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mercoledì, Gennaio 15, 2025
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Villaggio d’artista: oltre la dimensione del festival

villaggio d'artista meina giorno due-00RENZO FRANCABANDERA | Fermo restando il fatto che il soggetto pubblico resta in forma determinante il baricentro decisionale e il fulcro per la promozione dell’attività culturale su un territorio, esistono sicuramente tentativi di azione e promozione che cercano di superare l’occasionalità dell’incontro estivo, sviluppando promozione ed educazione al sensibile sul territorio di più lungo termine.

Siamo stati invitati alcuni giorni fa a respirare l’atmosfera di Villaggio d’artista, una tre giorni di studio e presentazione di progetti d’arte e pensiero, tenutasi in diversi luoghi del borgo di Meina (NO), sul Lago Maggiore. L’idea nasce con presupposti quasi utopici di convivenza sociale e naturalistica dove artisti, performer, danzatori e cittadini, in nome della valorizzazione di un’identità transfrontaliera (riconosciuta o da riconoscere), si sono incontrati per partecipare ad eventi e dimostrazioni artistiche, a laboratori e incontri.
Villaggio d’artista è un progetto dal potenziale senz’altro più ampio, di PerCorpi Visionari a cura di Antonella Cirigliano con Rodrigo Boggero e Laura Vignati, finanziato grazie al contributo del PO di Cooperazione Transfrontaliera Italia – Svizzera e dell’Unione Europea e al sostegno di Regione Piemonte e Canton Ticino. Si tratta quindi di un progetto di cooperazione territoriale (e già questa appare una soluzione interessante che prova ad andare oltre la logica del campanile) dal quale sono nati spettacoli, sculture, istallazioni, performances, danze e progetti site-specific degli artisti in residenza, poi aperti al pubblico il 25-26 e 27 luglio 2013 dalle h 17 alle 22, in numerosi spazi cittadini, urbani e rurali. Anche la dimensione “eccentrica” fuori quindi dal contesto metropolitano è un altro elemento che forse non genera grandi ricchezze, ma può fornire possibilità e un nuovo pubblico che invece nelle città è già stimolato.
Il moto artistico che anima la direzione di Villaggio d’artista è orientato al teatro e alla danza fra esperienza e sensi, un lavoro sul rapporto con la scena in cui il pubblico prende parte, è presente e diventa anche parte attiva (in forma più o meno volontaria). ma è proprio in questa fattualità che risiede il focus dell’indagine e le possibilità di un ampliamento del raggio d’azione dell’intervento formativo e di pianificazione.

Foto: www.ilvergante.it

Ecco a voi un video report su Villaggio d’artista

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Filosofia e teatro: una riflessione fra Castellucci, Motus e Latella dopo Dro

imagesRENZO FRANCABANDERA | Sempre maggiore è in me la convinzione che il nuovo ruolo del teatro e delle arti scenico-performative in generale, forme d’arte dal vivo per eccellenza, ormai superata la dimensione Otto e Novecentesca e i suoi portati ideologici dai contorni così definiti, si avvicini moltissimo a quello della filosofia, ovvero diventare un campo di studi che si pone domande e riflette sul mondo e sull’uomo, indaga sul senso dell’essere e dell’esistenza umana e si prefigge inoltre il tentativo di studiare e definire la natura, le possibilità e i limiti della conoscenza, allorquando l’uomo, soddisfatte le immediate necessità materiali, cominci ad interrogarsi sulla sua esistenza e sul suo rapporto con il mondo.

Le questioni sono profonde e lo spunto mi è stato fornito dalla programmazione del recente festival Drodesera, organizzato, come ormai da decenni, da Fies Factory – Centrale Fies, una delle eccellenze del concepire e sviluppare le arti sceniche e performative in Italia: prendiamo tre spettacoli, Motus con “Nella Tempesta”, Antonio Latella/Compagnia Stabilemobile al debutto nazionale di “A.H.”, e Romeo Castellucci con “Attore, il tuo nome non è esatto” (già presentato in forma di studio alla Biennale 2011 di Venezia). Ad alcuni giorni dalla fruizione, queste visioni ci paiono esemplificare la declinazione del filosofico nell’azione e nella prassi scenica oggi.

Si riconosce generalmente che le domande di carattere universale, il problema del rapporto tra l’individuo e il mondo, tra il soggetto e l’oggetto, vengano trattate dalla filosofia secondo due aspetti: il primo è quello della filosofia teoretica, che studia l’ambito della conoscenza, il secondo è quello della filosofia pratica o morale o etica, che si occupa del comportamento dell’uomo nei confronti degli oggetti e degli altri uomini, fino ad arrivare alla declinazione politica del pensiero.

