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lunedì, Settembre 16, 2024
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Eva Kant: 50 anni da complice della rivoluzione femminile

 solo evaALESSANDRO GUALANDRIS | Proviamo per un attimo a tornare con la mente all’Italia degli anni ‘60. Immergiamoci in un paese in forte crescita economica ma con la cultura ancora radicata in un’estetica classicista come quella per vent’anni enfatizzata dal fascismo e caratterizzata da una società molto conservatrice. Pensate, per esempio, di vedere nei cinema “La Dolce Vita” di Fellini e il giorno dopo, sull’Osservatore Romano, leggere richieste di censura che auspicavano addirittura l’intervento della magistratura (pazienza se poi, nello stesso anno, la pellicola vinse a Cannes la palma d’oro. Vive la France!).  La donna è ancora lontana da un’emancipazione radicale e potente. I personaggi femminili di spicco nel cinema e in tv, sono ragazze dalle forme abbondanti, dipendenti dalle figure maschili di riferimento: che sia un conduttore cui fare da valletta “stupida” o l’(anti)eroe di turno, schivo, a volte quasi grezzo ma affascinante, cui affidarsi per essere salvata, poco conta: di fondo l’animo femminile è ancora soffocato.

In questo clima, due sorelle, Angela e Luciana Giussani, compiono una vera e propria impresa decidendo di dare vita ad un sogno. Angela, dotata di un grande ingegno imprenditoriale, ma anche di coraggio e fantasia, fonda la piccola casa editrice Astorina, con la quale pubblica (e pubblicherà sempre) Diabolik. Affiancata dalla sorella Luciana, più timida ma non meno geniale, danno vita a quello che non sarà un semplice fumetto, ma la storia di un paese. E solo dalla mente di due donne così diverse dal loro tempo poteva nascere il personaggio di Eva Kant.

Durante la splendida chiacchierata-presentazione in onore della mostra dedicata ai cinquanta anni di Eva Kant, tenutasi a Cartoomics 2013 (vi abbiamo accennato qualcosa qui), in compagnia di due grandi sceneggiatori della serie, Mario Gomboli e Tito Faraci, ai quali si sono uniti gli storici disegnatori Giorgio Montorio e Enzo Facciolo, abbiamo viaggiato nella storia italiana, nella sua società, attraverso le tavole di un fumetto. In questa panoramica, risalta l’evoluzione data attraverso la figura di Eva Kant alla posizione della donna dal 1963 in poi. Fin dal suo esordio nel terzo numero, L’arresto di Diabolik, dimostra di non essere la solita bellezza superficiale da salvare e sovverte questa dinamica evitando lei la forca allo spietato criminale.

Ora sembra difficile comprendere tale impatto nel mondo artistico e sociale, ma in un periodo in cui un giudice poteva ritirare un numero di Diabolik solo perché si vedevano lui ed Eva dirigersi, mano nella mano, verso un letto senza essere sposati, era facile percepirne il senso di disagio. Inoltre la bella ladra, sconvolgeva anche i canoni di bellezza dell’epoca: longilinea, atletica e senza prorompenti curve da mostrare. Come ricordava Gomboli “Mina in quel periodo girava con un cesto di frutta in testa, Eva Kant si presentò fin da subito con uno chignon semplice che poi sarebbe stato la moda degli anni successivi, fino ad oggi. E’ il personaggio più originale della serie. Diabolik trova le sue origini nella letteratura francese, come ad esempio Arsenio Lupin, mentre Eva era totalmente nuL'arresto di Diabolik (marzo 1963)ova”.

Da quel momento, dal suo arrivo nella vita del glaciale ladro, che per molti collezionisti coincide con il vero inizio di Diabolik, Eva Kant e il suo amante rappresentano per volontà di popolo la coppia italiana. “Sono stati probabilmente – continua Gomboli – la prima coppia di fatto italiana”. Perché se l’attrattiva principale erano le scorribande dei protagonisti e le battaglie con l’acerrimo nemico Ginko, “(…) i lettori – ci spiega Faraci – apprezzarono molto le scene che di solito non ci sono in altri fumetti del genere: Diabolik ed Eva che compiono azioni quotidiane, come guardare la tv in salotto e scambiarsi battute in cucina. Raccontare Diabolik ed Eva voleva dire raccontare una coppia italiana”.

Si spiega così tutta l’attenzione mediatica che negli anni ha esercitato la creatura delle sorelle Giussani. Nonostante la sua natura da fuorilegge, è stata spesso richiesta per campagne sociali e di carattere umanitario. Fino ad attirare anche grandi case commerciali che l’hanno inserita in numerosi spot, in molti dei quali rappresentava la vera forza della coppia: la donna (completamente emancipata e indipendente) che aiuta Diabolik, bloccato da una foratura della mitica Jaguar E. Ecco perchè il pubblico la considerava vera. Ci si poteva identificare.

Angela e Luciana Giussani hanno creato uno dei capolavori della storia del fumetto mondiale ed Eva Kant è sicuramente il loro lascito più importante, per il valore sociale che ha rappresentato. Se l’arte ha spesso il compito di narrarci la storia del tempo cui appartiene, sicuramente la complice per la vita di Diabolik identifica la storia di una difficile conquista raggiunta dalla donna in Italia. Di certo più lenta di come un personaggio innovativo e controtendenza come lei avrebbe accettato.

Vi lasciamo con un video realizzato alla mostra “Eva Kant: 50 anni da complice”, di cui vi abbiamo parlato, che attraversa tutte le fasi storiche della prima splendida metà di secolo di Eva, accompagnata dolcemente da un lento jazz.

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Fracassi e perversioni: amore bestiale con padrone

blondi fracassi 1RENZO FRANCABANDERA | La prima perversione deve essere stata non cedere alle perversioni. E questo sia per Sgorbani, che firma la drammaturgia, sia per il duo Martinelli-Fracassi che in questo progetto di racconti di amore e dittatura si sono tuffati da alcuni mesi.
In realtà l’idea di Blondi era in gestazione da circa tre anni e trova realizzazione nel 2013 grazie alla scommessa del Piccolo Teatro. Questa perversione è riuscita. Di quello che è stato forse il punto di partenza, l’amore nella sottomissione animale, nell’esito spettacolare non resta che qualche pallida traccia tanto nel testo quanto nell’azione scenica. Il fulcro è altrove.

