva, “non deve assomigliare ad un ritratto, ad un cliché di paparazzi, ad un souvenir, deve avere un tocco di volgarità, che la renda più eccitante del cosiddetto buongusto che altro non è che la normalizzazione dello sguardo. La moda, per me, non è un’illustrazione, ma un’idea da mettere in scena”.
Il suo è un mondo totalmente liberato dalle convenzioni moraleggianti, dai conformismi e dalle ipocrisie e, nello stesso tempo, è pieno di ambiguità e di complessità esistenziali; dominato dal fascino per la bellezza, attratto dal potere della seduzione femminile, fonti inesauribili per il suo processo creativo e il suo immaginario erotico, come filtro di elaborazione per coniare un linguaggio fotografico fantastico, che attinge al reale.
“Io sono una persona molto pura”, diceva di sé , quasi sussurrando con voce gentile, respingendo le accuse delle femministe tedesche che di fronte alle immagini più audaci lo accusavano di pornografia. “Quello che è impresso nel negativo è solo ciò che è presente nella realtà. Il vero erotismo per me è il contrario del nudo integrale; non è espresso dal sesso, ma dal viso”. La mostra “Helmut Newton-White Women, Sleepless Nights, Big Nudes”, allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma (fino al 21 luglio), è una buona occasione per ammirare la sua opera attraverso una selezione di oltre 200 scatti, tratti dai suoi primi tre libri e sgombrare così la sua arte dai tanti luoghi comuni che l’hanno accompagnata. E’ il “fascino segreto della borghesia” ad occupare la scena, così come lui l’ha catturata e ritratta col suo obiettivo, senza veli, rivelandone i desideri e le pulsioni più segrete, gli angoli più nascosti, sottraendola a inutili pudori, adornandola di sottile, raffinata ironia. ”Sempre coerente con la mia cattiva reputazione, senza la pretesa di nascondermi dietro spiegazioni complicate. Io non ho mai raccontato la società nel suo insieme, ma solo il mondo dei ricchi e le loro relazioni”.
Una sincerità disarmante che ci permette di mettere a fuoco un aspetto della sua personalità e della sua biografia, costellata di capitoli intricati come un romanzo, mentre osserviamo la straordinaria forza espressiva e stilistica delle sue foto che il passare del tempo ha reso ancora più belle. Lo scandalo c’è solo negli occhi di chi lo vuole vedere, di chi non riesce a comprendere che le parole e le forme di espressione di un artista, se sincere, mostrano verità nascoste e scomode. Davanti ai suoi bianco/neri contrastati, scolpiti dal gioco sapiente delle luci, si ha la sensazione di trovarsi al cospetto di una scenografia viscontiana, dove ogni dettaglio è studiato alla perfezione e nulla è superfluo.
E’ la sua cultura di uomo del Novecento, figlio dell’alta borghesia ebraica tedesca (Helmut Neustadter era nato nel 1920 a Berlino), cresciuto fra sollecitazioni letterarie, avanguardie artistiche e reminescenze ottocentesche, ad affiorare fra le righe delle sue eleganti composizioni. Radici ed identità che si spezzarono definitivamente nell’inverno del ’38 per sfuggire alla razzia nazista, lasciandosi alle spalle il ricordo di Berlino, luogo dell’anima e di sogni perduti, la dolcezza di sua madre e le tinte pastello dei suoi abiti di satin. Poi la fuga in Australia, l’incontro con June (futura Alice Spring), la passione per la fotografia noire e metropolitana di Weegee, il ritorno in Europa e la consacrazione a Parigi.
Sono la luce cruda, la composizione elaborata, i forti contrasti in perfetto equilibrio fra di loro, la messa a fuoco dei particolari dal forte potere evocativo e simbolico a caratterizzare il suo stile, che negli anni andrà sempre più levigandosi, mantenendo la sua scrittura inconfondibile e inimitabile. I sentimenti restano sempre esclusi dal campo visivo. L’emozione, la tensione e la voluttà scorrono fluidamente come sequenze cinematografiche dal finale aperto. I vicoli deserti rischiarati dai pallidi lampioni fanno da cornice ai giochi di ruolo delle mannequin di Saint Laurent, in abiti scollati e smoking nero, simbolo di emancipazione e manifesto di un’epoca: come la pubblicità hard di Hermés, con una sella posata sulla schiena della modella inginocchiata sul letto.
Spregiudicatezza e sfida alle convenzioni; gusto per l’estremo, come fattore di vitalità.
L’eterno gioco delle apparenze e delle scomposizioni scolpite dalla luce nei suoi nudi anni ’80, ci fanno pensare alla “Venere allo Specchio” di Velasquez. La naturalezza delle pose colte nell’intimità, ai disegni di Degas. I suoi ritratti di donne tenere, inquiete, misteriose, abbandonate fra i cuscini di saloni dai toni ovattati, rievocano la pittura concreta e sublime di Manet. Specchiere e lampadari sono determinanti per definire le proporzioni dello spazio e colmano di ossessioni e di significato gli angoli vuoti. ”Mi piacciono i lampadari che vengono fuori dalla testa delle persone. Li trovo divertenti. Io non penso mai al gioco grafico o se ci penso è per evitarlo”. Le sue donne, prive di tabù e padrone del proprio corpo, davanti al suo obiettivo scoprono le pieghe del loro animo, le fragilità e le zone d’ombra. Catherine Deneuve è un’eterna, disarmante, ”Belle de Jour”. Charlotte Rampling un’enigmatica femme fatale. Madonna una rockstar travestita da “Angelo azzurro”. June, la sigaretta tra le labbra e il vestito scostato sul seno, accende un fiammifero nella notte, appagata dopo una cena appena consumata. Il suo autoritratto del ’81, con l’impermeabile sgualcito e le sneakers ai piedi, è un cammeo incastonato e riflesso nello specchio dentro lo studio di Vogue in Place du Palais-Bourbon. “Tutto quello che si vede fa parte della mia vita: la mia macchina fotografica, la mia modella di nudo preferita, mia moglie June divertita. Questa è una foto autobiografica. E’ un buon esercizio. Ogni foto lo è”.