Con questa suddivisione in macro categorie logico filosofiche vorremmo interpretare il fare arte da parte dei registi attraverso gli spettacoli menzionati: alla prima apparterrebbe il lavoro di Castellucci, tutto interno al tema del conoscere, del vero e del falso, della dimensione del sensibile, del materiale e dell’immateriale, ovvero di quella partizione che certa scuola semiotica italiana propose fra materiale e immaginario. Il daimon di questo spettacolo è Artaud: in un ambiente di luce naturale ma reso rosso dalla schermatura delle finestre, alcune attrici interpretano momenti di possessione “demoniaca”, come quella che dovrebbe essere dell’attore. Ma sono voci di possessione o registrazioni di Artaud? Cosa è naturale e cosa è schermato? Sotto quale luce vediamo e assistiamo al fare spettacolo oggi, sembra chiederci Castellucci, giocando forse anche sul ruolo antifrastico fra questa proposta sul daimon e quella del “Volto del figlio di Dio”, che tanto scalpore e fervore religioso era riuscita a suscitare.

nellatempestaAlla seconda macro categoria, quella pratica e poietica apparterrebbero, in questo suddividere, i due spettacoli di Latella e Motus. Siamo consapevoli dell’azzardo argomentativo e vogliamo circostanziare l’argomento a questo momento e a queste proposte artistiche, visto che, come per la filosofia, anche per il teatro non può darsi una definizione ultimativa e specifica: ogni pensiero sul teatro include, infatti, al suo interno una ridefinizione del concetto di arti sceniche, e la riflessione generale stessa sulle arti muta per il contenuto sempre diverso del fare arte, che evolve con l’evolvere della società e delle abitudini del genere umano. Su questo riprendiamo per esemplificare quanto diceva Aristotele stesso: “È giusto anche chiamare la filosofia (philosophian) scienza della verità, poiché di quella teoretica è fine la verità, mentre di quella pratica è fine l’opera (ergon); se anche infatti i (filosofi) pratici indagano come stanno le cose, essi non considerano la causa per sé, ma in relazione a qualcosa ed ora”.

Se dunque Latella e Motus possano essere, in questo tempo del loro indagare, identificati come esponenti di una sorta di filosofia pratica del teatro, cerchiamo di capire in che termini e dove sono le differenze, a nostro avviso.

La restituzione della dimensione spettacolare ad una valenza pratica, sembrava essere stata messa in crisi da talune tendenze della cultura contemporanea, che ritenevano superate le indagini ideologiche novecentesche (quelle à-la-Brecht ecc, per intenderci e semplificare in forma quasi banale).

Ma nell’ultimo trentennio del Novecento, una parte importante della produzione ha invece inteso in vario modo continuare a proporre una dimensione pratica del fare arte, e attraverso quella incidere sull’ambito “politico”. Guardiamo al caso di collettivi come il Living Theatre, e al recentissimo forte legame fra Judith Malina e i Motus, che ha portato a spettacoli più marcatamente “politici” del duo Nicolò/Casagrande. Riterremmo le loro questioni sul fare arte vicine ai temi dell’etica applicata.

Latella invece ha una portata meno immediatamente correlabile alla sfera politica, a cui però arriva per deduzione: il pubblico, infatti, nei suoi spettacoli resta pubblico, non viene portato in scena, non ha un ruolo attivo nell’azione teatrale, diversamente da quanto avviene in tutto il “progetto Antigone” dei Motus, fino ad Alexis, e poi nel finale de Nella tempesta (simile per certi versi a quello di Alexis, appunto). Motus sceglie da alcuni spettacoli di porre al centro il tema del fare, e del fare collettivo in particolare: all’azione collettiva come declinazione del pensiero ha chiamato il pubblico in più d’uno spettacolo, e in questi ultimi esiti in forma molto chiara. Più sfumato il tema del sostrato ideale che possa consentire poi a questo insieme di persone di continuare in forma collettiva ad incidere nella società. Immaginiamo la risposta sia interna al background culturale e politico del duo registico e senza’altro in “Nella Tempesta” il tema è da certi punti di vista meno enfatizzato che nel precedente “Alexis”, ma resta aperto perché non necessariamente ogni aggregazione di più individui mossi da un comune sentire è di per sé un valore.

L’argomento, con una combinazione davvero sorprendente, lo sviluppa sempre a Dro l’A.H. di Latella, la cui posizione sull’agire dell’uomo nel suo tempo appare evidentemente diversa (posizione che sembra restare abbastanza coerente nel tempo, attraverso le indagini su miti teatrali e letterari, da Medea ad Amleto, fino a Don Chisciotte e al Don Giovanni).

Questa posizione rivendica l’uso filosofico della ragione come tecnica più appropriata per rendere lo spettatore autenticamente libero, nel tentativo di svilupparne la riflessione razionale.

“A.H.” che ha un excursus tutto interno al filosofico e al rapporto fra l’uomo, la politica e il suo tempo, marcatamente vuole parlare del concetto di male (prima da un punto di vista esegetico, prendendo spunto dal momento della creazione biblica, “In Principio…Bereshit…”, la prima parola della Torah che inizia con la seconda lettera dell’alfabeto ebraico; e poi da quello morale, indagando non solo sulla figura di Hitler ma sulla fascinazione irrazionale sulla popolazione tedesca della persona e del personaggio).

