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domenica, Settembre 8, 2024
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Panda Project: il pubblico sul palcoscenico in “Visual Bluff”

panda projectVINCENZO SARDELLI | Inizia con la vivace voce fuori campo dell’italoamericana Delia Trice lo spettacolo “Visual Bluff” dei Panda Project, gruppo ravennate che al Zona K di Milano ha incontrato pochi ma entusiasti spettatori in una performance in cui i rispettivi ruoli s’azzerano, si mescolano e si confondono. “Visual Bluff” è una kermesse sapida in cui succede molto e può succedere di più. È un gioco di rimbalzi fra i tre empatici attori (Hendry Proni, Beatrice Cevolani e Delia Trace) e un pubblico che interagisce decidendo se e in che misura farsi coinvolgere.
Il meccanismo parte da un format studiato da tre attori di formazione diversa (accademica, performativa, teatro di gruppo) e poi si apre a ogni possibile sviluppo, in base alla fisionomia e alle risposte del pubblico stesso. A scaldare gli spettatori, a prepararli a quello cui andranno – o non andranno – incontro ci pensa la freschissima proemiale voce fuori campo: surrealmente rassicurante, sorridentemente provocatoria.
I tre attori si materializzano alla spicciolata. Si caricano sulle spalle un divano che le spalle le dà al pubblico. Vi si piazzano sopra. Si contendono il posto migliore a forza di spintoni e di gambe accavallate che penzolano in ogni direzione. Davanti a loro un maxischermo, unico elemento scenografico di questa scanzonatissima performance che può tranquillamente fare a meno di una ricerca sulle luci e, tutto sommato, sulla musica.
Sacchi di patatine trangugiate caoticamente e una grossa pentola di pop-corn nelle mani avide di una delle protagoniste introducono lo show. Quale? Ma il nostro, naturalmente: quello del pubblico che assiste sullo schermo, volente o nolente, all’esibizione di se stesso.
Pubblico sullo schermo, e, poco poco, nello scherno. Teatro muto. Tra silenziose simbologie bulimiche e virtuali agonismi sportivi, animati da un gigantesco ventilatore che un’ignara spettatrice punta contro un allucinato vicino di posto, si arriva a quella parte dello spettacolo in cui osserviamo gli attori nel camerino, che riflettono su se stessi, in un’altra simpatica trovata meta-teatrale.
Poi via al coinvolgimento, a un laboratorio di training drammaterapeutico in cui pubblico e attori si lasciano shakerare in un intreccio, in cui l’improvvisazione svolge un ruolo decisivo. Prende corpo, per qualche minuto, un alternarsi di esercizi sospesi tra fisicità, immaginazione e creatività.
Uno spettacolo che, a dispetto del titolo, è tutt’altro che un bluff. Un’esibizione spumeggiante. Uno show costruito a metà tra gli attori caustici, garbatamente coinvolgenti, e un pubblico che non può non lasciarsi trascinare nell’intelligente gioco.

Alcuni esempi della comicità fiabesca dei Panda Project:
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Il Solness di Trifirò: triste metafora possibile della nostra società

Solness trifiroRENZO FRANCABANDERA | Raccontiamo qui dell’allestimento con cui Roberto Trifirò fa il suo debutto sul palco del Teatro Filodrammatici di Milano. L’interprete e regista, attivo nel capoluogo lombardo più di frequente nei circuiti dell’Out Off, Franco Parenti e Sala Fontana, presenta in questi giorni una riscrittura drammaturgica originale dal testo Il Costruttore Solness di Henrik Ibsen, un testo dal tratto onirico, che parte da una vicenda di impianto tradizionale per poi aprire uno squarcio interessante e che a ben vedere anticipa moltissimo teatro più recente. La vicenda è quella di Halvard Solness (interpretato dallo stesso Trifirò), architetto arrivato alla fama in età matura ma determinato a mantenerla utilizzando senza scrupolo la creatività dei migliori giovani di bottega, cui nega senza esitazione ogni possiiblità di crescita autonoma. Personalità devastata dalla tragedia della perdita dei piccoli figli, e dalla libido particolarmente accesa, mantiene in piedi, oltre al rapporto coniugale con una moglie che tuttavia mai apparirà, una serie di altre relazioni. Ma una di queste, che riemerge dal passato, arriva a sconvolgere un’esistenza segnata appunto da un’incattivita monotonia.

In realtà la figura della giovane Hilde (Elisabetta Scarano) si presenta come un amore giovanissimo, di dieci anni precedente. La ragazza vive in una sorta di rappresentazione leggendaria dell’uomo, lo spingerà quindi a scelte estreme totalmente distanti da quelle fino ad allora poste in essere, rimettendo in gioco tutto, in una dimensione del narrato che oscilla fra sogno e realtà. La gioventù che scompensa le arroccate certezze della maturità è un topos letterario e teatrale certamente non nuovo neanche ai tempi di Ibsen.

La pièce, interpretata con misura ed elegante compostezza anche da Sonia Burgarello, Angelo De Maco e Luigi Maria Rausa, si ambienta nella casa studio del costruttore. Ritornano qui alcune trovate sceniche già adottate da Trifirò per La confessione di Adamov, testo interpretato alcuni anni fa all’Out Off di Milano, con teli di plastica trasparenti a separare gli ambienti e un gioco luci di finestre affacciate sul nulla che appaiono e scompaiono, e qui riproposte nell’impianto logico (probabilmente in modo del tutto involontario) da Paola Danesi. Sulle luci, Andrea Diana e Tony Zappalà regalano agli ambienti della Danesi, che firma oltre alla scena anche i costumi, particolare efficacia, perché riescono a creare un’atmosfera crepuscolare e opportunamente decadente nella prima parte, e di caldo ritorno alla vita poi. Anche le scelte sui costumi non sono neutre e paiono regalare, soprattutto ai personaggi femminili, una descrizione caratteriale precisa e interessante.

