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martedì, Gennaio 14, 2025
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Mondocane#13 – Elogio della (dis)armonia teatrale

imagesMARAT | Mi domando spesso perché continuo col teatro. Credo se lo domandino in tanti. Ma non riesco mai a darmi risposta. Una almeno che resista al tempo. Ai saliscendi della mia sensibilità ciclotimica. Di solito faccio semplicemente passare la giornata. Altre volte ho bisogno di qualcosa di bello per crederci di nuovo. Uno spettacolo, un progetto, perfino una semplice conversazione, un incontro. E i festival estivi in questo aiutano. Ma ci sono periodi in cui il pensiero picchia duro, fastidioso come la maleducazione. Giorni in cui ti svegli con Tricky, ce l’hai proprio nel sangue Tricky, ti accompagna a casa, ti rimbocca le lenzuola. Così roco. Da bronchite mal curata. I drink till I’m drunk, and I smoke till I’m senseless. In quei giorni penso con una certa convinzione cose del tipo: c’è troppo poco talento; vedo decine di spettacoli orribili; il meccanismo è distorto, elitario, si autoalimenta, come una riserva indiana; i vertici sono inadeguati, la base fa la fame, in mezzo è mediocrità; gli stipendi sono da ridere, si fa leva su passioni e fragilità; vige il piccolo cabotaggio, il basso profilo; un film o una canzone di solito mi emozionano dieci volte tanto; la critica non ha più alcun ruolo, si bea di una condizione masturbatoria e salottiera, del superbo giochino del giudizio. Cose così. Ma solo quando sono di cattivo umore… Ultimamente lo sono meno. Alzo un po’ di più la tapparella, non litigo in macchina. E quando mi domando perché continuo col teatro, penso a un saggio di Gillo Dorfles “Meglio un pianoforte scordato?”, in cui prosegue la riflessione già in “Elogio della disarmonia”. Ovvero, di fronte all’arte, l’importanza della tensione fra il fattore equilibrante e quello disequilibrante. Il fascino dell’imperfezione. Una sensibilità. Che diviene, a seconda dei casi, semplice soddisfazione estetica, passaggio necessario per godere del successivo ritorno alla simmetria, fuga da una perfezione che invece di rassicurare sgomenta, come il sublime romantico. Ecco, subisco il fascino dell’imperfezione. Che mi fa preferire la Madonna di Munch, la Pietà Rondanini, l’urlo di Layne Staley, la trattoria sotto casa. Il teatro. La cui distanza fra proclami e quotidianità fa quasi tenerezza. E che comunque vada, osservi con gli occhi dell’innamorato. Che innamorato rimane anche di fronte ai difetti. E scambia occhiate complici con chi ancora ne sa intravedere la (grande) bellezza. Come noi.

 

IP, l’identità precaria di Ilinx

ipVINCENZO SARDELLI | Ondeggiante abbrivio di musica d’archi, I.P. (Identità precaria), anteprima della compagnia Ilinx che abbiamo visto nella panoramica cornice di Campsirago nell’ambito della rassegna Giardino delle Esperidi, è uno spettacolo che oscilla tra assurdo e teatro di figure (regia di Nicolas Ceruti, drammaturgia di Amanda Spernicelli, in scena Mariarosa Criniti, Giulia Lombezzi e Luca Marchiori).
In maniera evocativa, per flash irrelati, I.P. tratteggia il fenomeno sempre più diffuso (dilagante in Giappone) degli hikikomori: ragazzi che si chiudono nelle loro stanze, smettono di andare a scuola e di avere vita sociale. Legati al mondo reale solo attraverso il computer e internet, questi ragazzi si isolano persino dalle loro famiglie, confondono il giorno con la notte, non mangiano, non si lavano. Si chiudono in un angosciante silenzio. A volte deperiscono, fino a morire.
Lo spettacolo. Una gabbia separa gli spettatori da una scena grigia, laconica, sullo sfondo della quale campeggia un cumulo di giornali. Nel vuoto imperante stridono gli abiti fucsia e viola delle attrici: un tocco di colore sgargiante e al tempo stesso tetro, che non riscatta entità senza identità.
Tutto è sospeso, provvisorio. I personaggi corrono a vuoto. Il “dove e quando” non diventa “qui e adesso”. La “conoscenza”, richiamata dall’uso dei giornali, non è finestra sul mondo e sulla vita, ma muro che divide. L’artificiale purgatorio telematico dentro cui hikikomori di tutte le solfe si tuffano per la loro inettitudine a comunicare con esseri in carne e ossa, diventa vortice. L’io vi annega. Si disperde.
Un’ironia sottile e disperata tenta di animare questa pièce, dalla recitazione senza pretese, che condanna l’autistica società in ripiegamento su se stessa.
L’intimità svapora nelle figure senza nerbo che riempiono la scena. Tutti anelano a fuggire, forse alla ricerca del vero sé. Alcune scelte drammaturgiche e registiche sono spiazzanti. Alla piatta staticità (psicologica?) si alternino momenti di corsa frenetica. Qual è lo scopo? Rivelare che siamo un cumulo di contraddizioni? Animali in gabbia? Non è chiaro al pubblico, forse neppure a chi ha realizzato lo spettacolo.
Note techno, full-jazz e rock riproducono un’atmosfera straniante che interferisce con le parole. Le parole stesse volano via come i fogli di giornale spinti dal vento che, progressivamente, deposti dagli attori sulle grate della gabbia, rendono impenetrabile allo sguardo e al respiro il muro che li racchiude.
Tecnica naif, questo spettacolo utilizza qualche espediente scenico e registico già visto per evocare la dissociazione di una società che non trova soluzioni e precipita. Rimane il vuoto desolante, che ricade sullo spettatore. Senza appello. Quell’appello che deve meritarsi la compagnia di Inzago (Mi) per definire meglio drammaturgia, regia, stile e intenti comunicativi. Altrimenti i primi ad essere spiazzati sono proprio gli attori.
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“This is an american drama in Italy!”: i Deerhunter a Milano

