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mercoledì, Gennaio 15, 2025
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Mondocane#16 – M’importa 'na sega

17_snorkyMARAT | Tempo fa, sono finito a male parole con un regista. Uno di quelli amatissimi da noi che diciamo di intendercene di teatro. Di poco pubblico e tanti applausi. Insulti vari, scambi d’accuse, specchio riflesso e cose simili. Con la concreta possibilità di fare rissa alla prima occasione, visti i rispettivi caratteri parecchio fumini. Peccato perché pare essere persona piacevole. Ovviamente avevo ragione (se ne dubitava?): il maestro non aveva colto la citazione e si era sentito tirato in causa. Che si sa, gli artisti non sono aggiornati sulle uscite musicali e pagano una certa suscettibilità.

All’epoca mi aveva dato noia, anche perché la cosa aveva assunto toni surreali e io invece non ne volevo mezza. In realtà a pensarci ora, è stato uno dei pochi (pochissimi) sussulti cui ho assistito in un ambiente di pace e serenità. Perché il teatro è così: siamo tutti amici e perciò felici. Come gli Snorky. Almeno all’apparenza, che poi alle spalle ci si accoltella. Con prevedibile ricaduta a cascata sull’indipendenza di giudizio, sulle cordate di voti nei premi, sui campanilismi. Che a scaldarci son solo paturnie artistiche, tematiche da adepti. Noia incarnita. Che quando poi c’è da esporsi sul serio, dare un’opinione non dico politica, ma che solo si allontani di qualche centimetro dalla retorica del palcoscenico, gli sguardi rimangono bassi, la lingua si fa impastata, gli impegni pressanti. Convegni vuoti, incontri sindacali che par d’essere in bocciofila, tavole rotonde disabitate, discussioni zavorrate. E ci penso perché in questi giorni sto oziosamente seguendo il tentativo dell’ambiente musicale di cambiare le regole delle esibizioni dal vivo.

Certo, abbondano i litigi adolescenziali. Populismi e ignoranze. E mica tutte le teste sono proprio a bolla. Ma il percorso pare avere una concretezza sconosciuta nei foyer. E (soprattutto) una vivacità di confronto alla base, un sentirsi categoria, che nel teatro si spegne al secondo sbadiglio. Massì mon ami, facciamo allora ancora un po’ di rissa. Anche se si capisce ‘na sega in due. Regaliamo scampoli di vivacità. Ma poi troviamoci dalla stessa parte a dareuna scossa a ‘sto teatro. Che passano gli anni e poco fa. Se non starsene con uno spritz in mano a piangere. Che fa caldo, governo ladro.

Il controcanto degli ultimi con "Thanks for Vaselina". Intervista a Gabriele Di Luca (Carrozzeria Orfeo)

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ANDREA CIOMMIENTO | Carrozzeria Orfeo presenta il primo studio del nuovo allestimento “Thanks for Vaselina” coprodotto dalla Fondazione Pontedera Teatro in debutto il 29 e 30 agosto al Festival Castel dei Mondi di Andria. Un lavoro che indaga le estensioni di una drammaturgia originale, già manifesta nel suo primo atto presentato ieri a Collinarea. Chiacchieriamo con l’autore Gabriele Di Luca, attore e regista dello spettacolo insieme a Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi (in scena con Beatrice Schiros e Francesca Turrini).

Fin dall’inizio osserviamo il conflitto che permane nelle relazioni di tutti personaggi in scena…
Ci è sempre interessato raccontare storie lontane dalla retorica, dalla didascalia o dalla didattica. Vogliamo raccontare storie di essere umani che arrivano a picchi di estrema violenza e drammaticità ma senza rinunciare all’ironia, ai paradossi, alla tragicommedia. Questo genere ci piace molto.

Quali sono i vostri riferimenti drammaturgici?
Mi ispiro alla drammaturgia del teatro nordeuropeo come gli inglesi o gli irlandesi. Una drammaturgia imbevuta di ferocia e bontà come un controcanto degli ultimi. Questi personaggi sono vittime e carnefici perché perdono e vincono continuamente, tra la lotta per l’amore e per il potere.