La seconda è per così dire ambientale. La perversione è tipicamente un atto immaginabile in un luogo chiuso. Qui invece siamo di fronte ad uno spazio importante, ad una perversione esibita. Il Teatro Studio nella nuova conformazione senza platea frontale e senza palco rialzato ha una parte appena entrati dove si sistema l’emiciclo degli spettatori, e tutto il resto dello spazio agibile che si prolunga fino alla parete di fondo per circa trenta metri. Lo spazio dell’emiciclo è vuoto, quello sul fondo, all’ingresso, riempito con una ventina di brande che diventeranno poi elemento scenico determinante. Sensazione di chiesa gotica sconsacrata, dove fra le brande in metallo da nosocomio si aggira questa cagna dal sembiante identico a quello del padrone. Felice l’intuizione scenica di Renzo Martinelli cui va dato merito per l’idea.

E qui siamo alla terza perversione: il letto. La cama. Il giaciglio. Qui inquietante. Malato. Ospedaliero. Ma camuffato attraverso strisce di plastica attaccate alla spalliera, e pronto a diventare prato finto, spazio aperto per le scorribande del cane dittatoriale. Con due schiavetti in divisa pronti a registrarne ogni minimo guaito.

Quarta perversione: dittatore e schiavo. Master and slave. Attenzione, declinare l’ovvio dell’idea è la parte pericolosa di ogni spettacolo. Qui andava costruita un’identità psicologica per l’animale diversa da quella, già portata all’attenzione del pubblico, di Eva Braun, protagonista di un altro capitolo del polittico “Innamorate dello spavento”. La drammaturgia si gioca principalmente sul conflitto fra la cagna e la donna, dove l’una finisce per diventare l’altra in un rovesciamento di parti che ha connotati umani, fra gelosie, psicodrammi e risate a denti in fuori del padrone. La cagna posseduta; la Braun che, per il piacere del capo, gli urina addosso, di fatto sottomettendolo, e che fa da contrappunto al sacrificio dell’animale; piacere mortifero ultimo del padrone nell’avvelenare la bestia, come Pasolini in Salò: la masturbazione di fronte al mondo che muore per propria mano. Queste immagini scorrono in rapida sequenza nel racconto.

Quinto: non uccidere! Fantastica, nella parabola psicologica dell’animale, dopo aver posseduto (perchè animale del capo) ed essere stata posseduta, è l’esperienza della maternità. Questa parte è, per corposità di conflitto con la distruzione circostante, un momento figurativo altissimo. In questo punto la Fracassi arriva al massimo della densità interpretativa. Dona a questo sogno di batuffoli lanuginosi una corporeità, un’ intensità, che ovviamente porta lo spettatore allo schianto con di lì a seguire scena di morte. Non la gravidanza, ma la cura della vita: questi in quaranta secondi che valgono lo spettacolo. Mentre fuori, nel gelido freddo, una locomotiva percorre binari ricoperti da una neve di plastica e cadono le trincee (in questo Martinelli, onestamente,  dimostra di aver vinto la sfida in generale).

Sesta perversione: ascesa e declino dello città di Mahagonny. Assistiamo al percorso sui due rami della parabola. Sul tema risulta fondamentale il lavoro sulle luci di Claudio De Pace e di Fabio Cinicola al suono. Sono loro a segnare il punto di flesso, il momento in cui la curva si inverte. Il passaggio da un mondo e un sistema di emozioni, l’ascesa, all’altro, il declino. Per la cronaca questo ruolo è fondamentale perchè proprio prima di quel flesso, la drammaturgia cede, si fa insistita e ripetitiva (e la regia un po’ asseconda). E un momento in cui non arriva tutta a segno e i giochi ambientali salvano il ritmo. Annotiamo, per le luci, la parte più scontata dell’epifania dei bombardamenti. Didascalica.

Settima: raccontiamo cosa abbiamo visto. Mettiamo fine alla perversione dell’attesa. La vicenda è quella del cane di Hitler, Blondi. Zelighianamente innamorata del padrone. In scena appare con due militari (Lorenzo Demaria e Daniele Molino) deputati in pratica a soddisfarne i bisogni e a registrarne voci e sussulti. In un continuo conflitto amoroso con Eva Braun, la cagna vive ascesa e declino della dittatura, fino a morire di cianuro nel freddo baratro della fine, dopo essere stata costretta a procreare sotto gli occhi della rivale.

blondi fracassi 2Ottavo peccato: la parola. La drammaturgia è vincente in più punti, e nei punti di debolezza è sorretta dalla solita grande Federica Fracassi, che colora di umanità il bestiale, la cui unica vera incorporazione non è nella camminata a quattro zampe ma nell’impossibilità del pollice opponibile, con le mani fasciate a contenere il dito degli uomini. Il testo a volte si dilunga, sgorbaneggia, che per chi conosce l’autore siamo sicuri sia un verbo con una sua coloritura specifica. Per chi non lo conosce, invece, Blondi è comunque un’opportunità di confronto con un ossessivo creativo della parola psicologica, che resta al di qua de limitare con il poetico, riteniamo per volontà. A volte se ne vorrebbe ancora, a volte non più.

Nona perversione: la fantasia. La scena più bella quella in cui un treno sfreccia in sala, e quella in cui si vede una svastica rotante girare in fondo alla sala illuminata da dietro durante una farsesca esibizione di forza di un regime allo sbando, o quella in cui una cagna allatta cuccioli che guaiscono, o ulula al freddo siderale della notte tedesca, e le trincee di una guerra che fa prigioniera sempre l’umanità inconsapevole. Ma forse questo in sala non c’era o ce lo ha fatto vedere Martinelli. Blondi è una delle sue migliori regie degli ultimi anni: meglio le partite secche fuori casa da 90 minuti che quelle da 180′ (andata – ritorno e supplementari) fra le mura amiche.

Decimo peccato: il sassolino. Insomma diciamocelo: Teatro i è andato a vincere al Piccolo-Maracanà… giocando all’italiana, tenaci, ma in più tratti dando anche spettacolo vero. E zac!

Il Pinocchio di Babilonia Teatri

Pinocchio Marco-Caselli-Nirmal

NICOLA ARRIGONI | Con Pinocchio salta ogni estetica, lo sguardo teatrale non tiene e alla fin fine non tiene neppure il riferimento alPinocchio collodiano, perché la vita è più forte della sua rappresentazione, perché i corpi e le storie di Paolo Facchini, Riccardo Sielli e Luigi Ferrarini sono vita che scotta, risorge e pretende di essere.

