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giovedì, Settembre 19, 2024
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Il teatro della memoria di Paolo Ventura in mostra a Rimini

MARCELLA MANNI | Due mostre, tra fotografie e oggetti, raccolgono a Rimini un nucleo importante dei recenti lavori di Paolo Ventura. lo zuavo scomparsoImmaginazione, sogno, fantasia, finzione… il composito e sfaccettato lavoro di Paolo Ventura, è come un aprirsi a una potenziale lettura della fotografia così come del senso del fotografare. Le sue serie di lavori hanno una dichiarata dimensione narrativa, dei veri e propri racconti che si compongono e si svolgono con una regia ben precisa e mai casuale. L’ambiguità delle ambientazioni, dei personaggi, riprodotti in uno stile volutamente pittorico nei toni e nei segni, lascia lo spettatore in quello spazio di incertezza che permette di immaginare che cosa stia succedendo, invece che limitarsi a guardarlo. Incontrare il mondo di Ventura è entrare in una dimensione assolutamente privata di ricordi e di ossessioni, è infatti dal proprio passato, dalla propria storia che Ventura parte per costruirne di nuove di storie, nelle quali ci invita a entrare e a prendere posto in prima fila,  come per vedere come va a finire. Automaton è “la storia di un uomo che costruisce un automa per tenersi compagnia. Questa storia me la raccontava mio padre quando era ragazzino” ci dice Ventura. E il suo di racconto si svolge nel ghetto di una Venezia immaginata e ricostruita, tra esterni e interni, negli anni 40, ed è la storia della solitudine di un uomo che è la solitudine di una città durante la guerra, in cui il sorriso, quasi un ghigno, di Nino (l’automa) si muove tra negozi di rigattiere con fittizie ali d’angelo e la desolazione velata di nebbia delle case del ghetto, l’anima di una città lasciata all’insegna di un cinema e alla bancarella dei libri.

Il clown di Winter stories ci porta in una dimensione in bilico tra nostalgia e ricordo, un ultimo spettacolo da fiera di paese, in piedi su una sedia, mazzo di fiori in mano e lo puoi vedere, anche se non c’è (ancora) il venditore di palloncini che si lascia salire verso l’alto.

La città, gli scorci di un palazzo, le finestre chiuse, una figura di spalle o strane metamorfosi mezzo uomo e mezzo animale, Ventura è come il personaggio con il coniglio in braccio e il cilindro in mano de Lo zuavo scomparso, prestigiatore sì, ma in un angolo, in una stanza vuota come in attesa; le sue magie, le sue finzioni non sono illusioni menzognere ma sono l’arte vera propria di costruire delle storie, quelle che raccontava la nonna o che si possono sentire al bar del paese, magari proprio di quella Anghiari lei sì a metà tra storia e leggenda, dove Ventura ha il suo studio. E proprio nel suo studio Ventura costruisce -carta, forbici, colla e tessuti – i modellini e i personaggi, dei teatri di posa in miniatura che costituiscono una parte altrettanto importante del suo lavoro e che prendono forma da oggetti cercati o trovati.
E’ per questo doppiamente interessante la sezione di mostra che raccoglie, nella Sala delle Teche, la collezione privata di oggetti, libri, manichini, costumi creati e poi utilizzati per realizzare le immagini; interessante non perché ci sveli chissà quale trucco o quale inganno, ma perché racconta delle altre storie, forse ancora più private e intime, come tutte le collezioni che si rispettino.

Il libro che accompagna la mostra An Invented World documenta tutto questo, dalle polaroid preparatorie che Ventura scatta per scegliere tagli e inquadrature, alle foto di famiglia che lo ritraggono bambino insieme ai fratelli in costumi carnevaleschi realizzati dal padre.

La maschera, il travestimento, non è nascondersi, non è scomparire, quanto piuttosto una nuova identità in potenza, e allora il costume o la divisa militare diventano una sorta di archetipo narrativo; e così anche se compare il costume ottocentesco indossato nel secolo sbagliato, Ventura non tradisce un rigore filologico, ma piuttosto scombina le carte di proposito, restituendoci un mondo che non cerca la fedeltà della storia quanto la fedeltà alla propria, di storia.

Paolo Ventura, Winter stories, MACRO, Lo zuavo scomparso – Paolo Ventura on Winter Stories from Aperture Foundation on Vimeo.

[vimeo 6741768 w=500 h=338]
 
 

Paolo Ventura

Il teatro della memoria

FAR fabbrica arte rimini

Museo della Città

Fino al 12 maggio 2012

http://www.comune.rimini.it/servizi/citta/cultura/far/pagina21.html

 
 

Paolo Ventura

An Invented world

Danilo Montanari Editore, Ravenna 2013

www.danilomontanari.com

 

Cartoomics 2013: Un'edizione da ricordare!

cartoomicsALESSANDRO GUALANDRIS | “Se vuoi ammirare il paradiso, semplicemente guardati attorno e ammiralo. Qualsiasi cosa tu voglia fare, falla.” Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (1971) – questo avrebbe potuto esser stampato all’entrata del padiglione 8 della Fiera di Rho, Milano, dove ieri si è chiusa la ventesima edizione del Cartoomics 2013. Nella tre giorni, abbiamo assistito a un vero e proprio assalto di appassionati del fumetto, del cosplay e di famiglie curiose che han voluto fare un tuffo in un mondo certamente alienante per chi arrivava dalla città.

PAC ha commentato tutto dalla sua pagina facebook e twitter in diretta: un vero  e proprio tour de force tra conferenze stampa, presentazioni, ospiti agli stand e molto altro. Quello di oggi è solo un piccolo assaggio: nelle prossime settimane vi tracceremo un racconto preciso di ciò che più ci ha colpito, con anteprime sulle prossime all’uscita, mentre qui temperiamo la matita per uno sketch veloce, atterrando poi, alla fine di questo resoconto, su una videogallery di immagini della tre giorni dal ritmo funk.

