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lunedì, Settembre 16, 2024
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Mio padre Ulisse

perrotta odisseaVINCENZO SARDELLI | È un Telemaco contemporaneo davanti al mare del Salento, affascinato da un padre assente ma mitico, quello che Mario Perrotta, autore, regista e attore leccese, propone da alcuni anni ormai in “Odissea”, spettacolo che abbiamo visto di recente al teatro Binario 7 di Monza.
Perrotta, interprete mai banale del teatro-racconto, propone una versione particolare del poema omerico, centrata sulla figura del figlio. Telemaco, rampollo per antonomasia, è catapultato nel XXI secolo, avvilito da gente di paese che al bar della piazza mormora alle spalle sue e della sua famiglia.
Anche Penelope, madre reclusa, è presente in quest’alchemica contaminazione epico-salentina. Si chiama Speranza: è un’ombra nascosta dietro le persiane, anche lei perduta nella sua tela-isola.
L’Odissea di Perrotta mescola mito e quotidiano, Itaca e Salento, poesia colta e dialetto. L’attore si presenta da menestrello, giacca da varietà, viso di biacca. Lo accompagnano le musiche originali dal vivo eseguite da Mario Arcari (oboe, clarinetto e batteria – ha suonato anche per De André) e Maurizio Pellizzari (chitarra e tromba). Sono armonie di feste paesane, di processioni, echi amarcord alla Nino Rota.
Le luci si spargono rossastre sulle note dei musicisti, bianche sulla voce del narratore. Un bagliore lunare evidenzia i gesti delle mani. La voce di Perrotta è calda e spettrale, suadente e tambureggiante. Prendono forma giochi di parole, bisticci e strafalcioni verbali. Le mani disegnano geometrie di gabbiani. Gli sguardi scrutano l’orizzonte, nell’attesa ventennale di qualcosa sempre sul punto di accadere.
Nascono scenette ironiche da avanspettacolo, ma anche storie assorte, che narrano l’anima. È la voce di Telemaco, ma anche il delirante sogno del suo amico Antonio, lo scemo del paese, un pescatore che apre le cozze e le restituisce a quel mare mastodontico che percuote le coste, eppure è incapace di aprire una sola cozza. Il mare ricambia. Svela i suoi segreti a chi, come Antonio, sa ascoltare. Come le storie di Ulisse. Sono lotte ciclopiche, tempeste, diapositive che scorrono veloci sugli immaginari femminili. Sono richiami di Sirene, festini erotici, da Maga Circe, di maschi potenti e donnicciole compiacenti. Sono danze, silenzi, guerre e pianti.
Il mito aiuta a comprendere l’oggi. Dà voce e immagine a situazioni e paure dell’animo. È la vicenda di Telemaco, delle sue attese, tensioni e fantasie. È la storia di Ulisse, delle sue peripezie. Ma qui la figura simbolica non è mai in discussione, e questo padre aiuta anche nella distanza il figlio a crescere e a diventare uomo, molto più di tanti padri presenti in carne e ed ossa. A tenere uniti padre e figlio è il mare, con i suoi colori e i suoi linguaggi.
Quello di Mario Perrotta è un lavoro epico e introspettivo, divertente e toccante. Affrontare il mito significa affrontare un percorso di conoscenza. I viaggi della mitologia greca sono viaggi verso la consapevolezza. Questo teatro-narrazione coinvolge con la verità storica e psicologica di quel che riferisce tramite la finzione. Diventa esperienza emotiva interiore, incontro relazionale con l’esterno e con il mondo.

L’Odissea di Mario Perrotta
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E’ stato così