Pinocchio dei Babilonia Teatri è un non/spettacolo, è non teatro, o forse è teatro perché in fondo è incontro di persone, è racconto di vite tornate a vivere, di uomini usciti dal coma con una disperata vitalità buttata in faccia allo spettatore. Ed è lo stesso Enrico Castellani a spiegare questo Pinocchio esploso fra le mani: «Volevamo fare Pinocchio, ma poi le storie di Paolo, Riccardo e Luigi hanno avuto la meglio e la storia collodiana è rimasta sullo sfondo» come segno di uno spettacolo che ha preso una via diversa, quella di un non spettacolo, il racconto della sofferenza. Babilonia Teatri ha lavorato con i ragazzi della compagnia Gli Amici di Luca, centro che da anni utilizza il linguaggio della scena per aiutare a ridare una relazione e socialità a persone uscite dal coma, molto spesso in seguito a incidenti stradali. La scena in Pinocchio è vuota, Paolo Facchini in bermuda beige, Luigi Ferrarini imbragato mostra i segni del suo post-coma in una fisicità piegata, Riccardo Sielli è delle parti di Rubiera e mostra un bell’accento emiliano che rincuora.

Di fianco a loro Luca Scotton nella sua pingue fisicità con indosso un naso di carta alla Pinocchio. Dalla consolle della regia Enrico Castellani fa loro delle domande, chiede di raccontare la loro storia, se sono alla ricerca della loro Fata, chiede loro di dirsi, ma anche di elencare personaggi e luoghi del romanzo collodiano, di dire chi sono oggi e chi erano ieri, con una serie di cartelli che straziano il cuore. Ed è questo che è forse Pinocchio: un incontro con la sofferenza e pure la voglia di andare oltre quell’incidente, di andare oltre il tunnel nero per riemergere alla luce. Quegli uomini mostrano la loro fisicità ferita, i loro movimenti a scatti, difficoltosi, raccontano di una normalità perduta, di sere passate in discoteca in cerca di rimorchiare, della moto che a un certo punto ti tradisce, di quella processione di platani che ti taglia la strada, di una lenta ma caparbia riabilitazione…

Eppure in tanta vita così mostrata e detta c’è a tratti un’estetica che commuove. Commuovono quei tre uomini/burattini nel loro muoversi a fatica, commuovono quei corpi che tornano ad agire, mossi da un burattinaio invisibile, fa venire un groppo alla gola lo stare lì di Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli con a lato seduto l’abbondante Pinocchio di Luca Scotton che li guarda, come se tutti loro fossero quel burattino lasciato in disparte dopo che finalmente Pinocchio s’è fatto bambino… Sarà ma il non spettacolo di Babilonia Teatri è un incontro, un bell’incontro col dolore e la voglia di vivere, senza retorica ma vissuto con l’immediatezza di un dialogo naturale e costruito con intelligenza e passione da Enrico Castellani, l’esito di un bisogno: creare relazioni e magari iniziare laddove la relazione con la vita s’era interrotta.

PINOCCHIO di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, con Enrico Castellani, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli e Luca Scotton;collaborazione artistica Stefano Masotti e Vincenzo Todesco; scene, costumi, luci e audio Babilonia Teatri organizzazione Babilonia Teatri e BaGs Entertainment; grafiche Francio produzione Babilonia Teatri collaborazione Operaestate Festival Veneto con il Contributo di Comune di Bologna, Regione Emilia Romagna patrocinio Emilia Teatro Teatro Fondazione promozione BaGs Entertainment www.bagsentertainment.com residenza artistica Babilonia Teatri e La Corte Ospitale Pinocchio è un progetto di Babilonia Teatri e Gli Amici di Luca laboratorio teatralepresso la Casa dei Risvegli Luca De Nigris realizzato col contributo della Fondazione Alta Mane-Italia ringraziamo Laura Bissoli, Cristiana Bortolotti, Cristina Fermani, Fulvio De Nigris, Eloisa Gatto, Irene Giardini, Nicola Granata, Giovanna Grosso, Marco Macciantelli, Francesca Maraventano, Juri Mozzanti, Cristian Sacchetti, Davide Sacchetti anteprima alla Casa dei Risvegli Luca De Nigris, Ospedale Bellaria 7-8-9 ottobre 2012: 7 ottobre 14° edizione della Giornata nazionale dei Risvegli per la ricerca sul coma, Bologna; al Comunale di Casalmaggiore , 23 marzo 2013.

 

Macellerie Pasolini: il fantasma si fa pietra

 Foto: Alessandro Scotti PhotographyALICE KELLER | “Gli occhiali rotti”, performance contro le mafie per l’iniziativa bolognese Civica 2013, regia di Macellerie Pasolini, prende avvio nel bel mezzo della quotidianità. Non c’è un sipario, non cala la luce, lo sappiamo, siamo nel cortile del palazzo comunale e semplicemente aspettiamo. Alessandro Bedosti, attore e danzatore, è già in un angolo, accovacciato. Prende con le mani della terra, ci si cosparge il volto, sta in equilibrio su due piccoli amplificatori, che porta legati ai piedi.
Fotografi, tecnici, organizzatori, un capannello di pubblico in attesa e una scia di comuni avventori, curiosi, gli passano intorno, lo toccano, aspettano. E’ una situazione bizzarra, dove una performance che ancora non c’è e una quotidianità un po’ meno quotidiana si toccano, attendono in tensione che accada qualcosa. Che la performance cominci, la realtà torni quella di sempre e tutto si risolva, nelle categorie consuete. Invece questo limbo dura a lungo, per molto tempo i confini si dilatano, tanto che l’impronta dei gesti tecnici degli attori, la preparazione degli organizzatori entra nel ricordo dello spettacolo.
Poi, d’improvviso, comincia la musica. Un uomo è solo, il volto coperto di terra, sta accovacciato. Magro, lo sguardo basso, quando si alza, e lentamente avanza, sale una scala.

E’ lunga la scala.

Barcolla, cammina su tacchi alti, trasporta scarpe più grosse di lui che non sa portare. I suoi gesti discreti – una presenza danzata e minimale – compongono immagini scure, corvi, cornacchie. Sono simboli sfumati e controllati in un corpo ridotto all’osso, costretto a una precisione stanca, etica. Evocano ma non dicono, accennano con il sorriso di un bambino alla fatica. La fatica di capire la mafia. Risolverla. Viverne la violenza.
Fatica: salire è fatica. Nella fatica, per salire, occorre aiuto: noi siamo le spalle, l’uomo cerca appoggio sulle nostre spalle. E’ un gesto piccolo, necessario ma non casuale, sempre compresso, misurato, ci trasmette col solo contatto una reazione scomoda, insofferente: l’egoismo della sopravvivenza della propria pelle.