Proponiamo due video su Helmut Newton e la mostra romana:

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=9Bgr91U058Q]

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=s_v1ChMnQfs]

PAC partecipa alla Giornata nazionale di C.Re.S.Co.

crescoLa 2° Giornata Nazionale C.Re.S.Co., fissata per il 20 aprile 2013, ha un cuore: il Laboratorio (permanente) sul contemporaneo, una pratica che parte dal pensiero degli artisti sul fare artistico, esplora una metodologia, confronta la scena con le altre arti e pone gli artisti della scena in dialogo con altri artisti intorno ai temi della creazione.

La giornata del 20 aprile, attraverso eventi singoli inseriti in una mappa plurale, mette al centro il pensiero artistico esistente rendendolo evidente all’interno di un grande evento nazionale, e stimola un nuovo pensiero, ritirando ogni delega, ridando parola agli artisti e chiedendo loro di sospendere  momentaneamente le discussioni rivendicative e politiche, per guardare alle poetiche, anch’esse fortemente politiche, ai linguaggi, al fare artistico sia esso solitario o di gruppo.

In data 20 aprile Cresco attiverà in ogni regione italiana una serie di attività congiunte.

 Nelle varie regioni sono stati interpellati artisti e operatori culturali che hanno elaborato una relazione a partire da specifiche domande. Gli elaborati saranno lo spunto da cui sviluppare una riflessione, un dialogo aperto e informale tra tutti gli artisti che vorranno partecipare numerosi alle tavole rotonde.

