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domenica, Settembre 8, 2024
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Uovo Festival Milano: la stravagante ironia esistenziale di Gunilla Heilborn

gunilla heilbornVINCENZO SARDELLI | Tonalità satiriche che s’innestano su scene di ordinaria semplicità caratterizzano “This is not a love story”, della coreografa e film maker svedese Gunilla Heilborn, ospite della undicesima edizione di “Uovo”, la kermesse di danza ospitata alla Triennale-Teatro dell’Arte di Milano dal 20 al 24 marzo, di cui abbiamo parlato in altri due contributi recenti.
Rombo di tuoni e lampi abbaglianti, metamorfosi, passione: c’è di tutto in questo spettacolo impostato su un’estetica da road movie, dai tratti rarefatti tipicamente scandinavi. Fughe, slanci oltre la forma e le apparenze, voci in viaggio, luci nella notte: la verità è arte. Come l’aria s’insinua nelle trame della vita. È potenza liberatrice.
“This is not a love story” vede sulla scena Kowalski e Vera, un uomo e una donna in viaggio verso una consapevolezza di sé e del mondo così difficile da raggiungere. Qui la parola ha una sua importanza autonoma. Rimane scolpita nella recitazione intensa e naturale dei due attori-performer, Johan Thelander e Kristiina Viiala. Essi, straniati, seguendo gli stilemi di un poetico teatro dell’assurdo, danzano e continuano a esplorare la realtà sulla base delle cinque domande del giornalismo anglosassone: chi ha fatto che cosa? Quando? Dove? Perché?
Le cinque W come i cinque sensi. Sono indagati paesaggi interiori di giostre, di alberi e parchi, di anziani che camminano lenti l’uno a fianco all’altra, nell’onirico, malinconico, esaltante viaggio della vita.
È una poesia semplice che si fonde con le note elettroacustiche del norvegese Kim Hiorthoy. I due performer cantano, ballano, recitano in un inglese scandito, la cui traduzione in italiano è proiettata con sopratitoli che però ogni tanto s’interrompono, sostituiti da puntini di sospensione. Perché in realtà il mondo che ci circonda – sembra si voglia dire – non sempre è sondabile e immediato, non sempre è così ragionevolmente comunicativo.
In quest’alchimia di musica e poesia si fondono spazi naturali e uomini, atmosfere rarefatte, come le luci che illuminano la scena. Come la ricerca incompiuta, inappagata, di quelle emozioni forti di cui i protagonisti sono alla ricerca. Il loro viaggio è un’odissea introspettiva alla ricerca di ariosi spazi primigeni. Kowalski e Vera camminano l’uno accanto all’altra, fino alla fusione in un unico punto che sfuma all’orizzonte.
È un viaggio d’impatto visivo, di persone che si muovono in un modo inconsueto, capaci di colpire con l’essenzialità del gesto. Conta solo la trasformazione, la riflessione, espressa con spiazzante icasticità e umorismo. La danza subentra qua e là laconica, commentando con sagacia la vacuità del mondo contemporaneo.
Questo teatro globale non pretende di insegnare niente. Offre solo esperienze: gioiose o malinconiche, gentili o conflittuali, buffe e stravaganti. Sono immagini di paesaggi interni che setacciano la condizione umana. Con la speranza che il bisogno di vita trovi soddisfazione.

L’essenziale allestimento di “This is not a love story”, di Gunilla Heilborn:

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Uovo in camicia con Petra Hrašćanec

petra uovoVINCENZO SARDELLI | Custodiamo un tesoro nel corpo: la capacità di esprimerci senza parole. E quante storie possono essere raccontate senza pronunciare una frase. “Uovo performing arts festival”, kermesse sapida, rapida, indisciplinata, refrattaria a ogni etichetta, è ben rappresentata da “Love will tear us apart”, di scena alla Triennale di Milano domenica 24 marzo, prima parte di una trilogia della compagnia De Facto che unisce drammaturgia, coreografia e performance, nel segno della danza contemporanea.

La croata Petra Hrašćanec, con la regia di Saša Božić, si presenta sul palco deserto con solo uno stereo. Acconciatura da maschietto trasognato, look scanzonato e spaccone, il suo sbarazzino “Love will tear us apart”, incentrato sulla relazione tra movimento e musica, è uno spettacolo con tanti sorrisi e, forse, una lacrima.

Fantasioso l’amore proposto da quell’aria vagabonda, da quel danzare impertinente. Petra Hrašćanec, mani nelle tasche, camicia grigia che proprio non vuol saperne di restare nei pantaloni attillati, è ribelle a ogni limite paludato. In antagonismo ai cliché classici, propone, partendo dalle note post-punk dei Joy Division, una danza oscillante tra tinte goth (con atmosfere opprimenti) e squarci rispetto a tale clima ossessivo, con musiche e gesti veloci e cadenzati.

Petra Hrašćanec esprime la relazione tra se stessa e gli altri sul malinconico intimismo di “Poses” uno dei pezzi cult del cantautore canadese Rufus Wainwright. La voce baritonale di Matt Berninger dei National ispira moti più leggeri, con un sottofondo sardonico. Si arriva poi al liberatorio polistrumentismo elettronico dei Tuxedomoon, con epilogo catartico sul folk-pop dolce e delicato degli scozzesi Belle and Sebastian.