impacciatoreNICOLA ARRIGONI | E’ in apnea Sabrina Impacciatore, un’apnea che fa venire il mal di pancia e che ben rende E’ stato così di Natalia Ginzburg, romanzo adattato per la scena da Valerio Binasco. A trattenere il respiro è la platea stessa che segue passo passo quella che è una confessione, allucinata ma precisa, quasi una deposizione di un interrogatorio. «Gli ho sparato negli occhi», dice la donna riferendosi all’atto di disperata ribellione verso quell’uomo che ha sposato, di cui ha subito le assenze, i silenzi, i viaggi, l’amore per Giovanna, la sua ex. Il testo di Natalia Ginzburg affida alla paratassi l’accostamento di elementi descrittivi sulla vita di quella donna, una professoressa che incontra un uomo, crede di amarlo e di essere riamata, lo attende, lo insegue, lo sposa e da lui avrà una figlia. In E’ stato così c’è il montare di una tortura relazionale che è destinata a scoppiare nell’uccisione dell’uomo dai riccioli grigi e dall’impermeabile bianco, c’è l’angoscia per quella bambina che piange in continuazione e che morirà mentre la donna è con un’amica a Sanremo per fuggire dal marito assente.
Il testo di Natalia Ginzburg propone un concentrato delle debolezze, incertezze, paure femminili e lo affida a una donna che per Valerio Binasco ha l’allucinata femminilità di Sabrina Impacciatore. Occhi pesantemente cerchiati, un rossetto intenso sulle labbra carnose, i capelli neri raccolti, un abito elegante a suo modo seducente, Sabrina Impacciatiore è lì seduta davanti al pubblico, inchiodata alla sedia. Tre lampadine appese e uno sfondo floreale conferiscono alla scena qualcosa di sacro di ieratico, a tratti quella donna potrebbe sembrare una madonna laica, il cui dolore non conosce redenzione se non il colpo di pistola sparato per disperazione.
La tridimensionalità della scena si perde e lo sguardo è tutto nel muoversi delle labbra, nello sguardo perso nel vuoto di quella donna che si racconta, che confessa di aver sparato negli occhi a quell’uomo a cui è rimasta sposata per quattro anni. Il dolore, l’oppressione di quella donna che non ha nome è lì in Sabrina Impacciatore che è parola incarnata, voce e corpo inchiodato alla sofferenza e a quelle parole della Ginzburg che Binasco sa esaltare nella loro assoluta secca semplicitas.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=HwrSrmh1uoM&w=420&h=315]
e un’intervista alla Impacciatore per FuturaTV
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E’ STATO COSÌ di Natalia Ginzburg, regia di Valerio Binasco, con Sabrina Impacciatore, luci e scene Laura Benzi, costume Sandra Cardini, musiche originali Arturo Annecchino, produzione Pierfrancesco Pisani / Parmaconcerti / Teatro della Tosse / Infinito, al teatro Bellini di Casalbuttano, 19 febbbraio 2013.

Ultima Vez e l’avanguardia belga

wimvandekeybus_ultimavez_whatthebodydoesnotremember1BRUNA MONACO | Si è chiuso febbraio e così anche Equilibrio – Festival della nuova danza, una delle rare occasioni in cui a Roma si possano apprezzare spettacoli di danza contemporanea internazionali e di qualità. Anche quest’anno è stato il coreografo belga Sidi Labi Cherkaoui ad aver selezionato pièce e compagnie. Compagnie fiamminghe per la maggior parte, segno decisivo che oggi, sul fronte della danza contemporanea, il Belgio è l’avanguardia d’Europa. Da Bruxelles non solo Cherkaoui (oltre che direttore artistico autore di Puz/zle, andato in scena l’11 e 12 febbraio), ma anche Ali e Hédi Thabet (i fratelli belgo-algerini autori di Rayahzone). Belgi i Peeping Tom, che hanno chiuso la rassegna con la loro ultima geniale creazione A louer. E, a dispetto dell’ispanismo, anche Ultima Vez appartiene alla compagine delle formazioni belghe, fondata dal coreografo dal nome, invece, riconoscibilmente fiammingo: Wim Vandekeybus. What the body does not remember e Booty Looting i titoli dei due spettacoli portati a Roma da Ultima Vez. Due spettacoli che racchiudono tutta una carriera, i ventisei anni della compagnia, la loro prima e ultima creazione.

È con What the body does not remember che Ultima Vez esordì nel 1987, riscuotendo un gran successo di critica. Ora Wim Vandekeybus riporta in scena il capolavoro che fu definito “straordinariamente innovativo”. Forse per mettere alla prova il tempo e i suoi progressi: per verificare se “innovativo” possa suonare come una condanna, essere un’etichetta eterna. O per verificare se, oltre che innovativo, What the body does not remember sia al contempo capace di parlare ancora, a un pubblico nuovo. L’organico è cambiato rispetto al debutto: i danzatori sono duttili, giovani, bravi. Il What the body does not remember a cui assistiamo oggi è uno spettacolo impeccabile sul piano formale, che raggiunge dei picchi di grazia nelle coreografie: ipnotiche, ironiche, intense.