L’omertà tra realtà e rappresentazione.

L’azione si sposta sotto un’ala di portico fredda, il vento ghiacciato sferza le guance. Qui Matteo Garattoni, performer, siede in controluce. E’ una figura nervosa, dalla partitura gestuale costretta e vibrante, che fili come quelli di una bomba legano a una piccola piattaforma.
Il collo fasciato, giri di scotch e una pistola alla tempia. Ruota il capo lentamente, con scatti piccoli e impercettibili, mentre le voci di cento telegiornali elencano anni, date, numero di morti. Quando la mano preme il grilletto il corpo si contorce  – appena – dietro a un’esplosione di bolle di sapone.
Tanto basta: la bomba è nei nostri ricordi, come i brandelli di carne, le grida strozzate. Si sovrappongono al portico freddo mentre il performer sparisce.

L’inquadratura sterza di colpo e compare una santa, schiacciata al muro come l’icona di un quadro.

E’ Natalia Mazer, performer, che danza muovendo soltanto le braccia, secondo una scia di gesti sottili e fugaci. Passa da una figurazione all’altra, mostrando in mezzo al petto un cuore trafitto, in plastica. Ogni volta che il simbolismo pare troppo, è già sparito, la santa ha abbassato le braccia in uno sguardo neutro. Resta la voce rotta, registrata, che grida con strazio: “li perdono”.

E’ nella realtà, alla fine,  la commozione.

Foto: Alessandro Scotti Photography

L’occhio di PAC alla performance di Macellerie Pasolini

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Carolyn Carlson e il suo Synchronicity

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NICOLA ARRIGONI | Ci sono le atmosfere sospese, l’attesa, lo stare sulla soglia o il guardare oltre la finestra di certe donne dei quadri di Edward Hooper in Synchronicity di Carolyn Carlson. Quella porta rossa, quel muro che divide da un interno che è vita nascosta di relazioni, amori, perdite è il segno narrativo di un lavoro intenso, costruito per quadri che procedono per apposizione, così come ciò che accade in scena si trova riflesso, mediato dalla soggettiva filmica realizzata dalla stessa coreografa, un di più di visione che è visione intima, mediata. Ciò che accade è la fame di relazione, è la perdita improvvisa, è l’incontro inatteso, è il tradimento spiato, è quell’ultimo banchetto che è ultima cena e rubarsi l’un l’altro in pane di bocca, è lavacro purificatorio in un catino che sa d’infanzia perduta, è l’attesa di un treno, è il passare di quel treno e in quell’attimo il gesto di addio, dell’alzarsi per salutare diventano gesto coreografico. In tutto ciò i danzatori di Carolyn Carlson: Alan Brooks, Riccardo Meneghini, Yutaka Nakata, Camille Prieux, Chinatsu Kosakatani, Céline Maufroid, Isida Micani, Sara Orselli, Sara Simeoni sono la penna con cui la coreografa statunitense scrive quelle storie d’amore, contatti fugaci, incontri in un motel, o in una stazione di benzina, o ancora le solitudini in attesa di abbracci in quell’America dalle distese infinite di cui Carlson porta dentro i colori e le solitudine, ben reso da una colonna sonora che unisce Tom Waits e Michael Nyman, Jean Sibelius e Bruce Springsteen con un anelito al sacro affidato ad Henry Purcell. Se questo è il senso di un lavoro che non manca di un certo calligrafico estetismo, in Synchronicity c’è anche una scrittura coreografica che cita e ruba da Pina Bausch di Café Müller, di Vollmond, Kontakthof, un omaggio alla grande coreografa tedesca, inventrice di quel teatro-danza che Carolyn Carlson costruisce nella sua esperienza italiana alla Fenice di Venezia.

Al di là di questo in Synchronicity si trova tutto lo stile di Carolyn Carlson, i suo gesti secchi, quel tendere al cielo e subito cadere, il lasciarsi andare nelle braccia dell’altro e poi scivolare via, come se quel contatto scottasse. Carolyn Carlson nel lavoro presentato al Ponchielli racconta di una fame d’amore, della volontà che il solo pensare alla persona amata la possa far comparire da dietro la porta, che l’assenza venga colmata da un ritorno impossibile, che l’amore possa consumarsi oltre il tempo. E tutto ciò avviene con leggerezza e una lentezza che sa di ricordo e sospensione dell’anima, sensazioni che si sciolgono nel lungo applauso finale.

Un video dello spettacolo
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Rome Chamber Music Festival: il coraggio di puntare su giovani talenti