Non si prende mai troppo sul serio, Petra. La sua danza è fatta di balzi-permaflex, di volteggi da farfalla, di sguardi intensi e fissi. È un’esibizione con pause, pose mute, interazioni con il pubblico, scambi con uno spettatore solo chiamato a caso sul palco.

In questo lavoro in bilico tra riflessioni introspettive ed energiche irruzioni rock, la danza astratta della performer croata mette in azione vorticosa le varie parti del suo corpo scomposto (la testa o il ciuffo dei capelli, le mani o il bacino, le spalle o le braccia). Oppure ricrea il puzzle dell’oggetto fisico, immortalato in pose statuarie. L’amore in scena è pathos, eros dilaniante; ma anche armonia, grazie all’atto stesso della danza.

La sensazione che rimane al pubblico è che l’ineffabile controllo del proprio corpo sia il principio del controllo dell’io, della padronanza di sé, per poi avvicinarsi con ironia anche all’arcano che sta dentro chi ci circonda. Un’esibizione pungente ed effervescente, apprezzata da un pubblico giovane, risucchiato nei luoghi insondabili della mente della danzatrice.

Petra Hrašćanec balla sulle note dei Joy Division:
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mondocane#2 – Il lavoro nobilita

BRIE2MARAT | Giovane per definizione. Vivace laboratorio di idee e talenti per uffici stampa e giornalisti impigriti. Il contesto storico-sociale spinge verso una deriva elitaria (di figli di papà). Questione di forma e di sostanza. Ma certe sere riesce ancora a donare meraviglie a basso costo. Va beh, comunque la si pensi, il teatro off arriverà da metà giugno nella capitale.
Torna il Roma Fringe Festival, marchio registrato che proprio in questi giorni ha terminato di raccogliere le adesioni al bando: 20 euro per partecipare, 330 quelli da versare se si sarà fra i 60 gruppi selezionati. Per spese di segreteria il primo obolo, per “spese di gestione dei palchi con i relativi service, dei tecnici e del personale addetto al corretto e regolare svolgimento del festival” (estratto dal bando) il secondo. Ovvero per l’organizzazione dello stesso. Spostamenti, vitto e pernottamento sono esclusi, ma delle tre repliche garantite in una settimana in una sala da 100 posti, ci si può tenere l’incasso (cara grazia: ma quante belle figlie Madama Doré). Cinque euro il biglietto. Che forse gli artisti in scena non dovranno pagare…
Questo il succo de “la grande vetrina italiana del teatro off” (dal sito). Certo che se il Roma Fringe Festival è “la grande vetrina italiana del teatro off” vuoi non esserci? E vuoi davvero star lì a far notare la sempre più diffusa e disdicevole consuetudine di far pagare l’iscrizione? E in fondo che cosa sono 330 euro per partecipare da protagonisti alla “grande vetrina italiana del teatro off” e aver la possibilità di vincere i premi in palio? Chissà cosa avrebbe detto mio nonno. Se gli avessero detto che per costruire le strade come aveva sempre fatto, ora gli operai dovevano pagarsi gli strumenti da lavoro e affittare il tratto da asfaltare. Chissà che avrebbe detto di questo concetto tutto contemporaneo di pagare per lavorare. Lui con quelle mani grosse come 1Q84 di Murakami, sempre chiaro in testa chi sfrutta e chi prova a non farsi sfruttare, il padrone mai chiamato con altro nome. Che la busta paga non si prende ringraziando. Eh già, nonno.

Ma qui ti fanno le pacche sulle spalle, mica bruscolini. L’ego ribolle. Partecipi alla “grande vetrina italiana del teatro off”, occasione unica, hai pure una pagina web e puoi gestire la tua comunicazione/promozione (anzi, sei calorosamente invitato a farlo). Chissà cosa avrebbe detto mio nonno. Probabilmente si sarebbe versato ancora un po’ di dado liquido nella minestra, indeciso se cercare di capire o di farmi capire. Dietro gli occhi, una manciata di parole, chiare e leggibili come il murales sotto casa mia: “Ma trovati un lavoro, cazzo…” (cit. Fabri Fibra).

Howool Baek a Milano – il videoreport

howool-baekRENZO FRANCABANDERA | E’ stato il palcoscenico del sempre vivo PIMOFF di Via Selvanesco sotto la direzione artistica di Barbara Toma ad ospitare la prima volta a Milano della coreografa coreana Howool Baek. Ospite l’anno scorso a Bassano con il suo assolo NOTHING for body, la giovane ma già matura artista ha presentato al pubblico del PimOff anche un duetto FADE, sul tema delle relazioni di coppia, fra spazi, sovrapposizioni, oppressioni e fughe.
L’assolo NOTHING for body è invece un originale progetto coreografico, accompagnato dal musicista Matthias Erian, che si sviluppa attraverso il corpo dell’artista, amplificando la portata e il significato possibile di ogni gesto, quasi a cercare l’espressione degli occhi nelle mani, o nelle piante dei piedi, sfruttando il ritmo, la vitalità e la forza dell’inspiegato.
Abbiamo incontrato e intervistato Howool Baek e vi proponiamo lo scambio vivo, le immagini dei suoi lavori, il suo sorriso e la sua forza di reclamare l’importanza e la necessità per l’arte di non dire mai in modo esplicito. Una lezione da tenere sempre viva.