Strutturato in quadri che per scenografia, musiche e mood sono tra loro così lontani da far credere a tratti che si sia davanti a piccole pièce a sé stanti. Due uomini sono manipolati da una donna che sbatte le mani su un piano amplificato: ogni colpo sul piano un movimento dei danzatori. Colpo, movimento. Un colpo diverso, un movimento diverso. Prima lenti e pesanti, poi si fanno rapidi. La danza è un crescendo e così la pietà dello spettatore rapito da quel dibattersi al suolo, coatto, senza speranza di emancipazione, sempre a seguire i colpi sferzati senza cautela e amplificati al punto da risuonare come un castigo anche alle orecchie del pubblico. Secondo quadro: camminando su mattoni di tufo entrano in scena prima uno, poi due, tre quattro dieci danzatori. Ognuno costruisce e poi va per la sua strada. L’incedere è faticoso, difficile mantenere l’equilibrio. Quando la fatica vince, si smette d’esser costruttivi e i pezzi di tufo diventano palle da rugby da lanciarsi e schivare, in un gioco pericoloso che sembra condurre all’autodistruzione. Ma per fortuna cambia lo scenario, si passa al terzo quadro, i toni del gioco si fanno pastello come i colori dei vestiti e asciugamani che soppiantano i mattoni: i danzatori attraversano la scena incontrandosi, scontrandosi, ad ogni incontro una metamorfosi. Incontro, metamorfosi. Scambiano le giacche, i foulard e i danzatori si fanno trasformisti. Buio. Quarto quadro: tre donne a braccia e gambe divaricate vengono perquisite, palpeggiate, da tre uomini. Un’immagine che con grande efficacia riesce a mostrare (come scrive Anna Kisselgoff) “donne che, come partner consenzienti, accettano la denigrazione della propria persona”. Dopo un quinto quadro leggero in cui si susseguono tableau vivant costruiti intorno all’idea di vecchie foto di famiglia, What the body does not remember si chiude con la violenza dell’inizio. Ma questa volta la violenza non è unidirezionale: tutti sono vittime e carnefici. Ogni vittima è carnefice di qualcuno che a sua volta è carnefice di qualcun altro. Poi di nuovo vittima. Come accade nella vita, nella realtà. Come se solo sulla violenza reciproca sancita da un patto si possano fondare le relazioni, la fiducia. Un danzatore al suolo è oppresso da uno in piedi che lo sfida a non avere paura. E inizia la danza di un pestaggio o “calpestaggio” fatto di colpi sempre elusi che ricorda il flamenco, ma anche le prove di valore per entrare nelle società massoniche: mano aperta sul tavolo e il coltello salta come ostacoli le dita. Come in una celebre scena di Nell’anno del Signore, capolavoro di Luigi Magni.
Un filo rosso fra i quadri, per quanto sottile e spesso sfuggente, attraversa tutto lo spettacolo. E riguarda le relazioni di potere fra gli esseri umani. Quindi le relazioni tout court.

Se c’è una pecca in What the body does not remember è un briciolo di autocompiacimento di troppo, che fa sì che i primissimi brillanti minuti di ogni quadro siano seguiti da tanti altri, più lunghi, a volte inutili. Ed è in quei minuti in eccesso che si perde il filo della narrazione, si depotenzia la carica detonante dello spettacolo, si diluisce la concentrazione delle scene e dello spettatore.
Pecca assente, invece, nell’ultimo spettacolo. In Booty Looting Ultima Vez integra i linguaggi: il teatro si accosta alla danza insieme alla fotografia, alla video arte, alla musica dal vivo. Uno spettacolo complesso per la stratificazione dei piani di significato che parla dell’ossessione della memoria, dell’impossibilità di farne un racconto che sia vero. Tanto testo, tanti elementi scenografici e una fitta tessitura drammaturgica fanno di Booty Looting il rovescio di What the body does not remember che si esprime soprattutto attraverso coreografie e immagini.