Partiamo dall’inizio, dal workshop gratuito tenuto dalla ImasterArt, l’istituto italiano che tiene corsi e workshop di animazione e grafica digitale, incentrato sulle tavole di Iron Man, partendo dalla costruzione base di una tavola fino alla modellatura e alla colorazione. Interessante e affascinante notare come un bozzetto appena accennato possa divenire una tavola perfetta, completa di dinamismo, luci e ombre. Successivamente Riccardo Mazzoni ha presentato la mostra Cartoomics Erotika 2013 Kamasutra, con gli ospiti Roberto Mangosi ed Enzo Jannuzzi. Grazie alla collaborazione di diversi collezionisti, abbiamo potuto ammirare tavole originali di Jacovitti, Pichard e Manara, insieme ai contributi di molti altri artisti chiamati a interpretare la loro idea del Kamasutra: un viaggio in un testo che in molti conoscono ma che, forse, quasi nessuno ha letto. Come teneva a precisare Mazzoni  “il Kamasutra non era altro che un testo/guida alla vita del cittadino indiano di duemila anni fa (…) Abbiamo raccontato il Kamasutra passando attraverso tre autori diversi fra loro e non tutti abituati a quel genere. Le tavole di Jacovitti sono splendide, cariche d’umorismo, nonostante non sia certamente il suo campo d’azione” . Mangosi ha poi mostrato alcune delle sue tavole più efficaci e con Jannuzzi son rimasti per tutti i tre giorni davanti alla mostra Erotika disegnando vignette seduti a un tavolo o su fogli enormi appesi alle loro spalle. Un vero e proprio work in progress.

Un altro evento clou è stato l’incontro con Alessandro Baronciani, presentato da Loris Cantarelli e Filippo Mazzarella, in occasione del suo prossimo libro “Raccolta 1992/2012” (edito da Bao). L’autore si è rivelato un fiume in piena, sia per l’allegria sia per la passione con cui spiegava le sue scelte editoriali o artistiche. La raccolta in questione “è nata – ci spiega lui stesso – dalla necessità di riprendere tante storie che erano state pubblicate sparse su diverse riviste o fanzine, mai in libri, inserendo materiale inedito. (…) L’idea di stamparlo in questo formato era di voler richiamare le vecchie strisce, tipo i primi fumetti Bonelli”. L’incontro ci è talmente piaciuto che presto vi sveleremo molto altro sull’autore e il suo libro, in uno speciale che anticiperà l’uscita nelle librerie del 15 aprile.

tex4Mentre allo stand Bonelli si susseguivano diversi disegnatori pronti a rispondere a vere e proprio invasioni di fan in fila per una stampa inedita autografata (anche noi di PAC abbiamo il nostro piccolo premio che potete vedere in questa pagina), nell’area Fantasy, la piazza magica, si potevano ammirare battaglie tra le razze più assortite, bere idromele, imparare a tirare di spada e farsi fotografare seduti sul famoso trono di spade (ovviamente una riproduzione). Subito dietro, nell’area Tatami/action, si alternavano campioni di Kendo e Kickboxing, samurai e altri esperti d’arti marziali, mentre sullo sfondo i membri dell’Umbrella Corporation tenevano a bada zombie famelici (la quantità di persone truccate in modo tale aumentava ora con ora!).  I cosplayer, non si limitano a indossare i vestiti dei loro beniamini, ma per tutto il tempo sono quei personaggi. E’ un’immedesimazione completa. Quindi capitava di girare l’angolo e scontrarsi con i vendicatori in formazione d’attacco, oppure incrociare sulla propria strada Totoro che ti sorride, saluta e se ne va saltellando. L’accuratezza di molti costumi raggiunge livelli da cinema.

Anche l’area Fantascienza regalava emozioni. Presenti le maggiori associazioni di fan club legate ai marchi di Star Wars, Star Trek, Battlestar Galattica, Batman e Ghostbuster, che han riprodotto negli stand le ambientazioni legati alla loro associazione, creando dei veri e propri diorami del cinema. Era quindi possibile passare dalla famosa stanza di contenimento degli acchiappa fantasmi, alle fredde ambientazioni della base ribelle di Star Wars sul pianeta Hoth.

Ritornando agli incontri, molto interessante il lavoro svolto dai curatori della mostra per i 50 anni di Eva Kant, presentata da Mario Gomboli, Tito Faraci, Enzo Facciolo e Giorgio Montorio. I primi due sceneggiatori di Diabolik e gli altri due storici disegnatori. In una chiacchierata partita dalle origini di Eva Kant, attraverso il femminismo, l’Italia degli anni 60, la coppia italiana che cambia e con essa i modi d’interpretare la figura della donna, abbiamo passato in rassegna la storia degli ultimi 50 anni del nostro paese. E’ stato significativo rendersi conto di come un fumetto qual è Diabolik sia il simbolo di una nazione e di come i suoi autori, dalle sorelle Giussani fino ad oggi, debbano tenerne conto per ogni singola riga scritta o per ogni tavola creata. Avremo modo di parlarne ancora su PAC, con uno speciale interamente dedicato alla Mostra e al suo incantevole personaggi.

Chiudiamo, parlando di altre due novità editoriali che molto ci hanno colpito e che troveranno spazio sulle nostre pagine, con anticipazioni e molto altro prima della loro uscita in edicola o fumetteria. Stiamo parlando di Dragonero e Long Wei.

Il primo è il nuovo albo Bonelli, creato da Luca Enoch e Stefano Vietti, seguito di un romanzo a fumetti omonimo e creato sempre dalla coppia menzionata, edito nel 2007 da Bonelli Editore. Garantendo al pubblico che la nuova serie sarà tutta una nuova storia, Enoch e Vietti, ci hanno condotto, con l’aiuto di Loris Cantarelli, in un mondo fantasy del tutto nuovo. Oltre ad offrirci in anteprima diverse tavole e qualche anticipazione sulla trama, quello che ci ha colpito è l’idea editoriale di creare una storia che si svolgesse in un albo e mezzo, per poi dedicare il resto del secondo albo a uno spin off relativo ad uno dei personaggi secondari o legati agli avvenimenti appena narrati. Questo permetterà al lettore un coinvolgimento totale nella narrazione e nel mondo di Dragonero, che v’invitiamo a seguire sul blog ufficiale. Previsto per giugno, vi anticiperemo qualcosa molto prima.