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Eva Kant: 50 anni da complice della rivoluzione femminile

 solo evaALESSANDRO GUALANDRIS | Proviamo per un attimo a tornare con la mente all’Italia degli anni ‘60. Immergiamoci in un paese in forte crescita economica ma con la cultura ancora radicata in un’estetica classicista come quella per vent’anni enfatizzata dal fascismo e caratterizzata da una società molto conservatrice. Pensate, per esempio, di vedere nei cinema “La Dolce Vita” di Fellini e il giorno dopo, sull’Osservatore Romano, leggere richieste di censura che auspicavano addirittura l’intervento della magistratura (pazienza se poi, nello stesso anno, la pellicola vinse a Cannes la palma d’oro. Vive la France!).  La donna è ancora lontana da un’emancipazione radicale e potente. I personaggi femminili di spicco nel cinema e in tv, sono ragazze dalle forme abbondanti, dipendenti dalle figure maschili di riferimento: che sia un conduttore cui fare da valletta “stupida” o l’(anti)eroe di turno, schivo, a volte quasi grezzo ma affascinante, cui affidarsi per essere salvata, poco conta: di fondo l’animo femminile è ancora soffocato.

In questo clima, due sorelle, Angela e Luciana Giussani, compiono una vera e propria impresa decidendo di dare vita ad un sogno. Angela, dotata di un grande ingegno imprenditoriale, ma anche di coraggio e fantasia, fonda la piccola casa editrice Astorina, con la quale pubblica (e pubblicherà sempre) Diabolik. Affiancata dalla sorella Luciana, più timida ma non meno geniale, danno vita a quello che non sarà un semplice fumetto, ma la storia di un paese. E solo dalla mente di due donne così diverse dal loro tempo poteva nascere il personaggio di Eva Kant.

Durante la splendida chiacchierata-presentazione in onore della mostra dedicata ai cinquanta anni di Eva Kant, tenutasi a Cartoomics 2013 (vi abbiamo accennato qualcosa qui), in compagnia di due grandi sceneggiatori della serie, Mario Gomboli e Tito Faraci, ai quali si sono uniti gli storici disegnatori Giorgio Montorio e Enzo Facciolo, abbiamo viaggiato nella storia italiana, nella sua società, attraverso le tavole di un fumetto. In questa panoramica, risalta l’evoluzione data attraverso la figura di Eva Kant alla posizione della donna dal 1963 in poi. Fin dal suo esordio nel terzo numero, L’arresto di Diabolik, dimostra di non essere la solita bellezza superficiale da salvare e sovverte questa dinamica evitando lei la forca allo spietato criminale.

Ora sembra difficile comprendere tale impatto nel mondo artistico e sociale, ma in un periodo in cui un giudice poteva ritirare un numero di Diabolik solo perché si vedevano lui ed Eva dirigersi, mano nella mano, verso un letto senza essere sposati, era facile percepirne il senso di disagio. Inoltre la bella ladra, sconvolgeva anche i canoni di bellezza dell’epoca: longilinea, atletica e senza prorompenti curve da mostrare. Come ricordava Gomboli “Mina in quel periodo girava con un cesto di frutta in testa, Eva Kant si presentò fin da subito con uno chignon semplice che poi sarebbe stato la moda degli anni successivi, fino ad oggi. E’ il personaggio più originale della serie. Diabolik trova le sue origini nella letteratura francese, come ad esempio Arsenio Lupin, mentre Eva era totalmente nuL'arresto di Diabolik (marzo 1963)ova”.

Da quel momento, dal suo arrivo nella vita del glaciale ladro, che per molti collezionisti coincide con il vero inizio di Diabolik, Eva Kant e il suo amante rappresentano per volontà di popolo la coppia italiana. “Sono stati probabilmente – continua Gomboli – la prima coppia di fatto italiana”. Perché se l’attrattiva principale erano le scorribande dei protagonisti e le battaglie con l’acerrimo nemico Ginko, “(…) i lettori – ci spiega Faraci – apprezzarono molto le scene che di solito non ci sono in altri fumetti del genere: Diabolik ed Eva che compiono azioni quotidiane, come guardare la tv in salotto e scambiarsi battute in cucina. Raccontare Diabolik ed Eva voleva dire raccontare una coppia italiana”.

Si spiega così tutta l’attenzione mediatica che negli anni ha esercitato la creatura delle sorelle Giussani. Nonostante la sua natura da fuorilegge, è stata spesso richiesta per campagne sociali e di carattere umanitario. Fino ad attirare anche grandi case commerciali che l’hanno inserita in numerosi spot, in molti dei quali rappresentava la vera forza della coppia: la donna (completamente emancipata e indipendente) che aiuta Diabolik, bloccato da una foratura della mitica Jaguar E. Ecco perchè il pubblico la considerava vera. Ci si poteva identificare.