La varietà stilistica e la ricerca di un modo sempre nuovo di essere “innovativo” fanno di Ultima Vez una compagnia fra le più interessanti viste quest’anno a Equilibrio al Parco della Musica di Roma, convincente nelle premesse quanto nell’approdo. E speriamo di rivederla presto in Italia, magari insieme a un po’ più di danza contemporanea, magari anche prima della prossima edizione Equilibrio.

Alcune sequenze di Booty Looting
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=XkCCc1v2eyo]

Edipo, re nella terra selvaggia

cecchi_reRENZO FRANCABANDERA | La riflessione che vorremmo svolgere nasce dalla visione ravvicinata dello spettacolo “Serata a Colono”, testo di Elsa Morante e regia di Mario Martone con, tra gli altri, Carlo Cecchi, in scena al Piccolo Teatro di Milano, e del film “Re della terra selvaggia”, opera prima del regista Benh Zeitlin, vincitore del Sundance Festival 2012 e divenuto celebre, oltre che per la scrittura visionaria della drammaturgia cui è ispirato, anche per la straordinaria interpretazione della piccola Quvenzhanè Wallis.
Il motivo della vicinanza di queste due creazioni è in una serie di trovate che le accomunano: innanzitutto l’universo extra moenia che fa da ambientazione ad entrambe. Mario Martone, infatti, pensa il soliloquio del suo Edipo in un manicomio, con la platea percorsa per tutto il tempo in lungo e in largo da folli, ognuno con il suo tic, la sua ossessione.
Il film pure racconta di vite ai bordi, ugualmente un padre e una figlia, immersi, è proprio il caso di dirlo, in un mondo di reietti, che hanno creato a modo loro una comunità, con un codice comunicativo etilico, incomprensibile, tanto che spesso vien da pensare che non si ascoltino neanche, in un’ebbrezza ambientale che non può che lasciare stranito lo spettatore.
In Serata a Colono, il pubblico è immerso nel via vai dei corridoi del manicomio, quasi implicitamente a fare parte del coro dolente dei suoi abitanti in abiti consunti, a trasformare il punto di vista del fruitore in quello del folle, incapace di comprendere il messaggio di Edipo, disperato per il suo destino, che leva al vuoto il suo pianto lirico.

Zeitlin, per quasi tutto il film, gira con la telecamera ad altezza di bambina, quasi per enfatizzare il suo punto di vista, costringendo lo spettatore a guardare il mondo come lei, misurando dal basso in alto l’altezza degli adulti, degli alberi, del paesaggio. Tutto diventa gigantesco e incomprensibile.
In questi scenari fuori dalla società civile, con punti di vista tipicamente estranei alla norma, le due figlie (Antigone e Hushpuppy) devono confrontarsi con la malattia del genitore moribondo, entrambe in un misto di sentimenti che oscilla fra la speranza che mai nulla finisca e la consapevolezza che invece la titanica e insieme crudele figura del genitore è lì per dissolvere la sua presenza fra parole, moniti e insegnamenti, spesso incomprensibili per gli occhi ancora ingenui.

Edipo, nel delirio di Colono, tuttavia, non si sforza di attivare nei confronti di Antigone un processo di formazione genitoriale, mentre il padre della piccola Hushpuppy procede, in maniera animalesca (si veda il frammento video in fondo all’articolo) a insegnarle come sopravvivere in un universo ostile ma del quale reclama la cittadinanza.
E se Edipo rifiuta il mondo che lo ha visto diventare re, maledicendo il destino così crudele con lui, nel film il genitore preferisce, piuttosto che farsi curare, andare a morire nella sua natura selvaggia, in un’ambientazione argomentativa onirica e spesso totalmente visionaria e bizzarra.

