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mercoledì, Gennaio 15, 2025
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Alla ricerca del “Guardaroba pefetto”: le avventure à la page di Carla Gozzi

guardaroba perfettoALESSANDRO MASTANDREA | In principio era “Non è mai troppo tardi” di Alberto Manzi. Oggi invece, esplorati da tempo i territori del tragico e sperimentati sulla viva pelle degli spettatori mimesi e catarsi, la TV ha abbassato le proprie ambizioni rivolgendo lo sguardo altrove, verso attività ben più mondane.
La componente educativa, infatti, ha trovato una singolare valvola di sfogo in ambiti sempre più specialistici: dai segreti della decorazione di torte e affini, all’organizzazione di un party impeccabile, fino alla scelta del perfetto abito da sposa, tutte esigenze indissolubilmente legate alla condizione umana, dalla cui risoluzione dipende senza ombra di dubbio l’equilibrio della nostra sfera emotiva. La cura del corpo e del proprio vestiario, del famigerato “outfit” per dirla con terminologia tecnica, non è da meno.
In tale ambito, meta imprescindibile di pellegrinaggio mediatico, per tutti i cultori dello stile via etere, è la chicchissima “Ma come ti vesti!?”.
La premessa è semplice: se le vicende della vita hanno portato un tuo congiunto a smarrire la retta via dell’eleganza, non c’è altra soluzione se non affidarsi, con sguardo mesto e animo contrito, ai due santoni della passerella da studio televisivo, all’appello Miccio Enzo e Gozzi Carla, sperando nella grazia. Sono oramai sette anni che la caleidoscopica esperienza nei dedali del fashion style, offerta dai due, miete vittime senza posa. D’altro canto, un guardaroba ben assortito val bene una o due crisi d’identità. Ebbene, non paghi di tanti anni di successi, le instancabili menti di Discovery Italy, hanno pensato bene allo spin-off: “Guardaroba perfetto, kids & teen”. E la polemica infuria implacabile in rete. Abbandonato il “fido Miccio” (il gioco di parole animale è casuale) è la sola Gozzi a farsi carico della pesante eredità. Sulle sue spalle l’ingrato fardello di educare al buon gusto le masse di bambini e teen ager, con l’ausilio dell’immancabile spalla, Enza: castigata, la poveretta, in un bianco camice da sarta, cui solo un fazzoletto nero al collo dona quel minimo di brio.
Ora, che tra il Miccio e la Gozzi, quello simpatico sia il primo, è fuor di dubbio. Le sue metafore ardite valgono da sole il tempo della trasmissione: “vestita così, bella mia, sembri un lottatore di sumo”. Ma le ferree leggi della fascia oraria non permettono deroghe. Un bambino avviato sulla strada dell’omologazione non ha mai fatto male a nessuno, ma i consigli à la page di un esperto stylist gay a degli inermi teen-ager, non stanno per niente bene a tavola.

Ma a noi, in fondo, la Carla Gozzi piace anche da sola: le sue pose da vecchia governante tedesca e quel singolare vezzo di parlare tenendo le labbra perennemente socchiuse ci hanno irrimediabilmente contagiati.
Così come siamo contagiati dal tono allegro della trasmissione e dal “gioco della moda”, come lo chiama lei, alla faccia di petizioni, polemiche e fobie da omologazioni varie. “Carla aiutaci tu”, urlano i genitori in crisi. E la nostra super-donna si precipita in loco, con la coda platinata sempre in ordine, a dispensar consigli. Alle sprovvedute kids & teen non è dato nemmeno il tempo di reagire, che lei, sorta di irrefrenabile uragano di simpatia, ha già messo a soqquadro il loro guardaroba: “Sai cosa facciamo adesso? Liberiamo tutto il guardaroba e lanciamo tutti i vestiti sul letto!”-“ Ah divertente” risponde Matilde, 14 anni, da Milano, sguardo tra lo smarrito e attonito. La moda sarà pure un gioco, ma di certo non è uno scherzo. Occorrono infatti doti da psicologa, oltre naturalmente a una simbiosi perfetta con quel flusso di energia primordiale che è lo stile e i suoi accostamenti. Che importa poi se i risultati non sempre vengono apprezzati – “Questo non mi piace… è un po’ antico”- in fondo, sono solo ragazzi.

Già assediati da pubblicità e subdole strategie di marketing ( peer-to-peer, insiders, trandspotters, seeding) ai nostri poveri pargoli tocca anche sciropparsi i consigli dell’inflessibile governante. “Carla Consiglia: mai parlare alle orecchie delle amiche”. Non bastassero, dunque, le tempeste ormonali, i rapporti conflittuali con genitori e insegnanti e i cambiamenti del proprio corpo da accettare e gestire, ora dovranno guardarsi anche da “Guardaroba perfetto kids & teen”. Quando si dice “piove sempre sul bagnato”.

Qualche parodia…
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Tradizione e contemporaneo nell'esperienza coreografica: intervista a Thierry Malandain

Malandain rehearsal photo by M.Logvinov
Malandain rehearsal _ photo by M.Logvinov

ANTONELLA POLI | In occasione del XXIII edizione del festival « Le Temps d’Aimer la Danse » di Biarritz (Francia) che ha proposto 46 spettacoli e ha ospitato 30 compagnie, il suo direttore artistico, Thierry Malandain, ci svela i segreti della sua organizzazione, i principi ispiratori delle sue creazioni artistiche e le tendenze del panorama coreografico.

A.P. Si é giunti alla XXIII edizione del Festival. Quali sono stati i criteri di scelta delle compagnie ospiti e quali sono le ambizioni di questa manifestazione ?