Angela e Luciana Giussani hanno creato uno dei capolavori della storia del fumetto mondiale ed Eva Kant è sicuramente il loro lascito più importante, per il valore sociale che ha rappresentato. Se l’arte ha spesso il compito di narrarci la storia del tempo cui appartiene, sicuramente la complice per la vita di Diabolik identifica la storia di una difficile conquista raggiunta dalla donna in Italia. Di certo più lenta di come un personaggio innovativo e controtendenza come lei avrebbe accettato.

Vi lasciamo con un video realizzato alla mostra “Eva Kant: 50 anni da complice”, di cui vi abbiamo parlato, che attraversa tutte le fasi storiche della prima splendida metà di secolo di Eva, accompagnata dolcemente da un lento jazz.

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Fracassi e perversioni: amore bestiale con padrone

blondi fracassi 1RENZO FRANCABANDERA | La prima perversione deve essere stata non cedere alle perversioni. E questo sia per Sgorbani, che firma la drammaturgia, sia per il duo Martinelli-Fracassi che in questo progetto di racconti di amore e dittatura si sono tuffati da alcuni mesi.
In realtà l’idea di Blondi era in gestazione da circa tre anni e trova realizzazione nel 2013 grazie alla scommessa del Piccolo Teatro. Questa perversione è riuscita. Di quello che è stato forse il punto di partenza, l’amore nella sottomissione animale, nell’esito spettacolare non resta che qualche pallida traccia tanto nel testo quanto nell’azione scenica. Il fulcro è altrove.

La seconda è per così dire ambientale. La perversione è tipicamente un atto immaginabile in un luogo chiuso. Qui invece siamo di fronte ad uno spazio importante, ad una perversione esibita. Il Teatro Studio nella nuova conformazione senza platea frontale e senza palco rialzato ha una parte appena entrati dove si sistema l’emiciclo degli spettatori, e tutto il resto dello spazio agibile che si prolunga fino alla parete di fondo per circa trenta metri. Lo spazio dell’emiciclo è vuoto, quello sul fondo, all’ingresso, riempito con una ventina di brande che diventeranno poi elemento scenico determinante. Sensazione di chiesa gotica sconsacrata, dove fra le brande in metallo da nosocomio si aggira questa cagna dal sembiante identico a quello del padrone. Felice l’intuizione scenica di Renzo Martinelli cui va dato merito per l’idea.

E qui siamo alla terza perversione: il letto. La cama. Il giaciglio. Qui inquietante. Malato. Ospedaliero. Ma camuffato attraverso strisce di plastica attaccate alla spalliera, e pronto a diventare prato finto, spazio aperto per le scorribande del cane dittatoriale. Con due schiavetti in divisa pronti a registrarne ogni minimo guaito.

Quarta perversione: dittatore e schiavo. Master and slave. Attenzione, declinare l’ovvio dell’idea è la parte pericolosa di ogni spettacolo. Qui andava costruita un’identità psicologica per l’animale diversa da quella, già portata all’attenzione del pubblico, di Eva Braun, protagonista di un altro capitolo del polittico “Innamorate dello spavento”. La drammaturgia si gioca principalmente sul conflitto fra la cagna e la donna, dove l’una finisce per diventare l’altra in un rovesciamento di parti che ha connotati umani, fra gelosie, psicodrammi e risate a denti in fuori del padrone. La cagna posseduta; la Braun che, per il piacere del capo, gli urina addosso, di fatto sottomettendolo, e che fa da contrappunto al sacrificio dell’animale; piacere mortifero ultimo del padrone nell’avvelenare la bestia, come Pasolini in Salò: la masturbazione di fronte al mondo che muore per propria mano. Queste immagini scorrono in rapida sequenza nel racconto.

Quinto: non uccidere! Fantastica, nella parabola psicologica dell’animale, dopo aver posseduto (perchè animale del capo) ed essere stata posseduta, è l’esperienza della maternità. Questa parte è, per corposità di conflitto con la distruzione circostante, un momento figurativo altissimo. In questo punto la Fracassi arriva al massimo della densità interpretativa. Dona a questo sogno di batuffoli lanuginosi una corporeità, un’ intensità, che ovviamente porta lo spettatore allo schianto con di lì a seguire scena di morte. Non la gravidanza, ma la cura della vita: questi in quaranta secondi che valgono lo spettacolo. Mentre fuori, nel gelido freddo, una locomotiva percorre binari ricoperti da una neve di plastica e cadono le trincee (in questo Martinelli, onestamente,  dimostra di aver vinto la sfida in generale).

Sesta perversione: ascesa e declino dello città di Mahagonny. Assistiamo al percorso sui due rami della parabola. Sul tema risulta fondamentale il lavoro sulle luci di Claudio De Pace e di Fabio Cinicola al suono. Sono loro a segnare il punto di flesso, il momento in cui la curva si inverte. Il passaggio da un mondo e un sistema di emozioni, l’ascesa, all’altro, il declino. Per la cronaca questo ruolo è fondamentale perchè proprio prima di quel flesso, la drammaturgia cede, si fa insistita e ripetitiva (e la regia un po’ asseconda). E un momento in cui non arriva tutta a segno e i giochi ambientali salvano il ritmo. Annotiamo, per le luci, la parte più scontata dell’epifania dei bombardamenti. Didascalica.