Se in ogni dipinto il pittore si ritrae in qualche modo, anche nella scelta di un’opera teatrale da rappresentare sicuramente esiste una connotazione autobiografica o che descrive un momento della vita. La decisione di Trifirò di portare in scena quest’opera è tutt’altro che banale e con una doppia lettura possibile: una che guarda al nostro tempo, al Paese, e l’altra probabilmente anche alla persona.
Quanto alla vicenda nazionale, al professionista infingardo che soffoca le nuove generazioni sfruttandole per trarne profitto, l’accostamento è talmente lampante da risultare crudamente concreto. Sulla vicenda personale, lungi dal ritenere le possibilità dell’artista arrivate alla decrepita maturità, pensiamo che Trifirò abbia comunque voluto riflettere sull’equità intergenerazionale anche nel mondo dello spettacolo, lanciando un messaggio sulla necessità che nessuno si arrocchi sulle proprie certezze e sui propri possedimenti materiali e immateriali, se non vuole iniziare a puzzare di cadavere prima ancora di esser morto. Ecco dunque che la ribalta dei tre giovani che con lui e De Maco interpretano il Solness, che la regiaguida ad un esito preciso, è una traduzione giusta del pensiero ibseniano.

Non ci sono trovate ad effetto e strani giochi scenici rivoluzionari in questo allestimento. C’è solo teatro d’attore. Onesto artigianato di scena. Nel complesso ben fatto.

 

"Future: architecture e[s]t paysage”: giovani architetti italiani in mostra a Parigi

Caleidoscopio SemperMARCO FRADDOSIO | Uno dei meriti di questa iniziativa dell’Istituto Italiano di Cultura a Parigi è quello di promuovere in Francia un piccolo studio di giovani, ancorché talentuosi, architetti italiani, nella speranza di sottrarli all’asfittica situazione italiana.

Gli Startt (acronimo di Studio di Architettura e Trasformazioni Territoriali) avevano già ottenuto la ribalta internazionale, quando vinsero, con il progetto “Whatami”, l’edizione 2011 del concorso YAP (Young Architects Program), organizzato dal MAXXI di Roma e dal MOMAPS1 di New York. In quell’occasione le loro immagini di alti tulipani rossi di vetroresina, svettanti su verdi colline mobili, davanti al noto edificio dell’archistar irachena Zaha Hadid, fecero il giro del mondo, veicolati dai mezzi di comunicazione, e suscitarono un grande interesse.

Questa affermazione ha dato loro la possibilità di entrare in un circuito che si confronta “nella crescente sequenza di appuntamenti e sedi – biennali, triennali, festival, raduni, laboratori eccetera”, e di partecipare “al gran circus dell’innovazione architettonica”, come osserva il curatore della mostra, Pippo Ciorra. In una di queste occasioni, gli Startt sono stati notati dai responsabili dell’Istituto Italiano di Cultura a Parigi, diretto attualmente da Marina Valensise, che li ha dapprima ospitati come artisti residenti, nell’ambito del programma “Le Promesse dell’Arte”, e successivamente ha organizzato la mostra dei loro progetti, con pubblicazione del catalogo, nella cornice dell’allestimento da loro pensato per la sede dell’Istituto.

Gli Startt, che hanno sede a Roma in un’ex-mulino (zona Mandrione), riabilitato e divenuto sede di moltissimi studi e atelier di fotografi, grafici, artisti e architetti che sperimentano da anni forme di co-working, nascono nel 2008 su iniziativa di Simone Capra e Claudio Castaldo, entrambi di Latina ed entrambi provenienti dalle fila di un gruppo ampio e variegato di studenti attivi all’interno della Facoltà di Architettura dell’Università di Roma Tre. Nel corso degli anni si sono uniti allo studio anche Francesco Colangeli e Dario Scaravelli, mentre per molti progetti si sono avvalsi della collaborazione di Andrea Valentini, Claudio Malaspina e Davide Piersanti, interessanti freelance.

allestimento STARTT a ICIFI progetti esposti sono impreziositi dall’allestimento che i ragazzi hanno chiamato “Profondo Rossi v/s Superclassico”, che, come affermano nel catalogo, è giocato sul rapporto tra “un paesaggio componibile e uno spazio eccezionale. Il tipo e il monumento… Aldo Rossi e Superstudio, l’Architettura della città e l’Architettura Radicale”. Esso consiste in elementi minimali componibili secondo giochi concettuali, in curvi leggii che seguono le pareti e nella riprogettazione del sistema palco con lo schermo delle proiezioni a scomparsa.

Gli Startt sembrano assumere una forma di “impegno ludico” nei confronti dei temi dell’ormai inattuale dibattito dell’architettura dell’ultimo Novecento, che si alimentava di differenti idee trasformative “in termini progressivi”, utilizzando a loro piacimento quel corpus teorico-progettuale come una “cassetta di attrezzi” da cui estrarre frammenti “finalmente liberi per essere reinterpretati, usati e ibridati”.

Nel progetto “Il Caleidoscopio di Semper”, si lavora sulla pelle di un edificio nel centro di Latina, sede degli ex magazzini Porfiri, per farne un grande negozio di vestiti, con dei servizi di intrattenimento anche culturale. Il progetto è bloccato per un paradosso burocratico, in quanto la pianificazione regionale non ne permette la realizzazione, divergendo dal piano regolatore comunale. Il lavorio sulla pelle ha come risultato un elegante maquillage, una cortina esterna di mattoni tradizionali che formano una rete perforata, che oltre a essere un omaggio delle riflessioni di Semper (architetto nato ad Amburgo nel 1803), deve molto alle sperimentazione di Herzog e de Meuron, importanti architetti svizzeri contemporanei, maestri nel ripensare il tema della facciata.

Astrapae è un altro interessante progetto non realizzato, in cui emerge il portato di una tradizione architettonica appresa dal loro maestro Alessandro Anselmi. Piani inclinati e linee spezzate servono a raccordare i livelli, e il risultato è un perfetto inserimento nel contesto, per un dispositivo architettonico smaliziato e attraente.

E’ da segnalare, e questa è una news del loro sito, la vittoria di un altro concorso con un progetto in mostra a Parigi, questa volta per la riqualificazione urbana di un complesso storico a Lugo di Romagna (Ravenna). Anche in questo caso, il nome del progetto ha un riferimento colto: “Omaggio a Luigi Ghirri”. L’uso citazionistico della storia o di una tradizione rappresenta la cifra concettuale ereditata da una passata stagione culturale, che loro usano con grande freschezza di sguardo e sapienza costruttiva. Gli architetti sottolineano che “le tracce dei sedimenti della storia” e i nuovi segni sono portati alla luce e coesistono su “un piano astratto in terra stabilizzata”, inciso “come nella tecnica del graffito” secondo la regola del cardo e del decumano, e “nuove incisioni nella terra modellano leggere increspature del piano per creare ambienti morbidi adatti al relax e al tempo libero sotto le alberature”. Non manca il “ready-made dada che completa la composizione” con una pedana performabile per eventi: da Ghirri a Duchamp alle centuriazioni romane.