La questione sollevata da Latella con il suo spettacolo risulta della massima importanza, non solo dal punto di vista spettacolare (spesso lo spettatore è sottoposto ad estenuanti prove di pazienza, con gesti affidati all’attore e allungati fino allo spasmo), ma anche in una prospettiva schiettamente teoretica. Abbia ragione o no, certamente Latella mette in guardia dalla tentazione di assumere la chiamata al momento collettivo come stile o cifra, disgiunta da una necessaria struttura razionale argomentativa, ma anche da un’indagine sull’irrazionalità delle dinamiche di massa, capace di rendere accettabili concetti altrimenti ripugnanti, come quello di violenza, di male, di schiavitù, ma che in più di un’occasione storica hanno ridotto l’uomo, complice la dinamica di massa, allo stato di burattino. La conclusione dello spettacolo tenta di congiungere la riflessione storica -le tragiche esecuzioni dei lager e la cenere dai camini dei campi di concentramento- con quella teoretica, ovvero il biblico “esser cenere” riferito al genere umano rispetto allo stato divino. Sempre che un dio esista.

Le favole rivivono?

Cendrillon_MiKanei_ DVizcayo� Olivier Houeix_01ANTONELLA POLI | C’era una volta….Il fascino della favola di Cenerentola scritta nel 1697 da Charles Perrault e dai Fratelli Grimm perdura e rivive ancora oggi a conferma che antiche novelle possono ancora suscitare l’interesse dei più grandi coreografi e musicisti.

La prima messa in scena sotto forma di balletto é datata 1945 e fu firmata da Rotislav Zakharov. Poi fu la volta di Nureyev, con la sua rilettura moderna in cui Cenerentola diviene una star del cinema, in seguito la grottesca versione di Maguy Marin ove bambole alla Botero calcavano la scena e in ultimo Pontus Lindberg, giovane coreografo norvegese che affronta la storia con un linguaggio contemporaneo ma con un finale borghese.

Nel 2013 é Thierry Malandain, direttore del centro coreografico di Biarritz che ci regala la sua Cenerentola, presentata già in Spagna à St. Sebastien e in Francia all’Opéra di Versailles.

Il coreografo, come lui stesso afferma, non si sentiva pronto a soddisfare la richiesta dell’Opéra di Versailles che gli aveva proposto questa nuova creazione. Il declic é venuto grazie alla citazione tratta dal Cosi parlo Zarathustra di Nietzsche, « bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante ».

E in effetti lo spirito del filosofo tedesco ha ben ispirato Thierry Malandain che é riuscito a fare con la sua compagnia di venti danzatori un lavoro impeccabile. La coreografia é semplice e intensa e il suo stile neoclassico, molto elegante e ricco di spunti originali che sorprendono, mettono in valore le qualità del personaggio femminile che vive il suo sogno fine alla fine divenendo realtà.

Il coreografo si rivela ancora una volta dotato di grande musicalità : ogni passo segue perfettamente lo spartito di Prokofiev ed é proprio la coreografia molto brillante a metterne in risalto la musica, a volte ripetitiva nel tema.

3-Cendrillon_Malandain Ballet Biarritz� Olivier Houeix_11Ci sembra evidente che questa creazione acquisti per Malandain un significato particolare sentendosi qui infatti libero di mettere in scena ció che gli interessa di più da un punto di vista artistico : la purezza delle linee, la costruzione dei duo, la rappresentazione dei sentimenti. E ci riesce benissimo con grande padronanza e mostrando una profonda sensibilità grazie anche alle capacità degli artisti in scena e in particolare di Miyuki Kanei e Daniel Vizcajo, coppia che balla con grande leggerezza facendo sognare il pubblico. Da non dimenticare la scenografia che non cambia mai durante lo spettacolo: decine di scarpe da donna nere con tacchi alti e tutte uguali, sospese lungo fili che discendono dal soffitto del palcoscenico lungo le tre pareti del palcoscenico. Il loro effetto ottico é sorprendente dato che vedendole da lontano si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un volo di rondini.

Questa atmosfera aerea pervade tutto il balletto, non si avverte mai a fondo la gelosia o la superbia delle sorellastre o della matrigna che danza con l’ausilio di due stampelle. Al contrario, l’interpretazione di questi personaggi interpretati da tre danzatori calvi sono carica di ironia. E il finale é a sorpresa: i danzatori salutano il pubblico sulle ultime misure della partizione: un’idea di riempimento della musica che poteva essere troppo lunga o una scelta ragionata? In ogni caso Malandain vince la sfida e afferma ancora una volta di più il suo stile coreografico limpido che nulla toglie ai linguaggi contemporanei a volte troppo oscuri e incomprensibili. Da non perdere quindi al teatro Romano di Verona il 22, 23 e 24 agosto prossimi.

Foto Olivier Houeix

UN VIDEO DELLO SPETTACOLO AL LINK SEGUENTE

Cendrillon par Thierry Malandain à Versailles

“Cosa avrà voluto dirci Rezza con questa intrigante cazzatella?”

antonio rezza_foto valentina pierucciANDREA BALESTRI | OGGETTO: Pensieri su Pitecus, di Antonio Rezza

DOVE: Villa Schiff a Montignoso (MS), all’interno della rassegna Lunatica Festival

QUANDO: 2 agosto 2013

AUTORI: Antonio Rezza, classe 1965, è “il più grande performer vivente senza ombra di dubbio”, come lui stesso si definisce e, chi scrive, non può dargli torto. Flavia Mastrella, scultrice e regista, regala a Rezza le sue creazioni, degli “habitat” in cui il performer mette il suo corpo e il suo volto e intorno ai quali costruisce i vari segmenti dello spettacolo. La coppia lavora insieme da 25 anni e recentemente hanno vinto il Premio Hystrio Altre Muse.