In questo il film risulta superiore allo spettacolo, se mai possa essere fatto un paragone di questo genere fra arti così diverse che stimolano in sensi in maniera così difformemente complessa. Ma, tant’è, nel tempo di incroci mass mediatici che è il nostro, la mente consapevolmente o meno crea collegamenti, sancisce ordini, priorità, supremazie.
Certo, è l’intento stesso dei due lavori a voler essere diverso: in quello teatrale la “folle” e poetica consapevolezza di Edipo resta non intellegibile da chi lo circonda, figlia, folli del manicomio, nessuno, perfino il pubblico, il film invece ha un ricco elemento da bildungsroman onirico-animale ed è il personaggio della figlia ad essere davvero una chiave di lettura e di sviluppo, il fulcro.
L’Antigone di Martone è invece un personaggio un po’ piatto, non sviluppato, di rustica inconsapevolezza, monodico in un recitato popolar-cantilenante, che paradossalmente finisce per appiattire la figura paterna in una necessità di titanica decadenza, che forse è anche un po’ estraneo al pensiero della Morante, ove se ne potesse certificare l’interpretazione autentica, cui certamente Cecchi, per il suo vissuto amicale con la scrittrice, sarebbe comunque più vicino.
Ma se di nave dei folli deve parlarsi, di lucida allucinazione, abbiamo sentito più viva e necessaria quella della Grande Vasca, dell’umanità derelitta che la abita ne il “Re della terra selvaggia”. I due padri muoiono, scompaiono. Edipo si dissolve addirittura nel nulla. L’altro viene arso sulla pira dalla figlia. Forse è proprio la questione di fondo che ha mosso in noi il paragone fra le due visioni: in una, il film, vive una speranza, mentre nell’Edipo, nella lettura di Morante-Martone-Cecchi no. Di questi tempi poco ci resta: toglierci pure la possibilità non dico di un lieto fine, ma di un futuro, persino preistorico e da naufraghi, ma pur sempre futuro…

Un significativo frammento del film disponibile su youtube, in cui è sintetizzato il processo di crescita padre-figlia
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=8Ud0SC9JPO8]
Alcune sequenze di Serata a Colono
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=iXMiTW7aU4s]

Riflessioni sugli spazi dell'arte al Rossi Aperto Pisa: Lecat/Guidi/Settis – il videoreport

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ANDREA CIOMMIENTO | Pubblichiamo il videoreportage conclusivo che vede come protagonisti Jean-Guy Lecat, Chiara Guidi, Salvatore Settis intervistati durante i giorni di workshop “Lo spazio teatrale tra tradizione e innovazione” (6/7/8 febbraio 2013) curato da Jean-Guy Lecat, consulente per progetti di recupero in numerosi teatri nel mondo e scenografo per trent’anni del regista inglese Peter Brook*.

Lecat ha abitato lo spazio del Rossi Aperto di Pisa cercando insieme ai partecipanti le possibili soluzioni d’intervento per riportare in vita gli spazi del teatro, senza dimenticare lo sguardo di un ambiente che diviene agorà, piazza d’incontro fra culture e saperi differenti, come già da mesi il palcoscenico del Rossi suggerisce con le sue finestre e porte aperte sulle strade della città.

Il videoreportage (intervista a Jean-Guy Lecat, Chiara Guidi, Salvatore Settis):

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=3-nO363qI3Y&w=560&h=315]

Il podcast sull’esperienza del Centro Culturale il Funaro di Pistoia (Premio Ubu 2012) per voce di Lisa Contini:

“Stiamo vivendo un momento molto speciale: siamo reduci dalla vittoria del Premio Ubu 2012…” L.C.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=Zagi2L708Qo&w=560&h=315]

Il podcast sull’esperienza del Teatro Sociale di Gualtieri (RE) per voce di Riccardo Paterlini:

Un consiglio per il Rossi Aperto? “Creare un dialogo con le istituzioni per farlo diventare un’esperienza stabile, dimostrare che sei in grado di fare qualcosa, di funzionare.” R.P.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=1W4It3XNZ2g&w=560&h=315]

Il podcast sul primo giorno (6/2) per voce di Sandra, “abitante” del Rossi Aperto:

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=FvwPdQ1LhAE&w=560&h=315]

Il podcast del 5/2 con contributi di “abitanti” e ospiti del Rossi Aperto:

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=FvwPdQ1LhAE&w=560&h=315]
PROGRAMMA

Mercoledì 6 e giovedì 7 febbraio 2013

dalle ore 10 alle 13 – Lavoro pratico di progettazione sullo spazio. Analisi del contesto architettonico dell’edificio, costruzione di ambienti scenici, ipotesi realizzazione impianto di illuminotecnica e studio delle potenzialità acustiche.

6 febbraio dalle 15 alle 18 – Narrazione e panoramiche su progetti nazionali e internazionali di recupero funzionale di teatri e spazi storici in disuso; a cura dello stesso Lecat

7 febbraio dalle 15 alle 18 – il caso de Il Funaro a Pistoia, interviene Gianluca Mora – architetto del progetto e Lisa Cantini organizzatrice; il caso del Teatro Sociale di Gualtieri e dell’associazione che lo gestisce.