bradford-cox-2_V1MANFRED ZEIT | “This is an american drama in Italy!”. Così dichiara un irritato e irritante (per molti degli astanti, ma non per chi scrive) Bradford Cox a circa metà esibizione dei suoi Deerhunter, tra le zanzare e il pubblico inerte del Magnolia. Basterebbe questa frase a spiegare che cosa è accaduto, ma entriamo nei dettagli!

Bradford Cox, assieme a Lockett Pundt (amati da molti anche per i rispettivi progetti solisti Atlas Sound e Lotus Plaza), è la mente musicale dei Deerhunter. Ma la mente poetica ed emozionale è certamente l’allampanato freak (affetto da Sindrome di Marfan fin dalla nascita) di Altanta: Bradford Cox ragazzo difficile e musicista prolifico oltreché dal tocco originale e unico. Arrogante e dispotico, con voce candida e poi improvvisamente aspra, appassionato di escapismo!

Un personaggio naif e trasversale che certamente incarna con esattezza l’essenza del musicista indie contemporaneo. Però qui non si tratta di pose, qui tutto è fottutamente reale e sofferto: Bradford è realmente malato, Bradford è un reale provocatore, disturba e afferma la sua diversità con grande convinzione e con il supporto di un immaginario sonoro e poetico (oltreché estetico, ma su questo torneremo) di grande impatto e di grande autenticità. Bradford Cox è una creatura dell’America freak e sognante, marginale e vitale, reale e artificiosa, potrebbe ricordare lo spaventapasseri o l’omino di latta del meraviglioso mondo di Oz. L’immaginario dei Deerhunter si colloca in quella zona dell’indie americano che va dai REM a Flaming Lips, dai Velvet Underground agli Animal Collective.

Sebbene molti “moralisti” rock’n’roll un po’ se la stiano prendendo, io non mi stupisco che Bradford Cox sia antipatico e indolente perché l’acustica del Magnolia si rivela inadeguata e, nonostante ripetute richieste da parte dei musicisti, i fonici del locale non siano in grado di migliorarla. Non mi stupisce che Bradford sia dispotico con il resto della band, ne’ che si conceda variazioni sui brani e lunghe digressioni verbali dove, prima prova a dialogare ironicamente con il pubblico che non comprende il suo inglese americano, restando bolso e inerte, poi comincia a insultare il così detto “malcostume degli italiani”, il provincialismo, Berlusconi e così via. Intona anche una preghiera per Little Tony e si chiede come questo possa essere il paese che ha prodotto Pasolini. Ma non è mica la prima volta che musicisti stranieri si irritano e si scagliano contro il clima mefitico e sciatto che si respira dalle nostre parti! Che qualcuno dell’organizzazione si lamenti di quanto è stato irritante, cattivo e indisciplinato un artista rock, lo trovo quantomeno patetico: se organizzi concerti rock non ti aspetterai di ricevere sempre dei simpatici e composti gruppetti di boy scout!?

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I Deerhunter pare abbiano passato il pomeriggio a decorare sassi, questi simpatici oggetti sostituiranno il merchandising assente e saranno offerti gratuitamente al pubblico dalla band.

Quindi tutto diventa psicodramma e farsa. I brani del nuovo stupendo album “Monomania” (titolo assolutamente puntuale e preciso nel descrivere il contenuto dell’album), ma anche quelli pescati dai dischi precedenti, sono dal vivo molto più rumorosi e affollati di suono: una melassa sporca e seducente, assordante e trascinante. Tutto è romanticamente confuso e piangente. Bradford provoca e sbeffeggia il pubblico tra coltri di chitarre sovrapposte e sovraesposte, mentre la batteria di Moses Archuleta riorganizza il caos scandendo ritmicamente questa matassa di suono notturno, indolente e retrò. Bradford indossa una parrucca nera con enorme ciuffone da New York Wavers che richiama alla mente il CBGB’s di fine ’70, ed è un perfetto costume di scena: per buona parte del concerto sembrano essere i suoi veri capelli a coprirgli metà del volto e gli occhi. Poi quando qualcuno nelle prime file, durante un momento particolarmente noise del concerto, incita Bradford a buttarsi nel pubblico come un vero punk rocker dei Seventies, lui si toglie improvvisamente la parrucca ed è straniamento puro: “guardatemi, spennacchiato e deforme, io sono un freak, una creatura eccezionale. Non mi butterò tra le vostre braccia!”, dopodiché indossa nuovamente la parrucca svelata come fosse una protezione. Un’arma.

Il ritmo delle città: John Taylor e il valore della dissolvenza

ritmocitta_taylorRENZO FRANCABANDERA | E’ singolare che in una città ci sia un grande musicista che dedica un concerto interpretando i brani di un altro grande musicista, che quella stessa sera suona in un’altra città a pochi km di distanza. Se poi sono due musicisti inglesi settantenni in Italia, la cosa ha un che di singolare.

John Taylor mancava da dieci anni da Milano. Paul McCartney da molti meno in Italia. L’ultimo tour è del 2011. Il primo ha deciso di presentare un progetto di studi e interpretazioni di brani del secondo, debuttando nel capoluogo lombardo, all’interno della notevolissima rassegna di musica jazz Il ritmo delle città la stessa sera del concerto dell’ex Beatles a Verona.