PER PAC Renzo Francabandera parteciperà con un intervento alla giornata in Sardegna con un collegamento via Skype alle ore 10,30 e a seguire modererà con Edgardo Bellini la tavola rotonda del Piemonte ad Avigliana (Torino), di cui riportiamo il programma sintetico

SABATO 20 APRILE 2013
dalle 11.00 alle 18.00

 Teatro Fassino di Avigliana (To) – TEATRO ABITATO
TEATRO: ARTE DEL PRESENTE – LABORATORIO (PERMANENTE) SUL CONTEMPORANEO
GIORNATA NAZIONALE C.Re.S.Co.
Coordinamento Realtà della Scena Contemporanea

PROGRAMMA SINTETICO DELLA GIORNATA IN PIEMONTE:
MODERATORI – I CRITICI RENZO FRANCABANDERA E EDGARDO BELLINI

11.00 – 11.30  -SALUTI 

  • Come si intrecciano etica ed estetica nel lavoro d’attore? BELLE BANDIERE  -11.30 – 12.30
  • Creazione: urgenza di cosa dire versus necessità del come farlo” CASTALDO – 12.30 – 13.30
  • Perchè voglio incontrare gli spettatori oggi? DI MAURO 13.30 – 14.30
  • PAUSA 14.30 – 15.30
  • Basi neurofisiologiche dell’arte performativa IVALDI 15.30 – 16.30
  • Teatro di Regia alle soglie del terzo millennio. BRIE 16.30 – 17.30
  • CONCLUSIONI 17.30 – 18

“Delirio a due”: l’impietoso carnage di coppia di Belle Bandiere

delirio-a-due_foto-di-patrizia-piccinoVINCENZO SARDELLI | Il teatro è una strana alchimia. Perché uno spettacolo sia riuscito occorrono un bel testo, dei bravi attori, una buona regia, e quel mix di dettagli tutt’altro che secondari che sono scenografia, musica e luci.
A volte, senza strafare, questi ingredienti sono splendidamente condensati in quell’ora di pura astrazione che è uno show ben orchestrato. È il caso di “Delirio a due”, di Eugène Ionesco, alla cui anteprima abbiamo assisto al Binario 7 di Monza nell’allestimento di Belle Bandiere, con la traduzione Gian Renzo Morteo.
Astratta, più che assurda, è questa messinscena che sottolinea la moderna struttura dell’antidramma di Ionesco. Astratta è la scenografia, impostata su sfumati in bianco e nero e incorporee venature di rosso su oblique geometrie rettangolari; astratti sono i fasci e coriandoli di luce proiettati sul nero da una sfera di quadrettati specchietti stile disco-music anni Ottanta; astratti sono i lampi che scolpiscono nel buio l’immateriale fisicità del viso e dei gesti dei due attori, Elena Bucci e Marco Sgrosso (hanno curato anche regia, costumi e scene) traslati di una Lei e di un Lui qualunque; astratta è la musica che dà il la alla pièce, inganno di ticchettii e sequenze d’archi. Astratta, infine, è la trama: Lei e Lui, banalmente normali, banalmente infelici, banalmente insoddisfatti, vicini e distanti, trascorrono la vita rinfacciandosi futilità di ogni genere: calunniandosi, rimpiangendo passate illusioni e sogni traditi. Al loro grottesco carnage fa eco il tremendo controcanto di una guerra molto più materiale, che sgretola muri e catapulta sulla delirante lite di coppia calcinacci, bombe e avanzi di cadavere.
Insieme all’astrazione è la contrapposizione la griffe di questo spettacolo cui hanno contribuito Raffaele Bassetti (drammaturgia del suono); Loredana Oddone (luci); suono Raffaele Bassetti; Giovanni Macis (direttore di scena); Claudio Ballestracci (lampade di scena); Marta Benini (sarta); Patrizia Piccino e Enrico Nensor (foto).
Continui e repentini cambi d’abito preludono a conformi cambi d’identità. Il presente meschino è contrapposto a un passato non meno meschino, ma trasfigurato dalla deformante lente di ricordi, rimpianti, dispetti e rancori. Musiche da commedia sentimentale, arie da chansonnier stile Aznavour, Trenet, Piaf, creano il “Cielo in una stanza”, paradossale sfondo alle scoppiettanti effusioni di rabbia. Eclissi e scintille, danze nevrotiche, battute sagacemente irrazionali, enfatizzano la comicità surreale di questo mondo capovolto.
Lei e Lui sono metafore di un’umanità intirizzita e ottusa, in grado di rimuovere con tenebrosa spigliatezza la più brutale barbarie.
Elena Bucci e Marco Sgrosso recitano con vivace realismo, con l’ossessiva ripetizione degli stereotipi del vivere quotidiano, dei luoghi comuni che sclerotizzano la parola e rendono impossibile la comunicazione. In “Delirio a due” la conversazione è frantumata in brandelli impazziti, con un esito di vero e proprio caos.
La libertà delle parole invade la scena in una successione affollata e illogica. È l’esasperazione del concetto di incomunicabilità tipico di tutti i testi dell’assurdo, che qui si traduce in un divertente e impietoso ritratto di ordinaria disumanità.