CONCEZIONE: La lista di personaggi che Antonio Rezza ci presenta è immensa, va da Giovanna d’Arco a un progettista di barriere architettoniche, dal misantropo Gidio ai quattro evangelisti. Questo ampio campione di umanità grottesca è interpretata con un’ancor più ampia gamma di espressioni e voci che emergono dalle lacerazioni degli habitat disegnati da Mastrella. Lo spettacolo ha debuttato nel 1985, ma, avendo un apparato scenografico molto “leggero” e mantenendo immutata la sua efficacia, RezzaMastrella lo porta ancora in tour. Però se ne percepisce l’età: in confronto agli spettacoli più recenti questo “è preistoria”, come dice lo stesso Rezza, anche durante la recita.

TROVATE: Spesso Rezza abbandona i personaggi per rivolgersi al pubblico, spesso mortificandolo (“Per me sei solo 12€ che camminano”) o minacciandolo (“Ridi bambino, che prima o poi i tuoi genitori moriranno”). È una formula che ricorre sempre uguale nel teatro rezziano, ormai quasi fondativa, ma strappa sempre risate e applausi.

Ma la vera trovata, in questa particolare recita, gli è offerta dalla musica che proviene dalla vicina festa del Partito Democratico. Inizialmente fa capire che gli è  stato assicurato che il rumore non ci sarebbe stato e che aspetterà il silenzio prima di iniziare lo spettacolo; a un certo punto addirittura si interrompe, ma per poco. Avrebbe ragione a protestare, ma usa questo capriccio come pretesto da tirar fuori nei momenti più inaspettati, creando momenti di improvvisazione esilaranti, al di là delle invettive contro il pubblico.

Prima dell’inizio dello spettacolo è stata trasmessa anche una puntata di Troppolitani, un programma tv di Rezza e Mastrella che andava in onda su Rai3 più di dieci anni fa.

PUBBLICO: Il linguaggio comico su cui si basa lo spettacolo permette di trasformare gli spettatori in vittime e di trattarli come un pubblico che non capisce niente. Questo meccanismo satirico ha una lunga tradizione, ed è tuttora molto diffuso, ma Rezza è particolarmente esperto, e lo porta a livelli esilaranti. Durante l’interruzione dello spettacolo c’è stato anche uno scambio di battute tra uno spettatore –che accusava Rezza di essere presuntuoso- e l’artista stesso, che ha deciso di andare avanti lo stesso, ma solo dopo avergli dato del “coglione”.

Gli applausi sono frequenti, ma, come fa notare l’artista, raramente coincidono con la fine degli sketch. Chi va a vedere Antonio Rezza sa cosa aspettarsi e prova piacere anche nell’essere mortificato.

FOTO: Di seguito, cliccando sull’immagine, è possibile accedere allo slideshow dello spettacolo di Antonio Rezza, visto dalla macchina fotografica di Valentina Pierucci (sua anche la prima in alto) Antonio Rezza in "Pitecus"

Tanz Camerini!

camerini1MARAT | Luglio 1982, Italia Mundial. Ci si abbraccia ai gol di Pablito Rossi. Il partigiano Pertini esulta in piedi davanti al mondo. E si balla. Grazie ad Alberto Camerini, Arlecchino dinoccolato, esploso l’anno prima con Rock’n’roll robot. È l’estate di Tanz bambolina, via di mezzo fra i Kraftwerk e i falò sulla spiaggia. Pare qualcosa di nuovo. In un paese quasi da bere, grasso di droghe, rigurgiti fascisti, Moncler. Ascesa e caduta di un genietto bruciatosi col fuoco. E con un Sanremo disperatissimo. Prima di tornare in forma. E vederlo a Ferragosto al Carroponte di Sesto. Che (non) si esce vivi dagli anni Ottanta.

Camerini, vieni definito un precursore.

«Merito anche di Roberto Colombo, mio storico produttore. Insieme eravamo sintonizzati su quello che succedeva in giro per il mondo, abbiamo portato in Italia un linguaggio internazionale e contemporaneo. Certo, da un altro punto di vista non eravamo per nulla folkloristici, slegati dal territorio. Diciamo che non eravamo un olio d.o.p.”.

Ovvero?

«Intendiamoci, anche la musica veneziana del Settecento è folklore, non ne parlo con toni dispregiativi. Ma di certo non mi apparteneva e un po’ l’ho pagata, soprattutto negli Anni Novanta. Ma in realtà le 126 battute al minuto sono tornate molto presto».

E non se ne sono più andate.

«D’altronde ci si incastra perfettamente sui gusti dei nuovi dj, è musica per il corpo, per chi ha voglia di muoversi. L’altro giorno ho ascoltato l’album di Neil Young, tutto analogico. Devo dire che mi ha fatto pena. Ne capisco il valore e anche l’importanza, ma la qualità è da mani nei capelli. Il digitale si armonizza con il contemporaneo, continua a proporsi con nuove caratteristiche».