T.M. La mia ambizione principale per l’organizzazione del festival é quella di dare un panorama aperto a 360 gradi sulla danza contemporanea del momento. Inizio a visionare i video delle compagnie che mi propongono i loro lavori anche due o tre anni prima. Abbiamo anche una rete internazionale di partners che ci suggerisce nuovi artisti, testimoni delle nuove tendenze. E’ il caso quest’anno del coreografo Samir Calixto, che grazie all’associazione KORZO dell’Aja, ente che offre studios ad artisti giovani permettendo loro di lavorare sulle loro creazioni, ci ha regalato un duo straordinario sulle Quattro stagioni di Vivaldi.

Altra nostra fonte di scoperta é il concorso Reconnaissance che ha luogo nel Nord della Francia ogni anno in novembre. Il Festival dà la possibilità ai vincitori di esibirsi. Certamente le scelte non sono facili e d’altro canto non posso accettare solo quello che mi piace. L’importante per me, é che l’opera proposta abbia un senso, sia coerente e possa aprire le porte dell’immaginario per permettere al pubblico di cogliere la differenza tra i diversi stili coreografici.

Lei ha già creato più di 70 balletti, ma come ha cominciato la sua carriera di coreografo ?

Ero ballerino al Ballet de Nancy, e stranamente pur avendo solo ventitré anni pensavo già al mio futuro, a cosa diventare terminata la carriera di danzatore. Le mie ambizioni erano quelle di divenire scenografo, decoratore di teatro e seguivo a tal scopo dei corsi per corrispondenza. Nel 1984 partecipai, un po’ per caso, al concorso per giovani coreografi di Volinine (antico ballerino dei balletti russi) vincendolo ; seguirono poi i due successi al concorso di Nyon (1984-85). Nel 1986 iniziai a dedicarmi completamente alla coreografia fondendo la compagnia  « Le Temps présent » con otto danzatori miei colleghi a Nancy. Ed é grazie a questo nucleo solido, nel quale ancora oggi alcuni di loro lavorano, (vedasi Richard Coudray, maître de ballet della compagnia), che ho potuto sviluppare le mie idee coreografiche.

Il suo stile coreografico ha subito trasformazioni nel corso di questi anni ?

Sono stato sempre fedele alla tradizione classica in cui mi sono formato come artista. Forse per questo, ho l’etichetta di essere un coreografo neoclassico. Ma sono stato anche attento all’evoluzione della sensibilità del mio pubblico, alla ricerca di contenuti per i miei balletti adeguandolo a un liguaggio gestuale ricco e innovativo.  In Magifique, opera dedicata ad alcuni estratti dei più grandi balletti classici ho adottato anche l’ironia come chiave vincente ; in una Dernière Chanson (premio della critica di Danza 2012) ho fatto rivivere la musica dei madrigali del XVe XVI sec.; in Juliette et Roméo ho riadattato la tragedia dei Capuleti e Montecchi ispirandomi alla spiritualità della musica di Berlioz e con l’ultima creazione, Cendrillon, mi sono immedesimato nel personaggio femminile. Chi di noi non ha l’aspirazione alla bellezza, all’equilibrio, all’essere messo in luce ? Cerco di creare sempre dei balletti che siano delle opere d’arte trascendendo la realtà.

Quali sono oggi le tendenze del panorama coreografico ?

Si ha l’impressione che si voglia distruggere il patrimonio storico, io penso che bisogna riconoscerne ancora il valore. Si ha la tendenza a proporre degli spettacoli in cui « il corpo del danzatore » non esiste più diventando « ordinario ». E la danza dovrebbe rimanere l’arte corporea per eccellenza. I danzatori sembrano non avere avuto una formazione solida e i loro fisici non trasmettono più quelle vibrazioni che dovrebbero. Una volta, si guardava all’avanguardia per trarne degli spunti (vedasi l’influenza di Isadora Duncan o Loie Fuller sulla danza classica) oggi é il contrario. Le due dimensioni possono coesistere molto bene insieme, senza fratture.

Soprattutto in Francia, si ha l’impressione che il sistema voglia soffocare la memoria, e questo é a mio parere un grande errore. Ció non succede in Inghilterra ove per esempio coreografi come Wheeldom continuano a lavorare  sull’innovazione nella tradizione, ma anche all’estero : posso citare un coreografo come Ratmansky capace di avere un linguaggio moderno senza rinnengare il passato.

I suoi progetti ?

In Luglio dell’anno prossimo ci sarà uno spettacolo a Pau (Pirenei francesi) che riunirà le tre più grandi compagnie francesi del Sud-Ovest. Con noi ci saranno il Ballet du Capitol di Toulose e l’Opéra di Bordeaux accompagnati dall’Orchestra nazionale di Pau.

Altre info disponibili su:

http://letempsdaimer.com/ 

http://malandainballet.com/

Milomir Kovacevic: la fotografia e la crudeltà della Storia

Kovacevic_cane dilaniatoMARIA CRISTINA SERRA | Sono stretti l’uno all’altro sotto teli di plastica nera, gioielli preziosi gettati via insieme alla spazzatura. I bambini dei sobborghi di Damasco giacciono allineati, avvolti nei loro stracci colorati, con le braccia incrociate sul petto, come in un’ultima difesa della vita. Immobili nel loro ultimo sonno sotto un infinito lenzuolo bianco, che lascia scoperti solo i volti di un’infanzia violata.

Il conto delle piccole vittime si perde, il presente ci colpisce come un pugno nello stomaco, la memoria torna indietro nel tempo, ai bimbi di Sarajevo che nessuno ricorda più, alle parole scambiate con Milomir Kovacevic, fotografo di un paese dissolto dalla guerra, che ha ritrovato una patria a Parigi. Il suo archivio di memorie fotografiche è diventato una mostra, “I Bambini e la Guerra”, alla libreria “Comme un roman” in rue de Bretagne, e un libro “Sarajevo” (Photo Poche ed.), per ricordare a tutti che il passato torna sempre e la ferocia umana non conosce confini né tempo né spazio.