Il curatore della mostra “Future Architecture e[s]t paysage”, mette bene in evidenza la loro capacità di affrontare diverse scale di intervento “con uno sguardo in parte spontaneo, in parte scaltro e consapevole”, e di “zigzagare tra design, architettura, arte, paesaggio e urbanistica”.

Zigzagando anche nella storia, nel pensiero, tra nessi concettuali decontestualizzati e nel mondo delle “immagini” in cui siamo immersi, da cui estrapolano frammenti e suggestioni che assumono nuova significazione nel loro metodo progettuale, una sorta di “gaia erranza” (citando Tafuri) che  viene declinata operativamente dagli Startt con appropriatezza ai contesti e ai luoghi, tramite uno scatto immaginativo che aggiunge un surplus di innovazione e nuovi orizzonti semantici.

Nel pensare un’altro futuro per l’architettura e il paesaggio, gli Startt stanno scommettendo sul loro futuro, mostrando una agguerrita ambizione a sfondare i confini regionali per raggiungere i luoghi internazionali del confronto e della decisione politica, continuando ad investire su se stessi, confortati dai risultati concreti che, dopo circa cinque anni di attività, si iniziano ad intravedere.

Il video sull’allestimento della mostra  a Parigi

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=z9gJ7vTg9q0]

Roma: flash mob di adolescenti mobilita il mondo contro la violenza sessuale

fotoflashmobLAURA NOVELLI | Una breve riflessione sui giovani. Sugli adolescenti. Sull’idea che il gruppo sia spesso sinonimo di velleità prevaricanti, di abuso psicologico, di omologazione, di forza esercitata ai danni dei più deboli. Una riflessione per ribaltare questa immagine ed evidenziare come invece l’energia dei ragazzi, quell’onda di entusiasmo che si sprigiona quando fanno le cose insieme condividendone lo scopo e lo spirito, rappresenti un gancio di ottimismo appeso alla corda del domani. Prendiamo spunto da un evento a suo modo semplice e nel contempo estremamente emblematico. Il 22 marzo scorso, in una tiepida giornata di sole quasi primaverile, quaranta studenti di una scuola media inferiore di Roma (la Scuola “Giovanni XXIII”) si sono ritrovati a piazza del Campidoglio per dare vita, coordinati da alcune ballerine dello IALS e dalla coreografa  Francesca La Cava, ad un flash mob contro la violenza sessuale come arma da guerra organizzato dall’Ambasciata Britannica in sinergia con il Comune (le riprese video sono accessibili sul sito account Flickr mentre il backstage lo trovate su Youtube dell’FCO).

Molti di loro avevano già provato i movimenti della performance nel corso di una sessione di prove; molti altri si sono buttati nell’iniziativa d’istinto, quella mattina stessa. Per tutti si è trattato di un’esperienza emozionante, importante, formativa. Hanno imparato molto e ci hanno insegnato molto. Tuta nera e maglia rossa con su scritto “Preventing Sexual Violence Initiative”, hanno corso e ballato per qualche minuto sulle note del brano “Dog Days Are Over” della band inglese Florence and The Machine, attorno alla statua del Marc’Aurelio.  Lo hanno fatto in modo corale e spontaneo, mescolandosi ad alcuni impiegati dell’Ambasciata e facendo da degna cornice ai  ballerini professionisti. Lo hanno fatto sotto gli occhi sorridenti di tanti astanti e di ospiti illustri come il sindaco Gianni Alemanno e l’ambasciatore britannico in Italia, Christopher Prentice.

fotoflashmobPrima del flash mob, la Sala delle Bandiere del Campidoglio ha ospitato una conferenza stampa di presentazione dell’evento che è stata anche l’occasione per illustrare il decalogo di raccomandazioni ai ministri degli esteri del G8 contro la violenza sessuale perpetuata nelle zone di conflitto (in particolare questa grave tragedia riguarda Paesi come la Bosnia-Erzegovina, la Libia, la Siria, la Somalia, il Sud Sudan, la Repubblica Democratica del Congo, la Sierra Leone, il Ruanda e il Mali). Il Foreign Office dell’Ambasciata ha lanciato questa campagna di sensibilizzazione, alla quale hanno aderito, oltre al Comune di Roma, l’Alto Commissariato della Nazioni Unite per i Rifugiati e associazioni importanti quali Se non ora quando e Avvocati Senza Frontiere, al fine di inserirne la discussione nell’agenda politica della maggiori potenze internazionali. Il prossimo obiettivo sarà infatti l’incontro dei ministri degli esteri del G8 previsto a Londra il 10 e 11 aprile, all’interno del quale l’ambasciatore Prentice porterà all’attenzione del ministro William Hauge proprio il documento con le raccomandazioni elaborate grazie all’apporto dei diversi partner. Non è un caso che tutti gli interventi in scaletta abbiano sottolineato come questa campagna sia una questione che riguarda intere comunità e hanno ribadito come sia urgente combattere contro “la cultura dell’impunità, del sopruso, della violenza”. Una violenza che è una tortura non solo per le donne ma anche per gli uomini, per i bambini, per l’intero corpo sociale dei Paesi colpiti. Una questione dunque che ci riguarda tutti, come esseri umani e come cittadini. E basti pensare che, secondo recenti dati dell’OMS, ogni anno nel mondo muoiono più donne di violenza che di cancro. Un dato sconcertante. Un dato rispetto al  quale non si può e non si deve tacere.fotoflashmob

L’Ambasciata Britannica non ha taciuto. Ha scelto un luogo simbolico come la piazza del Campidoglio e lo ha trasformato in un teatro all’aperto che attraverso la danza, e cioè attraverso un linguaggio fisico leggibile da tutti e a diversi livelli, si è trasformato in tribuna politica, in vettore di coscienza civica. Ma soprattutto l’Ambasciata britannica ha scelto di far affiancare ballerine e ballerini professionisti da ragazzi molto giovani, eppure capaci di entrare nelle corde di un evento così significativo senza bisogno di troppe spiegazioni. I loro corpi, i loro sorrisi, il loro impegno nelle prove, la loro gioia alla fine del flash-mob hanno parlato per loro. Noi adulti li abbiamo guardati, ammirati, accompagnati, ripresi e fotografati e abbiamo avuto la fortuna di sentire tutto il loro sincero trasporto. Come un’onda di verità, appunto. Un’ala di speranza e fiducia spiegata verso il futuro (l’attività dell’Ambasciata britannica si può seguire su  http://www.gov.uk/fco  e http://blogs.fco.gov.uk).