La moda però è anche revival.

«Già. Raffaella Carrà ormai la si sente perfino nei cessi dell’autogrill».

Differenze coi tuoi anni d’oro?

«Viviamo un tempo sospeso. Non esistono più passato, presente e futuro. Una volta le produzioni indirizzavano i gusti degli ascoltatori. Oggi invece il fruitore è libero di scegliere in totale autonomia, ogni cosa a disposizione di fronte a sé».

Com’è il tuo pubblico?

«Dalle famiglie giovani al culmine della loro bellezza, fino ai disperati, ai rockettari, ai darkettoni funerei, a gente del tipo “o la figa o la morte”. E in mezzo tanti che frequentano le discoteche. Perfino qualche nostalgico della Cramps e quindi della chitarra acustica, tutti over 50».

Il successo?

«Positivo. Molto. Esaltazione, fama, soldi, la nascita della bambina, una grande casa. Ma come succede a tanti, diciamo che a un certo punto ho picchiato la testa sul soffitto, divenendo la caricatura del cantante superbo, che si crede arrivato, del “faccio tutto io”. Mi è mancata la presenza di un manager in gamba che mi aiutasse. E così ho perso la moglie e ho venduto la casa. Ma ora non posso lamentarmi, quando lavoro è una festa. E poi c’è la mia famiglia. Mia figlia è una scrittrice, mio figlio vuol fare il giornalista».

Meglio la rockstar. Ma perché a un certo punto ti separi da Roberto Colombo?

«Perché mi tradì per andare con Miguel Bosè, più bello, figlio di una ex-Miss Italia, roba da classifica internazionale».

Un momento difficile.

«Hanno molto esagerato questa cosa. Guarda, fu solo un piccolo esaurimento, un po’ di trattamento sanitario obbligatorio».

Rise and fall del nostro Bowie?

«Magari. Almeno per il conto in banca…».

L’hai conosciuto?

«Mai. Comunque mi ha sempre fatto impazzire, fin dai tempi di Ziggy Stardust. Che secondo me si poteva limitare al rise, senza fall».

Il tuo ultimo lavoro risale al 2005: Kids wanna rock.

«Un album punk, un po’ in stile Billy Idol, Rancid, Nofx. Mi piace il sound. E poi sui testi ho lavorato molto. Un po’ di slang e un po’ di D’Annunzio, quei suoi superlativi fuori moda. I parolieri italiani sono da sempre d’annunziani».

Dei colleghi chi ti piace?

«Finardi è un grande amico, ci stiamo riavvicinando in maniera fraterna. E poi mi piacciono le bionde signore settecentesche venete. La Patty Pravo, l’Ivana Spagna, la Rettore. Sono un po’ le mie sorellone disperate. Tu pensa solo a una come la Donatella, poteva essere Lady Gaga ma non ha trovato nessuno che la lanciasse sul serio».

Progetti?

«Mi piacerebbe comporre un’opera: “La bottega del caffè”. Qualcosa di sperimentale, legato all’elettronica».

Il titolo rimanda alla tua unica esperienza sanremese nel 1984.

«Eravamo già alla canna del gas. Stava per finire il mio legame con la CBS, mi portarono lì ma mi dissero: “dopo ti devi ridimensionare”. Stamparono a mala pena il disco. Ero in un down pazzesco, sembravo in astinenza da qualsiasi cosa, avevo i nervi a pezzi e mi creai intorno tutta una mia paranoia».

Ma?

«Ma nei giardini dell’hotel una notte incontrai Patty Pravo. E fosse solo per questo, ne è valsa la pena».

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Che tipo di educazione artistica per il domani?

2013-IDEA-J3B__016ANTONELLA POLI | Da un mondo all’altro: che tipo di educazione artistica per il domani? questo é l’interrogativo che ha accompagnato i partecipanti che hanno dato vita all’ottavo congresso mondiale dell’associazione internazionale sull’educazione teatrale e drammaturgica organizzato dall’associazione IDEA (International drama/theatre education association) in collaborazione con la francese ANRAT (Associazione nazionale per la ricerca dlele Arti teatrali).

Sin dalla giornata di apertura che ha visti ospiti Patrice Baldwin, presidente di IDEA, Catherine Tasca, presidente di IDEA 2013, Emmanuel Demarcy-Mota, direttore del Théâtre de la Ville, Didier Deschamps, direttore del Théâtre National de Chaillot e il ministro della cultura francese Aurélie Filippetti, il dibattito ha posto l’accento sull’importanza e sul ruolo rilevante dell’educazione artistica negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Da un punto di vista politico e culturale, diffondere una certa sensibilità artistica diviene una scelta essenziale per acquisire un’emancipazione culturale, eliminare le barriere e le ineguaglianze fra gli individui creando una spazio di libertà in cui tutti si possano sentire protagonisti e affermare la propria soggettività mantenendo uno spirito collettivo. L’arte diventa un’esperienza intima per comprendere « l’altro » e inserirsi nel mondo. Quest’idee sono state riprese e sviluppate nelle conferenze e nelle tavole rotonde che si sono succedute nell’arco di questa settimana intensa. I partecipanti appartenevano a 50 paesi del mondo, tutti i continenti vi erano rappresentati e al di là di professori e ricercatori di tutte le università del mondo, i giovani aderenti all’associazione YOUNG IDEA hanno potuto esibire i loro lavori artistici.