In realtà, come spesso accade a teatro o nelle arti, l’ispirazione è un pretesto. Questo progetto dedicato alle canzoni scritte da McCartney era un delicato pretesto per continuare il dialogo artistico con Diana Torto, con cui Taylor suona regolarmente in duo sia in Italia che all’estero dal 2005. Taylor ha una grande attenzione per le voci del jazz italiane. Era già uscito nel 2008 Triangoli, un album con la Torto accompagnata dal pianista e Anders Jormin. Ma è di sedici anni fa Verso, il bel lavoro con la voce di Maria Pia De Vito, ripreso cinque anni dopo da Nel Respiro, sempre con la stessa interprete.

In questo caso la formazione si allarga ad un quartetto di matrice nord europea in cui segnaliamo la straordinaria verve di Martin France, che per tutta la sera con la sua batteria fornisce un contrappunto ritmico straordinario alle arrampicate vocali della cantante italiana e alle sue improvvisazioni.

Di Diana Torto inutile raccontare del percorso di anni, tutto fuori dalle vie facili e commerciali, con quella voce capace di escursioni timbriche, gutturali, di animalesca poesia che riescono a duettare in sincrono con uno strumento a fiato dando l’idea di un principio meccanico di produzione sonora, e a distanza di qualche battuta a scolpire l’arco delle tonalità che nessuno strumento può produrre, se non la voce umana. In lei si respira quella perfetta intonazione nasale dell’emissione vocale, utile al riverbero interiore che non è più solo armonico ma finisce poi per diventare concettuale. Lo diventa ancor di più quando sfuggendo alle regole della partitura è libera di variare e improvvisare con lirica leggerezza.

E Taylor e McCartney? In realtà la grandezza di Taylor è quella di riuscire quasi a fare un passo indietro, una caratteristica tipica dei leader, che mettono al servizio di un progetto e dell’altrui talento la capacità di un’eclissi parziale, in nome del collettivo, che è così libero di emergere quanto le individualità che lo compongono. Il progetto McCartney in fondo è nato da pochissimo e forse è più che altro un pretesto che se su alcuni brani ha già trovato la misura di un’originale reinterpretazione dei classici dell’ex Beatles, su altri rimane più schiacciato sulla matrice originaria. Ecco che bene, nel mezzo del concerto, vengono a spezzare ritmo e assonanze i brani scritti dalla cantante e dal maestro che più libertà d’esecuzione inducono nella scaletta. Così anche McCartney si eclissa, e che sia a Verona poco importa, mentre noi ce la godiamo aell’Orto Botanico di Cascina Rosa a Città Studi, in uno di quegli angoli inusuali della città in cui questa rassegna negli anni è riuscita a portarci.

Il ritmo delle città durerà per tutto il mese di luglio a Milano e in alcune località vicine Arese, Legnano e Magenta. Proprio il 3 ad Arese, sarà in concerto Gianluca Petrella, giovane talento di prima grandezza a livello internazionale del trombone.

Ma gli appuntamenti sono tutti ghiottissimi: dallo Steve Swallow Quintet, con la magica Carla Bley (il 15 luglio al Castello Sforzesco), al norvegese Jazz Mob e al francese Rémi Panossian Trio (il 25 luglio al Castello Sforzesco), per non parlare di Chick Corea, il 22 luglio sempre all’Orto Botanico di Cascina Rosa. Anche Corea, come Taylor, sarà protagonista nel corso della giornata del concerto di un seminario organizzato dai Civici Corsi di Jazz della Fondazione Milano presso l’Auditorium Lattuada.

Biologia del racconto: intervista a Spregelburd

13_7_1_spregelburd_1ANDREA CIOMMIENTO | Rafael Spregelburd torna in Italia in occasione di “Spam”, l’opera che ha visto come protagonista l’attore Lorenzo Gleijeses al Napoli Teatro Festival e alle Colline Torinesi 2013, una produzione caratterizzata al debutto da divergenti critiche sulla buona riuscita dell’allestimento (una versione dello stesso lavoro è prevista anche oltreoceano, questa volta con Spregelburd attore al Colón di Buenos Aires in ottobre). Un nuovo passo italiano dell’autore argentino a seguito della conduzione in qualità di maestro dell’École des Maîtres 2012, il progetto itinerante d’alta formazione europea dedicato alla “conversione graduale degli attori in pensatori dell’impreciso”, più complessi di ogni personaggio da portare in scena.

Abbiamo seguito la prima fase dell’École nella sua tappa italiana antecedente al tour europeo. Quali sono state le evoluzioni progettuali?
 Nel lavoro svolto la condizione era quella di poter parlare inglese nonostante le origini di ognuno: gli attori francesi non parlavano inglese, gli attori di origine belga e italiana non sapevano bene le altre lingue e i portoghesi, invece, le parlavano tutte. Un po’ come gli argentini. La sensazione è sempre quella di stare al limite del sistema per integrarsi in esso così apprendendo le lingue delle altre culture. Mi sono chiesto come costruire un racconto e perché costruirlo in inglese, la lingua del grande impero, considerando il fatto che lo spettacolo mai si sarebbe mostrato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, paesi in cui il teatro straniero poco interessa. Lo spettacolo creato insieme agli attori dell’École era una specie di telenovela, una soap opera ai suoi ultimi capitoli in cui gli attori erano disperati perché si erano accorti che non avrebbero più lavorato dal momento che la soap stava per finire. Da qui l’intero sviluppo. Era importante comprendere cosa facessero gli attori di quattro distinti paesi europei con un regista argentino alla ricerca di un senso condiviso.