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Lo spaesamento dell’uomo contemporaneo: ancora un Beckett per Mauri e Sturno

beckettmauriLAURA NOVELLI | Glauco Mauri e Roberto Sturno tornano a Beckett. E ci tornano con un lavoro, “Da Krapp a Senza parole” il titolo, che intende esplicitamente riannodare un doppio filo: quello con l’autore che meglio di altri ha saputo descrivere lo spaesamento dell’uomo contemporaneo e quello, non meno significativo, con la loro stessa storia artistica. Mauri, infatti, nel ’61 fu il primo interprete italiano de “L’ultimo nastro di Krapp” e di “Atto senza parole”; nel ’73 recitò con Laura Betti in “Beckett ‘73” su regia di Franco Enriquez e nel ’90, già in coppia con Sturno, diresse una silloge di dieci atti unici divisi in due parti (“Dal Silenzio al Silenzio” e “Senza voce, tra le voci rinchiuse con me”) che si aggiudicò il Premio della Critica ’91.

Questo nuovo allestimento beckettiano, in scena al Piccolo Eliseo di Roma fino al 21 aprile, nasce dunque con un debito di riconoscenza nei confronti di importanti esperienze passate. Come se i due artisti (da decenni artefici di progetti condivisi) volessero in un certo qual modo misurare la forza di questa drammaturgia così scandalosamente innovativa a distanza di anni, modulandone le vibrazioni e il senso (anche) sui sedimenti che le tante diverse interpretazioni fatte nel frattempo hanno lasciato nel loro vissuto di uomini e di teatranti. Beckett sembra, infatti, aver quasi accompagnato, come un sottofondo di motivazioni e di domande sull’uomo, l’intero percorso creativo della coppia. Tanto quanto, del resto, egli ha accompagnato e nutrito, talora in modo esplicito talora in sordina, buona parte del teatro contemporaneo.

Impossibile dire qualcosa di nuovo su di lui. Ma partiamo da un ricordo. Nel 2007, per celebrare il centenario della nascita dell’autore irlandese, Peter Brook  attinse a cinque titoli brevi assai poco frequentati sulle nostre scene (“Come and go”, “Rough for Theatre I”, “Rockaby”, “Act Without Words II”, “Neither”) e ne trasse un unicum di estremo nitore, “Fragments”, dove la semplicità dell’impianto scenico sposava la geniale afasia di una lingua ridotta all’impossibilità stessa di dire. Mentre assistevamo allo spettacolo di Mauri/Sturno ci è tornata in mente quella messinscena e ci è tornata in mente anche un’affermazione del grande regista anglo-francese: “Beckett è un autore che tuffa lo sguardo nell’insondabile abisso dell’esistenza umana. S’inserisce sulla sottile linea che lega il teatro greco antico, attraverso Shakespeare, al nostro tempo, celebrando senza compromessi la verità, una verità sconosciuta, terribile, sconvolgente”.

beckettmauriE ciò capita non solo nei suoi capolavori più celebri ma anche nelle opere brevi, nei monologhi, nei testi di pura azione. “Da Krappa a Senza Parole” (regista lo stesso Mauri) mette insieme, non a caso, “Respiro” (1969), “Improvviso dell’Ohio” (1981), “Atto senza parole” (1957) e “L’ultimo nastro di Krapp” (1958), preceduti da un prologo, a dire il vero un po’ didascalico, in cui i due attori, chiusi in bidoni come i Nagg e Nell di “Finale di partita” ma citando brani di “Aspettando Godot”, ricostruiscono qualche stralcio biografico dell’autore e lo chiamano in causa (complice la proiezione di gigantografie) per raccontare con le sue stesse parole qualcosa di quel privato che egli difese sempre con decisa riservatezza.

