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giovedì, Settembre 19, 2024
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il Proust di Lombardi-Tiezzi: un amore a metà

Swann iaia-forte-sandro-lombardi-e-elena-ghiaurov-foto-di-marcello-norberthVINCENZO SARDELLI |Coraggiosa la sfida della compagnia Lombardi-Tiezzi di portare in scena “Un amore di Swann”, parte essenziale del primo dei romanzi dedicati da Marcel Proust alla “Ricerca del tempo perduto”, che abbiamo visto di recente alla Sala Ratti di Legnano. Vi è rievocata la passione di Charles Swann (interpretato da Sandro Lombardi), ricco ed elegante signore di mondo, per la famosa demi-mondaine Odette de Crécy (Elena Ghiaurov) elegantemente sensuale, raffinatamente maliziosa, poi diventata sua moglie. Messo al bando dalla migliore società, Swann, timido idealista dal linguaggio forbito, frequenta il salotto di Madame Verdurin (Iaia Forte), ricchissima borghese civettuola e arguta, garrula ruffiana con pretese intellettuali.
Lo sfondo su cui si muovono i personaggi è quello dell’alta società francese d’inizio Novecento. Del testo di Proust la drammaturgia di Sandro Lombardi sottolinea la descrizione minuziosa del milieu parigino moralmente corrotto e vacuo. È un mondo decadente in via di putrefazione. Si vive con la malattia della volontà. Emerge una mediocre qualità del piacere dell’amicizia e dell’amore, tra noia e fatica, tra macchinazioni meschine e autentiche fiere delle vanità. È una società così superficiale da sfociare nel grottesco, ben reso dalla regia di Federico Tiezzi.
L’ambientazione è aristocratica, sofisticatamente mondana. Le luci, sapientemente dosate da Gianni Pollini, creano atmosfere tra l’incantato e il contemplativo. Assecondano gli sfumati psicologici da romanzo d’appendice. Tutto sulla scena (abiti sontuosi soprattutto delle due dame, portamenti, inflessioni linguistiche, riferimenti letterari e musicali) richiama uno spiccato snobismo lontano cent’anni – non a caso l’opera è del 1913 – dalla nostra sensibilità. La scena si presenta come salotto, con una decina di poltrone rosse stile medievale e sedie Luigi Filippo, volteggiando tra le quali i personaggi creano un certo movimento, che consente al dramma di restare perennemente sopra la linea di galleggiamento, senza affondare ma senza neppure mai spiccare il volo.
Le immagini proiettate sullo sfondo, tripudio di fuoco, rose rosse e orchidee bianche, scacchiere stilizzate e rami agitati dal vento, rimandano a una simbologia della passione amorosa che era trita già all’epoca di Proust, ampiamente superata in quell’Italia che dirottava verso il Futurismo.
Difficile per lo spettatore trasfigurarsi in qualcuno dei personaggi in scena, in questa cattedrale gotica grondante zone d’ombra e un moltiplicarsi di corpi accessori e laterali.
Più interessante l’analisi del sentimento amoroso che emerge specie nel finale della pièce. In Swann l’amore è preludio di sospetto e disincanto, poi contemplazione, infine malattia, ossessione, rovina. La passione è ansia, delirio di tradimento, possesso, angoscia, solitudine. L’esito è fallimentare: la donna dalla bellezza sublime e statuaria, in origine fonte di tutte le aspirazioni, lascia infine un nulla, un’indifferenza quasi totale.
Proust – va riconosciuto – è uno degli autori meno teatralizzabili. Tutte le volte che qualcuno si è cimentato con lui, anche al cinema, il risultato è stato deludente.
Qui l’interpretazione, pur di altissimo spessore dei tre attori, non arriva a rendere il dramma trascinante. Il tentativo di coniugare tradizione e innovazione, l’alternanza insistita di sequenze dialoganti e situazioni in cui i personaggi turnano in una sorta di focalizzazione esterna, trasformandosi in narratori che raccontano la vicenda in terza persona, non convince pienamente. Sul finire i tre personaggi si smaterializzano dalla scena e dal dramma; armati di block notes, filosofeggiano sulle teorie di Proust in materia d’amore e gelosia. La trovata didascalica ha l’effetto di scuotere lo spettatore, ma risuona come un tentativo di correggere il tiro, di mantenere fino al termine un compromesso, invero fragile, tra sperimentalismo e tradizione, cosa che ritroviamo nelle musiche che accompagnano la pièce, con l’alternanza tra le evanescenti atmosfere sonore del simbolista Debussy e il vibrato baritonale a noi contemporaneo di Antony and the Johnsons, fino alla melodia drammatica e lirica di Jules Massenet, che nulla concede alla retorica romantica.
Quella che resta è la sensazione dell’ennesimo tentativo non perfettamente compiuto di portare Proust a teatro. Su un piano diverso, poi, c’è la riflessione su un mondo astratto tra rose e mondanità, che si troverà di lì a poco a fare i conti con i ben più reali massacri della prima guerra mondiale e la difficile ripresa post-bellica.

Niente seno su Facebook – No breasts on Facebook!

jeu de paume censura facebookRENZO FRANCABANDERA | Il sottotitolo di questa riflessione dovrebbe essere “La morale sui social network” e scaturisce da una serie impressionante di censure sul più diffuso social medium del pianeta riguardanti il seno femminile. La censura più recente ha fatto il giro del mondo e riguarda il museo Jeu de Paume di Parigi, da sempre votato alla divulgazione dell’arte fotografica e di cui PAC segue con assiduità le mostre (qui i nostri ultimi reportage dal museo parigino).