Uno sviluppo integrato dalle rielaborazioni sulla “teoria del caos”? 
Sì, una ricerca per la costruzione di una narrazione caotica, complessa e autosimilare. Penso questo sulla biologia del racconto: quando un racconto è vivo genera temi biologici che descrivono bene la teoria del caos, al contrario di quando un racconto è morto con la conseguente segnalazione dell’esteriore ovvero l’opinare sulla realtà invece di costruirsi come oggetto reale in scena.

In queste settimane ha debuttato a Napoli e a Torino il tuo nuovo spettacolo “Spam”, una composizione drammaturgica tra musica e teatro…
 È un’opera parlata (Sprechoper). Un contesto musicale non narrativo: un genere che m’interessa molto. Non è l’opera lirica che mi sembra morta nel suo classicismo. Non m’interessa tanto quello ma la relazione tra musica e teatro: c’è un attore e un musicista. L’attore a volte è un personaggio, a volte racconta e fa altri personaggi. Poi ci sono alcuni video, falsi documentari e materiali di spam. Tutta l’’opera è immondizia virtuale, frammenti di realtà quotidiana pop. È un’opera apocalittica, triste e ridicola. Molto divertente. C’è un professore che inizialmente si nega come relatore di tesi a un’alunna. Non si sa il perché all’inizio, soltanto poi lo scopriremo. Nel mondo virtuale possiamo osservare come lo spam sia produzione di cose non necessarie. Vediamo molto chiaramente come la produzione d’immondizia occupi e soffochi la produzione di alimenti, di cultura, di vita, di spazi ecologici più ragionevoli.

Anche in quest’ultimo lavoro affronti la messa in crisi del sistema o quantomeno la percezione che abbiamo della messa in crisi del sistema…
 Questo è il nostro tempo: stiamo vivendo la crisi del sistema bancario. Sembra la crisi di tutti i paesi con una cultura che sta andando a picco perché abbiamo deciso di intitolare questo periodo “crisi”. Un prodotto di mala gestione e di speculazione finanziaria enorme. Quando gli artisti vogliono parlare della crisi e la rappresentano, pensano di denunciarla ma di fatto diventano complici della costituzione della crisi stessa come qualcosa di vero. In realtà è il contrario: serve concentrarsi sulla voce dei giovani che sono nati nel sistema di crisi e in realtà hanno diritto a vivere in un mondo dove percepire le possibilità di un progetto futuro. Nel nostro caso specifico, anche la situazione dei giovani italiani che vogliono fare teatro mi sembra molto difficile. La difficoltà sta nel fatto di riuscire a gestire spazi di produzione teatrale autonomi dal momento che tutto viene già fissato dalla generazione precedente.

È soltanto un fatto di autonomia produttiva o anche d’identità?
 Quando tutto si taglia gli unici che hanno accesso sono quelli che già sono in cima con un’identità forte che riflette e ripete solamente se stessa, generando così un fenomeno teatrale che si distanzia dalla novità e dall’originalità. L’originalità non sembra più essere un tema dell’arte contemporanea in Italia. L’originalità in altri momenti della storia dell’arte è stata sopravvalutata. Per apparire come artista dovevi fare qualcosa di molto differente dagli altri, anche se poi il lavoro di artista è sempre stato per tutti un lavoro di ricerca e di rischio. Quando il sistema va in crisi il denaro viene dato ai pochi che non rischiano mai e che solamente ripetono ciò che esiste come modello. I giovani non hanno speranza così perché dovranno formarsi al gusto di un sistema a cui non appartengono.

Ci sono convergenze tra Nuovo e Vecchio Continente?
 In Argentina, quando mi formavo, c’erano i teatri ufficiali che producevano testi classici con attori giovani dal gusto tradizionale senza la necessità di nuovi creatori, come qui da voi. L’unica differenza è che, non avendo sussidi di nessun tipo a Buenos Aires, ci sono nuovi creatori che generano i loro spazi. Dicono quello che vogliono dire così il pubblico li conosce, li riconosce e li ama molto. Tutto è più facile quando non esiste una dipendenza economica.

Nello specifico italiano, l’esperienza del Teatro Valle potrebbe rappresentare una possibilità di scardinamento delle porte regali del sistema?
 Il Valle è un’esperienza fantastica. Il rischio è che si trasformi in un simbolo e non in un motore di produzione. È fantastico perché mostra un’eccezione alla regola ma le regole continuano a esistere. Il denaro continua a essere in mano alle grandi istituzioni statali. Si possono fare le stesse cose ma è solo un’eccezione. A Buenos Aires la regola è invertita: c’è teatro in qualsiasi luogo si possa fare teatro e il pubblico lo guarda come qualcosa di divertente, intellettuale e crescente. Non un’eccezione.

Il cuore della creazione può pulsare portando al centro il fatto artistico e non solo la produzione economica… 
Il motore è far teatro, produrre teatro. Il concetto di produzione economica non è priorità da noi. Tutto quel che costa molto denaro è quasi sempre disprezzato a Buenos Aires. In Italia la tradizione produttiva porta ad avere spettacoli con una struttura scenografica e video carissima e importante. A Buenos Aires preferisco concentrarmi sulla creazione artistica ovvero il testo, l’interpretazione e la tecnologia narrativa. L’unica vera tecnologia è solo una: la capacità dell’attore di creare racconto.