“Un souvenir de Sarajevo et de notre triste histoire” è la dedica che Milo mi ha scritto sul risvolto di copertina, incrociando il suo sguardo malinconico e ricco di vitalità con il mio, mentre sorseggiavamo un vino in una vecchia brasserie del quartiere, fra un’umanità perduta nei propri incanti e rimpianti quotidiani, evadendo in parte le mie domande straniere su una realtà che bisogna aver vissuto davvero per comprenderla. Si deve solo ascoltare, tentare di vedere con gli occhi del cuore, in silenzio. “Il tutto è cominciato quando comprai la mia prima Nikon. Al CEDUS, un club universitario di fotografia di Sarajevo dove passavo la gran parte delle mie giornate, tutti avevano già un buon apparecchio. Da quando la Nikon è entrata nella mia vita, mi sono messo a scarpinare per le strade di Sarajevo e a riprendere di nascosto i visi e le situazioni senza sosta, come guidato da una forza invisibile. Appesa al collo o tenuta leggermente in mano, la Nikon mi ha permesso di rompere le distanze, di vincere la mia timidezza, di piombare persino nelle profondità della realtà e di perdermi in essa come preso da un fervore senza limiti”.

La guerra è come la febbre: “E la mia macchina era il termometro degli avvenimenti, mi rendeva intoccabile. Era il mio scudo e la mia spada. La mia compagna fedele”.

MiloI rullini rimediati a fatica, la difficoltà di sviluppare e stampare: una lotta contro il tempo a rischio della vita, così per i visitatori che andavano alle sue mostre, per condividere la comune sofferenza. Disperazione e pudore, tenerezza e atrocità, paura e rassegnazione entrano nelle inquadrature e compongono l’insieme, immortalando quello che è avvenuto in un solo istante. L’artista ha immagazzinato pagine di Storia per la sua gente e per noi, per aiutarci a “vedere” la nostra contemporaneità, la realtà bulimica del Male e la sua insaziabile ripetitività. I conflitti separano le comunità e ne unificano le tragedie.

Non c’è mai la brutalità gratuita nei suoi scatti. La morte non sempre richiede pozze di sangue per essere rappresentata. E’ sufficiente un manichino di plastica scomposto dietro la vetrina perforata dai proiettili. E poi le croci sotto la neve o che proiettano le loro sinistre ombre sul viottolo del cimitero di Lav, dove c’è anche la tomba di suo padre, colpito da un cecchino. “La morte di mio padre ha rotto l’irrealtà; da allora la foto ha finito di essere un semplice strumento artistico per diventare un documento visivo sull’inferno di Sarajevo”.

cimiteroI contrasti del bianconero, le luci fuse alle ombre, proiettano il dolore nei nostri occhi: un cane è come spezzato in due, confuso col brecciolino; sull’asfalto le schegge di una granata si spargono a corona; il cadavere del giornalista di Radio Sarajevo, Zeljko Ruzicic, giace con le ginocchia ripiegate e la borsa di lavoro sul petto. Gli scheletri dei palazzi sventrati, i resti della biblioteca Nazionale, il tram ridotto a ferraglia contorta. Le rovine delle chiese e delle mosche che si stagliano in controluce, mostrandoci la loro magnificenza profanata e l’intreccio di culture secolari, disintegrate per sempre. Poi, le madri e i figli, ritratti di dolente bellezza caravaggesca. E i bambini, vittime assolute di tutte le guerre: guardano dai finestrini dei bus che li portano lontano dalla città assediata; giocano alla guerra con finte armi di plastica e di legno; fissano l’obiettivo con aria di sfida; si rifugiano fra le gambe dei padri; guardano il loro futuro negato oltre una fitta rete, rannicchiati sulla bicicletta, la fronte aggrottata come vecchi.

Alla scoperta dell’Italia con il MonsterChef

Chef Rubio visto da Renzo Francabandera
Chef Rubio visto da Renzo Francabandera

IGOR VAZZAZ | È sorte contemporanea, nell’era della TV post-generalista e del consumo individualizzato, assistere al sorgere di fenomeni di culto senza poterli monitorare, calati come siamo nell’ineluttabile dimensione dell’inseguimento fuori tempo massimo. L’estate 2013 non s’è dimostrata avara in tal senso e, tra le perle di cui dar contezza, v’è un’acuta rielaborazione del format, ormai bollito, del cooking contest: diciamo di Unti e bisunti, rapida trasmissione su DMAX che, da giugno, dopo poche puntate aveva già catalizzato l’attenzione di neofiti aficionados e critica incuriosita.

Il nerboruto Chef Rubio, al secolo Gabriele Rubini, frascatano, classe ’83, ex rugbista di livello (giunto al massimo campionato nazionale), trascorsi da migrante (un anno in Nuova Zelanda a giocare e lavorare come cuoco), s’aggira per l’Italia alla scoperta dei più peculiari esempi di street food, il cibo, tipicamente grasso e untuoso, che da tradizione popola e spopola per le strade della Penisola.
Bando a conta di calorie, sguerguenze o palati da signorine, ché l’ex terza linea divora senza tema ogni tipo di cibaria gli si paventi: rane in umido, cacciucco, lampredotto, in un sistematico e pantagruelico rapporto di conoscenza del cosmo, mediato dalla percezione gustativa.