La seconda novità sarà Long Wei, che da maggio invaderà le edicole di tutta Italia. L’idea è quella di narrare le vicende di un emigrato cinese a Milano, esperto d’arti marziali e divenuto eroe del quartiere di Chinatown meneghino, il cui cuore è la via Paolo Sarpi. Noi, oltre ad aver assistito alla lunga e interessate presentazione con tutto il cast presente, da Diego Cajelli e Luca Genevose, mente e braccio principali, fino a tutti gli altri disegnatori coinvolti, abbiamo avuto la fortuna di leggere il primo numero (e l’originalissimo numero zero). L’albo è coinvolgente, si respira l’aria degli immortali film di Bruce Lee (non a caso festeggiato in una mostra fotografica) mista a quel pulp rude presente in pellicole come Milano Calibro 9. La narrazione è molto cinematografica, ben gestita e scorrevole. Interessante è stata la campagna virale fatta nell’ultimo anno, costituita da adesivi distribuiti ai presenti nelle precedenti fiere di fumetti, con la richiesta di spargerli in giro per le città, copie omaggio abbandonante volutamente nei quartieri cinesi di Milano e Roma e video di candid camera girati per Milano (qui ne trovate una). Presto una corposa intervista agli autori svelerà molto altro.

Per ora ci fermiamo qui. Molti di voi si chiederanno “Ma Iron Man”? Rispondiamo che avrà il suo spazio su PAC, poiché era l’ospite d’onore della manifestazione e sarebbe veramente difficile dedicargli solo qualche parola (stesso discorso per il Fan Film Festival).

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Francamente me ne Infischio

francamenteNICOLA ARRIGONI | Ci sono l’Occidente e gli stereotipi della cultura pop americana, c’è soprattutto la tensione del teatro a farsi pensiero del mondo in Francamente me ne infischio di Antonio Latella, progetto drammaturgico e scenico in cinque movimenti da Via col Vento di Margaret Mitchell, condiviso con Federico Bellini e Linda Dalisi. Ciò che attende lo spettatore è un lungo viaggio nel mito a stelle e strisce, è un oratorio laico sull’America e sui suoi sogni infranti, sul mito e la realtà del paese che si è fatto mondo. Il kolossal teatrale di Antonio Latella è affidato a Caterina Carpio, Candida Nieri, Valentina Vacca che a turno sono Rossella O’Hara, il corpo femminile di un’America che sa essere contraddittoria e spietata, che sogna e persegue con determinazione le sue ambizioni, un’America puritana e sfacciata, nostalgica e spregiudicata. L’America con tutte le sue contraddizioni. Si parte con Twins, una carrellata di citazioni, una sorta di centone dei luoghi comuni e della retorica a stelle e strisce. Rossella O’Hara è una bambolina dalle fattezze di Valentina Vacca, è un’inquieta bambina attraversata da fremiti non prorio infantili, è Marilyn e Barbie, canta Non voglio mica la luna e dialoga con Neil Amstrong. Ci sono Bart dei Simpson ma anche lo scimmione di 2001 Odissea nello spazio di Kubrick. Il primo frammento si nutre di un immaginario condiviso di un’America pop che in Rossella individua il suo stereotipo, la declina nella donna pin up, ha bisogno tanto della dolcezza quanto della guerra. Fra un’ironia e un po’ di enfasi Twins dice tutto ciò che ci aspettiamo da un ‘discorso’ sull’America e la sua molteplice identità. L’America si trasfonde poi in Atlanta secondo frammento della pentalogia. In una città fatta di casette che assomigliano a gabbie per uccelli, o abitazioni per le bambole, Atlanta è la città e l’America, ma è anche Rossella vestita a lutto e impegnata a organizzare la festa per raccogliere fondi per le vittime della guerra di Secessione. Candida Nieri balla, sceglie fra il pubblico il suo uomo, lo porta al centro della scena, ci balla spensierata, ma pur sempre vestita a lutto e vola, dice di voler essere una farfalla e non una mosca. Nel ballo c’è tutta Atlanta. è il ballo in cui si raccolgono soldi per le vittime della guerra. Atlanta si conclude con un inno al verde, al colore verde del dollaro, e alla potenza del nero, il colore del petrolio, ma anche la pelle nera degli schiavi del profondo Sud. Il nero di Black è un concerto a tre voci in cui si fronteggiano tre donne: una indiana, una bianca e una nera, la Mami del romanzo/film Via col vento, la prima attrice di colore a vincere l’Oscar e la bianca Rossella di Caterina Carpio, simbolo della razza padrona che ammicca con una pistola a Kill Bill di Quentin Tarantino nel suo urlo di protesta e orgoglio, nel suo razzismo senza pudore. Lo scontro si trasferisce in Match, il quarto movimento, in cui al tavolo ci sono tre gentiluomini: Frank, il secondo marito di Rossella, Ashley, la sua perenne ossessione, e Rhett, lo scaltro seduttore con cui si è sposata la terza volta. Rossella è raccontata dai tre uomini: tre prospettive di una guerra d’amore e passione con un’unica sconfitta: lei. Tanto è ritmato, enfatico, retorico Black, quanto è teso, sospeso, tutto sussurrato Match, in un cambio di modalità narrativa e di vivacità inventiva che conferma Antonio Latella intelligente pensatore teatrale. Francamente me ne infischio si chiude con Tara. é un colpo al cuore, è pura visione. La casa, in cui una Rossella invecchiata si rifugia, è luogo della memoria, è la sua madeleine. è casa delle bambole, è mondo idilliaco, perfetto, quieto, sognato. è la speranza di un futuro gioioso che forse arriverà domani, quel domani che fa dire a Rossella: «Domani è un altro giorno…».
francamente me ne Infischio da Via col vento di Margaret Mitchell, regia di Antonio Latella
(Teatro delle Passioni, Modena)