Ecco il videoreportage sul flash mob

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=6Lqe1dh5vNU&w=560&h=315]

Una radio “Autorevole” con gli audiodrammi noir di Sergio Ferrentino

audiodrVINCENZO SARDELLI | La radio a teatro? Si può fare. Storie noir trasformano la sala Pina Bausch dell’Elfo Puccini di Milano in uno studio radiofonico. Un evento spettacolare, che mostra agli spettatori i segreti e la bellezza di seguire dal vivo la registrazione di un racconto radiofonico. Il progetto “Autorevole” esplora nuovi linguaggi e contaminazioni – radio, teatro, internet – sulle tante sfumature del genere giallo.
In una società dominata dal visibile puntare sulla sonorizzazione, in un luogo come il teatro, è una sfida coraggiosa. Sfida lanciata da molti personaggi: Sergio Ferrentino, mente del progetto, voce storica di Radio Popolare e docente di tecniche di narrazione radiofonica allo Iulm; scrittori famosi come Carlo Lucarelli, Elisabetta Bucciarelli, Massimo Carlotto, Andrea Bajani, Pino Corrias e Sandrone Dazieri. Essi hanno trasposto storie inedite in audiodrammi, registrati per essere pubblicati sul sito www.fonderiamercury.it in forma di podcast e in cofanetti editi da Feltrinelli.
Audiodramma, Webdramma, o semplicemente radiodramma. Ogni definizione ha la sua legittimità. Questo tipo di registrazione segue un’altra strada rispetto agli spettacoli egemoni. Non propone immagini già confezionate, come al cinema o in televisione o a teatro stesso. Fa leva sulla fantasia dello spettatore. S’appella alla sua capacità di sognare ad occhi aperti. Contrasta l’egemonia dell’immagine attraverso la forza dell’immaginazione.
Un’idea innovativa, ma non troppo. In fondo, il radiodramma è nato proprio con il teatro. Nel 1938 Orson Welles trasmise lo sceneggiato radiofonico «La guerra dei mondi». La sua compagnia Mercury Theatre, recitò negli studi della CBS. Creò la più famosa trasmissione mai realizzata. Gli Stati Uniti precipitarono nel panico credendo a un’invasione aliena. La fusione tra teatro e radio entrò nella storia.
“Autorevole” ripropone questo connubio. Silenzio. Gli spettatori indossano le cuffie. I narratori entrano. Sembrano voci esterne alla vicenda. La musica pare un commento ironico. Poi parole e musica convergono. Diventano amalgama emotivo. Narratori e pubblico sono risucchiati nella vicenda. È ipnotizzante.
È un pubblico “diverso”. Viene meno il patto implicito tra attori e spettatori. Siamo abituati a un pubblico protagonista dell’opera insieme al regista e ai teatranti: un connubio di emozioni, sguardi, empatia, atmosfere, applausi, risate. Qui no. Qui è un rito religioso. Lo spettatore tace. Niente applausi, se non alla fine della rappresentazione. Nessuna risata o esclamazione. Nessun commento o mormorio o colpo di tosse o naso soffiato: sarebbe immortalato dalla registrazione destinata al web.
Gli attori. Quello che si vede è spesso contraddittorio rispetto alla narrazione: personaggi che salutano e non se ne vanno; schiaffi e pugni che fanno un male boia ma non raggiungono il bersaglio; bicchieri di whisky bevuti senza essere consumati; capogiri da sbronza per tassi alcolemici degni di un astemio. È un crescendo di ritmi, suoni, emozioni. Volume sonoro e ricchezza timbrica sorprendono rispetto alle persone davvero presenti sulla scena.
L’atmosfera rapisce. L’ascolto è mistico. Il commento sonoro esiste, ma è dato dalla base acustica di sottofondo al recitare degli attori. Questi, oltre a modulare la voce secondo le regole della miglior arte drammatica, riproducono con vari accorgimenti suoni di sottofondo: rumore di passi, colpi di tosse, fruscio di fogli, parlare confuso di una folla melting pot. Parolacce, grida, gemiti.
Le corde vocali sono sfruttate in ogni dimensione timbrica e tonale. Voci felpate e vellutate. Toni aggressivi. Richiami di bambini. Accenti stranieri. Comandi secchi. Moine, sospiri. Respiri, sbadigli, singhiozzi. Urla scomposte, diktat perentori. Oltre a questo, spinte, con conseguente perdita di equilibrio anche nel parlare. Bottiglie stappate, tintinnio di ghiaccio, mulinello di cucchiaini, tonfo di liquidi nei bicchieri nella preparazione di cocktail. Rombo di automobili, in movimento, sullo sfondo.
I volti degli attori oscillano alla ricerca della giusta distanza dal microfono. È una sinestesia di suoni e colori, di parole che prendono consistenza e diventano carne, si materializzano in tratti somatici, smorfie, capelli arruffati o perfettamente in ordine, visi deliziosi, facce sfatte. Persino odori.
Dove finisce la parola inizia la fantasia. Il pubblico è inghiottito in un ovattato viaggio alternativo. Per un’ora, l’arte vince sul caos e sulle tensioni del mondo reale.

Raccomandazioni di rito prima dello spettacolo:
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=NYYNfXzcIb4&w=560&h=315]

Un’idea di quello cui si assiste durante lo spettacolo: il demo di “Radiogiallo” di Carlo Lucarelli
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=oXZR7zFuyHo&w=420&h=315]
Impressioni del pubblico dopo “L’etica del parcheggio abusivo” di Elisabetta Bucciarelli
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=HkcS5OxwEDA&w=560&h=315]

In principio era il varietà

massimo lopezMARIA PIA MONTEDURO | In principio era il varietà. Quello fine, elegante, fatto da artisti che sapevano cantare, con la musica rigorosamente dal vivo, con classe e capacità, con ballerini (una coppia in genere) che commentavano le canzoni e i momenti clou dello spettacolo. Garbo, stile, ironia, capacità di intrattenimento del pubblico. E poi la grossa dicotomia che è il fulcro dello spettacolo di varietà. Vale a dire che si presenta come uno spettacolo “scacciapensieri”, portato avanti per distrarre, non far pensare, sollevare la platea da ogni impegno mentale. Apparentemente.