romechamberfoto4 copiaLAURA NOVELLI | Nella situazione di grave crisi in cui versa il sistema cultura di questi tempi, bisogna avere coraggio. E la prima forma di coraggio è quella che guarda al futuro investendo nei giovani. Coltivando i loro talenti. Dando loro occasione di crescita professionale e di visibilità. Sostenendo percorsi di formazione che garantiscano costruttivi approdi artistici: eventi ad hoc verso cui incanalare le loro energie creative. Una mission che il Rome Chamber Music Festival (RCMF) diretto dal violinista statunitense Robert McDuffie persegue dal 2003 e che quest’anno, proprio in occasione dell’importante decennale, acquista ancora maggiore valenza: sono infatti venti i giovani musicisti europei selezionati nell’ambito del progetto “Missione giovani” per essere affiancati in un tirocinio formativo da “coach” di altissimo livello (tra gli altri, lo stesso McDuffie, Lawrence Dutton, Andrea Lucchesini, Gary Hoffman) e per poi esibirsi, insieme proprio ai loro affermati maestri, a Palazzo Barberini durante le serate conclusive della rassegna, che si inaugura il 9 giugno con la Sonata per violino e pianoforte in Do minore, op. 30 n. 2 di Ludwig van Beethoven (McDuffie, violino e Lucchesini, pianoforte). Tra questi venti talentuosi strumentisti del nostro continente, ben otto sono italiani e stupisce la robustezza dei loro curricula, a fronte di un’età in alcuni casi persino adolescenziale (hanno dai quindici ai ventisei anni e suonano il violino, la viola, il violoncello, il clarinetto e il flauto). La fondazione che si occupa di organizzare il festival, diretta da Jacopa Stinchelli, li ha reclutati in diversi conservatori della Penisola, e dopo un’accurata selezione, li ha chiamati ad affrontare questo importante traguardo professionale.
Li potremo ascoltare, nello splendido scenario del Salone Pietro Da Cortona, il 12 e il 13 giugno, quando eseguiranno autori impegnativi quali Mendelssohn, Rossini, Schubert e Schumann.
Il più giovane è un violinista quindicenne, Gennaro Cardaropoli, che studia al Conservatorio di Avellino ma che suona già con importanti orchestre (l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, l’Advanced di Santa Cecilia, la Juvenilia Corde, gli Archi di Roma, il Progetto Orchestra di Vicenza e i Mannheimer Philharmoniker) e che si è esibito anche in Svizzera, Germania, Francia e Stati Uniti.
Claudia Irene Tessaro di anni ne ha 17, ha iniziato a studiare musica all’età di 5 ed è il primo violino dell’Orchestra giovanile del Conservatorio A. Steffani di Castelfranco Veneto. Daniel Palmizio, 26 anni, insegna già al Conservatorio S.Cecilia di Roma, è stato il più giovane violista a vincere il premio S. Carlo di Napoli; mentre Tommaso Pratola (flauto) arriva dal Conservatorio de l’Aquila, pluripremiato nel 2012, partecipa al Rome Chamber Music Festival per la seconda volta.
A questi si aggiungono poi Lorenzo Zanisi (primo clarinetto solista dell’Orchestra Internazionale di Roma), Tommaso Zuccon Ghiotto (violinista ventiquattrenne esibitosi spesso come solista con l’Orchestra sinfonica di Vicenza e con l’Orchestra di Padova) e Matteo Tabbia (violoncellista torinese che nel 2010 è stato il primo italiano a vincere il premio “Alexander & Buono International Competition” di New York).
Insomma, una variegata scuderia di talenti italiani che va sostenuta e incoraggiata. Meritano tutti un plauso particolare per la passione e la determinazione con cui si dedicano alla musica, ma ancor di più merita un plauso lo stesso McDuffie per aver arricchito il suo importante festival di queste promettenti linfe giovanili. D’altronde, il violinista statunitense (virtuoso di estrema sensibilità espressiva che, va detto, possiede il violino più prezioso al mondo, il Guarnieri del Gesù del 1735 “Ex- Ladenburg”, già appartenuto a Paganini) crede così tanto nella formazione da aver fondato nella sua città natale, Aspen, il McDuffen Center for Strings, annesso alla Mercer University.

Foto Enrico RipariIn occasione di un’intervista rilasciata tempo fa ad una rivista statunitense, il direttore del RCMF ha così spiegato il senso e il valore del suo approccio didattico: “In parole povere, il McDuffie Center è un istituto indipendente della Mercer University. Siamo liberamente affiliati al conservatorio, dico liberamente perché ci è stata riconosciuta una sorta di autonomia per inserirci nell’intera università. Il piano di studio che abbiamo predisposto è finalizzato alla formazione di un musicista in grado di lavorare da libero professionista. Non si tratta di una mia presa di posizione ideologica, non mi ritengo così intelligente da dettar legge. Tuttavia, faccio parte del mondo della musica classica, mondo che attualmente affronta un momento di crisi e non sappiamo né come né quando finirà. Inizierà una nuova fase e dobbiamo prepararci ad affrontarla […] E’ possibile approfondire i compositori americani e inglesi studiando per conto proprio, in maniera indipendente. Così, stiamo sostituendo questi corsi con lezioni di microeconomia, psicologia, filosofia, libera impresa, estetica, diritto commerciale e arte oratoria. Lo scopo è quello di preparare i nostri futuri laureati, che hanno un enorme talento, ad affrontare il mondo reale fornendo loro i mezzi per sapere come leggere un contratto o come costituire una fondazione”.
Uno spirito innovativo che McDuffie ha sempre instillato anche nella programmazione del RCMF, accostando autori e stili quanto mai diversi. Anche il carnet delle proposte 2013 risponde a questo desiderio di miscelare ed esplorare nuove frontiere della musica da camera (il programma completo è consultabile nel sito www.romechamberfestival.org), senza trascurare il fascino indiscutibile del “backstage”: dal 6 giugno la Galleria di Palazzo Barberini (custode preziosa di alcuni capolavori di Caravaggio, Raffaello e Guido Reni) sarà aperta al pubblico per permettere di assistere gratuitamente alle prove dei concerti serali. E ovviamente l’invito ad aderire non potrebbe che essere rivolto prima di tutto ai giovani.

Un video dell’edizione dell’anno passato con un’intervista a McDuffie
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=tILeY4VEgHA]

Uovo à la sudtirolese

Qualibo n-esimo-progetto-fallimentareRENZO FRANCABANDERA | Questo articolo arriva con qualche giorno di ritardo, perchè voleva esser scritto la sera del 21 marzo, quando ero appena uscito dalla Triennale di Milano Teatro dell’Arte, avendo assistito prima a –N-esimo Progetto Fallimentare di QuaLiBò e poi a –FOLK-S will you love me tomorrow? di A. Sciarroni.
Stiamo parlando del Festival Uovo. Da anni a Milano. Undici per l’esattezza. Performing arts, danza contemporanea. N-uovo, insomma. Grazie a loro sono stati circuitati alcuni dei lavori più interessanti e sfidanti degli ultimi anni. L’edizione di quest’anno potete seguirla in video qui.

Andiamo agli spettacoli.
Nel primo dei due in programma, N-esimo Progetto Fallimentare, Maristella Tanzi e Carlo Quartararo, ovvero QuaLiBò, presentano alcuni quadri al lume di neon, con la Tanzi impegnata in passi di danza contemporanea e Quartararo a fare da fonte luminosa, avvinghiato come Laocoonte fra cavi elettrici e prese di corrente. Una premessa interessante, che enuclea l’intento artistico. Una musica emanata da una fonte sonora  sporca fa da sottofondo a un ragionamento che in realtà ambisce a creare una poetica del fallimento, inteso come costruzione  non ortodossa, e dunque non valutabile con il canone normale. E’ ovviamente un provocatorio tentativo di invertire il parametro estetico, e anche in sala cerchiamo di ragionare a testa in giù. Da questo punto di vista sicuramente meno comodo, registriamo come alcune trovate di matrice quasi situazionista e surreale intrighino ma che l’uovo (visto che siamo in tema) non arrivi proprio al sodo. Nel senso che quello che viene proposto è un lavoro interessante ma che non sconvolge. Che non porta in un’altra dimensione di sensi e di senso.