Moskwa-Pietuszki

moskwa;-fotMARIA FRANCESCA SACCO | Il viaggio che intraprendiamo questa sera va da Moskwa a Pietuszki. Siamo in Russia, dunque.
E’ un viaggio scomodo, in uno sporco vagone di treno, nel buio di un silenzioso scompartimento e nello scuro fragore dei pensieri del protagonista, interpretato da Jacek Zawadzki. Moskwa-Pietuszki, il titolo della piesse, e’ lo spettacolo che ci propone questa sera l’Istytut Grotowskiego di Breslavia con la regia di Zygmunt Duczyńskiego.
Il testo di riferimento e’ il romanzo del russo Venedikt Erofeev che racconta del viaggio di un intellettuale alcolizzato, Venya, che ha perso il proprio lavoro e si sta dirigendo verso la citta’ di Pietuszki, per ricongiungersi con il suo caro figlio.
La scena si presenta buia perlopiu’, illuminata solo da una fioca lampadina che si accende a stento attraverso il soffio di vita dell’attore. La valigia e’ l’unico elemento che ci fa pensare ad un presunto viaggio; per il resto abbiamo un tavolo e uno specchio, che simboleggia un finestrino, forse. Semplice e spoglia, perche’ tutto il resto sara’ costruito dalle parole del personaggio nel suo turbinio di folli racconti e bizzarre associazioni da vecchio ubriaco. Nonostante gli intermezzi in cui il personaggio si attacca alla bottiglia di vodka e si esibisce in «ciondolamenti» da russo alcolizzato, la voce impastata e tutto il necessario per suscitare nel pubblico simpatia e risate, malgrado a volte sia sembrato una caricatura poco originale di qualche beone incontrato per strada, nonostante questo, dicevo, il viaggio assume un potente valore metaforico. Venya descrive la sua meta come un giardino dell’Eden, un paradiso, un posto che stentiamo a credere davvero esistente. Nello stesso momento in cui capiamo che questa citta’ non puo’ esistere nello splendore etereo narratoci, allora ci rendiamo conto che il piano su cui ci siamo spostati e’ quello simbolico. La nostra mente da questo momento riuscira’ a vedere nella valigia una bara, nella lampadina che pende dal soffitto un cappio che ci anticipa la tragedia nella quale siamo incappati.
Come nella Divina Commedia Dante attraversa l’Inferno e il Purgatorio per giungere trionfante e purificato in Paradiso, cosi Venya affronta il suo personale viaggio dall’inferno della sua vita, desiderando giungere alla pace e alla gioia alla quale, pero’, non arrivera’ mai: verra’, infatti, assassinato alla stazione da un gruppo di teppisti. Questi, se leggiamo il testo nel periodo in cui fu scritto potrebbero simboleggiare i 4 colossi del comunismo: Marx, Engels, Stalin e Lenin.
Anziche’ da Virgilio, il russo e’ preso a braccetto da una bottiglia di Vodka, coscienza e guida, fonte di visioni e vaneggiamenti. Una riflessione sull’uomo che non cerca redenzione per la sua anima, ma un piccolo cantuccio pacifico dove riposarsi, dopo aver trascorso la sua esistenza tra alti e bassi, tra tormenti e fantasmi di un passato che non si cancella.
Il ritmo sembra imitare l’andatura del treno sul quale viaggia Venya: momenti di rallentamento, in cui il monologo si fa pieno di pathos, si alternano ad altri, ben piu’ concitanti, allegri, briosi, come se la locomotica sfrecciasse attraverso lande sconosciute senza potersi piu’ fermare. Queste ultime parti, soprattutto sono quelle, gia’ citate, in cui il personaggio assume quella maschera caricaturale dell’ubriaco per spezzare il ritmo, per alleggerire, per ridere su luoghi comuni: il risultato, prevedibile, arriva in un consenso del pubblico che ride compiaciuto. Nonostante la bravura indiscussa dell’attore, solo in scena, la tecnica dell’arruffianamento del pubblico, poteva essere evitata mostrando il personaggio ubriaco, certo, ma senza estremizzarlo oltremodo.
In questo viaggio della vita, comunque, se ne esce sconfitti e disperati, perdenti e non redenti, come il nostro Dante. Finisce con la morte e l’ultimo respiro esalato dall’attore e’ per spegnere la fioca lampadina e lasciarci tutti nel buio, un po’ morti anche noi.

A scuola di follia con Teatro Forsennato

aggioliVINCENZO SARDELLI | Ingresso del pubblico in sala. Luce sfumata. Fondo nero, nessuna musica. Sulle due sedie che compongono la scenografia minimalista, sono già seduti i due attori: braccia conserte, mani giunte, sguardo e costumi algidi, fissano il pubblico mentre occupa il posto.

Percepiamo subito il sottofondo surreale che permea “Gli ebrei sono matti”, spettacolo ideato e diretto da Dario Aggioli, sul palcoscenico con Angelo Tantillo. Una rappresentazione sulla follia, anzi, sulle follie, che abbiamo visto al Teatro della Contraddizione di Milano. Una pièce tutta giocata su dinamiche sociali e psicologiche d’inautenticità, sullo scambio tra realtà e finzione, sulle ceneri della “persona”, ovvero di un’identità esistenziale effettiva. Il patetico, il comico, il tragico quotidiano sono i caratteri di questo teatro.

“Gli ebrei sono matti” narra con essenzialità la follia delle leggi razziali sotto il fascismo. Rievoca la vicenda di due degenti della casa di cura per malattie mentali “Villa Turina Amione”, nei pressi di Torino. Enrico è un matto certificato, cresciuto con il mito di Mussolini, di cui rievoca con nostalgia i discorsi di Palazzo Venezia davanti alle “adunate oceaniche”. Ferruccio, che si fa chiamare Angelo, vaneggia per necessità, per salvare la pelle. Ebreo perseguitato nell’Italia nazifascista, Ferruccio si rifugia proprio in manicomio, dove apprende dall’innocuo Enrico i “meccanismi” della demenza.

Se la realtà che ci circonda è follia, essere folli è l’antidoto alla realtà.