Quest’ultimo allestimento cosa rappresenta per Carrozzeria Orfeo?
È  il nostro sesto lavoro dopo gli ultimissimi “Idoli” e “Robe dell’altro mondo”, tutti lavori molti diversi seppur legati da una poetica. Vorrei tornare al primo lavoro “Nuvole barocche” con una sola unità di luogo. “Thanks for Vaselina” nasce con la volontà di avere un luogo fisso ma tanti personaggi. Il lavoro si compone di tre atti. Qui a Collinarea abbiamo mostrato il primo che si dedica all’azione e alla conoscenza dei personaggi. Il secondo è emotivo e si dedica all’esplosione dei conflitti. Il terzo alle catastrofi e alle grandi riconciliazioni.

Lo spettacolo debutterà tra poco?
Il debutto è previsto per il 29 e 30 agosto al Festival Castel dei Mondi di Andria. Sarà un lavoro della durata di 1 ora e 35 minuti, una sfida dal momento che abbiamo raggiunto il massimo di 1 ora e 20 minuti con i nostri spettacoli. Ci sembra che il primo atto scorra, che non annoi. Il secondo lo abbiamo montato e ora è da rifinire. Da domani lavoriamo al terzo.

Un approccio drammaturgico che parte dall’attore…
Il fatto di essere un autore nato come attore credo sia solo un vantaggio. Già quando studi recitazione in accademia inizi a conoscere la scrittura. Lavorando con altri due registi in scena, Alessandro Tedeschi e Massimiliano Setti, che è anche socio fondatore per Carrozzeria ho iniziato uno scambio continuo rispetto alla drammaturgia. Arrivo alle prove con il testo e metto il testo al servizio dello spettacolo, non viceversa. Questo quindi subisce delle variazioni. Il novanta per cento rimane e il dieci viene solitamente tagliato secondo le esigenze.

Hai parlato del tuo interesse per la drammaturgia nordeuropea. Qual è la condizione panoramica della drammaturgia in Italia?
È un punto molto delicato. Non amo particolarmente alcuni miei colleghi contemporanei rispetto alla scrittura anche se ci sono  esempi che mi piacciono molto. In Italia non amo la struttura, le lunghezze, le molte parole che il personaggio dice prima di arrivare al dialogo. Qui da noi c’è spesso una drammaturgia costituita da momenti sconnessi, senza struttura narrativa precisa ma composta da più immagini e suggestioni drammaturgiche oppure da grandi monologhi. A volte anche una ricerca di poeticità forzata. Invece quello che mi piace della drammaturgia inglese sono le lame, una sorta di sega circolare. Lo spettatore non fa in tempo a mettere la testa in una situazione che dopo dieci minuti torni alla situazione di prima e pian piano colleghi il tuo cervello e il cuore che pulsano insieme alle emozioni perché non c’è tempo. Quando leggo quei testi sembra che arrivi alla fine qualcosa di molto preciso e non potrebbe essere altrimenti. Nella drammaturgia italiana invece ci potrebbero essere venti minuti in meno come in più e non farebbe differenza alcuna.

Podcast con Dalila Cozzolino (Compagnia Ragli)

litalia-sè-desta-2Intervista con Dalila Cozzolino
su “L’Italia s’è desta” | un piccolo (falso) mistero italiano” scritto e diretto da Rosario Mastrota
podcast a cura di Andrea Ciommiento
PAC/Culture.net
 

Collinarea – il videoreport del primo fine settimana

collinarea 2013 foto andrea casiniRENZO FRANCABANDERA | Ed eccoci. Dopo un po’ di taglia e cuci, di caricamenti e sudore, è pronto il video reportage relativo al primo fine settimana di Collinarea Festival a Lari che stiamo seguendo in esclusiva e di cui trovate il dossier nel box al centro dell’homepage. Un blob di voci, momenti, suoni e motorette di passaggio. Fra i protagonisti, Michele Santeramo di Teatro Minimo, Gabriele Di Luca di Carrozzeria Orfeo, Loris Seghizzi e Cristiana Minasi.