Giunge in loco, Rubio, baffo dalinien, corporatura fisicata, e s’aggira guappo per le strade, saggiando qua e là alla cerca del piatto. Individuata, per tipicità e sprezzo della dietologia, la pietanza regina, sceglie, con fare guascone e verace interesse gastronomico, l’avversario cui gettar il guanto di sfida, “investendo” una giuria, costituita quasi sempre da maschi e indigeni consessi di buone ganasce (squadre sportive, moto club, associazioni di camionisti). Qui il contest: la narrazione si biforca sui due avversari, la scelta degli ingredienti, l’irrinunciabile cimento culinario, sino alla prova del piatto, la mangiata collettiva, sociale, coronata dall’insindacabile verdetto dei giurati. I quali, giusto rammentarlo, risultano alquanto indipendenti.

Lo stile del racconto è un trionfo di luoghi comuni furbescamente parodizzati: dall’hip hop (la colonna sonora e la sfida simile alle battle tra rapper), ai consueti programmi di cucina, svolti in studi asettici distanti dagli scenari suburbani di Unti e bisunti, sino alla pornografia, campionandone il linguaggio visivo per le sequenze d’assaggi, con l’insistito indugio sul dettaglio, lo zoom iperbolico, la raffigurazione più esplicita e materica del cibo, tra fibre in disfacimento e untuosità a corredo. Il tutto sarebbe niente senza la complicità tamarra di Rubio, gli ammicchi allo spettatore da sedurre e condurre alla (ri)scoperta d’un paese che, forse, può ancora rinunciare al fast food senza per questo impantanarsi nelle barocche autoreferenzialità dello slow.

Gambero Rozzo alla uozzamerican, Unti e bisunti ci pare interessante figura del new cafonal contemporaneo, calibrando con studio narrazione e coloriture (Rubio è una via di mezzo tra il Verdone d’antan e il triste Piotta, il più finto dei tamarri), risultando “moderno” senza abdicare a quel poco di spocchia per rivolgersi da pari a pari agli interlocutori d’ogni puntata. Del resto, Rubio, come tamarro, è una sorta di ogm, ché chef lo è davvero, almeno sulla carta: diplomato all’ALMA (istituto di alta cucina diretto da Gualtiero Marchesi), rappresenta un caso assai peculiare di turista gastronomico, tutt’altro che sprovveduto o ingenuo. Questione di racconto, facciamocene una ragione: è l’Italia odierna, del resto, anodinamente fiera della cafonaggine, un tempo da celar con vergogna, oggi attributo, benché falso o artefatto, da ostentare comunque (pensiamo a Daniela Santanché nelle sue versioni da improbabilissima virago del popolo), con sprezzante e sbarazzina fierezza.
Buon appetito. Anzi, no: buon pro.

Se volete dare un’occhio alle puntate, qui il link

video chef rubio
 

Una giovane lettura de I Giusti di Camus

i giusti CamusRENZO FRANCABANDERA | E’ una rilettura de I Giusti di Camus sicuramente di giovanile compattezza quella di recente proposta la Piccola Compagnia Stabile – SR di Brescia durante “Ecce Histrio!” rassegna di compagnie emergenti, nel capoluogo lombardo.

La vicenda, come noto, ispirata a fatti realmente accaduti, è quella di un gruppo di rivoluzionari, intenti a progettare un attentato contro il monarca, per instaurare una società egualitaria. Il gioco drammaturgico si risolve eminentemente all’interno del gruppo stesso, fra ardimenti e frustrazioni, sentimenti e ideologie.

Il gruppo di giovanissimi interpreti (Matteo Bertuetti, Davide Di Maria, Sara Manduci, Pietro Mazzoldi, Gian Marco Pellecchia, Alice Saligno) lavora su un’impostazione di sostanziale autoproduzione, in cui però riescono con particolare pregio i ragionamenti su luci (Sergio Martinelli) e spazi, dentro e fuori un cubo scenico che reca, sul fondo, la stilizzazione di una metropoli contemporanea, una sorta di google map anonima, ragnatela a fondo palco, mappa di un piano eversivo da compiersi. La regia di Antonio Palazzo, che ha lavorato all’adattamento del testo, come in alcuni recenti lavori di Cesar Brie, legge un dentro e un fuori sul palco, con un quadrato interno entro il quale l’azione e i personaggi vivono e un esterno in cui svaniscono e tornano attori (anche se questa parte più concettuale legata allo spazio teatrale non ha poi uno sviluppo concettuale).

La lettura del testo ha il pregio di proporre un Camus teatralmente godibile, dai ritmi freschi e non intellettualistici, generando un pathos che forse ancor maggiore potrebbe essere se trovasse il coraggio delle scelte del contemporaneo, enfatizzando la portata universale della dinamica interpersonale, frustrata in questa lettura da una scelta su costumi e oggetti di scena d’epoca, che storicizza oltre il necessario l’allestimento.

La pièce rimane godibile, alcune individualità paiono in crescita e l’impianto generale curato. Ragionamenti e revisioni occorrono sul lavoro fisico e su alcuni movimenti al limite del performativo ma che non trovano appiglio nel resto del lavoro concentrato sulla parola. Così pure sicuramente un approfondimento è dovuto sui tempi delle transizioni (un’interminabile smontaggio della gabbia cubo, fra suoni di rivoluzione e metaforiche barricate di sedie e tubi separa il primo tempo dal secondo), e sui personaggi, ulteriore rispetto alla ricerca del ritmo, che possano avvicinare la resa attorale al paradigma dell’universale. Insomma dopo essere riusciti a dare il giusto ritmo, il reintrodurre la portata filosofica può regalare all’indagine del gruppo e ai singoli interpreti una profondità ulteriore, con poche aggiunte e poche sottrazioni: una profondità che il lavoro fin qui svolto, nella sua sostanza, merita.