E la riprova la abbiamo poco meno di un’ora dopo assistendo invece a quello che ci sembra veramente un piccolo capolavoro, che è FOLK-S will you still love me tomorrow? di Alessandro Sciarroni, una coreografia basata su una danza popolare folcloristica, lo “Schuhplatter”, tipico ballo bavarese e tirolese, antica danza di corteggiamento, interpretata da Marco D’Agostin, Pablo Esbert Lilienfeld, Francesca Foscarini, Matteo Ramponi, Alessandro Sciarroni e Francesco Vecchi.

Sciarroni riparte da alcuni segni dello spettacolo precedente, Lucky star, dai performer bendati. All’inizio, sei fari illuminano dell’alto il palcoscenico, lasciando il fondo nel buio.
Lui stesso, in vestiti tradizionali tirolesi, porta in scena gli altri performer, bendati, disponendoli in cerchio. Parte un ballo tondo, un ballo di origine popolare.
Questa epifania ha istantaneamente richiamato alla mente quanto visto in questo stesso luogo due anni fa, quando Claudia Castellucci presentava, all’interno del progetto STOA, una riflessione su regole, semantica e poetica del ballo tondo. Secondo noi la radice di entrambi gli studi risiede in questo.
E l’emozione, il rarefatto, l’ossessiva ripetitività insita nel fascino delle regole è lo stesso.
Poco dopo l’inizio della performance, vengono date al pubblico le regole: lo spettacolo va avanti fino ad esaustione o di chi è sul palco o di chi è in platea. E così accade. Piano piano sul palco qualcuno si stanca. Ed esce. Anche in platea qualcuno più ossessionato dalla proposta apparentemente ripetitiva esce.
Pensiamo che in questo tipo di fruizione ci debba essere la stessa audacia che provarono i contemporanei di Mondrian nel passare dallo sfrenato e ancora tardo romantico figurativo della maggior parte dei loro coevi a quei segni, quelle linee. Al loro rigore. A quei tre quattro colori. Fissi.
Eppure questa ripetitività ossessiva è invece un topos della tradizione del ballo popolare, fino allo stato di trance. Come i dervisci. Come i tarantati. Ma chi ha avuto la tenacia di resistere a questa ossessiva iterazione di colpi su scarpe, polpacci, anche, scarpe, polpacci, anche, ha potuto accedere ad una dimensione che va oltre il segno, come il calligramma arabo ripetuto all’ossessione a Granada o Siviglia, mentre progressivamente venivano proposte per sottofondo coloriture sonore ovviamente incongruenti, ambient, di canto per sola voce, persino in un caso con una traccia sonora mandata al contrario. Un tentativo di narcotizzare e neutralizzare l’elemento musicale, per paradosso. Così il gesto rimane assoluto, la sensazione di questa emotività, riempie la sala. In questo Sciarroni è riuscito progressivamente a pulire questo lavoro rispetto, ad esempio, a quanto proposto a Drodesera, per arrivare proprio all’essenziale, al calligramma appunto, a Mondrian.
Come altri spettatori ho deciso ad un certo punto di interrompere la mia fruizione. Ero emotivamente felice, sazio, avevo i miei collegamenti, le mie ricchezze. Capire chi avrebbe ceduto per ultimo, chi era l’highlander della situazione era di minor interesse per me. Sono uscito.
Fuori c’erano altre persone emozionate come me. Dopo dieci minuti abbiamo sentito un grande applauso venire dalla sala. Evidentemente i danzatori avevano ceduto al gesto ginnico.
Li ho applauditi metaforicamente da fuori.
Spero anche che altre persone possano vedere Folk-s, provare questa sensazione. Emozionarsi per la geometrica poesia dell’esistere.

Il video sul lavoro di Sciarroni a Drodesera
[vimeo 46230417 w=500 h=281]
DRODESERA 2012 We Folk! – ALESSANDRO SCIARRONI “FOLK-S, WILL YOU STILL LOVE ME TOMORROW?”
Un video sulla giornata del 21 marzo di cui parla questo articolo
[vimeo http://www.vimeo.com/62418800 w=500&h=281]
UOVO performing arts festival_day two from Uovo on Vimeo.
shooting and editing: Romana Sarti
special thanks to: Giulia Mariani
music: YACHT – Tripped Fell In Love
Intervista a Sciarroni
[vimeo http://www.vimeo.com/62421172 w=500&h=281]

I Karamazov di César Brie

karamazov9NICOLA ARRIGONI | Schierati ai lati di una sorta di tappeto/pedana delimitata da corde — i legami fra i personaggi — la vicenda dei Karamazov è narrata e agita nel suo susseguirsi di intrecci, di amori, rancori e vendette. Lo spazio è quello, o per lo meno lo richiama, dell’Arlecchino servitore di due padroni di Giorgio Strehler, una sorta di spazio teatrale a vista, in cui attore e personaggio convivono, in un dichiarato svelamento della finzione che Strehler mutuava da Brecht e che César Brie fa proprio come molti segni che si rincorrono ed emergono dal suo I Karamazov, centone teatrale in cui la tradizione del terzo teatro s’incontra con quello di regia in un gioco tanto callografico quanto vuoto.. César Brie ha lavorato con i suoi giovani attori: Daniele Cavone Felicioni, Gabriele Ciavarra, Clelia Cicero, Manuela De Meo, Giacomo Ferraù, Vincenzo Occhiero, Pietro Traldi ed Adalgisa Vavassori per dare forma scenica al feuilleton dei Karamazov, concentrandosi sulla trama piuttosto che sul pensiero di Dostoevskij, sui ruoli piuttosto che sulle funzioni, sui personaggi piuttosto che sulle idee.
L’impressione è che l’instintività di Dimitrij, la ragione e il dubbio portati alla conseguenza nichilista del ‘tutto è permesso’ di Ivan, la bontà e purezza religiosa di Aleksej, il risentimento e la sete di vendetta di Smerdjakov, oltre naturalmente alla grettezza di Fëdor, il padre di quei figli umiliati e offesi rimangano in superficie, si raccontino in gesti, in un’invenzione scenica che gioca con tenerezze di maniera, che cerca una semplicità e povertà di mezzi che non corrispondono all’intuizione poetica, ma sono esercizio di stile. Ciò che accade in scena è troppo alla César Brie.
Non ce ne voglia il regista e attore, ma è come se avesse messo il pilota automatico e restituito il romanzo di Dostoevskij alla sua maniera, senza però farlo proprio per poi ri-offrirlo vero e sentito all’altro, ovvero lo spettatore.
Ciò che accade in scena, lo scandirsi dei quadri, il lavoro sul corpo, l’atonalità del recitato divengono subito prevedibili, sono cliché a cui piegare un mondo, in questo caso il mondo dei Karamazov. Ogni particolare, ogni azione è troppo narrata, troppo spiegata, il senso oscuro, l’abisso e la tensione alla luce, la intima disperazione e l’infelicità grottesca e ridicola di chi troppo soffre, per cui al grande dolore fanno seguito prima le lacrime e poi il riso non arrivano. Anche i bambini — che César Brie definisce protagonisti occulti del romanzo — sono segni estetici, non inquietano, tantomeno commuovono. Il risultato è il racconto, una storia di amori, desideri, rancori, soldi e vendetta, ma nulla di più.
Ciò che rimane è la trama, la vicenda presentata lì, raccontata come in una sorta di guida alla lettura de I fratelli Karamazov. Chiarita la trama verrebbe da dire: è tempo di affrontare il pensiero, di metterlo alla prova della scena, di agirlo sì come carne e sudore del teatro… ma ciò deve ancora accadere e forse prima o poi accadrà.