(foto di Andrea Casini)
 
Buona visione
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Podcast con Gianfranco Berardi ("In fondo agli occhi", regia di C.Brie)

testata-07Intervista a Gianfranco Berardi (Compagnia Berardi/Casolari) sullo spettacolo “In fondo agli occhi” per la regia di César Brie
podcast a cura di Andrea Ciommiento
PAC/Culture.net
Fotografia di scena a cura di Chiara Ferrin

Podcast con Roberto Bacci (Pontedera Teatro)

Carta da letteraIntervista a Roberto Bacci (Pontedera Teatro) dal Festival Collinarea 2013. Podcast a cura di Andrea Ciommiento

Collinarea: le pagelle dei primi giorni, fra musica da sposalizi e guaritori

capossela a lariRENZO FRANCABANDERA | Senz’altro un esordio felice quello di Collinarea 2013 a Lari. Il festival si è aperto Venerdì 19 luglio con la prima tappa del nuovo tour di Vinicio Capossela. Il cantautore italiano pare aver stabilito un feeling grandissimo con questo festival e già l’anno scorso il suo concerto era stato alto e poetico. La nuova tournèe, la cui prima tappa abbiamo documentato anche con la diretta sui social network, trova motivo fondante e ispiratore nell’esperienza del ballo sociale, legato al momento di festa, in particolare al matrimonio. Si recupera il senso della comunità, del conviviale, con il supporto dei maestri della banda di Calitri che offrono al pubblico praticamente due ore e mezza di concerto, terminate in un promiscuo totale fra palco e pubblico, con quest’ultimo che sale sul palco a ballare, e Capossela in delirio all’una di notte, sotto tre festoni di lampadine tipo festa di paese, in un cascinale magico della campagna toscana.

Voto 9+ vien quasi voglia di sposarsi. Quasi. Perché poi si sa, la musica finisce.

Ci trasferiamo a Lari per i due giorni successivi, in un clima euforico e vivace, fra artisti, operatori e pubblico. Il Festival di fatto apre con Il guaritore, testo con cui Michele Santeramo si è aggiudicato il premio Riccione, portato in scena con una produzione Teatro Minimo e Fondazione Pontedera Teatro, (coprod. da Riccione Teatro, Festival Internazionale Castel dei Mondi di Andria), per la regia di Leo Muscato.

Da un guaritore che, coadiuvato dal fratello, risolve casi umani mescolando storie di vita vera tra loro distanti, si ritrovano una donna incinta che vuole abortire per evitare che un’altra creatura possa vivere le sconfitte della vita che lei stessa prova, e una donna (con il marito ex pugile) che non può aver figli dal suo compagno e vuole invece sanare le sue insoddisfazioni e i suoi incompiuti mettendo al mondo una creatura.
Se c’è un evento che marca il fine settimana del Festival ci pare di poter dire sia senza dubbio il cambio di passo che nelle due repliche la compagnia riesce ad effettuare, all’interno di un codice che vuole assecondare la svolta visionaria insita in questo testo di Santeramo. La regia compie scelte non facili e sicuramente di discontinuità rispetto alla tradizione di lavoro del gruppo, che nella replica di Sabato, al primo confronto con gli spettatori, pare soffrirne, finendo per approcciare la recita sopra le righe, e accentuando le forze centrifughe che il testo offre.
Altro ritmo, altra capacità di ascolto reciproco, con Sinisi che legge in modo appropriato il ruolo chiave del suo personaggio (l’anziano guaritore), nella replica domenicale. Pur lasciando spazio a necessarie asciugature (il fratello del guaritore, ad esempio, può risultare ugualmente surreale anche con meno didascalia sia nell’abito che nella recitazione) e a qualche puntello drammaturgico (in onestà alle due figure femminili e al loro evolvere psicologico forse manca qualche battuta e qualche grammo di visionarietà, ma è il nostro punto di vista), si segna una strada percorribile e sicuramente più efficace.
Il lavoro è a cuore aperto, come si intuisce, e sicuramente l’uscita era necessaria per misurare alcune questioni sceniche. E’ una transizione sia per il drammaturgo che per la compagnia e i suoi componenti, una sfida che ci auguriamo li porti a vincere il confronto prima di tutto con se stessi. Teatro Minimo può e deve diventare un patrimonio per la nostra scena. E Il guaritore è un banco di prova indispensabile, il cui esito maggiore, come sempre accade in questi casi, si ottiene nel gruppo, ascoltando le reciproche necessità, e abbassando ciascuno il volume del proprio strumento, per lasciar emergere l’orchestra. Da rivedere, con fiducia nel cambiamento.