Vivere al buio: gli homeless di Roma si raccontano ai giovani attori dell’Accademia

I GIORNI DEL BUIO di gabriele lavia - foto di tommaso le pera .14LAURA NOVELLI | Mentre gli allievi attori del primo e del secondo anno dell’Accademia “Silvio D’Amico” sbarcano a Spoleto per partecipare ad una serie di eventi festivalieri molto interessanti (l’allestimento del testo “Lungs” di Duncan Macmillan diretto da Massimiliano Farau, il progetto “” che fino al 13 luglio li metterà in contatto con colleghi e registi internazionali e l’happening “Madness” condotto da Lorenzo Salveti), i neodiplomati del terzo anno hanno concluso il loro percorso formativo con un “saggio” finale andato in scena al teatro Argentina qualche sera fa.

Mi sono spesso chiesta cosa si aspettino dei giovani attori freschi di studi dallo spettacolo, per così dire, di “maturità”, e cosa soprattutto tesaurizzino, in termini di crescita artistica e personale, grazie ad un’esperienza che il più delle volte non li spinge oltre la soglia di quanto già precedentemente sperimentato. Ma se in passato, pur riconoscendo il valore di certe operazioni sceniche, le risposte a queste domande non sempre sono riuscita a trovarle, stavolta le cose stanno molto diversamente. Il saggio dell’Accademia, su regia di Gabriele Lavia, mi ha sorpreso. E sono convinta che ciascuno dei diciannove interpreti coinvolti in questo “I giorni del buio” abbia avuto modo di capire qualcosa di più del teatro e di se stessi. Lavia (pure drammaturgo) li ha infatti chiamati in gioco anche come co-autori, come reporter, come cronisti del reale, mentre Enzo Cosimi, curatore delle coreografie, li ha obbligati ad un uso del corpo fortemente consapevole e inconsueto nella pedagogia attorica di tradizione italiana (quella, per intenderci, che discende dall’Ottocento e che dimentica la maestria fisica esercitata dai nostri comici del Cinque e Seicento).

Il tentativo più audace del lavoro è quello di raccontare la condizione dei senzatetto romani affidandosi a testimonianze dirette raccolte dagli attori stessi in alcuni quartieri della capitale: Pina trascina la sua vita nei paraggi di Porta Metronia, Susy a piazza di Spagna, Karim alla stazione Termini, Mira davanti al teatro Argentina, Tiziana a via Catania, Vincenzo a piazza Navona. E, insieme con loro, altri barboni induriti dal dolore che compongono una geografia di lacerazioni, mancanze, nostalgie attraversate da assurde fatalità e altrettanto assurde contraddizioni. Prima fra tutte, quella che separa miseria e società dei consumi, estremo bisogno ed estremo spreco. Basti vedere la prima emblematica immagine: aggrovigliati su un grande carro/pageant formato da numerosi carrelli di supermercato incastrati tra loro, gli attori ballerini arrivano in scena come fossero anime dannate di un girone dantesco. Si notano i corpi quasi nudi, palpitanti e in disequilibrio, la pelle grigia e incipriata, la musica ad alto volume, il caparbio tentativo di restare attaccati a quella montagna di ferro che li fa sembrare animali in gabbia. In sottofondo, un rumore assordante di metropolitana con i fari sparati in faccia al pubblico. Poi, da questa massa informe e sofferente, si distaccano le prime esistenze: basta un cappotto infilato sul momento, un cappellaccio largo, un ombrello e l’anima si riempie di un corpo, la voce dà vita al racconto, ad una vicenda ne segue un’altra. Per l’intera durata, lo spettacolo segue questo andamento corale e insieme monologante, senza tuttavia stancare né scadere nella didascalia. Anzi, fa davvero un bell’effetto vedere questi giovani attori muoversi con tanta armonia e omogeneità sulle coreografie non sempre semplici di Cosimi, esprimendo con il corpo ciò che le parole non possono riferire e, al contempo, dando ad ogni singola storia il suo valore, la sua tragica dignità. Ne derivano diciannove “giorni di buio”, appunto, che restituiscono in modo incisivo – anche grazie alla bella regia di Lavia e all’ottima prova recitativa dell’intero cast – l’idea di una notte intesa, paradossalmente, come unica possibilità di vedersi, di sentirsi esistere. “Se nessuno ti vuole bene – ripetono più volte – non esisti. Sei un fantasma”. C’è chi ha lasciato la patria in cerca di fortuna, chi è uscito di galera, chi non ha trovato scampo ad un errore, chi ha scelto la strada per rivolta. Donne e uomini disperati. Eppure pieni di umanità. Di luce.

Mondocane#12 – Il compleanno di Gianfranco Zola (o dell'espulsione)