L’educazione artistica attraverso il teatro o la danza, diviene veicolo di vitalità, strumento per sviluppare l’amicizia e appropriarsi dell’essere insieme agli altri. Non in tutti gli stati del mondo la politica culturale é la stessa, certamente. In stati come l’Australia e la Nuova Zelanda la politica per un’educazione artistica a livello di scuole e istituzioni pubbliche é qualcosa di ben regolamentato a livello nazionale, in altri paesi come per esempio Hong Kong e la Corea esiste ma non é legiferata, in quelli europei, pur con vari riconoscimenti, siamo ancora lontani da una politica che impone il suo peso. Per esempio in Francia, ove la cultura é già più ben sviluppata che in altri, le iniziative per ora restano isolate anche se come ha affermato il ministro della cultura Aurélie Filippetti, gli impegni sono stati già presi e lo stesso ministro ha fatto un tour de France per analizzare la situazione nelle varie regioni di Francia. Si tratta quindi di un lavoro di sensibilizzazione che deve toccare tutti i livelli, a partire dalle famiglie, alle scuole alle istituzioni pubbliche. Per rafforzare questi obiettivi la novità di quest’anno é venuta dalle tesi del prof. Alain Berthoz, titolare della cattedra di fisiologia della percezione e dell’azione al Collège de France. Le neuroscienze insegnano come il cervello umano ha dei captori vestibolari che ci permettono di costruire il mondo in maniera differente da come l’educazione tradizionale basata su opposizioni rigide ci ha da sempre abituato ( basti pensare alla dicotomia insegnante-allievo; lavoro-piacere; insegnare-educare; sapere-sensibilità). 0Lo stesso filosofo Poincaré ci aveva insegnato che localizzare un oggetto nello spazio significa rappresentarlo, ció che presuppone quindi l’azione soggettiva del nostro cervello.

Siamo in una dimensione qualitativa piuttosto che quantitativa: il senso della spazialità basato su coordinate non euclidee e regolato da leggi del movimento naturale per aprire altri orizzonti, il senso della percezione che é completamente diverso dal senso della ricezione dato che con quest’ultima l’uomo resta passivo invece che progettarsi nel mondo e comunicare le sue idee, sono i paradigmi fondamentali. A tal proposito importante é stata la distinzione fatta tra simpatia che significa essere semplicemente in risonanza con altro e empatia, che al contrario ci fa sostituire all’altro, quindi agire per acquisire un punto di vista differente. E tal proposito ricordiamo le parole del Faust, « il principio era l’azione » al contrario della usuale « in principio era il verbo ». Naturalmente la nozione di corpo e del ruolo dell’emozione sono posti su un ruolo primario appoggiandosi alle teorie della biomeccanica di Meyerhold, delle filosofie di Spinoza, Dewey e James fino all’afffermazione del ritorno della fenomenologia di Merleau-Ponty.

Nel mondo attuale ricco di evoluzioni e dove le diversità sociali e culturali si affermano, l’educazione artistica dovrebbe quindi divenire motore fondamentale per il giovane adolescente per fargli acquisire quella libertà necessaria per sentirsi ad agio con gli altri, forte del suo senso d’immaginazione e delle sue capacità di costruzione del mondo. Un grande sforzo politico s’impone ed é per questo che anche l’UNESCO partecipa con IDEA alla diffusione di questo messaggio che mira alla pace, alla costruzione dell’essere umano per costruire una società meno egoista ma più « tesa » verso l’altro.

ALCUNI DOCUMENTI VIDEO DEL CONVEGNO

Catherine Tasca presidente di IDEA PARIS 2013

Aurélie Filippetti ministro della cultura francese

Sweet Mambo: è possibile un dopo-Pina per il Tanztheater di Wuppertal?

sweet-mambo_petruzzelliGIULIA MURONI | A sentire Lutz Forster pare di sì. Lo storico interprete (celebre il suo assolo in Nelken http://www.youtube.com/watch?v=Z8wnBSclJjg) è ora direttore artistico della compagnia, dopo Pina Bausch e Dominique Mercy. “Le due finalità del mio lavoro- dice Lutz a Bari, poco prima della replica di Sweet Mambo- consistono nel mantenere alta la qualità artistica del repertorio e nella produzione di nuove opere. A questo scopo la compagnia, in collaborazione con la città di Wuppertal, sceglierà un artista che sviluppi un nuovo concept del lavoro”.

Tuttavia i problemi sono numerosi e di varia natura. La compagnia è molto costosa, ci sono danzatori dai 30 ai 60 anni, con necessità ed esigenze sindacali differenti. Lo sguardo di Pina è venuto a mancare e si profila il rischio di creare una maniera à la Bausch. Le opere (“i pezzi”) erano strettamente intrecciate alle storie dei primi interpreti e di Pina stessa. Sarà possibile mantenere in vita queste opere nate e costruite sul loro vissuto con altri interpreti? In un precedente post su PAC, Bruna Monaco ha scritto molto bene a proposito di queste difficoltà.