Voto 8 al coraggio di ascoltar(si).

In un rush senza respiro, il programma del Sabato propone, nella meravigliosa cornice del cortile superiore del Castello di Lari, Open Program – Una dedica in azione (Studio) del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards. Vestiti di bianco, con il rituale cerchio di tappeti su cui ospitare gli spettatori, un gruppo di giovani praticanti del Workcenter, guidati da Mario Biagini in forma smagliante, propone una rilettura vocale e fisica di canti tradizionali del sud degli Stati Uniti. Sono canti che, secondo chi dirige il Workcenter, possiedono qualità tali da provocare processi interpersonali intensi, e dare il via ad una circolazione di contatti tra gli attori e gli astanti. “Ci poniamo una domanda: è possibile che la qualità di questi processi possa circolare e in qualche modo raggiungere chi assiste? E se questo è possibile, cosa può allora accadere?”. Forse poteva essere interessante anche confrontarsi col pubblico dopo il momento performativo, per avere, in una restituzione di esperienze di senso, qualche stimolo e qualche risposta ai quesiti. Grotowski ad un certo punto aveva deciso di smetterla col pubblico. Se ora al pubblico si torna (era successo anche a Vie qualche anno fa) forse può essere utile si spieghino le direttrici di movimento e di ricerca, una ricerca che ha altri ritmi, altre spinte di auto-indagine rispetto alle frenesie del contemporaneo: ragionare su come fruire questi momenti artistici può risultare assai efficace, perchè sono passati quarant’anni da quando questo cammino è iniziato, e molti degli spettatori che erano a Lari non erano neanche nati.

Voto 7 Bello da ascoltare, ma anche che ascolti

conferenza tragicheffimeraArrivano poi le giovani proposte: Carullo – Minasi con Conferenza tragicheffimera. Qui scendiamo nel personale: non posso infatti esprimere un parere perchè la mia creatura ha sfoderato un pianto disperato a pochi minuti dall’inizio dello spettacolo. La verità della vita entra nella finzione della scena. Che poi mi pare sia anche la questione che volevano indagare loro. Che però sono rimasti dentro la sala affrescata del castello di Lari, con la Minasi e le sue ali da angelo sfortunato. La sensazione che ho avuto nel poco tempo di cui ho fruito è comunque che sia una proposta, un divertissement acido, che non deve essere ospitato su un palcoscenico e con un pubblico di fronte. E l’idea pare condivisa dalla compagnia, che infatti vende l’intervento artistico a musei e teatri ma per spazi e occasioni non convenzionali. Dove mi riprometto di rivedere il tutto.

Proprio per il pianto della creatura di cui sopra, arriviamo in ritardo al Teatro dove Scenica Frammenti di Loris Seghizzi, il padrone di casa, propone Il Sogno del Marinaio: c’è gente che assiste da fuori, centoventi persone e più, stipatissime in uno spazietto che ne può ospitare la metà. Siamo contenti per l’artista e la sua famiglia di attori, che continua ad operare con successo non solo artistico ma anche imprenditoriale su questo territorio.