Andatura scomposta, ciance pasticciate e cantilenanti, tratti autistici, Enrico esprime la propria alienazione attraverso tre fissazioni scandite con ritualità ossessiva: il Duce, la donna amata, le maschere ereditate dal padre, che custodisce in una borsa di pelle, e che indossa per dare spessore ai personaggi e alle situazioni in cui s’immedesima. Ferruccio-Angelo invece si barcamena tra lucidità e finzione, tra ideali illusori e solitudine, ora nella chimera di ricondurre alla ragione il compagno, ora nell’urgenza di assecondarlo per contenerne l’ansia. Un’inesorabile agitazione anima i due protagonisti.

La farsa genera ironia. La semplicità e l’essenzialità della messinscena rilevano la capacità di Dario Aggioli, spalleggiato da Tantillo, di reggere la scena. Gli attori, che non disdegnano l’improvvisazione, interagiscono in maniera derisoria e grottesca con il pubblico, fino al contatto fisico. Colpisce questa recitazione intensa e generosa, ampiamente capace di annullare l’unico difetto del copione: una storia diafana, come sono rarefatti i personaggi, della cui biografia e dei cui drammi personali ci è raccontato poco o nulla.

L’insistenza registica sugli atteggiamenti paranoici-ossessivi, la gestualità esasperata, il movimento compulsivo sulla scena, rendono gustoso questo dramma dai tratti picareschi. Il montaggio è estetico più che narrativo, evocativo più che descrittivo. Suggestive le maschere a mezzo viso indossate dai protagonisti, realizzate in gioventù da Julie Taymor, regista di “Titus e di “Frida. Esse sono metafora multiforme del dramma della finzione: quella intrisa di retorica e demagogia del regime; quella umana, tragica, di Ferruccio, nuovo Enrico IV, costretto a vivere una vita non sua; quella degli inganni della coscienza, della disgregazione del mondo oggettivo, evocato con ironia lucida, che lascia spazio alla pietà.

Questo dramma dell’incomunicabilità e dell’angoscia esistenziale è dedicato a Ferruccio Di Cori, psichiatra e scrittore ebreo, e a Carlo Angela (padre del conduttore Piero) all’epoca direttore della clinica che diede soccorso a numerosi antifascisti ed ebrei, confondendoli con i degenti e salvando loro la vita.

La pièce è, oltre che tragedia personale, un’acutissima presa di coscienza della crisi di valori e d’identità che si apre nella cultura e nella società quando lo stato rinuncia alla ragione. Aggioli, con l’aiuto di Marco Fumarola e Stefania Papirio alle registrazioni, di Arianna Pioppi e Medea Labate per costumi e scene, mette in luce la relatività di ciò che è vero o falso, razionale o irrazionale, normale o folle. I suoi “pazzi lucidi”, anzi, sono i soli portatori di un messaggio di autenticità.

Un video sullo spettacolo

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Due passi sono

due-passi-sonoELENA SCOLARI| La Sala Bianca del Teatro Sociale di Como ha recentemente ospitato lo spettacolo Due passi sono, una produzione Il castello di Sancio Panza di Messina, vincitore del Premio Scenario per Ustica 2011. Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi sono interpreti, autori del testo e registi.

Lo spettacolo nasce da un fatto drammatico accaduto alcuni anni fa: l’attore Giuseppe Carullo è stato per alcuni mesi in difficoltà fisica e la sua compagna Cristiana Minasi lo ha vegliato e assistito in questo difficile periodo. La malattia, superata, è dunque all’origine di questo lavoro che si fa apprezzare per l’assenza di tristezza che ci aspetterebbe da un tema così doloroso. Il testo è felicemente ironico e gioioso, si è trovata una chiave dolce e piena di umorismo che sa comunque mostrare una situazione di difficoltà.

Sulla scena i due personaggi sono seduti uno di fianco all’altra, il piano è un pavimento scacchiera sul quale compiono vere e proprie mosse, gesti precisi, ripetuti e quasi scaramantici, in un unisono di coppia buffo e dal sapore teneramente casalingo. I fidanzati battibeccano su piccole cose in dialoghi dal ritmo perfetto che divertono con lo stile dei duetti comici all’epoca del bianco e  nero. Il rapporto tra i due giocatori della partita è inizialmente segnato da ruoli distinti: la donna ligia alle precauzioni mediche del dopo malattia, attenta ad una serie di divieti e piccole privazioni, l’uomo, il convalescente, è invece poetico e ottimista e saprà stemperare le norme, indurrà lei a lasciarsi andare ai desideri, cui bisogna sempre credere e cedere.

I soli due passi del titolo sono quelli che basta fare per uscire, non solo di casa, ma dalla malattia, dalla clausura della cura, due passi verso il mare e verso la vita.

Il tono ironico della prima metà dello spettacolo è quello che permette di indulgere a quel po’ di sentimentalismo in cui sfocia il lieto finale, una bella scena in cui i due amanti si sposano in una nuvola di borotalco bianco, e dicono sì non solo all’unione ma ad affrontare il mondo, l’aria, i sogni, anche la paura. Due passi sono è una prova teatrale forte, dal significato profondo nonostante l’abito semplice, abbiamo amato la capacità autoironica di raccontare una fase tragica di vita, sapendone trarre una riflessione vitale e aggraziata, intelligente perché animata da un concetto d’amore creativo e non banale.