Venerdì 8 febbraio 2013

dalle ore 10 alle 13 – Lavoro pratico di progettazione sullo spazio.

dalle ore 15 alle 16.30 – Chiusura del workshop con discussione pubblica delle ipotesi realizzate insieme a Lecat.

Dalle 16.30 alle 17.30 – Un esempio di trasformazione dello spazio presente. Testimonianza di Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio sul Teatro Comandini di Cesena.

dalle ore 17.30 alle 19.30 – “Bene storico-artistico/Bene comune. L’arte tra tutela, normative giuridiche e nuovi modelli di progett/azione partecipata”

Conversazione con Salvatore Settis (storico dell’arte, ex direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa) e Ugo Mattei (giurista, professore di “diritto internazionale comparato”, autore del manifesto Beni Comuni, ed. Laterza).

A seguire interventi e testimonianze sulle trasformazioni del presente e i nuovi spazi di creazione. Saranno presenti Teatro Valle Occupato, Cinema Palazzo, Teatro Garibaldi, Teatro Sociale di Gualtieri.

La sera dell’ 8 febbraio a partire dalle ore 21.30 concerto de Les Anarchistes Alessandro Danelli – voce, Nicola Toscano – chitarre, Max Guerrero – live electronics, con la partecipazione di Ellie Young – violoncello.

Nelle altre sere sono previsti appuntamenti di musica e teatro.

Aggiornamenti sul programma www.teatrorossiaperto.blogspot.it

Lisistrata e la primavera araba

urlALICE CANNONE | Parlando della donna, Aristofane nel suo Lisistrata (Λυσιστράτη) scrive che “non si può vivere con questo accidente, né senza!” (vv. 1038-1039). Ma se per il commediografo greco alcune donne avevano il potere di “sciogliere gli eserciti” (da cui, appunto il nome Lisistrata), per altri oggi il ruolo cruciale della donna ha la potenza geopolitica di quella celebre sineddoche su cosa e quanto possa trainare un bulbo pilifero. Questa incredibile potenza femminea sembra avere poco a che vedere con il ruolo cruciale che il sesso femminile ha avuto a Plaza de Mayo o più recentemente in Libia.

Si sostiene infatti che oltre all’ambizione della parola negata, all’esaurimento delle speranze esistenziali, all’urgenza di libertà, vi sia dietro un compressissimo desiderio erotico: a sostenerlo è l’immunologa, giornalista e consulente Onu Shereen El Feki che nel saggio «Sex and the Citadel: Intimate Life in a Changing Arab World» indaga il background culturale egiziano e trova i semi della rivoluzione di Tahrir nella repressione sessuale. Come se ad un certo punto si dicesse ai francesi che la loro Rivoluzione illuminata è avvenuta solo perchè ad un certo punto qualche represso volesse concupire la boccola Maria Antonietta mentre addentava brioches.

L’intellighenzia illuminata occidentale ha comunque pensato bene di interrogarsi sul peso che hanno avuto gli ormoni nella spallata del 2011 allo status quo: alcuni anni fa la rivista Foreign Policy intitolò «Geopolitica della frustrazione sessuale» l’inchiesta sugli uomini asiatici che, a corto di mogli, sublimavano la solitudine votandosi al nazionalismo radicale. In seguito il politologo Ian Buruma ipotizzò un legame tra repressione sessuale e terrorismo islamico, una tesi cara anche all’orientalista Bernard Lewis e in apparenza confermata dal 23enne nigeriano Umar Farouk Abdulmatallab, pronto a saltare in aria sul volo per Detroit a Natale 2009 dopo aver confidato alla Rete le ansie e i turbamenti di un single coatto. E di qui a teorie à la “Voglio una donna” da Amarcord il passo è breve: “A conti fatti la Primavera Araba è stata la manifestazione politica di una frustrazione culturale” osserva Chloe Mulderig, ricercatrice della Boston University e autrice dello studio «Adulthood Denied: Youth Dissatisfaction and the Arab Spring».