vecchio teatroMARAT | Io ci ho pensato subito. A Gianfranco Zola. Che se si parla di espulsione, si corre subito lì, al diciottesimo della ripresa di Italia Nigeria, ottavi di finale ai Mondiali del 1994. Entra Zola. È il suo compleanno. L’ltalia è sotto di un gol e lui si è messo in testa di salvare la patria. Il progetto dura dodici minuti. Fino a quando riconquista in maniera regolare un pallone, il nigeriano fa una sceneggiata da Premio Ubu, l’arbitro ci casca e lo espelle. Zola s’inginocchia a braccia conserte. Come un bambino. Piange, si ribella. Che la vita è ingiusta, figurarsi il calcio. Ci penserà Baggio all’ultimo minuto, con un tiretto che neanche Rivera nel 1970. Roba da infarto. Come l’embolo partito a Zidane. Che secondo me ha fatto benissimo. Che quando ti toccano la sorella non c’è Coppa del Mondo che tenga. E una testata a Materazzi dev’essere un piacere sottile. Questo per dire come ci siano ambiti nella società in cui qualcuno, saltuariamente, è autorizzato a darti un calcio in culo. Con motivazioni valide o pretestuose a seconda dei casi. Ma sempre calcio in culo rimane. Succede nelle aziende, nelle industrie, nei giornali. Ogni tanto succede in politica. Succede più spesso ai poveracci, ma capita anche a chi cade sul morbido. Succede in un gruppo se ti fai troppo (Syd Barrett), in una scuola se fai rissa, in un centro sociale se arrivano i celerini. Succede perfino a teatro. Ma devi essere categoria non protetta, tipo organizzatore, ufficio stampa, tecnico, attore. Succede spesso. Troppo. Eppure se vuoi stare sereno, è proprio a teatro che devi andare. Solo che devi fare la scuola per diventare direttore artistico. Io non la conosco, ma esiste. E lì non succede mai. Mondo Xanax. Nessuno ti darà mai un calcio in culo. Tranquillo. Che tu sia alla direzione da decenni non frega niente a nessuno. Figurarsi poi star lì a spulciare come lavori, chissene. Nel malaugurato caso ti tolgano il palcoscenico, due lacrime e uno spazietto te lo si trova in un amen. Si spostano due pedine perché nulla cambi. E se proprio proprio ormai hai superato la novantina ma senti ancora quel friccicorio tardo adolescenziale, un posticino da commissario straordinario di qualcosa te lo si trova. Una società di mutuo soccorso (per privilegiati), il teatro. Che grande famiglia. Non lascia mai indietro nessuno. Al limite ti arriva un’ammonizione. Ma in Italia anche quella fa curriculum.

Disegno Renzo Francabandera

Nomadi di Parole: dal libro al palcoscenico

Un Fantastico Viaggio locandinaVINCENZO SARDELLI | Evaporare dal virtuale e materializzarsi nello spazio-tempo. Uscire dalle pagine fresche, profumate di cellulosa di un libro e rinascere, carne, trucco e costumi da parata, nella realtà tangibile. Bella l’idea dei Nomadi di Parole: i personaggi di un romanzo diventano persone e riempiono di coreografie, con inventiva picaresca, la compassata, tradizionale, presentazione dei libri. Come domenica 23 giugno, allo Spazio Scatola Magica del Piccolo Teatro Strehler. Presentazione di Io che amo solo te, di Luca Bianchini. Prima domenica d’estate, temperature e pubblico su di giri. Già l’occasione era tutt’altro che formale. Il Piccolo ospitava la consueta rassegna di cinema gaylesbico Mix Milano, con tanto di costumi variopinti, coloratissimi drink e immancabile distribuzione di preservativi. Che ti veniva voglia di aprirli, gonfiarli d’acqua e gavettonare il primo che ci provava (a distribuirteli). Tanto per essere controcorrente.

Noi tutti abbiamo idea dell’uscita di un libro come qualcosa di rituale. L’autore, con il patrocinio della casa editrice, lo presenta in biblioteca, in libreria, in un club. Davanti a un pubblico di amici, familiari, appassionati. In questa o in quella città. Possibilmente con l’introduzione di un accademico o di un giornalista. Con quel codazzo di domande facete, colte, stupide, che regalano anche all’ultimo degli avventori quel minuto di celebrità. Lo Smartphone scatta.

«No, no, il dibattito no» piagnucolava Nanni Moretti. E allora giù con intermezzi musicali, slide in Powerpoint, aperitivi con tanto di brindisi. E montagne di copie da vendere. Senza scontrino ma con lo scontino. E strizzata d’occhio dell’autore. E come-ti-chiami, e che-bel-nome. E tanto di dedica personale. Stereotipata. Sennonché ti chiami Evaristo, o Genoveffa, arrossisci pure stavolta, ma almeno puoi dire che quella dedica è proprio per te. E stretta di mano e il piacere è tutto mio! E tanti saluti alla sorella. E alla prossima, anzi: al prossimo. E li ho letti tutti, ma il primo resta il più bello.

E adesso, tadà, nuova idea. Finisce la presentazione, inizia la rappresentazione. I personaggi escono dal libro e arrivano a far baldoria, gigioneggiando e maramaldeggiando. Come dopo Io che amo solo te di Luca Bianchini, appena uscito per Mondadori. Lasciamo perdere la sardonica e insulsa presentazione curata da Radio Dj, con il povero Moni Ovadia, chiamato a fare da sparring partner, che provava invano a dire qualcosa d’intelligente nella stupidità dilagante.

Il libro di Bianchini racconta un fastoso matrimonio guastato dalla tramontana celebrato a Polignano, paesino del barese noto per le candide case a strapiombo sull’Adriatico, e soprattutto perché ci è nato Domenico Modugno. Ed ecco i Nomadi di Parole, nei panni della sposa, della sorella, del testimone, del Re delle patate (che in tale contesto ci sta alla grande).
Bravi e allegri gli attori, capaci di trasformare il Piccolo in uno stralunato banchetto nuziale. Su tutti il proteiforme Simone Gerace e l’ammaliante Giulia Telli, scuola Quelli di Grock, nell’occasione accompagnati da Yuri Casagrande Conti, Suzette Pirozzi, Claudia Marsicano e Gianluigi Guarino. Fantasmagorica armata Brancaleone.