Odin Teatret, il teatro e il suo racconto

la_vita_cronica_dell_odin_teatret_a_roma_al_teatro_vascelloBRUNA MONACO | Dietro il fondo scena del teatro Vascello si apre uno spazio inatteso, ampio abbastanza da ospitare La vita cronica, ultima creazione di Eugenio Barba, e un paio di centinaia di persone ben raccolte sugli spalti portatili che seguono l’Odin Teatret nel loro tour mondiale. Così, che lo spettacolo si svolga in un teatro all’italiana o nella sala di una palestra, al pubblico sarà garantita una modalità di fruizione antica da teatro greco: gli spettatori a guardare lo spettacolo dall’alto in basso. A guardare la scena e se stessi: la distanza fra una rampa e l’altra è di pochi metri, possibile leggere negli sguardi e nelle espressioni degli spettatori dirimpetto le reazioni agli eventi scenici. Stessa struttura Nello scheletro della balena del 1997 in cui gli spettatori-commensali erano invitati a sedere non su spalti, ma intorno a tavoli imbanditi che a loro volta fiancheggiavano la scena: da una tavolata all’altra potevano guardarsi guardare, bere, mangiare. E anche in Mythos (1998) in cui la vicinanza del pubblico e la sua sistemazione ai due lati dello spettacolo era essenziale perché si vedesse la scenografia al suolo, in continua ridefinizione. Nel caso de La vita cronica non c’è forse una necessità drammaturgica che motivi la scelta, ma ormai anche l’organizzazione scenica è per l’Odin un segno distintivo.
Fin dagli esordi l’Odin Teatret ha creato uno stile ben riconoscibile e ha fatto scuola. Nel corso dei decenni poi, (quasi cinque ormai) lo ha messo a punto fin quasi a cristallizzarlo. Ne La vita cronica gli elementi tipici “odiniani” ci sono tutti: una linea drammaturgica non troppo leggibile, una trama musicale composita e strutturata, gusto barocco nei costumi, attenzione formale. La coerenza del percorso è dovuta in buona parte alla continuità del gruppo, stabile molto più di una famiglia: Roberta Carreri, Jan Farslev, Tage Larsen, Iben Nagel Rasmussen e Julia Varley sono i primissimi membri dell’Odin Teatret. Kai Bredholt è da più di vent’anni parte della compagnia, da quasi dieci Donald Kitt e anche le giovanissime Elena Floris e Sofia Monsalve, per la prima volta in scena con l’Odin, vantano un’annosa conoscenza e frequentazione del gruppo. Non sono mancate le collaborazioni esterne e internazionali nel corso dei decenni, quelli che Eugenio Barba chiama i “baratti culturali”: con numerose compagnie latinoamericane, asiatiche, italiane. Nonostante questo la forza centripeta dell’Odin è sorprendente.
Sempre impegnato sul piano politico, l’Odin Teatret dedica La vita cronica a Anna Politkovskaya e Natalia Estemirova, le scrittrici russe assassinate per aver contestato il conflitto ceceno, e lo ambienta in un contesto lugubre da post guerra civile, in un futuro molto prossimo, il 2031. A condividere questo luogo inospitale e la scena una Madonna nera, la vedova di un combattente basco, una rifugiata cecena, una casalinga rumena, un avvocato danese, un musicista delle isole Faroe, un ragazzo colombiano, una violinista italiana e due mercenari. Almeno così informa il foglio di sala. Durante lo spettacolo, in realtà, i personaggi rimangono inafferrabili, come pure l’ambientazione e le vicende. La densità dei rimandi e delle riflessioni sconfina nell’incomprensibile.
Eppure intorno alla drammaturgia gravitano tanti nomi. Di Ursula Andkjær Olsen e dell’Odin Teatret tutto sono i testi. Ci sono poi un drammaturg (Thomas Bredsdorff) e un consulente letterario (Nando Taviani). Le drammaturgia, infine, insieme alla regia, la firma Eugenio Barba. Il rapporto tra evento scenico e scrittura, (tra libro e teatro, direbbe forse Taviani) è come sempre in Barba di stretta dipendenza. Tutto il suo percorso artistico ha proceduto lungo questi due binari: da una parte ci sono libri come La canoa di carta in cui si specchia l’esperienza di teatro antropologico. Dall’altra ci sono i libri dei suoi esegeti da Nando Taviani a Nicola Savarese. Un’impalcatura teorica a sostegno di una pratica teatrale. Così La vita cronica spettacolo è accompagnata da La vita cronica in forma di libro: raccolta di racconti in cui gli attori descrivo ognuno dal suo personale punto di vista il processo dello spettacolo e la genesi dei personaggi. Paradossalmente, se sul palco vediamo solo delle presenze, personaggi dai contorni sfocati e dalle vicende faticosamente intuibili, nei racconti prendono corpo. Meglio che nella scena si confondono con gli attori e ci comunicano la loro storia. Se Eugenio Barba rifugge un teatro “chiaro” non vuole però negarsi alla narrazione. Ed ecco, in appendice, a complemento del teatro, un libro, a cui si concede ciò che si è negato alla scena.
Ne La vita cronica l’evocazione vince sul racconto eppure il varco attraverso cui dovrebbero passare le emozioni è troppo stretto. Il dramma fatica a manifestarsi.
Gli attori, pur molto preparati, hanno un che di nostalgico. O forse è lo spettatore che conosce la storia dell’Odin, quella di una compagnia che ha fatto della qualità del movimento il suo punto di forza, a provare nostalgia per quel gruppo di attori che sembrava aver sconfitto ogni resistenza fisica, ogni opacità del corpo all’unità pensiero-azione. L’energia e la baldanza si sono perse per strada, come è normale quando sfiorisce l’età dell’oro dei corpi. Ma nessun cambio di rotta è venuto a correggere le vessazioni del tempo. E se si può considerare la resistenza un valore sul piano storico, La vita cronica, lo spettacolo, in quanto prodotto fruibile nel qui e ora, ne risente.
Per questo, probabilmente, Barba riempie a piene mani la scena di musiche e costumi. Le musiche, belle, eseguite da voci altrettanto belle, sono troppo presenti: come sempre, rigorosamente dal vivo, commistione di rock, pop e canti tradizionali. Pochissimi i silenzi. Bruschi i passaggi da un genere all’altro, per suscitare una reazione meccanica, priva di profondità. E anche i costumi, nel loro tripudio di colori e svolazzi non fanno altro che accentuare per contrasto l’assenza di dinamismo della scena. E La vita cronica risulta uno spettacolo in disequilibrio.