Opere di Bene: dialogo non immaginario ad 11 anni dalla morte

disegno Renzo Francabandera
carmelo bene_francabandera_copyright
Carmelo Bene visto da Renzo Francabandera

RENZO FRANCABANDERA | “Ebbene sì, in tutta onestà credo di poter dire che…” Beh, allora parliamone. Dopo undici anni, mentre si dibatte su quale sia davvero l’eredità, se c’è un’eredità da dividere, e soprattutto su chi (e se ci) sono gli eredi, per la neonata casa editrice FaLvision di Bari, è apparso a marzo un piccolo volume, “Figli di B.: ad una voce per il teatro”, antologia fra teatro, cinema e musica dedicata a Carmelo Bene. Ne è curatore Carlo Coppola, ricercatore dalla variegata formazione in ambito teatrale e cinematografico, che ha cercato di coniugare le intuizioni di chi si è formato nella pratica attoriale e drammaturgica guardando a Bene come fonte di ispirazione, con riflessioni maggiormente sistematiche. Autori della pubblicazione insieme a Coppola sono alcuni protagonisti del teatro italiano e non solo, per lo più giovani: Carlotta Vitale di Gommalaccateatro, Vincenza Di Vita, Mariano Dammacco, Roberto Latini, Giuseppe De Trizio e Pierluigi Ferrandini.

Coppola, cosa possiamo iniziare a togliere al mito di Carmelo Bene per vedere meglio vizi e virtù dell’artista?

Dipende da chi siamo e come intendiamo leggere l’opera di Carmelo Bene. Per molti aspetti, credo sia giusto continuare a mantenere vivo il mito e l’ “incomprensibilità di cui esso si nutre”, così che i perditempo si tengano alla larga. In generale credo che demitizzare sia un peccato gnoseologico quanto quello di mitizzare. Allo stesso tempo occorre puntare proprio i temi essenziali dell’esperienza beniana: la matrice salentina, il rapporto con l’Assoluto, con la Comunicazione e quello con la Morte debbano essere i punti di partenza. Il resto è pettegolezzo, lasciamolo alle servette.

In che cosa la redazione del suo libro l’ha aiutata in questo obiettivo e ci dica se ritiene di averlo raggiunto.

Figli di B.: è un tentativo di riunire una serie di “seguaci” di Bene. Artisti che in qualche modo si siano imbattuti in lui per ventura o per scelta. Amare Carmelo Bene, in vita e in morte non è cosa facile, bisogna essere disposti all’Assoluto, come rispondere ad una chiamata vocazionale. Si ci imbatte per caso in questo Monumento, magari si cerca di staccarsi da esso, ma a fatica. Questo libro in qualche modo è una sorta di antidotum, nasce dall’esperienza pratica di Artisti nel voler Proclamare e in qualche modo Stigmatizzare quanto di C.B. che c’è in loro. Anche per questo tale lavoro non può dirsi definitivo.

C’è del Bene più nel teatro contemporaneo o nell’arte e nei nuovi linguaggi? E che c’è di Male nel teatro e nell’arte contemporanea?

Come molti autori della nostra letteratura, Carmelo Bene non poteva pensare ad una eredità. In modo molto più ardito pensava alla clonazione, ma questa è un’altra storia. Ciò che persiste di lui sono schegge, temi, vocalizzi come di cantante lirico, o voli. Ognuno dei miei compagni di questa pubblicazione ha una diversa idea o un motivo proprio per appartenere all’ “Ordine dei Carmeliani”. Ma per rispondere più compiutamente rispondo con le sue parole dette d’Amleto: “Più tardi mi s’accuserà d’aver fatto scuola. Come sono solo! E quest’epoca non c’entra nemmeno un po’.”

copertina coppola_beneSi può parlare di Bene senza rischiare di annoiare o sembrare un po’ retrò? I personaggi totalizzanti ritiene possano essere misura del tempo presente o studiarli serve anche ad andare oltre? E se si cosa c’è oltre Bene?

Personalmente rifuggo dall’idea totalizzante di esemplarità dell’arte, dalle balene rosse o bianche e dai pachidermi inattaccabili. Per questo studiare C.B. è un rischio anche per me. So che per alcuni è ostico, oltre che antipatico: ben pensanti, snob, per i radical chic, o semplicemente per chi si rifiuta. C.B. è la quintessenza dell’intellettualità meridionale, nella sua accezione più europea. È molto più vicino a Giordano Bruno, e G.B. Vico di quanto non lo sia Dario Fo o a B. Bertolucci, che pure stimava. Oltre Carmelo Bene c’è altra ricerca che parte o meno da lui. Egli ha né mostrata, negandone il pedagogismo, il resto tocca ai nostri contemporanei.

Quello che lei ha trovato nel suo libro è un Bene umano, troppo umano o disumano? E’ giusto che chi fa arte ambisca ad una vita del genere o la ritiene una ricetta estrema e pericolosa, e che solo rarissime eccezioni possono permettersi di indossare un abito come quello? In tal caso gli altri dovrebbero astenersi, in quanto fondamentalmente mediocri (come Bene spesso sottolineava) o esiste un giusto anelito dell’uomo a vivere una sua dimensione creativa sollevata dal giudizio?

Parlare di ritrovamento mi piace meno, e preferisco parlare di esiti di una ricerca e diciamo pure parziali. C.B. pare scherzasse sul suo cognome e sul non portare fiori alla mamma o alla zia per le feste comandate ribadendo lo slogan “Non Fiori ma opere di Bene”. Ho concepito questo volume come una testimonianza di affetto, per Lui morto e per coloro che gli sopravvivono, parenti, amanti, amici. Quanto alla mediocrità, di cui mi si chiede, di fronte al sua cultura enciclopedica e alla originalità della sua sua sintesi perfetta di arte e vita, chiunque è pressoché cieco, sordo e muto, storpio, oltre che stitico. Qualcuno lo è meno di altri, ed io, da curatore di un’antologia, ho puntato e scelto proprio questo qualcuno. Ho cercato di creare una sorta di Canone beniano, come anticamente si faceva nelle Accademie, e per vocazione tutti gli invitati anno risposto alla chiamata.