Un video promo dello spettacolo
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Basta un libro per salvare Mercuzio?

Mercuzio 3LAURA NOVELLI | Cogliamo l’occasione del laboratorio teatrale “Mercuzio e altri personaggi mancanti” che Armando Punzo terrà alle Manifatture Knos di Lecce dal 25 al 29 marzo (nell’ambito del progetto “Io ci provo” della compagnia Factory) per raccontare qualche impressione sull’ultima fatica di un regista/simbolo della nostra scena contemporanea: anima di quella felice esperienza artistica e sociale che è La Compagnia della Fortezza di Volterra. L’ultima regia di Punzo si intitola appunto “Mercuzio non vuole morire” e già nel titolo – implicito il riferimento al “Romeo e Giulietta” – evoca una spontanea corrispondenza con l’imminente iniziativa pugliese, soprattutto in riferimento a quei “personaggi mancanti” sui quali si è concentra la ricerca di ambito shakespeariano condotta dal regista campano negli ultimi anni (basti considerare il precedente “Hamlice”, connubio tra Amleto e Alice).
Lo spettacolo, debuttato al festival di Volterra di quest’estate e visto al Palladium di Roma qualche settimana fa, non è uno spettacolo vero e proprio. O meglio, rappresenta secondo noi un’operazione che, nata per “invadere” letteralmente lo spazio urbano di Volterra coinvolgendo i cittadini e trainando la sua stessa aspirazione artistica fuori dall’istituto penitenziario in cui la Fortezza opera e crea, molto ha a che fare con la festa barocca: un montaggio traboccante di materiali (sonori, visivi, fisici, poetici) che si allontana dall’enigmatica essenzialità del teatro per abbracciare l’idea popolare – a tratti persino populistica – di un comizio in difesa della Poesia, del Sogno, dell’Arte, della Cultura: evento in cui, al di là della partitura testuale e della prova attoriale, contano soprattutto l’insieme, il coro, l’estemporaneità di un’esperienza da fare ora e insieme (teatranti, cittadini e spettatori) che stratifica, somma, moltiplica presenze e prospettive al fine di celebrare, attraverso Mercuzio, i Don Chisciotte di ogni tempo. Motivo per cui anche le repliche al chiuso previste nella capitale (e inserite nel più vasto contenitore “La provincia in scena”) hanno visto la collaborazione di tanti cittadini del quartiere Garbatella, reclutati per moltiplicare, ad esempio, il personaggio di Giulietta o per dare fisicità al popolo di Verona o , più simbolicamente, per inserire una tessera di presenza sospesa tra l’umano e l’artistico  (come ad esempio le splendide bambine in tutù o i piccoli musicisti). Anche al pubblico, accerchiato da continue “attrazioni” e innumerevoli sollecitazioni attinte all’arte figurativa,  è stato richiesto di indossare un guanto rosso (la mano che uccide, metaforicamente, l’ingenuità del bello e giusto) e di portare un libro caro, da sventolare come bandiera nel quadro più carnevalesco – ma anche più politico – della messinscena.

Dunque si capisce che questa operazione, scaturita dal bisogno di guardare alla tragedia di Shakespeare con il cannocchiale rovesciato verso le figure minori e verso quel concettoso Mercuzio destinato ad uscire presto di scena, e perciò, come direbbe Carmelo Bene, a diventare “o-sceno” e a segnare una perdita incolmabile per la tragedia stessa e per l’umanità, tenti una rivalutazione degli “ultimi” a più livelli: non solo i personaggi del dramma (tanto più che, a nostro parere, la parte migliore del testo shakespeariano è proprio la prima, quella fino alla morte di Mercuzio), non solo gli attori/detenuti del carcere di Volterra (una decina in scena, tra cui Aniello Arena), ma anche la gente comune, i bambini, i sognatori, chi crede nel senso (ancora  oggi) della cultura, del libri, dell’arte, delle parole. Punzo stesso si mette in gioco come una sorta di protagonista/demiurgo che recita, duella, legge, orchestra l’insieme azzerando la distanza tra sala e palcoscenico. Immergendo il lavoro in un pieno musicale ottimamente sostenuto da Andrea Salvadori (particolare plauso va al contraltista Maurizio Rippa).
Dissacrando epicamente ogni scampolo di finzione. Compiacendo l’atmosfera da festa, da concerto di piazza, da manifestazione popolare che questa drammaturgia sottende e pretende. Una scelta che ovviamente “apre” lo spettacolo a tanti varianti, a progressive inserzioni e modifiche, a continui innesti: un organismo vivo che cresce nel luogo e con il luogo in cui si radica.