Il registro dominante della pièce combina dunque, sin da subito, toni tragici e toni ironici da pantomima, suggerendo senza troppe allusioni l’ambivalenza di una drammaturgia che gioca fino in fondo la sua partita con il grottesco. Tanto che al lampo di intuizione visiva e sonora mostratoci in “Respiro” (una scena cosparsa di rifiuti e animata solo da un piccolo grido, poi da un vagito, e da precisi effetti di luce) segue la compostezza drammatica, e assolutamente misteriosa, di “Improvviso dell’Ohio”, dove due figure identiche siedono attorno ad un tavolo per imbastire (forse) il ricordo di una donna amata e ormai scomparsa, per fare (forse) una confessione a se stessi, per mettere (forse) faccia a faccia un uomo e la sua anima.

Arriva poi la clownistica impossibilità di accedere ai desideri – e dunque di vivere – raccontata con sarcasmo alla Charlot in “Atto senza parole”, affidato all’ottima prova di Sturno: un omino perso nel deserto tenta di fare qualcosa, vorrebbe prendere la brocca d’acqua che scende dal soffitto, non ce la fa, ritenta, non parla mai. Il suono di un fischietto scandisce i suoi “atti”: il ridicolo incedere dell’esistenza umana assume la fisionomia di un buffone destinato a mancare sempre la sua azione.

E’ tuttavia nell’ultimo quadro della silloge, “L’ultimo nastro di Krapp”, che il lavoro trova il suo momento più poetico e commuovente. Questo Krapp anziano, maldestro, quasi claudicante, indifeso, rintanato in una montagna di ricordi e rancori, è davvero l’immagine dell’infelicità, della nostalgia intesa etimologicamente come “ansia del ritorno”. Mauri ci regala un’interpretazione intensa e credibile che è un tuffo sordo nella solitudine, nel silenzio dell’oggi rispetto alla voce e ai sogni di ieri. Qui il richiamo alla sua personale biografia artistica si fa esplicito: utilizzando lo stesso nastro già impiegato nella messinscena del ’61, l’attore ritorna alle ragioni di quell’allestimento di cinquantadue anni fa e ci lascia intendere che la disperazione e l’angoscia sono sentimenti senza età.