La colpa è della pubblicazione sul profilo del museo dello scatto “Étude de nu”, della fotografa Laure Albin Guillot – parte di una mostra attualmente in corso.La foto, infatti, non sarebbe conforme al regolamento di Facebook che riguarda il nudo e che avrebbe come eccezioni “artistiche” contemplate le sculture e dipinti.
Poi 24 ore di punizione, con l’oscuramento del sito e quando l’account del museo è tornato visibile, la foto è ricomparsa con il tragico rettangolino nero.
In realtà, per constatare come l’eccezione per l’arte sia una questione falsa, e che si tratti forse di un’applicazione bigotta della censura visiva rispetto al corpo umano (visto che su quella ideologica facebook appare molto più tollerante, permettendo a diversi soggetti l’ostensione di simboli di chiara ispirazione nazistoide e razzista) basta visitare il profilo di Riccardo Mannelli, artista italiano, celebre per i suoi ritratti di corpi nudi, a più riprese censurato, come si evince dall’immagine qui di fianco.
Anche lui è stato di recente oscurato per 24 ore. Poi pare che qualcuno del Zuckerberg’s team gli abbia scritto, forse dopo le rimostranze dell’interessato.
mannelli censura su facebookE’ Mannelli stesso a raccontarlo in un post del 14 febbraio scorso: “ciao riccardo,che succede? Eh…succede che m’avete di nuovo oscurato un quadro per oscenità o chissàpperchè, cari faccialibri. e m’avete pure sospeso per un giorno come mi facevano a scuola (nel pleistocene).ma dovete proprio trattare le persone come dei cerebrolesi infantili? eppoi chiedergli pure “che succede”? avete proprio la faccia come il…libro”.

Di recente aveva fatto sensazione il divieto di pubblicazione di foto dell’allattamento, caso sollevato in forma mediaticamente vivace da Gina Crosley-Corcoran, che dopo essere stata bannata ha pubblicato la foto incriminata sul suo blog.
Facebook ha ribadito in quella occasione che “Siamo tutti d’accordo che l’allattamento al seno è una cosa naturale. La maggior parte delle foto che riguardano l’allattamento, sono compatibili con la nostra Dichiarazione dei Diritti e delle Responsabilità di Facebook. Tuttavia, le foto che contengono un seno completamente esposto, violano i nostri termini e possono essere eliminati se sono segnalati da noi”.
Tanto la censura ha infastidito da far sorgere un movimento delle mamme censurate da Facebook, che la Crosley-Corcoran ha battezzato ‘The Feminist Breeder’, dando questo nome al sito da lei promosso, dove ha ospitato le foto censurate dai moderatori del social network, forse scottati da alcune sentenze, come quelle che hanno punito a più riprese Youtube per alcuni contenuti ospitati, che ledevano diritti, o violavano la legge.

resizer.jspDi qui in poi ovviamente si è scatenata la fantasia degli internauti iscritti al social network e qualcuno ha iniziato a sfidare la F blu, con qualche scatto ardito. Il premio per il miglior esito borderline sul tema è la foto a fianco, pubblicata sul profilo del magazine online Theories of the Deep Understanding of Things (TDUT), dove il fotografo (volutamente o no, questo non lo sapremo mai) ha realizzato una creazione tanto equivoca da essere stata censurata. Solo che questa volta il social network ha dovuto fare marcia indietro e chiedere scusa: non di seni enormi si trattava, ma di semplici gomiti appoggiati al bordo della vasca da bagno, scambiati per prorompenti capezzoli. Almeno questa partita è finita diversamente. Quando infatti l’Huffington Post Gran Bretagna aveva contattato Facebook per una spiegazione su questa censura la risposta erano state le scuse “This photo does not violate our contenta standards and we have already restored the photo. We made a mistake removing the picture and apologised to the page admin.”

Nel ricevere le scuse, TDUT aveva poi postato il seguente commento: “E’ bello sapere che un’esposizione mediatica così consistente possa rendere Facebook un po’ più sensibile, se non addirittura impaurirlo. “La nostra missione è quindi raggiunta, attraverso la questione più rilevante, ovvero la patetica paura del corpo umano e della sessualità umana, ben lungi dall’essere risolta.”
Chiudiamo facendo omaggio alla mostra da cui tutto è partito con gli occhi stupendi della fotografa, da cui tutto questo è nato, Laure Albin Guillot, che forse non avrebbe, in fondo, potuto avere pubblicità migliore.
AlbinGuillot_20