Fine del commento, perchè siamo in conflitto di interesse, avendoci loro chiesto di commentare il festival.

Lascia un senso crudele di meccanica malata la fruizione di InCertiCorpi, la proposta di Teatro dei Venti con Francesca Figini in scena, diretta da Stefano Tè.
Una ragazza parte in tuta ginnica con una corsa a perdifiato, misurando tutto del suo passo. Musica a palla nelle cuffiette. Quattro quarti. Bunz bunz Bunz bunz.
Poi, forse per condizionamento sociale, forse per desiderio di cercare l’altra se stessa cui il mondo la costringe, va via via mutando il suo aspetto, prima con una parrucca bionda e un abito da sera, poi con un vestito di plastica, per arrivare alle trafitture finali (per fortuna con fermini da capelli che non lasciano traccia) e al martirio dei propri connotati facciali.
Si sente la lontana eco di Rumore Rosa dei Motus, con le confessioni a microfono di donne sole, di Angelica Liddell, con i suoi tagli masochistici (quelli però veri, sanguinolenti, estremi, come la prima Abramovic, mentre qui rimaniamo in superficie); immaginiamo suggestioni di laboratori à-la-Lagani, con le camminate incerte di Dorothy del Mago di Oz e le cadute dall’alto di scarpette rosse con tacco (tal quale nel finale dello spettacolo). Ma alla fine è proprio l’equilibrio che manca alla proposta, e in onestà di disagi esistenziali affidati a silenzi e a epigrammi a microfono abbiamo un repertorio molto, troppo vasto e percorso, ormai. Pensiamoci per tempo. Non facciamoci del male. Anche se solo con i fermini.

Voto 5 con aggiunta di acqua gasata fresca e limone, prima della ripartenza per Milano

Interplay 2013: un bilancio ad alcuni giorni dal festival

Istantanea 1 (16-07-2013 19.03)GIULIA MURONI | La 13esima edizione del festival Interplay, a Torino dal 22 maggio al 19 giugno, si è costruita sui due assi portanti: per un verso l’organizzazione, capeggiata dall’energica Natalia Casorati, che si occupa di dare spazio (Spic&Span) e possibilità formative a giovani performer (Daniele Ninarello nel progetto “Sharing choreographic residency”); per l’altro le numerosissime collaborazioni, che hanno reso possibile un programma variegato di presenze nazionali e internazionali. Il “pacchetto” Interplay, combinazione di momenti e location differenti, ricco di proposte e collaborazioni, raccontato da un preciso sistema di comunicazione web, video e fotografica, si presenta, ad alcuni giorni dalla chiusura, come una riuscita operazione culturale, le cui caratteristiche cerchiamo di approfondire con l’organizzatrice Natalia Casorati.

Quale bilancio per Interplay 2013? Quali sono state le peculiarità e i cambiamenti rispetto alle edizioni precedenti?

Per me è andata molto bene, ma penso che in fondo l’ultima parola in questo l’abbia il pubblico. Le edizioni, più che cambiare, crescono. Allo stesso modo cresce il pubblico e cresco io, come organizzatrice imparo ogni volta qualcosa di più e cerco di ottimizzare l’organizzazione del festival di edizione in edizione. Io sono molto soddisfatta, quest’anno c’è stato moltissimo pubblico e trovo che le compagnia fossero ben armonizzate all’interno delle serate.

Ritiene ci siano state scelte azzardate nella scelta degli spettacoli?

Difendo molto le scelte che faccio, di cui peraltro sono consapevole in quanto vedo gli spettacoli prima di proporli per il cartellone. La difficoltà maggiore per noi operatori culturali-programmatori in questo momento in Italia consiste nella ricerca di fondi.

Facciamo l’esempio dello spettacolo “Folk-s” di Sciarroni, che ha suscitato reazioni che hanno diviso il pubblico. Come considera questo esperimento?