Cesar Brie racconta Viva L'Italia, dedicato a Fausto e Iaio – il videoreport

fausto e iaioRENZO FRANCABANDERA | La categoria delle “morti assurde” è un topos chiaro. Ai giorni nostri si tratta per lo più di incontri col destino, cui spesso sono derubricati incidenti di varia natura. Ma negli anni Settanta e Ottanta sotto la categoria finivano anche omicidi politici, la cui spiegazione, a quarant’anni di distanza appare quantomeno difficile.
Trentacinque anni dopo. Alcuni dei ragazzi in scena(Massimiliano Donato, Andrea Bettaglio, Alice Redini, Umberto Terruso, Federico Manfredi) non erano ancora nati. I loro genitori, nella migliore delle ipotesi, erano giovani fra i venti e trent’anni. Quelli invece che racconta la storia rappresentata in Viva l’Italia è la vicenda di due ragazzi di diciotto anni.
Morire di politica a diciotto anni. Senza neanche avere una colpa specifica, se non quella di interessarsi alle indagini sociali sul consumo di sostanze stupefacenti. Sono morti così trentacinque anni fa Fausto e Iaio a Milano. Due. In una sera. Per mano di un commando di integralisti politici di destra. Che vendicavano forse altri morti di destra, uccisi a Roma alcuni giorni prima. Di età simile. O forse per altre ragioni.
Adesso parrebbe assurdo. E infatti è appunto una morte assurda quella che lo spettacolo racconta.
Il testo, come ci racconterà poi meglio Cesar Brie nella video intervista di oggi, si componeva di cinque monologhi, dialogizzati poi, per inserire nel testo una dinamica di relazione ancora maggiore fra i personaggi, interpretato da un giovane gruppo diretto dal regista italo argentino.
L’esito, pur con qualche peccato di ingenuità sia interpretativa (segnaliamo comunque la bella prova di Andrea Bettaglio nella parte del commissario) che drammaturgica, è certamente interessante per diversi ordini di questioni, dalla ricostruzione dei fatti al recupero dei documenti, all’affresco generazionale, al ritorno su un tempo su cui pare calato l’oblio.
E questa operazione è corroborata dallo stesso Teatro dell’Elfo attraverso la riproposizione di una interessante mostra di cartelloni (all’epoca avevano il più fluorescente e militante nome di taze bao, termine ormai caduto totalmente in disuso). Erano appunto desktop cartacei, come li definirebbe il progresso, su cui venivano affissi in ordine logico documenti estrapolati dalla stampa, integrati con interventi a mano, pennarelli. Insomma documenti, gli stessi che la scuola in cui i due giovani erano studenti volle realizzare per ricordarli. Il percorso nella memoria è affascinante, doloroso, inspiegabile soprattutto alla luce della totale piattezza in cui siamo piombati nel decennio successivo e poi di lì in poi fino ad ora.
Fino al nostro tempo. Ai trota. Alla giovane prostituzione di regime. A questa gioventù disperatissima, così lontana dagli occhi svegli, presenti, vivi di Fausto e Iaio. Forse sbagliati, ma sicuramente formidabili quegli anni per chi li ha vissuti. Perché ha potuto credere. Pensare utopia.
Vi lasciamo all’intervista con Brie.

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Unica certezza: la morte nella sperduta fortezza. Il deserto dei tartari a teatro