Perché da sempre lo show, e prima l’avanspettacolo, il café chantant, poi lo show fondamentalmente d’impianto americano, hanno avuto un’anima satirica, corrosiva, ironica, a volte addirittura caustica. Il cantante, cabarettista o crooner che fosse, si ritagliava uno spazio apposito per la frecciata satirica, la blanda imitazione, l’aneddoto, più o meno cifrato, per deridere o sbeffeggiare il potente di turno. Certo la parte del leone è sempre stata della musica e della danza, ma un buon equilibrio tra cantato e parlato aiutava lo spettacolo a stara in piedi con più spessore.

Tutto questo si era trasferito anche negli show televisivi (Studio Uno docet) che per decenni avevano allietato le serate del pubblico italiano. Con l’avvio e il dilagare invece di una tv commerciale, tutto è miseramente naufragato. Grossolanità, faciloneria nella scelta degli intrattenitori e dei cantanti, battute volgari, corpi esibiti in termini rozzi e triviali. Si badi bene, non si invoca certo la censura bacchettona e ottusa, ma classe, eleganza e stile sono tutt’altra cosa. Buona proporzione di satira e musica, attenzione alla validità degli esecutori, e via discorrendo.

Ma il risultato negativo è stata che questo stile “casereccio” e di poco spessore dalla televisione si è trasferito al teatro: il negativo, si sa, è più facile da esportare del positivo, perché costa meno fatica e accontenta un po’ tutti… e perciò si sono visti spesso, troppo spesso, anche in teatro, pseudo-varietà rabberciati e improvvisati, con un cantante che si esibisce con la base rigorosamente registrata, con quattro “sgallettate” che si dimenano, battute becere e scontate.

Si segnala perciò volentieri lo spettacolo in scena al Teatro Sistina di Roma “Varie-età” con Massimo Lopez. Già il titolo evidenzia la trama: un viaggio nelle varie età appunto dello spettacolo che hanno saputo consegnare tracce indelebili nella memoria collettiva, acutamente rivisitate in un excursus musicale dove jazz e swing, generi musicali che ben si adattano alla voce e allo stile interpretativo di Lopez, rappresentano una sequenza di evergreen americani ed italiani dagli anni ’30 ai giorni nostri. I brani musicali sono accompagnati dalla Big Band Jazz Company, diretta da Gabriele Comeglio, e suggellati da una coppia di ballerini, Manuela Scravaglieri (bravissima!) e Felice Lungo. Su tutto questo s’innesta la nota capacità di Lopez di intrattenimento del pubblico usando la sua veste di imitatore, che gli permette, coadiuvato dal simpatico attore Alessio Schiavo, di puntualizzare le anomalie della scena politica odierna, con battute vivaci e mai banali. E poi tanta musica, con brani celebri di personaggi del calibro di Eric Clapton, Nat King Cole, Frank Sinatra per arrivare anche a insolite citazioni musicali di jazzisti italiani come Lelio Luttazzi, Nicola Arigliano, eseguiti con uno stile a metà tra la cover e la propria interpretazione.

Insomma, si diceva, in principio era il varietà, e forse sta tornando.

Arrow, ovvero quando la calzamaglia non fa il supereroe

Arrow_1ALESSANDRO MASTANDREA | Sopravvissuto a cinque anni di stenti e privazioni, solo, su un’isola misteriosa popolata da inquietanti presenze, scampato a un naufragio che ha visto la morte di padre e amante, torna in città, armato di arco e frecce, Oliver Queen, giovane e aitante miliardario animato da una oscura sete di vendetta nei confronti dei criminali che infestano Starling City.

E dagli inospitali lidi dell’isola semi-deserta, eccolo atterrare, comodamente seduto, sui sofà di casa nostra (Italia1, il lunedì in prima serata), grazie ad Arrow, trasposizione per il piccolo schermo dell’eroe fumettistico Green Arrow, della major statunitense DC Comics. Risposta della TV all’inflazione di supereoi cinematografici.

A dispetto, tuttavia, di un argomento all’apparenza leggero, è una bella gatta da pelare quella che si sono trovati tra le mani gli autori della serie.  Come fare, ai giorni d’oggi,  a rendere credibile un personaggio che si aggira per le strade della città vestito da Robin hood? Un compito, va detto subito, portato a termine solo in parte.

Non sempre, infatti, mescolando in provetta, per quanto sapientemente, un play boy  milionario svagato di giorno e giustiziere di notte, a sparatorie, acrobazie e piroette, si ottiene il giusto equilibrio tra istanze pop e autoriali. E sulla serie, più che altro, pare gravare minacciosa l’ombra rilassata, dai toni “Camp”, del pipistrello televisivo anni ’60, interpretato da Adam West (il Batman con le maniglie dell’amore, per capirci), piuttosto che quella ben più tetra dei lungometraggi diretti da Tim Burton e  Christopher Nolan.

E dire che tra gli autori suddetti compare un certo Marc Guggenheim, persona che i comics li ha frequentati da vicino.

Se l’Oliver Queen dei fumetti è un uomo maturo, sulla quarantina, padre di un figlio e con una non troppo sottile propensione anarchica, la sua controparte del piccolo schermo, come un po’ tutto il cast di protagonisti e comprimari, risulta invece poco più che abbozzata,  dal carattere poco “centrato”. Problema non di poco conto, trattando la serie di un arciere.

Stiano però sereni gli estimatori dei TV series, perché, tra un cliché e l’altro, qualche motivo di interesse pur esiste – soprattutto nell’intreccio orizzontale che si dipana lungo tutta la stagione; nei continui flashback, per esempio, che trasportano di continuo il protagonista agli anni passati sull’isola misteriosa a’ la LOST.

–       Da quale oscura associazione è presidiata l’isola?

–       Chi è lo sfuggente orientale che gli ha salvato la vita e che gli ha impartito un addestramento jedi?

ma anche nella struttura da tragedia shakespeariana, con il povero Oliver che torna a casa, solo per scoprire sua madre sposata a un altro uomo, e che questi ha preso il posto del defunto padre alle redini del suo impero economico. Novello Amleto, che ancora ignora del tutto le oscure macchinazioni che hanno prodotto il naufragio suo e del padre.

E di puntata in puntata – questa la parte che convince meno – il nostro Oliver/Amleto appare indeciso sulla strada da seguire. Lui che dal mondo cerca vendetta, pur subendone un’irresistibile attrazione. Perseguire senza posa i propri intenti belligeranti, oppure assecondare la sua vecchia natura, con un futuro già tracciato tra vernissage, modelle succinte e happy-hour?