Il lavoro di Sciarroni è vicino alle arti visive, quindi unisce la ricerca del movimento, l’utilizzo di una materia corporea ad un processo performativo legato alla sua ricerca in ambito visuale. I danzatori hanno fatto una scommessa particolare: almeno uno di loro rimarrà sulla scena fino a quando resterà qualcuno del pubblico a guardarli. Chiaramente è un rischio, anche perché loro cambiano ogni volta la sequenze e l’utilizzo dello spazio scenico, perciò la riuscita dello spettacolo è sempre diversa, ma questo esperimento mi ha convinta e credo che Sciarroni sia una delle realtà più interessanti nel panorama contemporaneo nazionale.

Interplay gode dell’appoggio di numerosi sponsor e partner. Questa opportunità limita la libertà di scelta della direzione artistica o la condiziona in un qualche modo?

Io posso fare quello che voglio! Interplay riceve sovvenzioni da diversi enti e questo ci permette di essere molto indipendenti. È chiaro che se uno ricevesse un contributo da una sola struttura si troverebbe ad essere maggiormente vincolato. Per noi invece non è così, il che può rivelarsi per certi aspetti un fattore positivo, per altri negativo. Noi riceviamo poco da tanti, perciò dobbiamo continuamente ricercare fondi e, se viene a mancare anche soltanto un finanziamento diventa molto difficile. Credo questa sia anche una scelta di libertà, che consente al festival di mantenere la sua originalità, la sua unicità, portando compagnie che appartengono ad uno scenario di avanguardia della giovane danza nazionale e internazionale e di mostrarle al pubblico di Torino.

Interplay e il pubblico: come avete costruito il rapporto con il vostro pubblico e come è cambiato nel corso delle edizioni?

Il pubblico è meraviglioso perché ci segue con grande passione. Siamo molto contenti di questo. Penso che l’incremento costante di pubblico sia dovuto non solo alla grande promozione che tutti gli anni articoliamo in modo differente, ma anche grazie alla rassegna Inside off, manifestazione gratuita che prevede alla fine degli spettacoli un dibattito tra artisti e spettatori. Questo serve ad avvicinare il pubblico, soprattutto quello che tendenzialmente non va a teatro. Inoltre usiamo diversi canali web per promuovere le notizie e fortunatamente i media parlano molto di noi.

Quali sono i progetti per il futuro?

Ora è difficile immaginarlo perché è appena finita questa edizione, però direi che ogni anno Interplay si rimette in discussione e cerca sempre nuove progettualità. Ad esempio quest’anno abbiamo cominciato a coinvolgere i ragazzi del liceo Alfieri in una collaborazione con la rivista Krapp’s Last Post, così che potessero seguire il festival e scrivere poi le loro impressioni. E’stato un progetto molto coinvolgente ed è stato sorprendente leggere negli articoli dei ragazzi cosa li avesse colpiti di più. Nelle ultime due serate abbiamo mostrato l’esito di un progetto di residenza coreografica che ha visto lavorare insieme tre danzatoriprovenienti da tre paesi diversi, uniti in una creazione condivisa, con la supervisione di un mentore. E’ stata una scommessa…ma con un risultato molto positivo! Per quanto riguarda il futuro vedremo cosa succederà.

Mittelfest 2013, alla ricerca del suono nel rumore

microcosmi-cividale-mittelfest-e1369949954932RENZO FRANCABANDERA | Ci sono momenti che raccontano forse più di altri la portata di un evento, il dialogo con il suo tempo. Se dovessimo sceglierne uno per il Mittelfest 2013, festival di arti performative, musica e teatro che da più di vent’anni, ventidue per la precisione, le valli del Natisone e Cividale del Friuli ospitano, eleggeremmo il concerto di Enrico Bronzi nella bellissima chiesa di San Francesco a Cividale del Friuli.

Il perché risiede nella scelta, fatta da Enrico Bronzi, storico componente del Trio di Parma (ensamble che ha contribuito a fondare nel ’90), di cercare, pur in una selezione per violoncello solo, di brani di epoche e stili diversi, di proporre momenti di dialogo con il nostro tempo di non agevole fruibilità ma cui donare una potenza di evocazione incredibile.