Settima: raccontiamo cosa abbiamo visto. Mettiamo fine alla perversione dell’attesa. La vicenda è quella del cane di Hitler, Blondi. Zelighianamente innamorata del padrone. In scena appare con due militari (Lorenzo Demaria e Daniele Molino) deputati in pratica a soddisfarne i bisogni e a registrarne voci e sussulti. In un continuo conflitto amoroso con Eva Braun, la cagna vive ascesa e declino della dittatura, fino a morire di cianuro nel freddo baratro della fine, dopo essere stata costretta a procreare sotto gli occhi della rivale.

blondi fracassi 2Ottavo peccato: la parola. La drammaturgia è vincente in più punti, e nei punti di debolezza è sorretta dalla solita grande Federica Fracassi, che colora di umanità il bestiale, la cui unica vera incorporazione non è nella camminata a quattro zampe ma nell’impossibilità del pollice opponibile, con le mani fasciate a contenere il dito degli uomini. Il testo a volte si dilunga, sgorbaneggia, che per chi conosce l’autore siamo sicuri sia un verbo con una sua coloritura specifica. Per chi non lo conosce, invece, Blondi è comunque un’opportunità di confronto con un ossessivo creativo della parola psicologica, che resta al di qua de limitare con il poetico, riteniamo per volontà. A volte se ne vorrebbe ancora, a volte non più.

Nona perversione: la fantasia. La scena più bella quella in cui un treno sfreccia in sala, e quella in cui si vede una svastica rotante girare in fondo alla sala illuminata da dietro durante una farsesca esibizione di forza di un regime allo sbando, o quella in cui una cagna allatta cuccioli che guaiscono, o ulula al freddo siderale della notte tedesca, e le trincee di una guerra che fa prigioniera sempre l’umanità inconsapevole. Ma forse questo in sala non c’era o ce lo ha fatto vedere Martinelli. Blondi è una delle sue migliori regie degli ultimi anni: meglio le partite secche fuori casa da 90 minuti che quelle da 180′ (andata – ritorno e supplementari) fra le mura amiche.

Decimo peccato: il sassolino. Insomma diciamocelo: Teatro i è andato a vincere al Piccolo-Maracanà… giocando all’italiana, tenaci, ma in più tratti dando anche spettacolo vero. E zac!

Il Pinocchio di Babilonia Teatri

Pinocchio Marco-Caselli-Nirmal

NICOLA ARRIGONI | Con Pinocchio salta ogni estetica, lo sguardo teatrale non tiene e alla fin fine non tiene neppure il riferimento alPinocchio collodiano, perché la vita è più forte della sua rappresentazione, perché i corpi e le storie di Paolo Facchini, Riccardo Sielli e Luigi Ferrarini sono vita che scotta, risorge e pretende di essere.

Pinocchio dei Babilonia Teatri è un non/spettacolo, è non teatro, o forse è teatro perché in fondo è incontro di persone, è racconto di vite tornate a vivere, di uomini usciti dal coma con una disperata vitalità buttata in faccia allo spettatore. Ed è lo stesso Enrico Castellani a spiegare questo Pinocchio esploso fra le mani: «Volevamo fare Pinocchio, ma poi le storie di Paolo, Riccardo e Luigi hanno avuto la meglio e la storia collodiana è rimasta sullo sfondo» come segno di uno spettacolo che ha preso una via diversa, quella di un non spettacolo, il racconto della sofferenza. Babilonia Teatri ha lavorato con i ragazzi della compagnia Gli Amici di Luca, centro che da anni utilizza il linguaggio della scena per aiutare a ridare una relazione e socialità a persone uscite dal coma, molto spesso in seguito a incidenti stradali. La scena in Pinocchio è vuota, Paolo Facchini in bermuda beige, Luigi Ferrarini imbragato mostra i segni del suo post-coma in una fisicità piegata, Riccardo Sielli è delle parti di Rubiera e mostra un bell’accento emiliano che rincuora.

Di fianco a loro Luca Scotton nella sua pingue fisicità con indosso un naso di carta alla Pinocchio. Dalla consolle della regia Enrico Castellani fa loro delle domande, chiede di raccontare la loro storia, se sono alla ricerca della loro Fata, chiede loro di dirsi, ma anche di elencare personaggi e luoghi del romanzo collodiano, di dire chi sono oggi e chi erano ieri, con una serie di cartelli che straziano il cuore. Ed è questo che è forse Pinocchio: un incontro con la sofferenza e pure la voglia di andare oltre quell’incidente, di andare oltre il tunnel nero per riemergere alla luce. Quegli uomini mostrano la loro fisicità ferita, i loro movimenti a scatti, difficoltosi, raccontano di una normalità perduta, di sere passate in discoteca in cerca di rimorchiare, della moto che a un certo punto ti tradisce, di quella processione di platani che ti taglia la strada, di una lenta ma caparbia riabilitazione…