Edward Hopper, fra cinema e letteratura

Hopper NightawksMARIA CRISTINA SERRA | Davanti all’azzurro sfolgorante dei quadri di Hopper si prova quel senso istintivo di vertigine, fatto di paura e di attrazione, che solo le grandi emozioni sanno regalare. Si entra subito in sintonia con le sue storie dipinte come sequenze cinematografiche, dominate dal silenzio assoluto del “non-detto”, ma reso esplicito dai gesti. Si rimane avvolti dalle sue atmosfere sospese, dalla luce dei suoi paesaggi esteriori che riflettono implacabilmente le ombre interiori delle intime esistenze. Le sue solitudini tratteggiate con colori contrastanti e linee nette, decise, racchiudono sempre possibilità narrative dagli sviluppi incerti, perché la malinconia da lui rappresentata non è altro che un filtro attraverso cui osservare la realtà nella sua costante duplicità.
I suoi personaggi si isolano dalla folla per trovare angoli di salvezza; il buio della notte interrotto dal neon è un rifugio protettivo sotto cui camuffarsi; il sole abbagliante che entra dalle finestre spalancate si proietta obliquo sui muri delle stanze per riempirle di una dimensione trascendentale. Il verde smeraldo delle siepi e degli alberi circonda protettivo le sue bianche case dal tetto spiovente e dalle grandi vetrate; l’oceano, in lontananza, offre orizzonti in cui perdersi, lo sguardo si dirige verso oblii rigeneranti.
La pittura di Hopper sfugge dai luoghi comuni coniati per definirla, continua a creare salutari smarrimenti, a sollecitare riflessioni. A ricordarci che la realtà, quando non è sterile conservazione delle convenzioni, è sempre apertura alle possibilità.
La mostra “Edward Hopper”, curata da Didier Ottinger per il Grand Palais a Parigi, si è presentata come un’occasione preziosa per approfondire le multiformi sfaccettature dell’opera di un artista dalla complessa personalità. “Lo scopo della mia pittura”, raccontava, “è sempre stato quello di trascrivere fedelmente le mie impressioni più intime sulla natura, di fissare sulla tela le mie relazioni con l’oggetto, così come esso appare nel momento in cui lo amo di più”. Rispettando la sua “esperienza interiore” che con coerenza accompagnò il suo percorso creativo (”nello sviluppo di ogni artista  la base dell’opera più matura si trova già nei primi lavori”), l’expo è stata concepita  come una sequenza cronologica e tematica di piani sovrapponibili, in uno scenario suggestivo in cui s’incontrano le atmosfere estetiche novecentesche del “Vecchio e Nuovo Mondo”, così come  si sono depositate nell’ immaginario del pittore americano. Senza artifici, con un realismo che solleva il velo sulle illusioni apparenti, per rivelarne lo strato più nascosto, i contrasti cromatici di Hopper ci invitano a captare senza inganno le alienazioni metropolitane ed esistenziali del suo tempo, le stesse che affollano il nostro presente.
Parigi e New York sono i suoi perimetri di formazione, i luoghi delle emozioni, i palcoscenici concettuali dove ambientare i suoi personaggi in cerca di destini da interpretare; gli spazi per catturare i pensieri e poi tradurli in immagini, costruite con raffinatezza, per liberarne i paradossi e gli enigmi irrisolti; cancellare le linee di confine fra ciò che rassicura e ciò che inquieta. Gli anni parigini furono frammentari, ma fondamentali per definire la sua ricerca. Dalle due città-simbolo della modernità  inizia la mostra. Sono le straordinarie vedute metropolitane di Degas (dal quale apprende la prospettiva) ad accoglierci, seguite da quelle di Vallotton, Marquet, Sisley, i realisti americani Robert Henri e John Sloan, e i due fotografi documentaristi Mathew Brady e Eugene Atget. La crudezza del primo si contrappone alla leggerezza del secondo. Due mondi a confronto che si fondono in Hopper, nonostante la lontananza geografica e culturale.
E’ una Parigi grigia e piovosa ad accoglierlo la prima volta, nell’inverno del 1906, lontana dalla vita bohémienne di Montmartre e Montparnasse e dalle avanguardie. E’ una città dagli angoli nascosti quella che lui disegna, dai toni spenti, osservata dai ponti e dagli argini dei Lungosenna. Sono approcci impressionisti, assorbiti durante le ore passate nelle sale del Louvre e del museo di Luxembourg. Alla New York School of Art aveva imparato a padroneggiare matita e pennello; a Parigi a dare forma ai suoi pensieri. Poi, per sempre, ci sarà solo lo studio del Greenwich Village, al numero 3 di Washington Square, per dipingere l’immensità di un’America “on the road”, attraversata coast to coast al volante di una Buick bicolore. Diventa un testimone del suo tempo, un antieroe solitario che va al cuore dei problemi e ci attira nelle pieghe nascoste della vita, eliminando il superfluo, lasciando che una sottile ironia penetri come un raggio di sole attraverso le persiane.
“Tutto quello che volevo fare”, dirà, “era dipingere la luce del sole sul lato delle case”. Il mondo di Hopper lo sentiamo familiare; ci lascia la sensazione amara e veritiera che si avverte al risveglio del “Grande sonno” di Raymond Chandler, o il senso di sollievo dopo essere usciti dai labirinti di Dashiell Hammett e di Edgar A. Poe. Si torna con la memoria alle pagine di Hemingway, di Henry James, di Faulkner, al disagio che cova sotto la quiete, al senso di imprevedibilità, che può smuovere le certezze, al sussurrato “i would prefer not to” e all’opposizione sommessa dello scrivano Bartleby di Melville, che irrompe come un grido nel guscio ovattato di uno studio legale newyorkese, facendolo implodere.
Simili al dipanarsi di una trama letteraria, le dinamiche interne dei suoi dipinti scorrono parallele agli spazi circostanti. Percorrono autostrade interminabili per riprendere fiato solo davanti ad una pompa di benzina (“Gas”) o per riposare in anonimi motel. Le regolari  prospettive si aprono al lento fluire delle sensazioni. Uomini e donne consumano la loro indifferenza in “Room in New York”, “Summer in the City”,  “Hotel by a Railroad”, e “Excursion in to philosophy”. Solo una vetrata ricurva separa gli avventori del bar notturno, avvolto nel verde di una fredda luce al neon (“Nightawks”), isolati nelle loro passioni occasionali dal mondo esterno. Sembra il preludio al serial TV “Mad Men”, il suo “Office at night”. I riflettori del palcoscenico evidenziano impietosamente la nudità della ballerina di “Girlie Show”. Il sipario si chiude con “Two on the aisle” e le porte del cinema si aprono alle sue tematiche. Hitchcock , Polanski, Wim Wenders, che in “Paris Texas” crea un connubio perfetto fra i luoghi e i drammi dei due protagonisti, mentre il flusso dei ricordi e l’amore  spento filtrano attraverso uno specchio divisorio.