Non è però tutta rosa e fiori la vita del miliardario con l’hobby del vendicatore mascherato. Cosa volete che siano un manipolo di spacciatori, di mefistofelici finanzieri corrotti o di semplici rapinatori di banche –abbattuti come mosche di puntata in puntata-  messi a confronto con le donne che sono solite circondarlo nella vita civile? Già perché, oltre la madre con lo scheletro del padre nell’armadio, anche i rapporti con la sorella e l’ex fidanzata non sembrano dei migliori. Un conflitto generazionale con la prima e un amore impossibile con la seconda (già però in via di risoluzione dopo una manciata di puntate – quando si dice “serie dal ritmo frenetico”).

Portare la maschera del “bon vivant” e tenerle lontane, oppure aprirsi e farsi amare mettendo a rischio la loro incolumità? Questo è il dilemma, cui nemmeno “l’agenda dei segreti” lasciata in dono dal padre morente – con nomi e indirizzi dei colpevoli del degrado cittadino, da accoppare all’abbisogna –  sa dare risposte. Anche gli eroi in calzamaglia, per quanto corrucciati nella loro personale battaglia, hanno un cuore e un ego da assecondare. Il caro Oliver, dopotutto, nonostante fame, patimenti e ferite è pur sempre un fustacchione. E il suo bel carico di cicatrici lo rendono ancor più irresistibile agli occhi di Dinah “Laurel” Lance, ex fidanzata, avvocato delle cause perse in odore di santità. Si da il caso, infatti, che a Oliver piaccia moltissimo vagare per la magione  con la camicia impertinentemente sbottonata, e c’è da scommetterci che prima o poi quelle ferite si riveleranno galeotte.

P.S.: Per chi volesse leggere qualcosa sul personaggio, si consiglia di recuperare il bel volume “Lanterna Verde, Freccia Verde”, edito da Planeta de Agostini, che ripropone storie datate 1970 e disegnate dal grande Neal Adams (che affrontano temi per quei tempi tabù, come la droga). Oppure, di prossima pubblicazione per la casa editrice RW- LION, la ristampa della run di Mike Grell , scritta sul finire degli anni’80, in cui predomina un’ambientazione urbana, che risente di contaminazioni dalla letteratura noir e hard boiled; forse la versione definitiva dell’eroe.

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Flags of America: i grandi della fotografia in mostra a Modena

avedon_lowMARCELLA MANNI | La tradizione della fotografia americana è ancora per alcuni giorni in mostra a Modena: una ventina di autori, tutti indiscussi maestri, per una importante panoramica tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni Settanta.

La selezione di opere, nata da un ampliamento di un fondo acquisizioni, permette di approcciare filoni tematici e estetici che hanno attraversato la diffusione di un mezzo, quello fotografico, accogliendo da un lato le istanze della tradizione e, di pari passo con le evoluzioni tecniche, influenzando in maniera determinante la cultura fotografica e più in generale visuale, contemporanea.

La dimensione del Jupiter Portfolio di Minor White apre a una fotografia simbolica con temi concettuali viene da dire; per il grande erede di Stieglitz si parte da un dato reale, tangibile, usando il paesaggio come tramite per una idea altra di fotografia, come esplorazione della rappresentazione. Il paesaggio, quello della wilderness americana, torna in modi completamente diversi nella fotografia di Ansel Adams, che insieme a Weston insegue la “fotografia pura” con il gruppo f/64, in un incessante percorso di sperimentazione prima di tutto tecnica. L’accostamento di autori dalle personalità e dai percorsi anche molto diversi tra loro permette, attraverso i lavori in mostra, di avere esperienza diretta di uno dei punti fondanti dell’estetica dell’immagine, cioè come la fotografia dipenda da una consapevole scelta di stile, di uno stile visivo si intende, da come l’autore si riferisce da un lato al contesto e dall’altro al significato dell’immagine stessa. Vale quindi la pena di citare come tre degli autori abbiano condiviso un esordio importante: Garry Winogrand compare nella storica mostra New Documents al MoMA di New York, nel 1967 insieme a Lee Friedlander e Diane Arbus  accompagnati da un pensiero critico, affidato a John Sarkowsky , che in epoca di pieno espressionismo astratto detta le regole per quello che sarà uno degli stili più influenti della fotografia contemporanea. La comunanza del mezzo utilizzato, una piccola macchina fotografia, rende possibile scattare immagini in grado di cogliere espressioni del viso, la relazione tra il gesto, il movimento e gli oggetti in situazioni pubbliche, l’attenzione ai luoghi pubblici, in interno o esterno, che siano ristoranti aeroporti o lobby di hotel, ma soprattutto la città, attraverso le sue strade, codificando il “social landscape”, che tanto deve a Robert Frank.

“Credo che le immagini di paesaggio possano presentarci tre verità: la verità geografica, quella autobiografica e quella metaforica. La geografia di per se stessa è a volte noiosa, l’autobiografia è spesso banale e la metafora può essere equivoca” Robert Adams ci conduce con queste parole verso una idea di bellezza che è frutto di un lavoro personale, di una autenticità che è una ricerca di una armonia, di una composizione che sia in grado di recepire il dato naturale per renderlo in un nuovo paesaggio, quello della fotografia.

E sono proprio Robert Adams e Stephen Shore  inclusi, nel 1975, nella mostra New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape  che alla fotografia fa compiere un passo anche nella direzione del cambiamento di un paradigma per dirla alla Khun, cioè come portatrice di nuovi modelli di pensiero. In questa ampia rappresentanza che vede autori attivi a tutt’oggi come John Gossage e Richard Misrach, non si può poi non citare un “outsider” nel senso di unicità e di singolarità della ricerca, portata avanti parallelamente a un lavoro su commissione che per Richard Avedon ha significato la vera e propria codifica di un genere, sovvertendo i canoni della ritrattistica. Che si trattasse di modelle sconosciute, di icone di Hollywood (Marilyn Monroe su tutte)  o di capi di stato, le sue pose sono quelle di persone vive e reali, politica e disimpegno si mescolano senza ordini di grado e senza offuscare la forza comunicativa dell’immagine.

A scorrere in senso strettamente cronologico l’ampia rappresentanza di autori risulta evidente quel processo che tra la metà e la fine del Novecento è stato un vero e proprio processo di affiliazione della fotografia alla sfera delle arti contemporanee.  Un processo che si può dire ha attraversato l’arte concettuale, l’arte pop e che ha contribuito ad animare un dibattito sia teorico che tecnico-stilistico, sull’immagine fotografica, fino ad arrivare a considerarla, ad opera di teorici non a caso americani, un metro di confronto critico per riscrivere la storia dell’arte moderna tutta.