Eppure in tanta vita così mostrata e detta c’è a tratti un’estetica che commuove. Commuovono quei tre uomini/burattini nel loro muoversi a fatica, commuovono quei corpi che tornano ad agire, mossi da un burattinaio invisibile, fa venire un groppo alla gola lo stare lì di Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli con a lato seduto l’abbondante Pinocchio di Luca Scotton che li guarda, come se tutti loro fossero quel burattino lasciato in disparte dopo che finalmente Pinocchio s’è fatto bambino… Sarà ma il non spettacolo di Babilonia Teatri è un incontro, un bell’incontro col dolore e la voglia di vivere, senza retorica ma vissuto con l’immediatezza di un dialogo naturale e costruito con intelligenza e passione da Enrico Castellani, l’esito di un bisogno: creare relazioni e magari iniziare laddove la relazione con la vita s’era interrotta.

PINOCCHIO di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, con Enrico Castellani, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli e Luca Scotton;collaborazione artistica Stefano Masotti e Vincenzo Todesco; scene, costumi, luci e audio Babilonia Teatri organizzazione Babilonia Teatri e BaGs Entertainment; grafiche Francio produzione Babilonia Teatri collaborazione Operaestate Festival Veneto con il Contributo di Comune di Bologna, Regione Emilia Romagna patrocinio Emilia Teatro Teatro Fondazione promozione BaGs Entertainment www.bagsentertainment.com residenza artistica Babilonia Teatri e La Corte Ospitale Pinocchio è un progetto di Babilonia Teatri e Gli Amici di Luca laboratorio teatralepresso la Casa dei Risvegli Luca De Nigris realizzato col contributo della Fondazione Alta Mane-Italia ringraziamo Laura Bissoli, Cristiana Bortolotti, Cristina Fermani, Fulvio De Nigris, Eloisa Gatto, Irene Giardini, Nicola Granata, Giovanna Grosso, Marco Macciantelli, Francesca Maraventano, Juri Mozzanti, Cristian Sacchetti, Davide Sacchetti anteprima alla Casa dei Risvegli Luca De Nigris, Ospedale Bellaria 7-8-9 ottobre 2012: 7 ottobre 14° edizione della Giornata nazionale dei Risvegli per la ricerca sul coma, Bologna; al Comunale di Casalmaggiore , 23 marzo 2013.

 

Macellerie Pasolini: il fantasma si fa pietra

 Foto: Alessandro Scotti PhotographyALICE KELLER | “Gli occhiali rotti”, performance contro le mafie per l’iniziativa bolognese Civica 2013, regia di Macellerie Pasolini, prende avvio nel bel mezzo della quotidianità. Non c’è un sipario, non cala la luce, lo sappiamo, siamo nel cortile del palazzo comunale e semplicemente aspettiamo. Alessandro Bedosti, attore e danzatore, è già in un angolo, accovacciato. Prende con le mani della terra, ci si cosparge il volto, sta in equilibrio su due piccoli amplificatori, che porta legati ai piedi.
Fotografi, tecnici, organizzatori, un capannello di pubblico in attesa e una scia di comuni avventori, curiosi, gli passano intorno, lo toccano, aspettano. E’ una situazione bizzarra, dove una performance che ancora non c’è e una quotidianità un po’ meno quotidiana si toccano, attendono in tensione che accada qualcosa. Che la performance cominci, la realtà torni quella di sempre e tutto si risolva, nelle categorie consuete. Invece questo limbo dura a lungo, per molto tempo i confini si dilatano, tanto che l’impronta dei gesti tecnici degli attori, la preparazione degli organizzatori entra nel ricordo dello spettacolo.
Poi, d’improvviso, comincia la musica. Un uomo è solo, il volto coperto di terra, sta accovacciato. Magro, lo sguardo basso, quando si alza, e lentamente avanza, sale una scala.

E’ lunga la scala.

Barcolla, cammina su tacchi alti, trasporta scarpe più grosse di lui che non sa portare. I suoi gesti discreti – una presenza danzata e minimale – compongono immagini scure, corvi, cornacchie. Sono simboli sfumati e controllati in un corpo ridotto all’osso, costretto a una precisione stanca, etica. Evocano ma non dicono, accennano con il sorriso di un bambino alla fatica. La fatica di capire la mafia. Risolverla. Viverne la violenza.
Fatica: salire è fatica. Nella fatica, per salire, occorre aiuto: noi siamo le spalle, l’uomo cerca appoggio sulle nostre spalle. E’ un gesto piccolo, necessario ma non casuale, sempre compresso, misurato, ci trasmette col solo contatto una reazione scomoda, insofferente: l’egoismo della sopravvivenza della propria pelle.

L’omertà tra realtà e rappresentazione.

L’azione si sposta sotto un’ala di portico fredda, il vento ghiacciato sferza le guance. Qui Matteo Garattoni, performer, siede in controluce. E’ una figura nervosa, dalla partitura gestuale costretta e vibrante, che fili come quelli di una bomba legano a una piccola piattaforma.
Il collo fasciato, giri di scotch e una pistola alla tempia. Ruota il capo lentamente, con scatti piccoli e impercettibili, mentre le voci di cento telegiornali elencano anni, date, numero di morti. Quando la mano preme il grilletto il corpo si contorce  – appena – dietro a un’esplosione di bolle di sapone.
Tanto basta: la bomba è nei nostri ricordi, come i brandelli di carne, le grida strozzate. Si sovrappongono al portico freddo mentre il performer sparisce.