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PAC in giro per Manhattan, tra frivolezze e certezze

James Bond MOMAGINA GUANDALINI | L’italiano che arriva a New York nella confusa – per noi – fine del febbraio 1913, si immerge nella consueta atmosfera di iperattività e sangue freddo che qui caratterizza cose e persone. Una visita alla Coffee Fest – nome che è un curioso connubio di inglese e di austriaco – , manifestazione che da più di un decennio fa il punto sulla cultura del caffè, può servire a rompere il ghiaccio (metaforicamente ma anche concretamente, chè per strada resiste ancora il gelo invernale). Chi pensasse di sapere tutto sulla tazzina di espresso deve venire qui al Javits Center, sulla riva del Hudson, a immergersi in una nuvola di aroma e a fare i conti con le ultime novità in fatto di macchine produttrici, miscele, presentazioni di caffè corretto e latte macchiato. Qui si chiama, come è noto, semplicemente “latte”, e alla Coffee Fest è oggetto di un serissimo concorso per il miglior disegnatore sulla schiuma di superficie. Vincitrice è una giovane barista di Shanghai, con tre cuori concentrici di panna e cacao.
Altrettanto seria e impegnata è una vecchia conoscenza, la cioccolateria Ghirardelli di San Francisco, onnipresente su tutti i banconi con le sue creazioni di soufflé e biscottini – davvero all’altezza dei più raffinati laboratori di Belgio o Svizzera o Torino.

Qui il filmato dell’edizione dell’anno scorso con le incredibili creazioni in tazza
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Sarebbe bello affermare che nel bicentenario della nascita di Wagner e Verdi la Metropolitan Opera risolva l’annosa crisi del canto operistico con un Don Carlo di canoro splendore. Ma non è così. Nelle recite dei primi di marzo  l’andazzo dei tempi si riconferma: c’è la regìa di Nicholas Hytner che è applaudita da almeno tre stagioni ed è non provocatoria ma sontuosa, e solenne, un po’ ingessata; e nonostante la direzione di Lorin Maazel ci sono voci deludenti. Degli  inaciditi loggionisti scaligeri farebbero, e non a torto, una minuziosa rassegna degli interpreti, sbandierando i loro nomi, e segnalerebbero che Filippo II ha voce stomacale, il mezzosoprano strilla, il tenore ha la voce “indietro”, il famosissimo aitante baritono sbraita, e via rantolando. Qui non è la sede. Basti segnalare che a un paio di critici newyorkesi è venuto effettivamente il dubbio che l’esecuzione vocale fosse stentata, ma loro sono interessati quasi esclusivamente all’evento teatrale, che in questo dramma di Verdi tratto da Schiller non manca mai. Anche il pubblico si entusiasma per i valori drammatici e affolla il Lincoln Center con fervore. Quando si scopre che sei taliano c’è sempre qualcuno che ti chiede di spiegare un point  del libretto.

Qui il regista ne parla in un’intervista di qualche tempo fa
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Appena in tempo: nel cinquantenario dell’uscita del primo film di James Bond – Dr.No, intitolato in Italia Agente 007 licenza di uccidere – , che fu girato nel 1962 con un budget limitato e divenne, inaspettatamente, un trionfo planetario, un nuovo filone cinematografico e un fenomeno culturale, il MoMa ha organizzato tra ottobre e febbraio un omaggio con rassegna filmica. Dal 1986 la casa produttrice inglese Eon dona al MoMa una copia 35mm di ogni film di James Bond non appena va in cantiere il film seguente ( non c’è, curiosamente, Never Say Never Again, che nell’83 vide il ritorno di Connery, in quanto non fu prodotto della Eon).  Ben custoditi in un caveau della Pennsylavnia, i 22 titoli bondiani sono considerati documento storico e sono stati ripresentati a New York con immutato successo di pubblico.
Il fenomeno 007 fu un’esplosione di creatività (“Mi sembra uno di quei film che fanno fare un passo avanti al cinema”, dichiarò Fellini dopo avere visto Goldfinger ) e qui al MoMa c’è stata un’esibizione collaterale ancora più intrigante.
Con la mostra Goldfinger: the Designs o fan Iconic Film Title il MoMa si concentra per la prima volta sulla creazione di titoli di testa, e quelli dei film di Bond negli anni ’60 furono un esplosione di visualità pop,  Robert Brownjohn, americano di genitori inglesi, studiò alla Bauhaus di Chicago, dove divenne un grafico all’avanguardia e un protetto di Laszlo Moholy-Nagy. Si trasferì a Londra agli albori dell’era swinging, e là i produttori Saltzmann e Broccoli gli commissionarono i titoli di testa  dei film From Russia With Love e Goldfinger. Curò anche la copertina del LP dei Rolling Stones Let it Bleed, con la famosa “torta “ a molti strati, nel 1969; l’anno seguente, in pretto stile swinging London, morì di overdose di eroina. Qui al Museo si può ammirare la sigla di apertura di Goldfinger: mentre la cantante  Shirley Bassey ruggisce la famosa canzone omonima del film, brevi sequenze riguardanti i personaggi principali sono proiettate sul corpo tutto d’oro, in continuo movimento,  di una ballerina apparentemente nuda: i procedimenti d’avanguardia della scuola di Moholy-Nagy sono enfatizzati dalla pornografica insolenza dello stile-Bond. Una consapevolezza dell’importanza della cultura pop, che il MoMa è sempre il primo a storicizzare.

Il racconto della mostra nel video della AFPRF con un’intervista ad Anne Morra, che cura la sezione cinema del MOMA
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Dracula: un mito in mostra – il videoreport

DraculaRENZO FRANCABANDERA | Il conte Dracula. Dai film alle parodie, e prima ancora generazioni di adulti con il libro, tradotto in ogni lingua del mondo. I canini, il mantello foderato di nero fuori e di nero dentro. Le occhiaie sotto gli occhi. E che importa che poi sia esistito davvero, o se chi è esistito abbia davvero avuto un debole per cocktail a base si piastrine e globuli rossi. Fatto sta che dopo alcuni mesi di mostra presso la Triennale a Milano, anche queste ultime settimane sono affollate, essenzialmente di un pubblico giovane, appassionato, e desideroso di confrontarsi con il mito, con l’immaginario, con l’universo di paure che sta dietro i canini più famosi del mondo.
Abbiamo chiesto il motivo di tanto successo al presidente della società che ha organizzato la mostra, Alef, e  Pietro Allegretti ha risposto nel nostro videoreportage agli interrogativi che la mostra pone ai suoi visitatori, in un percorso fra storia, cinema, design, arte e moda.