New Topographics, Stephen Shore, Diane Arbus, straight photography

[vimeo http://www.vimeo.com/32562146 w=500&h=281]

A cura di Filippo Maggia

Fino al 7 aprile 2013

Fondazione Fotografia, Largo Sant’Agostino 228 Modena

www.fondazionefotografia.it

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L'Odyssey di Wilson: fra Méliès e melò

odissea wilson_francabanderaRENZO FRANCABANDERA | Bob Wilson è uno di quegli amanti di cui immagini già come verrà vestito all’appuntamento, che profumo e taglio di capelli porterà,  e anche di che parlerà mentre si sta seduti a tavola o in poltrona. Eppure riesce sempre in qualche modo ad ammaliarti, con l’eleganza formale, e quel principio greco del Μηδέν ἄγαν, ovvero il “Nulla di troppo” che è un invito alla misura cui Wilson sempre nella sostanza si attiene.

Ed ecco che l’Odissea per il cui debutto Wilson si è recato in Grecia in questi ultimi mesi caldi, è un melting di forme espressive che ricordano sul palcoscenico il primo cinematografo, il pop dei cartoon, il melodramma, l’opera. Ma senza che mai ci sia qualcosa che resti indigesto, che sia appunto di troppo. Odyssey di cui Wilson firma progetto, regia, scene e luci, dicevamo, è una coproduzione del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa on il National Theatre of Greece, Athens. Perchè poi magari pensi: ma che ci faccio qui a farmi raccontare l’Odissea da uno che viene dal profondo Texas. Ma Wilson ama senz’altro le sfide e la cultura europea, e ha il coraggio di proporcene una rilettura magari meno filologia, o meno cervellotica, ma spesso più agevole, con un piglio divulgativo capace di accostare i generi in maniera totalmente inaspettata.

Lo spettacolo dura nel complesso tre ore, divise in modo pressochè identico in due atti. Nel secondo, ovviamente, gran parte della vicenda è quella del ritorno e della vendetta sui Proci, mentre il primo è dedicato alle avventure del viaggio.

Dicevamo il “solito” Wilson, ma qui c’è un chiaro intento di rendere leggero l’epos, di giocare come Meliès con la macchina scenica, con la creazione di fantasia. Così tutti gli argani e i trucchi, i mostri e gli incubi sono giocati con creazioni immaginifiche e giochi di luce: di Polifemo si vede la grande testa, che occupa tutto il fondale come un pezzo di statua greca gigantesca lasciata lì, in bilico. Dall’alto sbuca invece la mano del mostro, ugualmente  dal sapore di statua, che aggancia i poveri malcapitati. Scilla e Cariddi sono mostri ingenui, da film da cinematografo degli anni Dieci-Venti, e proprio nel caso di Polifemo il regista svela la macchina, togliendo il paravento che occulta il carrello mobile su cui la grande sagoma è montata, facendolo vedere, svelando il trucco, lo scheletro dietro la fiaba, dietro questo antico cartoon che era l’Odissea. Con Scilla e Cariddi, il quadro visivo diventa di colpo un enorme zig zag, dove mancano solo le sovrascritte SCREEK, ZAC!, a commentare l’azione del mostro che azzanna i marinai.

odissea wilson_francabandera2Ci sono poi novità estetiche che introdotte in alcuni spettacoli recenti dal regista, ricompaiono magari come variazioni, un po’ come nei canoni di Bach. E non citiamo a caso il compositore, perchè nella regia della Passione secondo Giovanni dell’artista alcuni elementi diagonali sospesi compongono la scenografia, elementi che anche in questa Odissea ritornano sotto forma di neon che scendono dall’alto. O le capigliature e le maschere del viso estreme che già erano apparse nei personaggi-burattini tanto degli “Shakespeare’s Sonettes” con i Berliner Ensemble del 2009 che ne “L’affare Makropoulos”, che il pubblico italiano ha visto al Napoli Teatro Festival l’anno passato.

Il primo atto, il viaggio, le avventure, il fantastico, attraverso i mirabili giochi di controluce e di ombre cinesi di cui i notevoli attori si fanno interpreti, è decisamente più ricco, superiore e immaginifico. Le sirene gotiche dalle ali nere sanciscono la saldatura con il linguaggio più recente dei comics, ma nulla è mai pulp, al più pop, cercando un continuo dialogo fra l’iconografia dell’eroe contemporaneo e quella greca antica, con maschere e altre visioni antropomorfe che ci parlano dell’Odissea come di un kolossal del tempo antico, da alleggerire, possibilmente da troppa sovrastruttura filologico-interpretativa, per recuperare il piacere della storia.

La seconda parte soffre un po’ di questa scelta, a nostro parere perchè, schiacciata più sul nostos, viene resa con spirito meno ispirato. Nulla che non valga la visione, per carità, ma qui il semplice si impoverisce e vive di trovate da commedia dell’arte, di sagome, come quella del pastore fedele o della vecchia nutrice che sobbalza al suono di un campanellino. Il troppo facile qui intriga meno e la resa è più didascalica. Wilson è sempre Wilson, i suoi fondali saturi di colore acido che sfumano in tonalità acquerello valgono bene una cena: l’amante è vestito come al solito, con lo stesso taglio di capelli, lo stesso profumo, a dire le cose che ci si aspetta che dica. Ma tant’è, la cifra di un artista è riconoscibile quando cambiando il teorema artistico, la grammatica estetica resiste agli stress test. Lo spettacolo risulta quindi gradevole, leggero, coerente. Non innova. Non provoca. Racconta. E’ meglio quando, con musichette ragtime, ricorda i filmini di Mèliés, tanto che quasi ci si aspetta che un missile finisca nell’occhio di Polifemo come nella celebre sequenza della luna, mentre riesce meno quando deve raccontare il ritorno dalla donna, dalla patria. Qui si colora di tinte inspiegabilmente shakespeariane, ma bidimensionali.

Alla fine grande trionfo, il maestro sul palco per cinque minuti di applausi, e così anche la compagnia, giustamente omaggiata. Se vale la pena andarlo a vedere? Esattamente per lo stesso gusto di rivedere un supercult di cui si conoscono a memoria le battute, ma meglio di qualche cineasta sperimentale che alla fine ci faccia tornare a casa con un tanto grande quanto inutile mal di mare per una cinepresa armeggiata stile Blair Witch Project e poco più.