E’ il caso, ad esempio, del momento forse più alto del concerto, l’esecuzione del Kottos per violoncello solo di Iannis Xenakis. Il pezzo è una esecuzione di notevolissima complessità anche tecnica, tanto che il maestro ha scelto di adoperare un archetto diverso da quello ottocentesco che solitamente usa, nel timore che il gioco di pressioni sulle corde potesse andare oltre la tensione che l’oggetto avrebbe potuto reggere. Cercare in rete qualche esecuzione del brano può aiutare a comprendere di che tipo di proposta si tratti, ma l’ardimento della rilettura di Bronzi è nel tentativo di cercare, per questa partitura un coraggio di tonalità e sfumature nuove perfino nel passaggi più ostici, cercando quasi di dire come anche quello che sembra rumore, è in realtà un composto di sonorità messe insieme, la cui maggiore o minore fruibilità all’ascolto è anche e soprattutto nell’intenzione di chi emette il messaggio sonoro e di chi lo riceve.

Questa riflessione di caratura artistica più che tecnica, permea e in parte segna l’edizione di quest’anno del festival, che proprio sul dialogo fra emittenti e riceventi prova a vertere la propria indagine.

Significativa, da questo punto di vista, la maratona del secondo giorno del Festival, un allestimento maratona di Microcosmi, capolavoro letterario di Claudio Magris, trasformato in uno spettacolo itinerante da Giorgio Pressburger, una delle firme che hanno segnato indelebilmente la storia di Mittelfest, storico e anziano regista di questa terra.

Lo spettacolo, itinerante per le vie del bellissimo borgo friulano, è stato una sorta di dolce e dolorosa via crucis in nove tappe, disseminate nello straordinario palcoscenico di Cividale del Friuli, agitandolo di storie e narrazioni con cui lo scrittore, nostro contemporaneo e presente all’allestimento, ha raccontato la Storia della sua terra attraverso la descrizione di piccoli episodi, marginali vicende di personaggi borderline, frequentatori di bar e locande. I microcosmi culturali che compongono questo straordinario mosaico della civiltà europea sono infatti l’essenza stessa del festival, che in tema di arti e regionalità, rimane senza dubbio uno degli esperimenti più intriganti e a suo modo complesso, volgendo la propria attenzione ad un’area vastissima cui questa parte d’Italia da sempre guarda, per prossimità, traffici, origini e condivisioni linguistiche, sociali, gastronomiche e diremmo quasi antropologiche.

Il programma del festival, d’altronde, pur nell’avvicendarsi delle direzioni artistiche ha sempre guardato ad un ambiente vocazionale centroeuropeo cercando dialogo, ponti, aperture. Come quella alla Croazia, che all’entrare nell’Unione Europea, si vede di fatto dedicare l’edizione del festival, con l’apertura riservata al regista Pandur con Michelangelo, una coproduzione del Teatro di Zagabria e del Giovanni da Udine. Lo spettacolo, che ha aperto il festival Venerdì 12, cerca in forma epica, e per evocazione di grandiose immagini apocalittiche, di raccontare la dicotomia titanica fra l’artista, il suo tempo, l’arte, la Chiesa. Un tessuto drammaturgico costruito appositamente sullo spettacolo non è tuttavia sufficiente a farne decollare l’impianto grandioso, che rimane staticamente bloccato su alcune idee, senza riuscire a dare un’omogeneità complessiva e uno slancio possente ad un lavoro dalle pretese ambiziose.