L’inquadratura sterza di colpo e compare una santa, schiacciata al muro come l’icona di un quadro.

E’ Natalia Mazer, performer, che danza muovendo soltanto le braccia, secondo una scia di gesti sottili e fugaci. Passa da una figurazione all’altra, mostrando in mezzo al petto un cuore trafitto, in plastica. Ogni volta che il simbolismo pare troppo, è già sparito, la santa ha abbassato le braccia in uno sguardo neutro. Resta la voce rotta, registrata, che grida con strazio: “li perdono”.

E’ nella realtà, alla fine,  la commozione.

Foto: Alessandro Scotti Photography

L’occhio di PAC alla performance di Macellerie Pasolini

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Carolyn Carlson e il suo Synchronicity

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NICOLA ARRIGONI | Ci sono le atmosfere sospese, l’attesa, lo stare sulla soglia o il guardare oltre la finestra di certe donne dei quadri di Edward Hooper in Synchronicity di Carolyn Carlson. Quella porta rossa, quel muro che divide da un interno che è vita nascosta di relazioni, amori, perdite è il segno narrativo di un lavoro intenso, costruito per quadri che procedono per apposizione, così come ciò che accade in scena si trova riflesso, mediato dalla soggettiva filmica realizzata dalla stessa coreografa, un di più di visione che è visione intima, mediata. Ciò che accade è la fame di relazione, è la perdita improvvisa, è l’incontro inatteso, è il tradimento spiato, è quell’ultimo banchetto che è ultima cena e rubarsi l’un l’altro in pane di bocca, è lavacro purificatorio in un catino che sa d’infanzia perduta, è l’attesa di un treno, è il passare di quel treno e in quell’attimo il gesto di addio, dell’alzarsi per salutare diventano gesto coreografico. In tutto ciò i danzatori di Carolyn Carlson: Alan Brooks, Riccardo Meneghini, Yutaka Nakata, Camille Prieux, Chinatsu Kosakatani, Céline Maufroid, Isida Micani, Sara Orselli, Sara Simeoni sono la penna con cui la coreografa statunitense scrive quelle storie d’amore, contatti fugaci, incontri in un motel, o in una stazione di benzina, o ancora le solitudini in attesa di abbracci in quell’America dalle distese infinite di cui Carlson porta dentro i colori e le solitudine, ben reso da una colonna sonora che unisce Tom Waits e Michael Nyman, Jean Sibelius e Bruce Springsteen con un anelito al sacro affidato ad Henry Purcell. Se questo è il senso di un lavoro che non manca di un certo calligrafico estetismo, in Synchronicity c’è anche una scrittura coreografica che cita e ruba da Pina Bausch di Café Müller, di Vollmond, Kontakthof, un omaggio alla grande coreografa tedesca, inventrice di quel teatro-danza che Carolyn Carlson costruisce nella sua esperienza italiana alla Fenice di Venezia.

Al di là di questo in Synchronicity si trova tutto lo stile di Carolyn Carlson, i suo gesti secchi, quel tendere al cielo e subito cadere, il lasciarsi andare nelle braccia dell’altro e poi scivolare via, come se quel contatto scottasse. Carolyn Carlson nel lavoro presentato al Ponchielli racconta di una fame d’amore, della volontà che il solo pensare alla persona amata la possa far comparire da dietro la porta, che l’assenza venga colmata da un ritorno impossibile, che l’amore possa consumarsi oltre il tempo. E tutto ciò avviene con leggerezza e una lentezza che sa di ricordo e sospensione dell’anima, sensazioni che si sciolgono nel lungo applauso finale.

Un video dello spettacolo
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Rome Chamber Music Festival: il coraggio di puntare su giovani talenti