Il dialogo tra Forster e Bentivoglio del pomeriggio ha posto degli interrogativi che la sera dello spettacolo ancora mi ronzavano in testa. Dopo lo spettacolo le perplessità e i timori sul futuro artistico della compagnia sono rimasti. Ma ciò che è rimasto in me sopra ogni cosa è l’emozione di fronte ad un lavoro immenso, di una bellezza folgorante. Non la bellezza di un reperto archeologico, ma quella di un’opera viva, calda, presente.

“Sweet Mambo” racconta quel “dolce mambo” che è la relazione fra gli uomini e le donne, quella dinamica giocosa e conflittuale, terribile e crudele, disarmante e magnifica, che caratterizza e ravviva la nostra esistenza di animali sessuati.

In scena le danzatrici storiche della compagnia di Wuppertal, ciascuna delle quali ritaglia per sé uno spazio di costruzione drammaturgica. Lo spettacolo, penultima opera di Pina Bausch, viene disegnato dai corpi di queste donne meravigliose, che vivono la loro personale storia, firmando le immagini con i loro nomi. Nomi (Regina, Julia, Cristiana, Aida, Helena, Clèmentine) scanditi verso la platea, con l’invito a non dimenticarli. La presa di parola pubblica, l’uscita da un silenzio protratto nel passato, appare come l’assunzione di responsabilità, della volontà di scrivere e raccontare una storia come soggetti. Le donne rifiutano il ruolo di muse silenziose, nel quale a lungo l’arte le ha confinate, per dare voce e corpo ai loro sentimenti, alle loro narrazioni, alle loro vite. Gli uomini sono solo tre, vestiti interamente di nero, subalterni in una prospettiva ribaltata. Fungono da perni per mirabolanti giravolte, nascosti dietro i veli della scenografia, compagni silenziosi di queste donne dirompenti che invadono la scena.

Alle singole presentazioni iniziali, espressioni delle specifiche cifre stilistiche di ogni interprete, seguono momenti di duo e qualche sparuto ensemble. Regina Advento danza dentro una bolla, creata da un velo gonfiato dal vento che ovatta la sua immagine, accogliendola e donandole uno strato di trasparenza. Come dentro un sacco amniotico in cui trovare la vita e il nutrimento, la danzatrice compie il suo assolo intenso e struggente. Risuona l’eco delle grida di Julia Shanahan, fermata nella sua corsa spasmodica e ricondotta al punto di partenza dalle braccia di Michael Strecker e Andrey Berezin. Il suo tragitto taglia in diagonale il palco, diventa un loop estenuante, in cui ad ogni impeto di fuga corrisponde la reazione dei due uomini che bloccano il viaggio e riavvolgono l’azione, tra le urla e i lampi improvvisi. La sensualità raggiunge l’apice quando un trio di donne (Shanahan, Advento, Stanzak) scopre la schiena, fino a quel momento fasciata da splendide sete colorate (i costumi di Marion Cito) per esporla alle attenzioni dei tre (Berezin, Kokkinos e Strecker). La pelle scoperta viene allora baciata con delicatezza e devozione, regalando un quadro erotico appassionato e raffinato.

Come di consueto Pina Bausch è partita dallo studio rigoroso del sostrato fisico presente nei segni della comunicazione quotidiana, giungendo ad un movimento che, astratto dall’ordinario, assume quella portata simbolica e espressiva in grado di esprimere verità. Un racconto di verità svincolato da legami stringenti con la realtà, capace di assurgere a quell’universalità dei sentimenti peculiare del Tanztheater di Wuppertal.

“Sweet Mambo” è uno spettacolo ironico e poetico, attraversa i nodi esistenziali con la stessa leggerezza dei grandi veli bianchi ondeggianti della scenografia. Un vento lambisce e accarezza i corpi e li accompagna nel movimento. La danza fluisce dal radicamento, dall’essere centrato, dall’esserci e con leggerezza si espande, trascina, avvita, gonfia, torce, sbatte e sospende.

Kafka nel regno dei cieli. Videointervista ad Andrea Cramarossa (Teatro delle Bambole)

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Videointervista ad Andrea Cramarossa (Teatro delle Bambole)
Focus a cura di Andrea Ciommiento
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La danza contemporanea nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

Pina-Bausch-in-Cafe-Mulle-006BRUNA MONACO | Luglio 2013. Sono passati quattro anni dalla morte di Pina Bausch, quaranta dalla fondazione del Tanztheatre di Wuppertal. La compagnia commemora e festeggia, cerca una sintesi che non sacrifichi l’uno né l’altro polo emotivo: il dolore (lo smarrimento) e la gioia (la gloria).