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Mondi virtuali e 3D: la nuova frontiera della media education

machinima in Battlefield 3  - Robert Stoneman
machinima in Battlefield 3 – Robert Stoneman

MICHELA MASTROIANNI | Il post “Gli insegnanti più social degli alunni” comparso sul blog seigradi.corriere.it, riferendo sinteticamente i risultati di una ricerca sull’uso di Internet e delle nuove tecnologie da parte degli insegnanti negli USA, si conclude con un interrogativo: qual è il livello di competenza tecnologica dei professori italiani? Purtroppo non esiste ancora un’indagine statistica sulla familiarità con gli ambienti e gli strumenti dell’information and communication technology da parte dei docenti del nostro Paese e non è possibile pertanto stabilire quanti di essi usino con i loro allievi strategie didattiche mediate da computer  insieme alla tradizionale lezione frontale di tipo contenutistico/trasmissivo.

In attesa di uno studio scientifico sulla diffusione delle ICT nella scuola italiana, segnaliamo una delle innovazioni didattiche più interessanti e ricche di prospettive di sviluppo: si tratta del progetto sperimentale edMondo, il mondo virtuale di Indire (Istituto Nazionale di Documentazione Innovazione e Ricerca Educativa). I docenti coinvolti nel progetto hanno già avviato alcune esperienze di “eLearning immersivo”, sviluppando per i loro studenti, e molto spesso insieme ai loro studenti, degli ambienti di apprendimento operativo/esperienziale, fondato sull’inquiry, sulla creatività e sulla socializzazione delle informazioni e delle conoscenze acquisite. Gli studenti, nella forma di avatar, imparano così a costruire e ad organizzare scenari 3D e oggetti didattici virtuali, acquisiscono inoltre le nozioni tecniche di programmazione ed elaborano tracce audio e filmati.

Ogni disciplina può trovare “spazio” nel mondo virtuale di edMondo e allievi di ogni età (dagli alunni della scuola primaria agli stessi docenti, adulti in formazione permanente) possono sperimentare  questo ambiente di apprendimento.

Un planisfero su cui muoversi è lo scenario della prima lezione di inglese tenuta in Welcome Area da Heike Philp, fondatrice di Let’s Talk Online.
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Un arcipelago dalla forma simile a tre isole delle Galapagos è la geografia di “Scriptlandia”, territorio frequentato dagli studenti dell’Istituto “A. Guarasci”  ad indirizzo Tecnico Economico di Rogliano (Cs), sotto la guida della docente di informatica Rosa Marincola. A “Scriptlandia” c’è un laboratorio, dove si svolgono attività di costruzione in 3D e di programmazione in LSL, ed un’agorà in cui gli avatar si incontrano per discutere, organizzare attività, esporre i lavori della classe.
Simile ad un parco divertimenti è invece “Mathland”, ambiente progettato da Luisa Giannetti, docente dell’ I.P.S.S.E.O.A. “I.Cavalcanti” di Napoli, Maria Messere dell’ I.T.C.G.T. “G.Salvemini ” di Molfetta (BA) e Roberto Bozzuto dell’I.T.T. “Altamura” di Foggia. Nel mondo virtuale di “Mathland”, attraverso un percorso fatto di quiz, enigmi, giochi di logica e costruzioni geometriche, gli alunni/avatar apprendono in maniera ludica e competitiva la matematica.
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Questo ambiente di apprendimento si fonda sul concetto di gamification, l”utilizzo in contesti reali di meccanismi e dinamiche tipici dei videogames, all’interno dei quali il sistema di punti, livelli, missioni, etc., spinge il giocatore a compiere delle attività ripetitive al limite della noia con grande motivazione e, al loro termine, genera gratificazione. Poiché gli studenti tendono proprio a considerare “ripetitive” e “noiose” le attività didattiche finalizzate all’acquisizione di competenze o di conoscenze (ed “inutili” queste ultime), le teorie pedagogiche più recenti hanno incominciato a proporre la gamification nel settore dell’istruzione, come metodo per migliorare la motivazione all’apprendimento e generare il rinforzo positivo della gratificazione per averlo conseguito. Il tema è così interessante e nuovo che di gamification si discuterà ampiamente nella expoelearning, l’evento fieristico/espositivo e di studio sulle nuove tecnologie e la didattica, in programma il 13 e 14 marzo a Madrid.

Un’ulteriore possibilità offerta dai mondi virtuali è quella di apprendere e praticare a scuola la morfologia, la sintassi e il lessico del linguaggio audiovisivo. I mondi virtuali permettono cioè di imparare non solo a “leggere”, ma anche a “scrivere” delle narrazioni video che documentano e interpretano la realtà, che costruiscono mondi reali o fantastici, che raccontano storie, che danno alla creatività uno strumento agile di espressione. Per questi video è stato coniato il termine machinima, filmati che narrano storie sviluppate all’interno di scenari creati nei mondi virtuali 3D di Second life o di alcuni videogames.

Per comprendere le potenzialità narrative e creative offerte dallo strumento si può dare uno sguardo al machinima filmato in Second Life A woman’s trial, una trasposizione del racconto di L.M. Alcott , realizzato da Chantal Harvey
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o ancora al machinima One di Robert Stoneman, filmato invece nello scenario del videogame Battlefield3
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=XVjIcSSTyrI]

Anche  gli scenari e le attività progettati per gli studenti più piccoli, come gli alunni della scuola primaria “Santucci” di Castel del Piano, guidati dall’insegnante Nicoletta Farmeschi, dimostrano che azione, socializzazione, ma soprattutto creatività, sono i concetti chiave di tutti i percorsi di apprendimento nel mondo virtuale.

links e approfondimenti

INDIRE – progetto edMondo

expo e-learning a Madrid
Si può leggere online o scaricare in pdf la ricerca del Pew Research Center “How teachers are using tecnhology”.
Per capire meglio come è realizzato un machinima si può guardare il documento video realizzato dal tgR Neapolis
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=2_KQoBNWN78&w=420&h=315]