Bene era un genio? O una persona con una lancinante solitudine che ha chiamato poesia?

Ebbene sì, in tutta onestà credo di poter dire che Carmelo Bene fosse un genio, che avesse capito, come e più di altri che il teatro e l’arte, quindi la poesia, hanno a che fare con l’Assoluto, con il Sacro, non in senso religioso, ma in termini di Metafisica certamente. [Con Lorena Liberatore, l’anno scorso Coppola ha tracciato un profilo del Salento Metafisico di Carmelo Bene, sempre per l’editore FaLvision ndr] Il suo genio, a mio avviso, sta nell’aver colto in un modo lucido questa relazione trascendentale, un po’ come accade nel kathakali, forma espressiva di teatro-danza indiano. Per noi occidentali vedere il connubio tra Arte e Assoluto è difficile, ma Bene era pugliese e salentino, teso ad oriente per costituzione, forse anche per questo a lui era più chiaro. Per lo stesso motivo era famelico e bisognoso di affetto, come poche persone di cui io abbia sentito parlare.

Lolita e BabiloniaTeatri: età preadolescente e transiti complessi

lolita babiloniaRENZO FRANCABANDERA | La ninfa undicenne arriva in monopattino da fondo scena, attraversando la sala illuminata da un faro, mentre l’adulta ha appena finito di elencare la “babilonica” tassonomia di punti di vista, pareri, voci di popolo sul personaggio di Lolita: dal chi non ne sa, al chi la vive nel suo immaginario; la bambina è nell’età di passaggio dall’infanzia all’adolescenza, dove alcuni gesti iniziano a vivere il crinale dell’equivoco, diventa oggetto (e soggetto?) di seduzione. Come le more addentate dallo spiedino, gesto innocente e capace di un potenziale di provocazione adulta di cui chi lo pone in essere (e non parliamo qui della giovane attrice ma di ogni ragazzina di quell’età) può o meno essere consapevole, tutto in quell’età diventa ambiguo. Il corpo cambia, porta i segni dell’età feconda della specie umana, che socialmente si sposta vicino ai 40 anni, ma nella dinamica sessuale inizia invece prestissimo. Sempre più, in un’iconografia di diari, lucchetti, post-it, sms, canzoni di x-factor, fra bambine-ragazze, che giocano con le bolle di sapone e indossano capi di abbigliamento che le trasformano in signorine, che vanno in palestra di karate e di colpo ti sembrano Uma Thurman in Kill Bill, pronte a combattere per la vita.
Tutto questo c’è. Tutto questo nel nuovo spettacolo di Babilonia Teatri è visibile. Noi l’abbiamo visto, dopo il debutto al Napoli Teatro Festival, nella prima data della tournèe, ospitata nel festival L’ultima luna d’estate, storica rassegna di fine agosto che ha luogo nelle dimore d’arte del lecchese, diretta da Luca Radaelli e che prosegue fino all’8/9. (La prossima è prevista a Bassano per Bmotion e poi ad inizio settembre a Roma per Short Theatre).
In scena oltre alla piccola Olga Bercini, anche una Valeria Raimondi che, dopo un paio d’anni di chioma a zero, sfoggia una più tranquillizzante capigliatura altezza spalla. Lei e la ragazza si alternano nella lettura al computer, nelle scene di canto in playback. La Raimondi è volutamente in un ruolo quasi equivoco di madre-amica e regista sul palcoscenico, mentre lo storico collaboratore della compagnia, Vincenzo Todesco, opera i suoi interventi sul palco in maniera kantoriana, irrompendo in scena per sistemare questo o quello, amplificando la logica inganno-disinganno che ovviamente nella parte finale dello spettacolo viene mitigata per evitare che il climax di evocazione della sensualità si interrompa, mentre, come chi ha a che fare con gli adolescenti sa, la parola suicidio appare ogni tre per due fra sms e diari, mista a storie d’amore, racconti di rapporti conflittuali e avidi col cibo.
Lo spettacolo è in questi segni, in continuità con la modalità narrativa e di parola della compagnia, con gli elenchi e le raffiche verbali prive di emotività, di cantilena italica. Necrologi emotivi, asettiche travi a cui inchiodare il pubblico, ma con il tentativo, ormai in corso da alcuni spettacoli, di trovare anche altri segni. Va ad indagare un età su cui in Italia gli spettacoli sono pochi e mal confezionati, mentre molto e anche di grande pregio, vediamo arrivare dal Nord Europa, con proposte spesso di gruppo (le ultime di particolare significatività il lavoro di Gob Squad & Campo “Before your very eyes”, visto a Vie 2011 a Modena, anche quello sul tema dell’età del cambiamento, o il “Once and for all we’re gonna tell you who we are so shut up and listen” Total Theatre Award 2008 al Fringe Festival di Edimburgo, ospitato sia a Teatro i a Milano che a Vie a Modena, con un gruppo di vulcanici preadolescenti e adolescenti belgi).
Questo di Babilonia è uno spettacolo evidentemente di transizione, come l’età che racconta, e che forse sta cercando ancora una quadratura definitiva. Ha maggior compattezza nella parte iniziale, mentre nella seconda mezz’ora alcune buone idee restano un po’ slegate e non incidono quanto potrebbero, ricorrendo a qualche immagine un po’ più usata. Il finale vira sul noir, anche se non vuole definire, sancire, concludere. E anzi anche qui, come in Pornobboy, una macchina di quelle da beach party di Riccione, chiude il lavoro, inondando la scena di bolle di sapone.  E’ la prima volta, tuttavia, che la drammaturgia, la parola, non è il principale elemento. E che le evocazioni visive prendono una consistenza nel complesso coerente, in un equilibrio che può apprezzarsi. Chi ha figli di quell’età li troverà in scena, rappresentati in modo corretto, vero. E già questo, se il teatro è confronto critico col proprio tempo, è un risultato, anche se perfettibile, proprio nella levità poetica e nel progresso del linguaggio della compagnia. Lolita in fondo è un pretesto. Lolita ancora non esiste. Lolita potrebbe essere mia figlia: ma al primo fidanzatino che suona al citofono tiro appresso palloncini d’acqua bollente, giuro !