Il video con un’esauriente intervista ad Hopper:
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=SV3wcdjpFeg]

Il sapore dell'anguria di Civica-Pirozzi

RENZO FRANCABANDERA | Alla maggior parte delle persone piace il sapore del sale, e alcuni ne assumono in maggiore quantità rispetto ad altri. I ricercatori si sono interrogati per capire cosa spinga alcuni ad assumerne dosi superiori.
Al fine di condurreanguria civica uno studio, promosso dalla Università di Stato della Pennsylvania e apparso sulla rivista Physiology & Behavior, sono state reclutate 87 persone – 45 uomini e 42 donne tra i 20 ed i 40 anni di età che hanno mangiato dei cibi per poi compilare un apposito questionario con la valutazione del grado di intensità del gusto.
Per alcuni, che i ricercatori hanno definito “supertasters”, i cibi avevano un sapore più intenso di quello effettivo (dichiaravano essere molto amaro o molto salato ciò che lo era in misura normale). Viceversa si identificava una categoria di “nontasters” che descrivevano gli stessi gusti come addirittura insapori.
La sensibilità al gusto amaro avrebbe la proprietà di essere poi comune con quella al dolce, salato, piccante, e addirittura dell’anidride carbonica nelle bibite gassate.
L’intro vale per descrivere il gusto che per me ha “Soprattutto l’anguria” (in questi giorni ospitato a Milano da Teatro i), testo di Armando Pirozzi e regia di Massimiliano Civica, un classico caso di drammaturgia saporita, di ironia che gioca con i controsensi del nostro tempo, della società, sviluppata su un’idea di conflitto elementare ma efficace: un uomo va a trovare suo fratello. I due appartengono ad una famiglia evidentemente frammentata, in cui nessuno condivide più alcunché con l’altro. Madre e padre ormai in due vite lontane, uno in India a fare l’asceta, l’altra in Africa a far la missionaria. Una sorella dislocata alle latitudini del circolo polare artico. I due fratelli si incontrano a casa di uno dei due. Il visitato passa il suo tempo in un salotto borghese, arredato con minimale eleganza nei colori del rosso e del nero. Il fratello visitatore arriva con una borsa di vestiti e una chitarra, ad annunciare che loro padre è stato dichiarato cerebralmente morto perché caduto in catalessi ascetica.
Ad una notizia del genere ci si aspetterebbe una veemente reazione filiale, parentale. Invece nulla, il silenzio. Un dito levato, una pausa. Poi niente più. La comunicazione fra i due è difficile da spiegare. Il visitatore è intelligenza brillante ma ansiosa, di quell’ansia che viene annegata nel fiume di parole. Il visitato lo si assumerebbe più fragile, introverso. Adagiato su una poltrona design con poggiapiedi, entrambi rossi, alla luce di una lampada rossa ascolta Bach leggendo un libro (dalla copertina evidentemente rossa) il visitato, in elegante pigiama nero, tace e fuma.
Il conflitto sarà fra la questuante logorrea, volta a riallacciare, e il tragico silenzio, incapace o non interessato più a vivere una famiglia di cui non si sente più parte. Il tutto in un ambiente fermo, con luce fissa, calda, da casa coloniale.
La regia è pulita, il sapore netto, e l’insieme risulta teatralmente riuscito e nel complesso ben interpretato da Diego Sepe e Luca Zacchini. Può anche molto piacere, e in fondo non a torto. Questo dipende appunto da quanto la saporita e arguta logorrea del visitatore sia nelle corde dello spettatore per un’ora ininterrotta. Secondo il nostro palato la minestra è un po’ lunga di sale. Ma a teatro, a differenza che nel piatto, si può anche togliere. E se il drammaturgo non ci riesce, reduce com’è dalla precedente incursione, sempre affidata poi a Civica, nelle verbosità filosofica di Magister Eckhart, magari è il regista che può dire l’ultima e aggiustare di sapore, togliendo ove occorra. Giusto un po’, ma quel po’ che può far stare il tutto in maggior equilibrio. Ma chissà, magari è questione di supertasting…

Per Romaeuropafestival, il regista racconta lo spettacolo in questa video intervista
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=ZcFewVFzXGw]

Come abbordare una deputata del PD

MorettiPDALICE CANNONE | In giorni in cui gli accordi e gli auspici sul nuovo governo e sulla governabilità risultano essere più difficili di una trattativa ad unghiate davanti ad un capo della Maison Martin Margiela per H&M, un nuovo interrogativo tormenta l’homo italicus: come si farà mai ad abbordare una giovane deputata del PD?
Si offre qui di seguito un veloce bignami per perfetti gentiluomini, votanti, astenuti o proclamati sostenitori del M5S (visto che quelli di Monti sono pochini, mentre abbiamo il sospetto che siano in molti quelli che hanno detto che avrebbero votato Grillo ma che poi hanno ceduto alla X sul Berlusca. A loro consigli in materia ovviamente non servono. E’ già tutto nel dna del partito, che guarda a copiose risorse interne).
La GnoccaPD, la chiosa sembra doverosa, è diversa dalle altre categorie di deputate a cui si è stati mediaticamente abituati. Donne così le conquisti solo con la dirittura morale, il volontariato e le letture Feltrinelli.  Ma soprattutto donne così sono diverse dalle gnocchenonesattamentepoliticizzate e dalle gnocchefiniteinpoliticapercaso.

Si tratta in questo caso di una donna che è avvenente e sa di esserlo ma poi sembra offendersi se glielo si fa notare. E se la si tratta bene in quanto “signora”, inviperita chiede un trattamento paritetico e si lancia in filippiche. E’ il caso paradigmatico di Alessandra Moretti, la bella portavoce della campagna di Bersani, che quando ha letto su Twitter il cinguettio di @conmatteorenzi: “La Moretti… ah! Sexy e carina e come idee anche meglio della Belen”. L’autore però non era il sindaco di Firenze, ma un internauta qualsiasi e in un attimo digita avvelenata la risposta piccata: “Misogeno e maschilista, questo sei! Quando sei a corto di argomenti che fai? Metti in moto la macchina del fango”. Una volta accortasi che la sua ira non era stata giustamente indirizzata, la Moretti ci ha comunque tenuto a precisare che “Attaccare sul piano personale è scorretto”. Dove “l’attacco personale” non si capisce bene se sia riferito esattamente al “sexy”, al “carina” o al paragone con Belen, ma tant’è. E se continuano a perpetuarsi storici e granitici manicheismi come “I collant son quasi sempre di sinistra/ il reggicalze è più che mai di destra” (“Destra Sinistra” di Giorgio Gaber), non è ben chiaro dove si collochino colpi di sole e shatush.
Ma il perfetto gentiluomo, votante o astenuto, saprà anche che da forme di galanteria proto-maschiliste si viene facilmente fuori offrendo (naturalmente dopo aver proposto di pagare alla romana) una deliziosa cena bio a base di seitan ed un concerto di Vecchioni.
E la gnoccaPD, seppur a denti stretti, davanti a cotante e banali generalizzazioni, una risata buonista e caritatevole saprà però sempre ed in modo elegante farsela. Altrimenti è gnoccaPDL.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=_48y3dg5KPQ]