Ma il rischio è quello di mettere troppa carne al fuoco, di con-fondere l’uditorio, di rendere fin troppo esplicito ciò che dovrebbe rimanere implicito, di restituire brandelli di testo slegati tra loro, di – paradossalmente – far distogliere l’attenzione (emotiva e cognitiva) del pubblico. Rimangono impresse battute come : “perché si vede che non ho paura”,  “vivere è di gran lunga più difficile”, “tutta la terra è un forzato di uomini con la testa rasata dal sole”, “sono il clown di Dio”. Il messaggio certamente è chiaro, arriva subito, è facilmente intuibile dopo la prima mezz’ora di spettacolo, per cui molta di questa abbondanza barocca finisce con l’essere didascalica.
E allora, rovesciando anche noi il cannocchiale, ci viene da pensare che questo “Mercuzio non vuole morire” vada letto essenzialmente come qualcosa d’altro rispetto al teatro, vada spostato l’insieme dei codici con cui lo si interpreta, vada spinto oltre lo spettacolo, dentro la vita reale. Fermo restando che, personalmente, sentiamo un po’ di nostalgia per lavori come “I Negri”  (’96) o “I pescecani, ovvero quel che resta di Brecht” (2003). Lì sentivamo la forza di una parola che si fa corpo, l’urgenza espressiva di uomini/attori avvezzi al dolore ma reattivi all’incontro misterioso con il pubblico, il sapore agro – o grottesco – di una scena pronta veramente a mostrare e distorcere la vita.

Alcune immagini video dello spettacolo nella versione di Volterra

           

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Free Games Wars: la battaglia per l’ultima frontiera video ludica

ALESSANDRO GUALANDRIS | dofusgameplayLa prova definitiva l’ho avuto quando, una settimana fa, mia madre a pranzo mi ha detto “Non mi funziona più l’app della Rai e non riesco a scaricarla dall’App Store”. Al di là della naturale sorpresa nel sentirle in bocca uno slang informatico di questo livello, mi son poi reso conto della reale portata raggiunta dalle applicazioni per smartphone e tablet, ma anche per PC, visto che è probabile il nuovo Windows 8 sia studiato per utilizzi sicuramente “touch”.

In questo mondo variegato di funzionalità sempre più assurde e, il più delle volte, inutili, una grossa fetta di mercato è certamente legata ai giochi. Partiti in sordina i primi F2P (free to play, giochi gratuiti) sulle piattaforme social, con Facebook in prima fila, negli anni si sono allargati a macchia d’olio su ogni portatile, senza distinzione di casacca: dall’ultimo mela fonino alla più recente versione di android. Molte case produttrici di videogiochi, come la Crytek e l’EA, stanno investendo tempo e denaro in studi di sviluppo per giochi da portare su tablet e smartphone, acquistando interi progetti nati in rete tra appassionati di programmazione. Sui mercati orientali ActionVision ha prodotto e diffuso una versione gratuita di Call of Duty.

Ma qual è la causa di tutto questo interesse per i giochi free? Prima di tutto facciamo qualche considerazione. Come avrete potuto leggere nel nostro speciale sul World Mobile Congress 2013, tenutosi a Barcellona, il mondo mobile come lo conosciamo è destinato a far fronte alla domanda crescente di migliorie tecnologiche stando molto attendo ai costi. I videogiochi su console e PC hanno ancora prezzi elevati, nonostante le offerte tra usato e nuovo disponibili in quasi ogni rivenditore. Il gioco online gratuito offre subito un aggancio diretto del fruitore ludico e un’istantanea diffusione tramite i social. Se pensiamo che solo in Italia 450 mila persone stanno abbandonando la linea telefonica fissa, in favore d’internet e cellulari, è chiaro come questo mercato sia una nuova terra promessa.

David Darling, CEO e co-fondatore di Kwalee, è convinto che “(…) questo mercato è molto competitivo. Solo i giochi migliori scaleranno la testa della classifica. L’opinione comune è che i giochi free to play siano di scarsa qualità, ma in realtà stanno alzando gli standard dell’intera industria.” Nonostante l’azzardo evidente della sua affermazione, è più vicino alla realtà di quanto si pensi.

autclubrevolution gameplayPrendiamo ad esempio Auto Club Revolution, simulatore di guida della Eutechnyx: totalmente gratuito e costituito da gare online, è cresciuto nel tempo grazie all’apporto degli utenti. Con qualità grafiche pari ai migliori titoli per console (da Gran Turismo a Forza motor Sport), è stato implementato negli anni seguendo i consigli e le lamentele degli utenti. Il passaggio tra creatore e utilizzatore si fa sempre più sottile, il tempo reale tra un upgrade e l’altro è calcolato sulla velocità di download.

Ma quindi il guadagno per le case di sviluppo dove sta? Ingrid Florin Muller, responsabile marketing Internazionale di Ankama, in una recente intervista apparsa sulla versione cartacea di Game Republic, parlando di DOFUS, gioco di ruolo che sta spopolando dal 2004, afferma che “(…) sin dall’inizio, lo scopo di Ankama è stato quello di far provare il gioco in maniera gratuita e decidere col tempo se si trattasse di qualcosa su cui valesse la pena spendere soldi. Da lì è nato il sistema che utilizziamo ancora oggi, con download, registrazioni e accesso all’area principianti completamente gratuiti. Il modello con abbonamento è stato introdotto successivamente, ma solo per dare regali e servizi extra.”

Il trucco c’è e si vede. Creare giochi dal forte appeal e dalla veloce meccanica, garantisce un ritorno economico nelle versioni più estese o negli extra, a cui un vero appassionato non può rinunciare. Che siano mappe nuove dove giocare, armi, personaggi o anche solamente vestiti e costumi personalizzabili, mano alla carta di credito o a pay pal. Ma il vero asso nella manica è un altro: il costo. Molti di questi pacchetti hanno prezzi relativamente bassi, a volte pochi centesimi di euro, e sfruttano il fatto che nelle community si creino veri e propri ghetti legati a particolari modalità di gioco, alle quali accedere solo avendone tutti i requisiti bonus. La diffusione è, così, garantita.

Ovviamente anche i banner pubblicitari presenti nelle versioni base di molti giochi, portano un guadagno notevole. Se però vi danno fastidio, non c’è problema, con 99cent potrete acquistare la versione senza spot. Più che strategie di marketing, sembrano partite a scacchi tra cliente e produttore.

Nel video che segue, un veloce sguardo a League of Legends, della Riot Games, che dal 2009 sta incrementando i suoi utenti in tutto il mondo, ispirandosi a Warcraft III e cercando di bissarne il successo. Impresa difficile ma non impossibile.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=aUT5iyCW1ps]