ExFadda: fantasia al potere in un angolo dell’Alto Salento

downloadVINCENZO SARDELLI | C’è bellezza quando qualche decina di ragazzi si riunisce per progettare, ed esorcizza la routine attraverso l’arte e il pensiero. Tanto più se questo rito apotropaico avviene nel Sud periferico, e ne nasce una fucina creativa in mezzo alla caotica movida salentina.

È un’umanità aperta quella che frequenta l’ExFadda di San Vito dei Normanni, ventimila abitanti tra Valle d’Itria e Salento, patria del tarantismo e delle rezze, tende a doghe sottili che caratterizzano gli usci delle case.

L’ExFadda è uno stabilimento enologico d’inizio Novecento appartenuto alla famiglia Fadda-Dentice di Frasso. Per anni in disuso, l’area, 3mila metri di edifici di pregio architettonico e 15mila metri di spazio verde recintato, è stata riqualificata grazie a un programma della Regione Puglia per le Politiche Giovanili.

L’ExFadda accoglie varie attività: laboratori d’inglese e di teatro, convegni, seminari, spettacoli, mostre, feste, attività sportive e giochi, fiere, mercati a km zero, produzioni audiovisive. Eventi come la rassegna internazionale del cortometraggio Salento Finibus Terrae, luglio inoltrato, con l’esoterica proiezione antelucana di corti noir. Tanti ospiti negli ultimi mesi, da Fausto Mesolella, a Raiz, da Piero Pelù a Niccolò Fabi e Rosalia De Souza.

C’è bellezza nello sguardo dei frequentatori di questo luogo: sciami di bambini, volontari che provano a trasformare gli spazi in contenitori culturali al servizio del territorio. Provano, appunto: perché i ragazzi del posto tendono a scorrazzare altrove, coi rituali edonistici di corteggiamento e di passeggiate in piazza che sembrano sfilate di gala. Paradossalmente, l’ExFadda è frequentata e conosciuta più da gente che viene da lontano. Rimane luogo di nicchia ancora sganciato dalla città. Lo ammette Gionata Atzori Lu Pirata: attore, giocoliere, performer, look da bucaniere. Gionata vuole cambiare la mentalità: smuovere l’atteggiamento di chi non fa, e si limita a spiare di soppiatto “dietro la rezza”.

Gionata è tra i promotori della Festa delle Fate e delle Favole, due giorni tra avventura e fantasy, svolta il 24 e il 25 agosto. Teatranti, giocatori di ruolo medioevali come le Guerre del Caos; prestigiatori, come Mago Vago; note celtiche, con il gruppo di musica irlandese Elfolk; arcieri, cantastorie di fiabe africane come Adama Zoungrana, e tanto altro ancora. Come Rossella Raimondi e Francina  Biffi, che avevano preparato a Milano, in pochi giorni, uno spettacolo sulle donne di strada. Partite in treno venerdì sera, arrivate la mattina di sabato, cammin facendo hanno rivoluzionato il copione per destinarlo ai tanti bimbi presenti. Circe ha ceduto a  Morgana, le prostitute sono diventate fate. Sortilegio del teatro, che materializza in tempo reale la sinergia tra attori e pubblico. A deliziare  i fanatici di Circe ci hanno pensato  gli addomi di Lucienne Musa e Cristina di Venanzio, danzatrici del ventre del gruppo Shadì. Sofisticate odalische, Lucienne e Cristina armonizzano mente e corpo in un cerimoniale che parla allo spirito, prima ancora che ai sensi.

Tutto si trasforma in quella zona franca che è il teatro C’è qualcosa d’ascetico nella giocoleria con fuoco dei Luminal FirePlay: boolas, bastone, devil stick, corde e sputafuoco diventano estensione immateriale.

Fino al Gran Teatro del Click, con Silvio Gioia e Marzia Ghezzo in uno spettacolo d’ombre cinesi: mani-personaggi, dita-cantanti, sagome disegnate dalla luce che riproducono paesaggi, città, club musicali. Fauna e flora evanescenti tracciano il bisogno d’amore. Un viaggio visivo e sonoro. Un alternarsi di comicità e poesia, che affascina.