Il trittico dei Beach House in Italia

beach houseMANFRED ZEIT | Dopo l’omonimo esordio in lo-fi: “Beach House” (2006). Dopo la magia vintage e lynchiana di “Devotion” (2007). Dopo l’exploit sognante e inarrivabile di “Teen Dream” (per chi scrive l’album migliore del 2010); i Beach House danno alle stampe il loro lavoro più classicamente Pop. Cristallizzando il loro stile, i due “sognatori della casa sulla spiaggia che si affaccia sull’oceano” abbandonano i “sogni adolescenti” e fioriscono definitivamente: è il 2013, l’anno appunto di “Bloom”, la fioritura, la consacrazione, il successo, lo spettacolo.
Il duo delle meraviglie si forma nel 2004, quando la parigina, figlia d’arte cresciuta a Philadelphia, Victoria Legrand decide di abbandonare l’École Internationale de Théâtre “Jacques Lecoq” e tornare negli States dove incontra il geologo falegname Alex Scally. I due sono accomunati dalla passione per strumenti vintage, shogaze e fiabeschi mondi filmici dal gusto desueto e onirico. Il loro sound è spudoratamente e coscientemente retrò, non cercano la sensazione i Beach House. Cercano bensì la suggestione, l’emozione, l’universalità Dream Pop. Il segreto della loro fortuna è probabilmente riposto nell’apparire semplici, quasi naif, nascondendo e facendo emergere, tra strati di tastierine antiche e slide guitar, qualcosa di “fottutamente soave” (cit. Frank, il maniaco interpretato da Dennis Hopper in “Blu Velvet” di David Lynch), di velatamente inquieto e sensualmente malinconico. Sarà la teatralità espressiva che emerge dalla voce della fata Victoria. Quel che è certo che oggi i Beach House non sono più un progetto indie di nicchia ma una delle più urgenti, originali e seducenti realtà della musica Pop internazionale di qualità! Ne è testimonianza il loro ritorno in Italia, nel corso di un lunghissimo tour, non più in location di piccole dimensioni ma in tre dei club che ospitano musica live più capienti e in vista d’Italia: il 9 Marzo all’Estragon di Bologna, il 10 Marzo 2013 al Piper di Roma, l’11 Marzo 2013 ai Magazzini Generali di Milano. Questo anche grazie alla lungimiranza e all’intelligenza di Dna Concerti.
Dopo la fascinazione avuta per “Devotion” e l’innamoramento definitivo all’uscita di “Teen Dream”, ho incontrato un concerto dei Beach House la prima volta al Primavera Sound di Barcellona nel 2010. Un incanto: sul palco “indie” dell’ATP, suonavano contemporaneamente ai gloriosi Wilco ospitati sul palco grande, eppure davanti a loro c’erano almeno 3.000 spettatori stregati e accarezzati da quel “remoto miele”. L’estate stessa li ho ritrovati a Londra, nella line-up dell’All Tomorrow’s Party curato dai Portishead – e mai benedizione fu più azzeccata: come potevano i padrini del trip hop più visionario ed enigmatico non accorgersi dei Beach House?!
A quel punto fu tristemente italico rivederli al Magnolia di Milano, tra puzza e zanzare, aprire per i tediosi Midlake – ma la serata era talmente mesta che li mi capitò di parlare a lungo con Victoria scoprendoci, nella nostra reciproca inclinazione teatrale, fan sfegatati e insospettabili (?) di Prince. E adesso chissà come sarà il loro ritorno nel Bel paese decadente e massacrato dalla vergogna post elettorale! I wish I could dream.

La loro Myth
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=FuvWc3ToDHg]

Don Giovanni, metafora dell’attore?

1LAURA NOVELLI | Si è conclusa nei giorni scorsi al Teatro Valle Occupato la tournèe dello spettacolo “Don Giovanni, a cenar teco” diretto da Antonio Latella e imbastito su una drammaturgia originale firmata dallo stesso regista insieme con Linda Dalisi. Il lavoro, recensito per PAC da Renzo Francabandera lo scorso anno, eredita in parte il registro espressionista del precedente “Un tram chiamato desiderio”(premio Ubu 2012 per la regia) e anticipa la ricerca che ha condotto Latella e la sua nuova compagnia stabilemobile (composta per lo più da artisti legati al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli) al recente “Francamente me ne infischio”, ispirato alla saga-mito del film “Via col vento” e il cui debutto è atteso per il 10 marzo al Teatro delle Passioni di Modena. Dunque, il mito del temibile seduttore sembra quasi fungere da ponte tra la fragilità nevrotica della Blanche di Williams e la forza capricciosa di Rossella O’Hara (“Essa – scrive Latella – è una giovane donna senza scrupoli che affronta tutte le difficoltà con spirito di conquista, incapace come il suo popolo di riconoscere la sconfitta anche quando se la trova davanti […]. Rossella è l’America”). Don Giovanni collega cioè idealmente l’amore malato della prima all’ostinazione contraddittoria della seconda e, anche per questo, offre ampia materia di riflessione.