romechamberfoto4 copiaLAURA NOVELLI | Nella situazione di grave crisi in cui versa il sistema cultura di questi tempi, bisogna avere coraggio. E la prima forma di coraggio è quella che guarda al futuro investendo nei giovani. Coltivando i loro talenti. Dando loro occasione di crescita professionale e di visibilità. Sostenendo percorsi di formazione che garantiscano costruttivi approdi artistici: eventi ad hoc verso cui incanalare le loro energie creative. Una mission che il Rome Chamber Music Festival (RCMF) diretto dal violinista statunitense Robert McDuffie persegue dal 2003 e che quest’anno, proprio in occasione dell’importante decennale, acquista ancora maggiore valenza: sono infatti venti i giovani musicisti europei selezionati nell’ambito del progetto “Missione giovani” per essere affiancati in un tirocinio formativo da “coach” di altissimo livello (tra gli altri, lo stesso McDuffie, Lawrence Dutton, Andrea Lucchesini, Gary Hoffman) e per poi esibirsi, insieme proprio ai loro affermati maestri, a Palazzo Barberini durante le serate conclusive della rassegna, che si inaugura il 9 giugno con la Sonata per violino e pianoforte in Do minore, op. 30 n. 2 di Ludwig van Beethoven (McDuffie, violino e Lucchesini, pianoforte). Tra questi venti talentuosi strumentisti del nostro continente, ben otto sono italiani e stupisce la robustezza dei loro curricula, a fronte di un’età in alcuni casi persino adolescenziale (hanno dai quindici ai ventisei anni e suonano il violino, la viola, il violoncello, il clarinetto e il flauto). La fondazione che si occupa di organizzare il festival, diretta da Jacopa Stinchelli, li ha reclutati in diversi conservatori della Penisola, e dopo un’accurata selezione, li ha chiamati ad affrontare questo importante traguardo professionale.
Li potremo ascoltare, nello splendido scenario del Salone Pietro Da Cortona, il 12 e il 13 giugno, quando eseguiranno autori impegnativi quali Mendelssohn, Rossini, Schubert e Schumann.
Il più giovane è un violinista quindicenne, Gennaro Cardaropoli, che studia al Conservatorio di Avellino ma che suona già con importanti orchestre (l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, l’Advanced di Santa Cecilia, la Juvenilia Corde, gli Archi di Roma, il Progetto Orchestra di Vicenza e i Mannheimer Philharmoniker) e che si è esibito anche in Svizzera, Germania, Francia e Stati Uniti.
Claudia Irene Tessaro di anni ne ha 17, ha iniziato a studiare musica all’età di 5 ed è il primo violino dell’Orchestra giovanile del Conservatorio A. Steffani di Castelfranco Veneto. Daniel Palmizio, 26 anni, insegna già al Conservatorio S.Cecilia di Roma, è stato il più giovane violista a vincere il premio S. Carlo di Napoli; mentre Tommaso Pratola (flauto) arriva dal Conservatorio de l’Aquila, pluripremiato nel 2012, partecipa al Rome Chamber Music Festival per la seconda volta.
A questi si aggiungono poi Lorenzo Zanisi (primo clarinetto solista dell’Orchestra Internazionale di Roma), Tommaso Zuccon Ghiotto (violinista ventiquattrenne esibitosi spesso come solista con l’Orchestra sinfonica di Vicenza e con l’Orchestra di Padova) e Matteo Tabbia (violoncellista torinese che nel 2010 è stato il primo italiano a vincere il premio “Alexander & Buono International Competition” di New York).
Insomma, una variegata scuderia di talenti italiani che va sostenuta e incoraggiata. Meritano tutti un plauso particolare per la passione e la determinazione con cui si dedicano alla musica, ma ancor di più merita un plauso lo stesso McDuffie per aver arricchito il suo importante festival di queste promettenti linfe giovanili. D’altronde, il violinista statunitense (virtuoso di estrema sensibilità espressiva che, va detto, possiede il violino più prezioso al mondo, il Guarnieri del Gesù del 1735 “Ex- Ladenburg”, già appartenuto a Paganini) crede così tanto nella formazione da aver fondato nella sua città natale, Aspen, il McDuffen Center for Strings, annesso alla Mercer University.

Foto Enrico RipariIn occasione di un’intervista rilasciata tempo fa ad una rivista statunitense, il direttore del RCMF ha così spiegato il senso e il valore del suo approccio didattico: “In parole povere, il McDuffie Center è un istituto indipendente della Mercer University. Siamo liberamente affiliati al conservatorio, dico liberamente perché ci è stata riconosciuta una sorta di autonomia per inserirci nell’intera università. Il piano di studio che abbiamo predisposto è finalizzato alla formazione di un musicista in grado di lavorare da libero professionista. Non si tratta di una mia presa di posizione ideologica, non mi ritengo così intelligente da dettar legge. Tuttavia, faccio parte del mondo della musica classica, mondo che attualmente affronta un momento di crisi e non sappiamo né come né quando finirà. Inizierà una nuova fase e dobbiamo prepararci ad affrontarla […] E’ possibile approfondire i compositori americani e inglesi studiando per conto proprio, in maniera indipendente. Così, stiamo sostituendo questi corsi con lezioni di microeconomia, psicologia, filosofia, libera impresa, estetica, diritto commerciale e arte oratoria. Lo scopo è quello di preparare i nostri futuri laureati, che hanno un enorme talento, ad affrontare il mondo reale fornendo loro i mezzi per sapere come leggere un contratto o come costituire una fondazione”.
Uno spirito innovativo che McDuffie ha sempre instillato anche nella programmazione del RCMF, accostando autori e stili quanto mai diversi. Anche il carnet delle proposte 2013 risponde a questo desiderio di miscelare ed esplorare nuove frontiere della musica da camera (il programma completo è consultabile nel sito www.romechamberfestival.org), senza trascurare il fascino indiscutibile del “backstage”: dal 6 giugno la Galleria di Palazzo Barberini (custode preziosa di alcuni capolavori di Caravaggio, Raffaello e Guido Reni) sarà aperta al pubblico per permettere di assistere gratuitamente alle prove dei concerti serali. E ovviamente l’invito ad aderire non potrebbe che essere rivolto prima di tutto ai giovani.

Un video dell’edizione dell’anno passato con un’intervista a McDuffie
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