deserto dei tartari Giordano PettorrusoMARIA PIA MONTEDURO | Considerato il capolavoro di Dino Buzzati e, forse, uno dei romanzi più importanti del Novecento italiano, “Il deserto dei tartari” rappresenta l’angoscia dell’esistenza, l’attesa per un qualcosa che non arriva mai, sorta di “Aspettando Godot” letterario, incontro con una vita piena che, in definitiva, diventa l’appuntamento con l’unica certezza dell’uomo, la morte. Pubblicato nel 1940, il romanzo si impose subito come esempio di una letteratura realistica e al contempo surreale: l’accusa, per le stesse parole dell’autore, a un vita regolata da un tran tran abituale asfissiante (quelli che nel romanzo sono “i regolamenti”), ad assurdi principi che organizzano il vivere quotidiano senza lasciar posto alla fantasia, dove la speranza di sclerotizza, come sclerotizzata è la Fortezza Bastiani, dove l’ufficiale Giovanni Drogo consuma la sua assurda realtà esistenziale. Il romanzo fu anche trasposto per il cinema nel 1976 da Valerio Zurlini.
Maura Pettorruso ne realizza un intenso adattamento teatrale, con la regia di Carmen Giordano, in collaborazione con la Fondazione Dolomiti UNESCO e l’Associazione Internazionale Dino Buzzati: il giovane Woody Neri dà voce, corpo e spessore a Drogo, che si confronta con sė stesso, i propri pensieri, i propri desideri e le proprie paure esistenziali.
Una scena essenziale, spoglia – come essenziale e spoglia è la vita nella Fortezza – punteggiata e resa viva solo da alcune semplici lampade, che lo stesso Drogo accende e spegne, a sottolineare i momenti salienti dell’incedere della vicenda. Drogo cerca di convincere se stesso, e il pubblico, che resterà in quella dannata fortezza solo quattro mesi, certo di poter uscire da quel labirinto dell’anima, di poter tornare nella lontana città dove vive sua madre e, come si apprende poi, una donna che, forse, ha amato, riamato. Invece i mesi, gli anni, i decenni, scorrono pigri e ripetitivi, allertati talvolta da lontani movimenti che si scorgono verso l’orizzonte: miraggi, speranze, reali accadimenti?
Drogo non lo sa con certezza, perché la Fortezza Bastiani assorbe e annulla ogni gesto, ogni cambiamento, ogni illusione. Woody Neri interpreta con forza e coraggio le sconfitte di un uomo, che sono poi quelle dell’umanità, perché per Buzzati speranze e illusioni nascondono all’uomo il vero senso della vita. “Ho camminato girando a vuoto / senza nessuna direzione” ricorda Franco Battiato nel brano “Fortezza Bastiani” ed è proprio quello che fa Drogo/Neri, cercando di capire cosa lo tenga bloccato in quel lontano avamposto inutile, dove i quattro mesi iniziali si trasformano inesorabilmente in trent’anni!
Alla fine, sconfitta crudele, forse stanno veramente arrivando dei nemici, ma ormai Drogo è morente, dimenticato da tutti i suoi stessi commilitoni, e non può partecipare all’attacco: egli assapora così l’amaro gusto della sconfitta di una vita, della resa di fronte a un destino beffardo e spietato. L’adattamento teatrale ha ridotto il testo di Buzzati in un monologo, dove la valenza attorale del giovane Neri riesce a dare profondità alle laceranti variazioni di stato d’animo di Drogo; l’attore esibisce una voce possente e ben impostata che, con una leggera e piacevole inflessione dialettale, voluta, del Nord Italia – Buzzati era di Belluno –, riesce a ben raffigurare ciò che dilania l’animo del povero ufficiale.
Tante volte, anche dalle colonne di questa testata, si è sottolineato come ormai la forte crisi economica obblighi ad allestire spettacoli ”per una voce sola”, a volte svilendo e sminuendo testi che necessiterebbero di ben altri adattamenti teatrali. In questo caso invece il romanzo “Il deserto dei tartari” è, a ben analizzare, il romanzo di un’anima sola, perché solo è l’uomo davanti alla Vita, sia che viva in una frenetica città moderna, sia che sia confinato in una sperduta e irraggiungibile fortezza a difendere (chi? cosa?) da fantomatici tartari. Un’operazione teatrale ben riuscita.

Qui è possibile vedere uno studio dell’intero spettacolo
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La vita modesta di Ronconi-Spregelburd