Il pensiero più stanco, e non siamo comunque nel nostro caso, di un genio sarà sempre più stimolante della miglior trovata di un imbecille. Qui c’è il confronto con la civiltà classica, la prima volta di Wilson. Insomma il solito amante che viene al tavolo, si siede e con piglio provocante inizia a raccontare di una sua strana prima volta in età matura. Volete non starlo a sentire?

Qui di seguito alcuni frammenti video dello spettacolo

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=g8EeNxaGHIs]
Piccolo Teatro Strehler
fino al 24 aprile 2013
Odyssey
progetto, regia, scene e luci Robert Wilson
testo Simon Armitage, drammaturgia Wolfgang Wiens
musica Theodoris Ekonomou
collaborazione alla regia Ann-Christin Rommen/Tilman Hecker
costumi Yashi Tabassomi
collaborazione alle scene Stephanie Engeln
supervisione musicale Hal Willner
collaborazione alle luci Scott Bolman
traduzione in greco moderno Yorgos Depastas
voice coach Melina Paionidou
suono Studio 19 – Kostas Bokos, Vassilis Kountouris
assistente alla regia Natassa Triantafylli
assistente alle scene Maria Tsagari
assistenti ai costumi Vassiliki Syrma
scenografie, oggetti di scena e costumi realizzati dai Laboratori del Piccolo Teatro
con Konstantinos Avarikiotis, Thanasis Akkokalidis, Yorgos Glastras, Zeta Douka, Stavros Zalmas, Marianna Kavalieratou, Lydia Koniordou, Alexandros Mylonas, Maria Nafpliotou, Vicky Papadopoulou, Lena Papaligoura, Akis Sakellariou, Yorgos Tzavaras, Apostolis Totsikas, Nikitas Tsakiroglou, Yorgis Tsambourakis, Kosmas Fontoukis
pianoforte Thodoris Ekonomou
Ciclope (voce fuori scena) Dimitris Piatas
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, National Theatre of Greece, Athens

Trend 2013: il teatro britannico scandaglia l’interiorità

banquoLAURA NOVELLI | Da dodici anni propone al pubblico romano una scelta ragionata di autori e testi provenienti dal Regno Unito che raccontano non solo un teatro felicemente empatico rispetto ai temi e alle questioni del contemporaneo ma anche – e soprattutto – un teatro capace di rinnovare i suoi linguaggi affidandosi all’estro e al mestiere di giovani autori. Motivo per cui la rassegna “Trend – Nuove frontiere della scena britannica”, curata da Rodolfo di Giammarco e attesa dal 2 al 14 aprile al teatro Belli di Trastevere, è sempre un territorio che vale la pena esplorare, un valore aggiunto rispetto alla consueta programmazione cittadina all’interno del quale è possibile trovare spunti, soluzioni, opere ed operazioni interessanti.

Quest’anno la mappatura delle drammaturgie in campo parrebbe lasciar emergere una decisa attenzione per i moti dell’animo, per le sfumature emotive, per i rivoli interiori degli esseri umani. “Cinque testi contemporanei, – spiega lo stesso di Giammarco – tre autori inglesi, due scozzesi, quattro quarantenni e una over sessanta. Un gruppo di amici universitari, un valoroso generale di shakespeariana memoria, tre ritratti ravvicinati e non classificabili di coppie sentimentali imperfette […] Con una trasversalità di approcci che sceglie fisionomie, sonda terreni, soppesa linguaggi restituendoci il quadro scombinato di una realtà che sembra guardare sempre di più all’interiorità”.

Un dato emblematico, questo, che ci conforta nella convinzione che, dopo tante rotture, tante intuizioni trasgressive, tanta violenza verbale e tante ossessioni “contro”, la produzione scenica d’oltremanica – ormai da anni, a dire il vero – stia cercando un equilibrio tra ricerca del nuovo e necessità di abitare una parola che rifletta con pacata saggezza i nodi cruciali dei nostri tempi confusi. Anche appellandosi ai classici. E non è un caso che tra i titoli in scaletta  figurino  due omaggi shakespeariani firmati dall’estroso Tim Crouch, “Banquo” (riflessione sul tema del potere ispirata al “Riccardo III”) e “Peaseblossom” (sguardo infantile che si posa sul mondo degli adulti e, rievocando il “Sogno di una notte di mezza estate”, si fa domande sull’amore), affidati alla regia di un esperto “crouchiano” quale è Fabrizio Arcuri (ricordiamo “An Oak Tree”), anche regista di quel ben noto “My Arm” che qui precede e in un certo qual modo introduce il dittico.

Ad aprire la vetrina è invece David Harrower, autore scozzese divenuto celebre in Italia per il suo scabroso e sottile “Blackbird”, allestito da Lluis Pasqual nel 2011 con gli ottimi Massimo Popolizio e Anna Della Rosa protagonisti, che in “Bravo con le ragazze” torna ad occuparsi di un caso morale immaginando la vicenda di una donna tormentata da un episodio occorso nel suo passato che riprende a sconvolgerla, complice l’arrivo in paese di un giovane uomo, ma che resta inesorabilmente insoluto. In scena ci sono Vanessa Scalera e Tiziano Panici, anche regista.

Si intitola poi “Sette melodie per flauto” la piéce del giovane londinese Sam Hall che, diretta da Paolo Zuccari e animata da ben dieci attori, racconta le vite di alcuni amici d’università lungo un arco temporale di trent’anni: i ricordi personali si intrecciano a quelli collettivi mentre  passato, presente e futuro sfuggono alla banale logica della consequenzialità per mostrare come tutto sia cambiato e come tutto cambi.

Scavano infine nella (im)possibilità della relazione umana (non solo quella di coppia) le ultime due proposte in programma: “Stoccolma” di Briony Lavery, imbastito su una cena di compleanno durante la quale l’entusiasmo e la passione di Todd e Kali (Vincenzo Di Michele e Ketty di Porto) trascolorano in un gioco al massacro all’ultimo sangue (regia a firma di Marco Calvani), e “Essere norvegesi” dello scozzese David Greig, che si interroga sul senso di identità e sui presupposti necessari per entrare in contatto con gli altri, tanto più se stranieri. Sorretto da uno stile ironico ma incisivo, questo lavoro, che si avvale della regia di Roberto Rustioni (anche in scena con Elena Avigo), pone quesiti cocenti a livello sia individuale sia politico e, come d’altronde tutti gli spettacoli proposti, ci chiama in causa direttamente. Informazioni: www.teatrobelli.it.