Ma quella che forse, ancor più dei grandi nomi che comunque il festival ha ospitato da Adriana Asti, con i due atti unici di Jean Cocteau (La voce umana e Il bell’indifferente) e al nuovo lavoro di Lina Wertmüller (Un’allegra fin de siècle), è stata proprio la volontà della direzione artistica del festival è stata la volontà di mettere a fuoco il proprio obiettivo leggendo le complessità in maniera esplicita. Non a caso a suggellarlo, nella giornata conclusiva del festival, è stato l’incontro avente come titolo, certamente senza mezze misure, “Paradosso Europa”, un appuntamento realizzato in collaborazione con il festival Vicino/Lontano, e con l’antropologo e storico delle religioni, docente all’Università di Udine, Nicola Gasbarro a parlare di identità europea, intervistato dal direttore dell’inserto culturale del Sole 24ore Armando Massarenti.

Chiudiamo menzionando, all’interno dell’offerta della rassegna, gli eventi nati dalla rinnovata e ancor più forte collaborazione con il DAMS dell’Università di Udine nel percorso musical cinematografico “Ritorno al Futuro”, e con il Conservatorio “J. Tomadini” di Udine e Tartini di Trieste, che nel percorso Innovatori Conservatori ha visto impegnati giovani allievi ed alcuni docenti in oltre una decina di esibizioni in alcuni dei luoghi più suggestivi di Cividale.

Fra archi e absidi, su scalinate scoscese e pietre millenarie, gli appuntamenti gratuiti con la musica hanno visto una partecipazione di pubblico eccezionale. C’è grande fame di slanci, oltre i paradossi. C’è ansia di trovare chi sappia indicare i suoni nella complessità dei rumori.

Mondocane#15 – Il Rosso e il Nero

allarmeMARAT | Il Gianni ce l’aveva nello sguardo la bandiera rossa. Quando entravi nel suo seggio, ti fissava come una madre che ci crede ancora. “Fa la cosa giusta, Marat!”, mi diceva perso in quel maglione troppo grande e troppe volte rammendato. E gli occhi suoi me li sentivo sulle spalle. Quando sbagliarono i compensi per gli scrutatori, si fece festa. Per un paio d’ore. Lo Stato aveva pagato il doppio e se ne accorse tardi. Il Gianni era corso alla Coop a spendere quello che aveva guadagnato. A noi toccò soltanto metter le gambe sotto il tavolo. Non diede mai indietro quei soldi perché non aveva una moneta in tasca. Ma ancora mi commuove il pensiero che pur di non mentire, s’era andato a spendere tutto. Questione di stile. Quello che non ti fa chiedere una sigaretta, anche se arrotoli la lanella dei pantaloni. Che devi aspettare che l’orgoglio si distragga per fargli scivolare un mezzo pacchetto nella giacca. E poi… E poi noi tutti in piazza col pugno chiuso, quando se ne è andato.

Chissà che avrebbe detto il Gianni del concerto dei nazisti qui a Milano. La Milano Medaglia d’Oro della Resistenza. Qualche tempo fa. Che io mi ricordavo ci fosse tipo un reato di apologia di fascismo. Che certe lezioni si imparano. O forse no. Vista poi la città tappezzata di commossi ricordi dell’Almirante. E di nazivolantini neanche fossero pubblicità di un nuovo kebab. Quando sono andato da Paolo Conte a Gardone, mentre cantava “libertà e perline colorate, ecco quello che io ti darò”, ero disturbato dal pensiero di quanto il bar in piazza fosse grasso di paccottaglia col mascellone. Lì, dove ero appena andato a bermi una cedrata. E gli accendini dal tabaccaio dove non vado più, e il calendario alle spalle del pizzaiolo… C’è un’emergenza neofascista. E c’è un’emergenza da codardia culturale. Nessuno dice niente. Siamo solo bravi a indignarci nei salotti e sui social network, incitare alla resistenza di Istanbul, sconvolgerci per la cronaca, sentirci rivoluzionari postando una canzone. Cose così, militanti d’accatto. E poi… E poi ci disegnano una svastica sotto casa e ci passiamo via, veloci veloci. Chissà che avrebbe detto il Gianni. Sicuramente qualcosa di più della gran parte della gente del mio teatro. Tutti rossi. Ma solo sul palco.