Normalmente a curare la parte “intellettuale” della performance sono Christian Mascheroni, scrittore e autore televisivo, volto noto del programma Ti racconto un libro in onda su Iris (digitale terrestre) e Alice Cimini, da più di dieci anni dietro le quinte del mondo della comunicazione e dell’organizzazione di eventi culturali. Sapranno far meglio degli irriverenti conduttori di Radio Dj, capaci di scavalcare a destra mamma Tv con gli scontatissimi cenni alle sputtanate nozze di Valeria Marini? C’è da giurarci. Non tanto perché fare peggio è pressoché impossibile. Ma perché amici di cui ci fidiamo assicurano che sono proprio bravi. Gli crediamo sulla parola. Fino a prova contraria.

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(Info: Facebook:https://www.facebook.com/NOMADIdiPAROLE?fref=ts)

Sempre Nomadi…
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L’amore è una cosa meravigliosa…
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Manuale di espulsione per politici dabbene

la regina e la borsettaALICE CANNONE | I politici italiani  dovrebbero imparare  l’ABC del bon ton comunicativo dalle più alte sfere balsonate. Chè se di cacciata bisogna parlare, senza dover scomodare Masaccio e Paradisi terrestri, basterebbe l’eleganza dei monarchi della perfida Albione. Suggeriamo quindi a Grillo,  in vista di una possibile monarchia teocratica a cui potrebbe ispirarsi, di rifarsi ai dettami la Regina Elisabetta II, quanto meno per  regole che riguardano gli ospiti sgraditi. Se è vero che “La banalizzazione è il prezzo della comunicazione” (Nicolás Gómez Dávila), la mancanza di eleganza è lo scotto che un politico dabbene non dovrebbe pagare mai.

Pare infatti che la canuta incoronata usi, per comunicare con il suo staff, la sua borsetta, fedele quanto pleonastico accessorio: per tradizione, una regina non riempie la sua Chanel con denaro contante, tanto meno con carte di credito o assegni, o di chiavi della macchina o passaporto (che non ha). E se le signorine dabbene hanno imparato col tempo ad usare pochette gonfie a mò di panzerotto (anche come) arma contundente, le vere regine (e naturalmente i veri leader) hanno fatto di queste protesi delle mani un vero e proprio codice cifrato per chi gli sta intorno. Infatti: se posarla sul tavolo sta ad indicare che il pranzo o la cena finiranno nel giro di pochi minuti, appoggiarla a terra è indice di una conversazione poco interessante e con quel gesto Elisabetta II chiede l’intervento della dama di compagnia, che si materializzerà al suo fianco in una manciata di secondi.

E se proprio l’idea di lasciare una borsetta accanto al microfono, quando il comizio inizia ad essere troppo noioso, può non convincere troppo sul piano dello stile, suggeriamo al Grillo nazionale di affinare comunque le sue capacità di comunicazione meta verbali. Lo  stecchino in bocca, a fine pranzo, farà pure un po’ cafone ma servirebbe, chessò, a riportare all’originario mantra dell’ “uno vale uno”. O impugnare con aria elegante ed indifferente un apriscatole quando i parlamentari, pardon i cittadini, iniziano a mostrare segni di cedimento sul rispetto dello statuto “riferito come non Statuto” (Cfr. Codice di comportamento eletti MoVimento 5 Stelle in Parlamento). Ma soprattutto a tal proposito la regola aurea, prevista dal galateo per  politici dabbene è il prezioso insegnamento di Winston Churchill: “Ho dato le mie dimissioni, ma le ho rifiutate.”

Doppio punto di vista su: La Classe di Garella al Napoli Teatro Festival

LACLASSEALESSANDRO VOLTA E ASSUNTA PETROSILLO | Degli spettacoli visti quest’anno al Napoli Teatro Festival, «La classe» − diretto da Nanni Garella e interpretato dalla compagnia Arte e Salute − è largamente il più bello; ispirato all’opera di Tadeusz Kantor «La classe morta», ne mantiene intatto lo spirito. In questo lavoro, infatti, i personaggi mettono in scena le ossessioni delle persone che sono state o che avrebbero voluto essere da vivi, e dalle quali non riescono a liberarsi: la donna che desiderava un figlio e non ha potuto averlo, quella che ha sbirciato tutta una vita dalla finestra sputando sentenze sulle vite altrui, quella che ha sopportato la nomea di donna facile, lo scienziato che si è lasciato raggirare, l’uomo di grande cultura.
Donne e uomini che non hanno avuto pace in vita ma, non essendo riusciti a risolvere i conflitti dell’esistenza, anche da morti ripropongono, in una sorta di coazione a ripetere, i gesti che li hanno identificati in vita. Tutto questo viene coagulato nello spazio di una classe, che dà impulso a un’ulteriore ossessione, più innocente e collettiva: un esame, un’interrogazione, il primo giorno affidati ad un insegnante che è assente, o a una bidella spaventosa che evoca la morte che incombe.
Gli scarni elementi di scena (vecchi banchi, uno spazzolone per pavimenti, sussidiari polverosi) e una luce tenue ma fredda amplificano il senso d’inquietudine per questa ansimante oscillazione fra passato e presente, sottolineato dalla presenza di fantocci che affiancano i protagonisti come presenze che emergono direttamente dall’infanzia, la sola età felice della vita. Una stagione in cui ancora tutte le strade erano possibili e percorribili, fino all’arrivo inaspettato di una rottura – un evento, una malattia, una necessità – che imprime un cambio di rotta all’esistenza; una drammatica cesura che introduce uno spartiacque tra un prima e un dopo non recuperabile.
Nel gioco delle parti che il teatro del Novecento continuamente ripropone, occorre domandarsi se anche gli spettatori non facciano parte della stessa classe, uniti ai protagonisti della scena in un doppio legame fatto di vita e morte, di malattia e sanità della psiche, di ripetizione ossessiva e libertà d’azione. In fondo in quel piccolo spazio del ridotto del Teatro Mercadante personaggi e spettatori erano egualmente di fronte, ognuno per quel che si è disposto a partecipare, all’assenza di significato delle proprie esistenze.
Ognuno per quel che ha inteso partecipare e comprendere: perché tra i presenti c’era anche chi ha preferito conversare per tutto lo spettacolo, chi era occupato a registrare col telefonino la bella colonna sonora, chi intento a frugare rumorosamente in una busta di carta. Quanta intollerabile maleducazione si sperimenta anche a teatro.
Allora lo spettacolo assume anche la valenza di ricordare che il “noi” e il “loro” non sono confini definitivi che fissano una differenza, ma le facce di una stessa medaglia, uno specchio spietato in cui riflettersi ed interrogarsi su come sia possibile dare senso alla vita per poter riposare in pace almeno da morti. (A. Volta)