E però, nell’allestimento visto al Valle, il libertino più dissoluto e discusso di tutti i tempi non è più quello di Molière, non è più quello di Mozart/Da Ponte, non è solo quello di Max Frisch (“Don Giovanni o l’amore per la geometria”) ma, piuttosto, un crocevia di questi spunti di partenza: un uomo concreto che fa della sua vita un banco di prova per dimostrare l’impossibile scientificità della passione amorosa (“è un teorema spietato sull’inganno e sulla matematica dell’amore – dice il regista – e non sul sentimento dell’amore”) e, in ultima analisi, l’insensatezza della vita umana. Motivo per cui egli, pur dimostrandosi un personaggio assolutamente contemporaneo, reclama un’indagine a ritroso dentro i meandri fondativi del suo mito senza tempo. Perché se è indubbio che a funzionare da volano per la diffusione teatrale e letteraria del Don Giovanni fu la commedia “El Burlador de Sevilla” di Tirso de Molina, è pur vero che da lì i suoi semi si sparsero in tutta Europa e, approdati in mano ai Comici dell’Arte italiani, essi dettero vita a una serie di svariati canovacci, per poi trovare più raffinata dimora nell’invenzione di Gian Battista Andreini. Grande drammaturgo secentesco, anch’egli intriso di modelli dell’Arte e di vezzi da capocomico eclettico (era a capo della compagnia dei Fedeli), nel suo “Il nuovo risarcito convitato di pietra” seppe trasformare l’avventura di quel Don Giovanni beffardo e burlador in una grande, magica, opera barocca colma di richiami musicali, dove in gioco troviamo la plasticità teatrale di un libertino che seduce le donne con la stessa pregevole capacità metamorfica con cui seduce il pubblico. Il mistero del personaggio ha perciò a che fare essenzialmente con il mistero dell’interpretazione attorica.
“Don Giovanni – scrive Luciano Mariti nella prefazione all’edizione del testo – non seduce, come pensa Kierkegaard, solo per genialità sensuale, cioè per il suo stesso desiderare; ma per il modo in cui conduce una concreta azione fisica. […] Il suo obiettivo è quello di possedere, in quanto seduttore, ma la modalità è quella dell’attore: quella di rendere la relazione interessante”. Egli, dunque, attraversa con temeraria audacia i secoli, i generi letterari e artistici, la storia del pensiero e della cultura, gli afflati religiosi e i valori etici, l’immaginario collettivo e la sensibilità individuale ma soprattutto condensa in sé la vita e la morte, la luce e il buio, l’energia della seduzione e il lutto del peccato, la sacralità della passione e la dissacrazione della morale: il corpo vivo e quello spento, diffamato e diffamante. In definitiva, egli è teatro. Teatro allo stato puro. Teatro in quanto smascheramento della finzione, in quanto pulsione vitale che sdogana l’abuso della ragione, mescolando le carte del reale e del trascendente, facendo vacillare certezze e luoghi comuni. Teatro in quanto corpo che agisce “ora” seguendo un come e un perché. Questo è probabilmente il suo aspetto più affascinante e più duraturo.
E Latella sembra accorgersene. Se ne accorge quando porta un grande faro in scena a illuminare i monologhi dei personaggi; quando spinge la corda del grottesco; quando rompe il filo narrativo con numeri da cabaret espressionista o con canzoni pop; quando condensa interi passaggi nel canto lirico mozartiano; quando rovescia la mascolinità nel transgender. E se accorge soprattutto quando affida al servitore Sganarello (alter ego anch’egli rovesciato del peccaminoso padrone) il compito di abbattere la quarta parete e di cercare nel pubblico la tomba del Commendatore e quando, nel finale, concede al suo protagonista la possibilità di un doppio finale: quello eroico e quello umano. Non sono forse questi tutti echi della seducente metafora attraverso cui il suo Don Giovanni ci parla delle menzogne e delle (dis)illusioni che costellano il mondo/teatro di sempre e di oggi?

Disegno Renzo Francabandera

Una bella intervista a Latella realizzata al Garibaldi Aperto di Palermo
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=ejCu6_9TgRM]

"La moglie del soldato" a teatro

La moglie del soldato ph.valentinabianchi-5684_lgRENZO FRANCABANDERA | La moglie del soldato è un film di compattezza poetica ed evoluzione thriller nella assoluta umanità dello svolgimento argomentativo che avvince lo spettatore. Per quel lavoro, oltre a ricevere altre cinque nomination nel 93, la pellicola ottenne l’Oscar proprio per la migliore sceneggiatura originale, andato a Neil Jordan, che ne firmò anche la regia.

Pasquale Marrazzo, cineasta e più di recente anche regista teatrale con alcuni lavori ospitati presso il teatro Litta di Milano, presenta in questi giorni un adattamento per il teatro del capolavoro di Jordan.

La scena disegnata da Daniele Mariconti ricorda nello stile geometrico lo spettacolo precedente firmato dal regista, “Non si sa come” di Luigi Pirandello (2011), costruendo ancora una volta un ambiente, di fatto, quasi metafisico, con strutture di geometria solida dai colori simili alle ambientazioni di De Chirico, con una prospettiva centrale accentuata e una profondità che si perde nello sfondo della parete.

Dentro questa macchina scenica la vicenda del soldato che, morto in occasione di un rapimento da parte di un gruppo di militanti dell’IRA (Emiliano Brioschi e Valeria Perdonò), lascia quasi come testamento spirituale ad uno dei suoi rapitori, il compito di andare a ritrovare la sua donna, per testimoniargli il suo esserle stato vicino col pensiero fino all’ultimo. La donna (Riccardo Buffonini) si rivelerà un amore “speciale”: una bellissima trans, che riuscirà ad ammaliare anche il militante dell’IRA.

L’operazione teatrale di Marrazzo si compone di due fatiche: la prima, quella di ridurre e adattare alla scena la drammaturgia cinematografica, impresa non semplice. La seconda, trovare qualche espediente che riesca a rendere il non verbale del cinema, e che nella sala assuma significato quale “traduzione” del montaggio, delle inquadrature, degli scambi di sguardi che si susseguono nella pellicola, adattate ad una fruizione frontale, a camera fissa verrebbe da dire, come tipicamente è quella teatrale.