La festa delle favole e delle fate
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Gioia d’ombre
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“M’hanno rimasto solo”: In Onda e la triste parabola di Luca Telese

teleseALESSANDRO MASTANDREA | Una parabola davvero insolita, quella tracciata dalla carriera televisiva di Luca Telese. Tanto insolita da non poter essere inquadrata sotto la sola lente del giornalismo televisivo. E’ infatti grazie alle sue naturali doti istrioniche che, nel corso degli anni, ha potuto dar prova delle sue indubbie capacità di grande attore, spaziando con disinvoltura tra generi assai diversi: dalla commedia all’italiana, alla tragedia esistenziale, non disdegnando tuttavia le sponde più leggere tipiche della sit-com.
Così, in questa estate 2013, sulla scia di questa parabola –che in verità appare un poco calante- i toni si tingono dei colori del dramma esistenziale, con il Nostro a vestire i panni del sergente Giovanni Drogo, di vedetta su un televisivo “Deserto dei Tartari”. Solo lui rimasto a difendere l’ultimo avamposto informativo di la’ dal quale il nulla sterminato incombe minaccioso. Perché “l’informazione non va in vacanza” ci tiene a sottolineare profeticamente nel promo di “In Onda Estate”, suo personale fortino giornalistico.
E se in vacanza l’informazione non ci va, figurarsi la politica. Sicché spetta proprio all’ex direttore di Pubblico Giornale raccontarcene le gesta in un talk ormai bollito, mentre gli altri suoi colleghi hanno già raggiunto esotiche mete balneari. Eppure poco più di due anni fa la vita sembrava sorridergli. Firma di punta al Fatto Quotidiano e volto noto della TV, amato dal suo pubblico, ha la fortuna di trovare in Luisella Costamagna la propria anima gemella – televisivamente parlando- femme fatale che saprà stregarlo, tenendone a bada l’innata propensione all’autocompiacimento. E’ questa la fase che nella storiografia classica si suole definire della sit-com: due stagioni di In Onda dove l’alchimia tra i due, sebbene sempre sul punto di deflagrare, produce frutti insperati nei loro genuini battibecchi, capaci di coinvolgere anche gli ospiti in studio. Sicché di puntata in puntata, i Nostri somigliano sempre più a moglie e marito sull’orlo di una crisi di nervi.
La felicità dura però troppo poco, e la bella Luisella viene sacrificata sull’altare della par-condicio per far posto al Porro Nicola, faccia nota della politica parlata in TV e nemico giurato del mite Marco Travaglio.
Gli equilibri della narrazione inesorabilmente cambiano, e anche in questo caso è il promo della nuova versione a tradire i futuri esiti da commedia. “In Onda, l’unica trasmissione con l’opposizione dentro”. Chi dei due “soliti ignoti” dell’approfondimento serale sia, di preciso, l’incarnazione dello spirito di “opposizione” non è mai stato chiaro, al contrario, è risultato invece palese come “l’audace colpo” che avevano in animo si sia tramutato in un gioco delle parti che li ha imprigionati. Nessun nuovo modo di scrivere e intendere il dibattito politico in TV, dunque, ma solo un scambio di battute che ricorda tremendamente quelli dei grandi caratteristi della pellicola diretta Mario Monicelli: con il Telese-Capannelle – “che come aspetto si presenta malamente, ma dietro la quale fronte si annidia l’intelligenza della volpe – a rintuzzare il Porro-Ferribotte che, come noto, “quando che parla.. tac, ogni parola è una sentenza”.
Con un piede fuori dall’emittente di Urbano Cairo, nuovamente orfano di co-conduttore, lo ritroviamo oggi a dover presidiare stoicamente questo avamposto in dismissione. Preso in mezzo tra i falchi del PDL e le colombe del PD, a dover discettare di condanne, IMU e agibilità varie, è un Luca Telese assorto quello che vediamo, probabilmente intento a pensare “ma chi me l’ha fatto fare”, o per dirla con le parole di Vittorio Gassman, rivolto ai suoi ex compagni di viaggio: “m’hanno rimasto solo ‘sti quattro cornuti!”.

http://www.youtube.com/watch?v=kXj_xu3Uadk

SignalCantieri: Alessandro Olla si racconta

CANTIERI3High_0GIULIA MURONI | “Che bello che animate questo posto! In questa piazza non si fa mai nulla. A parte le celebrazioni per la festa dei morti….” Ci fa venire un po’ i brividi l’affermazione della cordiale signora di Esterzili. La festa dei morti. Mi trovo a pensare che in fondo molti spettacoli non siano altro che cerimonie di morte. Coazioni a ripetere di maniera, senza vita, senza arte.

Esterzili è un paese di circa 800 anime, sul Monte Vittoria a 1200 metri dal mare, nella Barbagia di Seulo. È un territorio caratterizzato da insediamenti nuragici come Sa Domu ’e Urxia che, secondo la leggenda, era la casa della Maga crudele gelosa della sua botte piena d’oro, resa inaccessibile dalle mosche assassine “Is muscas macceddas”. In questo contesto si è svolta la terza edizione di SignalCantieri, festival organizzato dall’associazione TiConZero in collaborazione con SpazioDanza Cagliari.

La commistione dei linguaggi della musica elettronica e acustica, della danza contemporanea e di alcune incursioni teatrali, si è sviluppata nei luoghi del paese. I vicoli tortuosi, la piazza centrale di fronte al bar, la piazzetta della festa dei morti, le scalinate, sono stati gli elementi costitutivi delle sperimentazioni. Questo piccolo festival, che impegna, lontano dal mare, le nostre giornate di fine luglio da ormai tre anni, in questa edizione ha assunto le forme, per scelta e per necessità, di un cantiere artistico. Un’occasione formativa per incontrarci, fare rete, confrontare linguaggi e approcci e mostrarci al di fuori dei contesti protetti, di quei pochi luoghi conosciuti e rassicuranti. Uscire da quelle nicchie in cui è accettato e riconosciuto il senso del proprio lavoro implica un rimescolamento degli obiettivi, una messa in discussione destabilizzante ma ricca di possibilità. La relazione tra l’arte contemporanea e la cultura nuragica, il senso di lavorare in territori poco permeati da questi linguaggi, il gusto di modellare le performance su piccoli centri: di tutto questo abbiamo dialogato con Alessandro Olla, direttore artistico dell’associazione TiConZero e di SignalCantieri.

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