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La classe GarellaSiamo seduti al cospetto di una classe di scolari-zombie, dal viso incipriato di cerone, dallo sguardo fisso, muti dietro i loro banchi impolverati di legno: cinque uomini e cinque donne, vestiti di nero con pantaloni troppo corti, giacche abbondanti e gonne troppo strette. Gli uomini si nascondono sotto piccole bombette, le donne sotto parrucconi grigi. Sulla sinistra dietro uno strano sedile di legno, di spalle al pubblico, immobile, en travesti una strana figura.

Gli scolari ci guardano, con gesti scattanti si alzano dai banchi per poi risedersi. Qualcuno alza un braccio, altri si contorcono e si toccano la pancia quasi come a voler chiedere il permesso per andare in bagno.
Si ritrovano tutti in piedi, escono. Al rientro quasi come in una presentazione da circo, portano con sé pupazzi di pezza, rappresentazione feticcia di un mondo ormai lontano, ma incantato, rarefatto. Si rifugiano nell’infanzia, quella perduta, cristallizzata. Con scatti fulminei ballano un valzer con i loro alter ego di pezza, ci fanno a pugni, come a voler esorcizzare un malessere subdolo, strisciante. Ci troviamo di fronte ad una specie di marionette umane intrappolate in un labirinto onirico, senza vie di uscita.

Il remake de La classe morta di Kantor è un felice esito cui Nanni Garella porta gli attori della compagnia Arte e Salute dell’Asl di Bologna, attori-pazienti che danno vita ai mostri della mente, alla loro stessa dolorosa esperienza, al loro sentirsi ‘esclusi’ in un mondo che ama catalogare e ghettizzare la società: Nicola Berti, Giorgia Bolognini, Luca Formica, Pamela Giannasi, Maria Rosa Iattoni, Iloe Mazzetti, Fabio Molinari, Mirco Nanni, Lucio Polazzi, Deborah Quintavalle, Moreno Rimondi, Roberto Risi, non devono fingere, sono se stessi, ma coscienti.
E come in un film muto riannodano le loro trame camminando all’indietro, col viso rivolto al presente, ricominciando dalla fine e per poi ritornare alla loro unica dimensione ancorata tra l’altrove e l’oblio.  Due di loro si prendono per mano e come Chaplin e la sua compagna riavvolgono la pellicola del loro film, come in una sorta di rewind, ma dalla fine.
Quella strana figura – relegata in un angolo −  si staglierà su di loro con un’enorme scopa/falce e li farà cadere uno dopo l’altro, senza alcuna pietà. Era lì con loro, nella stessa classe, ma non l’avevano riconosciuta, si mascherava sotto sembianze femminili, in un corpo mascolino, nerboruto.
Si ricompongono e si siedono tra i banchi insieme ai loro fantocci, si interrogano tra loro sulla storia di re David, Salomone e come in una cantilena ripetono parole, numeri, versi, suoni. Si ergono a professori, drizzandosi in piedi su quel sedile di legno che di volta in volta diviene scranno, latrina, sedia. Parlano, si agitano per poi crollare su se stessi e su quei banchi lividi. L’annuncio dell’assassinio dell’arciduca d’Austria a Sarajevo li desta dal sonno. Un giovane uomo con un lungo cappotto e un fucile fuori misura entra in classe e prendendo la mira spara su tutti. Una donna seduta sul banco in prima fila, a ritmo incalzante, mima nascite senza figli, con culle dondolanti, ma vuote. Si sentono ninne-nanne ululate, versi strazianti.
Qualcuno scappa, qualcuno scruta da una finestra portatile ciò che accade, altri si nascondono e alla fine restano solo i fantocci di pezza mentre quel giovane straniero sventola un’enorme bandiera nera su quei banchi ormai occupati da fantasmi di pezza.
L’urlo straziante che pare arrivare al pubblico è “Voi potete, io non posso!”, il grido disperato di chi è immobilizzato in una ‘forma’ plasmata da altri. È questo il grido di chi sa di non poter cambiare il percorso della propria esistenza e rimane imbrigliato in una ragnatela invisibile di soffocante sofferenza che porta con sè anche oltre la morte, e che gli attori restituiscono con una forza straordinaria. Rimane attualissima e non può non coinvolgere anche il pubblico la riflessione sul limitare dell’esistenza come confine labile e proiezione al di qua e al di là di questo ideale segno di ansie e impossibilità che già l’al di qua rende tangibili ed esperibili. E la domanda se si sia liberi in vita, se davvero si possa, o si riesca a potere rimane dilemma esistenziale che Kantor ancora a trent’anni di distanza propone. (A. Petrosillo)