Parliamo in questi termini perché la suggestione di Marrazzo per il medium cinematografico è sempre viva e presente, nel gioco di luci (Marilisa Cometti), a tratti particolare e interessante, che colora la scena, pur fissamente geometrica, di colori sempre diversi, così come nella interruzione di sequenze con lo sfumato al nero (anche se questa modalità un po’ da slideshow finisce poi per essere insistita).

La riduzione è molto efficace e viva nella prima parte della vicenda, quella del rapimento del soldato, dove l’emotività che Giulio Baraldi conferisce al personaggio si scontra con l’inamovibile fissità del suo rapitore (Emiliano Brioschi). Questa caratteristica di rigidità, che è sia fisica che nel tratto fonetico, e che all’inizio ha anche ragion d’essere, continua anche dopo, quando il personaggio dovrebbe cambiare, e si trasla via via sull’esito scenico: ove non fosse del personaggio ma di chi lo interpreta, dovrebbe essere superata, e ove fosse invece del personaggio, risulterebbe una scelta registica non felice, perché non asseconda in modo opportuno la crescita emotiva, l’educazione sentimentale, il cambiamento di punto di vista della figura.

Fin qui lo schema dei giochi si regge sulla dualità: i due soldati dell’IRA in conflitto psicologico, il gioco rapitore-rapito, il soldato e la sua donna che non c’è. L’epifania del corpo in transizione della donna, che rivela al guerrigliero la sua identità, è certamente un vertice emotivo dello spettacolo, ed avviene come manifestazione di una realtà non più occultabile. Qui il tema del doppio raggiunge il clou.

Dopo la dichiarazione, dovrebbe appunto arrivare l’approfondimento del dilemma psicologico dell’uomo, che potrebbe avere un’interessante sviluppo proprio sul tema del doppio. L’adattamento teatrale, invece, dando corposità ad una figura che nel film è totalmente marginale e attraverso cui tornerà in un certo qual modo viva la figura del soldato morto, finisce per giocare sul tema più consumato del rapporto a tre, invece che sulla dualità.

La questione non è ovviamente meramente numerica, ma indirizza i rapporti di forza e le scelte sui movimenti scenici che fa Marrazzo, giocate appunto su questa sorta di triangolo fra il soldato morto e il guerrigliero vivo, e nel mezzo l’amante che sarà di entrambi (una sequenza di solo movimento dello spettacolo dettaglia proprio questo concetto).

Il bassorilievo psicologico risulta qui poco vivo, con la recita che arriva a termine sgonfiandosi, con un seguirsi di eventi che pur non essendolo, sembrano inspiegabilmente scollegati, fino al veloce atterraggio sul finale. Insomma il pathos che, intenso, parte dall’inizio e si mantiene alto fino a metà dello spettacolo perché sostenuto dalle vicende, nel passaggio dalle sequenze fattuali a quelle psicologiche non riesce a rimanere alto.

Qui risiede attualmente, a nostro avviso, la pecca dell’allestimento nella sua attuale impostazione, cui non fanno gioco le fissità di cui si è detto e che penalizzano proprio questa parte dell’intero. Il cinema a teatro non è semplice, e non è solo una questione di luci, né di parola. I temi più sensibili per un ambito possibile di crescita de la moglie del soldato, sono proprio quelle legati ai ragionamenti, alle assenze, all’invisibile, invece che alle epifanie, a ciò che è visibile: nella drammaturgia, magari, ragionando sull’assenza del soldato e non su un suo ritorno ectoplasmatico, e sul lavoro degli attori concentrandosi sulle sequenze in cui l’assenza di giochi di luce o di parola deve rendere i piani psicologici con maggiore pienezza, evitando appunto la più facile trappola del triangolo. Fra il tre e il due c’è una differenza che non è solo di un’unità numerica, ma proprio di punti di vista sulla realtà, di schemi e dinamiche che possono cambiare radicalmente una creazione, dal punto di vista concettuale.

Una sequenza del film The Crying game – La moglie del soldato
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Da Kafka a Lorca: il corpo e il suo viaggio verso la libertà

wroclawski_teatr_pantomimy_plakat alba-1MARIA FRANCESCA SACCO | Il teatro della Pantomina di Breslavia (Teatr Polski), in una Polonia ancora ghiacciata d’inverno, ha presentato l’1 e il 2 marzo due spettacoli diretti dal regista Zbigniew Szymczyk. Egli ha scelto di mettere in scena, nella stessa serata, due pièce teatrali molto diverse, celebrando, così, due autori altrettanto dissimili tra loro: Kafka e Garcia Lorca.

Uno ceco, l’altro spagnolo; uno in conflitto costante con il proprio corpo, l’altro con il proprio “io”. Uno legato all’Europa, l’altro lanciato verso l’America; Kafka muore di tubercolosi, Lorca fucilato. Erano piu’ o meno coetanei ed emtrambi si trovavano a vivere un conflitto interiore: mentre il primo non accettava il proprio corpo per le sue innumerevoli imperfezioni, il secondo si disprezzava per la sua omossessualita’. La societa’, incapace di rispondere alle loro esigenze a causa delle imposizioni rigide e castranti, alimentava il desiderio di sfuggirla. Il sogno della libertà appare in loro costante, ma sempre illusorio.
Forse, il regista polacco Zbigniew Szymczyk decide di legare le due performance proprio basandosi sull’idea comune ad entrambi gli scrittori che esistano dei pregiudizi e delle regole dalle quali è pressochè impossibile liberarsi, se non attraverso la morte.