LA_MODESTIABRUNA MONACO | Quattro eccellenti attori. Otto personaggi intriganti. Due storie parallele e un testo lungo e controverso. Sono questi i numeri vincenti de La modestia di Rafael Spregelburd diretto da Luca Ronconi e in scena al Teatro Argentina dal 9 al 14 aprile.
La modestia è la terza parte di una “eptalogia”, sette opere sulla dissolutezza contemporanea. Una per ogni peccato capitale. L’imponente opera morale di Spregelburd si ispira ai dipinti medievali di Bosch che rappresentò i sette vizi condannati dalla chiesa. Il punto di vista del drammaturgo, regista e attore argentino però modifica non poco l’oggetto osservato e nell’attualizzarsi i vizi si trasfigurano. La lussuria diventa L’inappetenza. L’invidia, La stravaganza. La modestia prende il posto della superbia. La stupidità sta per l’avarizia. Il panico, per l’accidia, La paranoia sostituisce la gola. La cocciutaggine, l’ira.
Una commedia “enigmatica o ironica”, la definisce Luca Ronconi, “a seconda dell’occhio con cui lo spettatore sceglie di vederla”. Ma si potrebbe dire una commedia ironica e enigmatica, a seconda che si voglia descrivere una o l’altra delle due vicende che scorrono parallele al livello del racconto, non si incontrano mai. Eppure si intrecciano al livello registico-drammaturgico perché le scene si inseguono in un montaggio alternato che diventa chiaro solo dopo un po’.
Enigmatica, dicevamo, è certamente la storia ambientata a cavallo di due appartamenti di un condominio argentino: personaggi ambigui, traffichini, tengono nascosta la natura della relazione che li lega, nonché delle attività, senza dubbio illecite, che svolgono. Quattro personaggi sono in scena ma altri gravitano intorno a loro: un numero imprecisato di individui nominati, attesi, protagonisti non dell’azione ma dei discorsi e pensieri dei nostri personaggi. Probabilmente artefici o complici di ciò che si sta macchinando ma non è dato sapere, e non lo sarà neppure alla fine.
Tragicamente ironico l’episodio russo che mostra la desolante umiliazione di uomo dalle insoddisfatte velleità di scrittore, ridotto in fin di vita dalla tubercolosi e dalla povertà. È la povertà che induce sua moglie a mentire, a spacciare e vendere con la firma del marito l’inizio di un manoscritto all’apparenza geniale, composto (forse) dal defunto padre di lei. Ma l’aspirante scrittore, di genio non ne ha, e forse neppure talento se non riesce ad aggiungere una parola a quelle appassionanti e già scritte. Gli acquirenti non sono ricchi editori ma poveri rifugiati, con qualche soldo e poche prospettive, che vedono nel manoscritto e nel suo presunto autore la possibilità di riscatto delle loro miserabili vite.
Francesca Ciocchetti, Maria Paiato, Paolo Pietrobon, Fausto Russo Alesi, egregi sempre, entrano ed escono dai personaggi con fluidità ingenerando una piacevole confusione nello spettatore che arriva a immaginare la diade di personaggi incarnati da ogni attore come i due contrastanti aspetti della personalità di un medesimo personaggio, piuttosto che come due esseri autonomi. Così ad esempio, Francesca Ciocchetti è allo stesso tempo Ángeles e Anja Terezovna. Paolo Pietrobon, Arturo e Smederovo. La regia di Luca Ronconi favorisce con vari mezzi questa confusione: gli attori non cambiano di abito, né cambia l’ambientazione: pareti verdi, divano e credenza nella stanza sudamericana come in quella europea. E talvolta nell’inizio della scena della nuova storia gli attori si comportano come fossero i personaggi della vecchia. Così La modestia parla anche della perdita dell’identità degli individui, della difficoltà a mantenersi granitici in epoca contemporanea, in cui tra precariato e crisi siamo tutti chiamati a riciclarci e a cambiare senza sosta ruolo e posizione di fronte agli altri. La distanza tra la chiarezza d’esposizione della storia russa e l’opacità di quella argentina, troppo marcata per non essere significante, può forse inserirsi in questo discorso: la perdita dell’identità è anche affare narrativo, non c’è un unico modo di essere storia. Spregelburd ce ne mostra almeno due.
Ma ci sarebbe il tema ad accomunare le vicende, la modestia, che dà il titolo alla pièce. Anche questo subito visibile nella vicenda russa, è sfuggente in quella argentina. Assodato che per Spregelburd la modestia non è la qualità di chi non ama mettere in mostra i propri meriti e cerca di sminuirli perché cosciente dei propri limiti o perché, timidamente, teme la lode. La modestia non è una virtù ma un vizio, una declinazione della menzogna. Infatti, nessuno dei personaggi di questo spettacolo modesto lo è realmente. Non lo è lo scrittore Terzov, non sua moglie, non lo erano Arturo, Ángeles e gli altri da giovani, quando si proclamavano comunisti (situazione evocata in uno dei momenti più esilaranti dello spettacolo quando gli amici argentini, sotto effetto di droga ridono e ricordano il passato). Tutti, al più, sono bugiardi, o sono stati ipocriti. Ciò che davvero accomuna le due storie, il vero motore delle azioni, a ben vedere, è la miseria. L’obiettivo di tutti, questo sì chiaro in entrambe le storie, è arricchirsi. Per sopravvivere gli uni, per vivere meglio gli altri. Così la miseria non è solo un dato economico, oggettivo, ma anche morale: miseri sono i rifugiati in URSS e i truffatori argentini. Miseri gli spiriti di questi eroi piccoli piccoli. Misere le nostre vite nel mare in tempesta della società liquida.

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