Dal 2009 a oggi la tournée del Tanztheatre è stata ricchissima di date, quanto mai internazionali. Il repertorio coreografico ereditato da Pina Bausch, si sa, è vastissimo e La sacre du printemps e Café Müller, fra le sue primissime creazioni (1975 e 1978), sono offerti al pubblico come testimoni, prove vive d’un passato illustre. Disperati tentativi di ripetere ciò che è stato. Gli spettatori che numerosi assistono provano a sentirsi parte di questa mimesi. Ma non può funzionare: come ci insegna la filologia, testimone non è testo. Il testimone fa parte della tradizione, è tràdito e inevitabilmente tradisce, contiene degli errori (o delle interpretazioni) che lo allontanano da un originale che non possediamo più. Café Müller del 1978 non lo possediamo più. Mancano Pina Bausch, Malou Airaudo, Nazareth Panadero Jan Minarik. Ce ne resta il ricordo, nostalgico, e una versione televisiva del 1985 realizzata da Peter Schäfer. Non possiamo fare a meno di interrogarci sul senso di questa operazione: quale valore può avere riproporre con un cast rinnovato (solo Dominique Mercy c’è in entrambe le versioni) uno spettacolo come Café Müller?

Se il paragone con la filologia classica o romanza pare pertinente, è vero però che qui la situazione è più complessa: i testi (o testimoni) della danza non sono scritti, stabili, ma materia viva, in qualche modo in fieri. L’errore non è imputabile a un’interpretazione errata di un carattere ambiguo, a una svista durante la copiatura: non al passo eseguito male quindi. Anzi, nelle arti dal vivo, a furia di copiare, probabilmente si guadagna precisione. Si perde autenticità, però, vita. Ne La sacre e Café Müller andati in scena questo mese al San Carlo di Napoli, mancano strazio e profondità. Se si fosse trattato di versioni recenti di Giselle o del Lago dei Cigni non sarebbero insorti dubbi sul senso della riproposizione: il balletto classico è un’arte di repertorio, il danzatore è interprete, non creatore, si muove entro i margini stabiliti dalla tradizione. Ma Pina Bausch ha rivoluzionato la danza, e la sua non è stata una rivoluzione formale o tecnica come quella di Marta Graham. Con la Bausch i danzatori si emancipano dal ruolo di interpreti e diventano creatori. Le coreografie, prima elementi di repertorio, sono ora opere originali. Pina, osservatrice di genio, raccoglieva le proposte in termini di temi, intenzioni, movimenti e costruiva i suoi spettacoli non intorno a, ma con i danzatori. Il valore artistico di un “nuovo” Café Müller può essere allora messo in discussione. E si potrà forse ammettere che le opere d’arte dal vivo hanno scadenza breve perché della vita condividono anche il destino: non possono sopravvivere ai propri creatori, se non a condizione di scontrarsi col paradosso di sopravvivere a se stesse.

Il valore commerciale è invece indiscutibile: al San Carlo di Napoli i posti sono esauriti. Lunghissimi gli applausi, standing ovation. Ma non è credibile che sia solo un’operazione commerciale. Con la morte di Pina Bausch, un’inevitabile smarrimento ha investito chiunque abbia lavorato con lei e il Tanztheatre tutto. Cosa fare, sopravvivere alla propria fondatrice? Ridefinire la linea artistica? Seguire quella della Bausch? O continuare a esistere come reperto fossile vivente, inseguendo il sogno dell’immortalità dell’opera?

Oppure rassegnarsi alla riproducibilità tecnica. Al video che, trascurando la presenza dei corpi, è il contrario del teatro. Perché la verità e la fedeltà al testo originale che i danzatori-copisti di oggi non riescono a raggiungere, sembrano invece ben avvicinate dai video. Nel catturare i corpi dei danzatori la riproduzione tecnica coglie anche la verità del gesto e, anziché ucciderlo, garantisce allo spettacolo dal vivo, se non l’immortalità, almeno un testimone molto vicino all’originale e, in fin dei conti, più emozionante di quello tràdito mendiante “riproduzione umana”.

Cosa resta quindi del teatro perduto?

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La storia di Alfredino Rampi in scena con 13 6 81. Videointervista a Scenica Frammenti

Schermata 2013-07-28 alle 17.13.32ANDREA CIOMMIENTO dal Festival Collinarea | Scenica Frammenti presenta il suo ultimo allestimento dedicato al piccolo Alfredo Rampi scomparso nel pozzo di Vermicino all’inizio degli anni Ottanta. Una storia da fiato sospeso che agitò mass media e famiglie italiane in uno dei primi esperimenti giornalistici di cronaca in diretta. “13 6 81” è la ricostruzione scenica di una memoria incisa nel tempo come un fatto di attesa e smarrimento attraverso l’originale punto di vista dei tre curatori del progetto: il bravo attore Dimitri Galli Rohl con la sua interpretazione asciutta, il musicista Carlo De Toni presente e attivo in scena per l’intera durata del lavoro, e il regista Loris Seghizzi che ha condotto il lavoro tra simultanei binari drammaturgici e una regia essenziale a immagine fissa. Un tributo esclusivo e non convenzionale alla generazione di Alfredo Rampi nato nel 1975 e scomparso all’età di sei anni, biograficamente vicino all’intero gruppo.

Vi lasciamo al video/focus con Loris Seghizzi e Dimitri Galli Rohl sullo spettacolo:

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