Il primo spettacolo, tratto dall’opera Il Castello di Kafka (Polawiacze papieru, Il pescatore di carta), mostra in scena un bizzarro omino con una bombetta in testa che appare dapprima senza volto a causa della luce dietro di lui. Sembra L’uomo con la bombetta di Magritte che ha davanti al viso una colomba.
Il nostro ometto cammina instancabile, mentre egli vive la sua giornata ripetendo i soliti movimenti. La routine soffocante nella quale e’ immerso il protagonosta e’ rappresentata dalla ripetizione delle stesse mosse: sempre identica la camminata che prevede un leggero ondeggiare prima a destra, poi a sinistra, mentre l’ombrello accompagna l’azione con disinvoltura. Persino i muscoli che si tendono sono sempre i soliti: fanno uno sforzo immane, ma senza spostarlo neppure di un millimentro. Fogli, carte e protocolli, simbolo della burocrazia onnipresente, sono l’oggetto dei sogni del nostro omino con la bombetta (dalla quale non si separa fino alla fine): egli viene spogliato dei suoi abiti e lasciato solo con una camicia da notte bianca che nella nostra testa assume la forma di una camicia di forza. L’uomo e’ denudato dalla burocrazia. Scappa e combatte, ma senza risultato: verra’ annientato e la sua bombetta e i suoi abiti passeranno ad un altro che, non potra’ fuggire, a sua volta, al potere delle scartoffie burocratiche. Il regista per rendere quell’alienazione e perdita di contatto con la realta’, ha deciso di sfruttare gli espedienti del teatro dell’assurdo, eliminando ogni logica e consequenzialità nella performance. L’elemento sempre costante è, dunque, il movimento dei corpi che scivolano come se stessero camminando su dei tapis roulant: scelta che funziona quasi tutto il tempo grazie alla bravura indiscussa dell’attore che riesce a mantenere puliti e fluidi i suoi movimenti. Tuttavia, qualche inciampo in alcune scene, come quella della corsa sul posto, un cliche’ del teatro di pantomima che poteva essere evitato, insieme alle poco credibili espressioni facciali che -per fortuna rare- rischiavano di trasformare il tragico protagonista in una macchietta buffa. Interessante, invece, la scelta di mettere in scena Kafka, che odiava il proprio corpo, attraverso una rappresentazione del tutto fisica.
La Casa di Bernarda Alba, ha presentato in scena solo attrici donne (al contrario di quello precedente in cui vi erano solo uomini). La luce era fioca, solo una prigione puo’ avere questo tetro tipo di luce, e la casa di Bernarda Alba, del resto, lo è.
Le cinque figlie costrette ad indossare il lutto e a stare recluse in casa per volere della madre vedova, non smettono pero’ di sognare. L’amore e lo svago che e’ loro vietato, si manifesta con la scoperta della propria femmilita’ e sessualità nei rari momenti in cui la madre non è presente in scena. Chi cerca un bacio dentro uno specchio, chi elemosina carezze dentro una giacca da uomo. Chi, nell’aria viziata soffiata da un ventilatore scalcagnato, crede di avvertire il vento della passione amorosa. Le vie di fuga dalla realtà nella quale sono rinchiuse (ne è simbolo la finestra sempre chiusa) vengono cercate all’interno. Un’oppressione che ci arriva attraverso l’impeccabile gioco di luci e candele. Peccato non poter dire lo stesso per le attrici, alcune molto brave, come Bernarda Alba (Ewa Czekalska), ma in generale poco credibili, poco precise, troppo tendenti a voler rappresentare il proprio personaggio attarverso la mimica, piuttosto che attraverso il corpo. Queste “faccette” fanno crollare in un secondo l’anima di un personaggio e renderlo -senza possibilità di redenzione- non gia’ divertente, il che sarebbe ancora accettabile, bensì ridicolo.

Un video del Bernarda Alba
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Polawiacze papieru, Il pescatore di carta
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L’occhio di PAC | Tardito Rendina alla Caduta di Torino – video

bigANDREA CIOMMIENTO | L’occhio di PAC incontra il gruppo torinese Tardito/Rendina in occasione dello spettacolo “Gonzago’s Rose s.” in scena al Teatro della Caduta di Torino.

Nel vostro spettacolo si delineano due strade molto chiare: il legame bizzarro e grottesco uomo/donna e l’azione convertita in sentimento grazie alla danza. In che modo vi siete relazionati alla creazione di questa storia?

Il nostro spettacolo è del ‘99, diciamo che è uscito gradualmente il tema della coppia anche se non abbiamo iniziato dicendo “lavoriamo sul tema della coppia” e devo dire che si è rivelata la relazione tra noi in sala durante le prove. Tutte le linee di tensione si sono figurate dentro al lavoro come base di questa relazione scenica nata in prova.

Da cosa avete attinto?

Sicuramente abbiamo cercato di attingere da noi creando poi una forma e un linguaggio che potesse permetterci di offrire distanza e non essere morbosamente vicini al tema. Nella migliore delle ipotesi quando la cose diventano universali riguardano anche qualcun’altro e non solo noi che siamo all’interno dell’azione.

Il sentimento si trasforma anche in comicità…

Noi lo chiamiamo il ridicolo del dramma, ci piace entrare nel dramma e tentare di riuscire approcciandosi ad esso facendo un giro lungo, divenendo quindi un giro ridicolo.  Siamo danzatori di origine, vicino al teatro/danza, e quindi usiamo la materia corporea, il gesto, la sequenza, l’azione per poi inserire l’emozione. È anche una cosa che ci diceva un nostro maestro clown: avere attenzione nel “non far ridere”.

Qual è l’approccio che più vi interessa? 

Non prendersi troppo sul serio è qualcosa che sicuramente ci interessa però allo stesso tempo ci interessa anche andare veramente al fondo del dramma. Gonzago e Rosaria lo stiamo facendo da tempo, ci siamo impratichiti un po’. Da questo fondo con un po’ di osservazione alle volte possiamo fare un giro largo sull’autoironia.

Vi lasciamo al video “l’OCCHIO di PAC” durante la serata di Tardito/Rendina alla Caduta di Torino:

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=WcJ2160OaWo&w=560&h=315]

Link al reportage/intervista “Il buon varietà rinasce a teatro” con Massimo Betti Merlin sull’esperienza del Teatro della Caduta di Torino (PaneAcqua):

http://www.paneacqua.info/2012/04/il-buon-varieta-rinasce-a-teatro/