L’aforisma che in questi giorni ha fatto il giro della rete: “La Grecia è al collasso. Gli iraniani stanno diventando aggressivi. Roma è nel caos. Bentornati al 430 A.C.” sembra un monito veritiero, ed è proprio da un certo passato che bisognerebbe ripartire. Chè, ammesso e non concesso che certe teorie siano davvero esplicative di una realtà certamente molto più complessa, va anche detto che un po’ di sana astinenza non ha mai fatto male a nessuno. Anzi: lo sciopero del sesso della Lisistrata di cui sopra è la dimostrazione di una strategia win-win di medio lungo termine per certe operazioni di peacekeeping. L’Acropoli viene occupata dalle donne, che si sono impadronite del tesoro pubblico; i vecchi di Atene hanno tentato di riconquistarlo e sono stati respinti: soltanto allora il probulo che li guida viene incitato a interrogare Lisistrata sui motivi della sua azione inusitata . Gli argomenti di quest’ultima, in sostanza, sono i seguenti: le donne sono state coinvolte in una decisione politica catastrofica, la guerra, senza aver potuto partecipare alla sua deliberazione, perché obbligate – pur essendo cittadine e svolgendo nella polis una funzione vitale – a tacere e stare in casa. Il colpo di forza, e la virata strategica dell’astinenza in questa situazione, era l’unico modo per farsi ascoltare e salvare la città dalla rovina. Lisistrata vince perché il suo ricatto ha avuto successo a causa della incontenibile incontinenza maschile; i personaggi maschili disconoscono a cuor leggero la maternità della strategia, preferendo attribuirla al vino: “ – … E noi, anche bevendo, ci siamo comportati saggiamente. / – E’ naturale, visto che quando siamo sobri ci comportiamo da stupidi. – (Lys. vv. 1227-1228)”. Oggi più che mai.

Dal faceto al serio, un documento video interessante dell’Oslo Freedom Forum 2012 sulle evoluzioni nel mondo arabo dopo le rivolte del 2011

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=f9zd5DBj6v8]

La creatività che fa "scintille"

17164742VINCENZO SARDELLI | Sbarazzina e pimpante la rassegna teatrale dedicata alla nuova creatività al Menotti di Milano. Sul palco le due compagnie, Idiot Savant e ZwischenTraumTheater, che hanno ottenuto lo scorso anno alla rassegna “Scintille” di Asti rispettivamente la menzione speciale e il primo premio.

L’intento programmatico di Idiot Savant è già nel nome: un ossimoro che qualifica persone con ritardi mentali gravi, con insospettabili talenti soprattutto di tipo creativo.

Sottilmente geniale, amabilmente idiota è la pièce portata in scena dalla compagnia, dal titolo “Shitz – pane amore e… salame”, tragicommedia musicale del drammaturgo israeliano Hanoch Levin. Due tempi senza intervallo, due ore di buona recitazione, con qualche lungaggine finale di troppo.

L’umorismo Yiddish della pièce esibisce le proprie debolezze in modo onesto. L’effetto è liberatorio. Tanta carne al fuoco: sfaceli familiari, attaccamento al denaro, un cinismo nero pieno di battute politically uncorrect sfacciate e autoironiche.

La scena è per una famiglia di ebrei osservanti, seduti attorno a un tavolo. Sulla destra, in primo piano, un improbabile quanto ironico chitarrista attacca canzoni una più demenziale dell’altra. Le note balenghe ispirano, con effetti teneri ed esilaranti, le velleità canore e ballerine dei protagonisti, dagli attributi sessuali goffamente accentuati da sacchi-marsupio.

La storia. Shitz, capelluto e barbuto capofamiglia, e quel maschione di sua moglie Setcha, sono occupatissimi a far sposare la figlia Shpratzi, aspirante orfana e single disperata, paranoica ripiegata in un’orgia di cibo senza scampo. Ma oplà, la ragazza s’innamora, ricambiata, del giovane Tcharkés, vanaglorioso arrivista senza scrupoli, che decide di sposarla. Festeggiamenti folli, poi un turbine di peripezie trascina la famiglia dall’impudica felicità verso lo sconfortante annientamento dovuto alla malattia e alla guerra. Guerra e malattia sono mali endemici di questa scapestrata famiglia, i cui accidenti sono esaltati dalle intuizioni genialmente comiche della cultura Yiddish.

Bravi gli attori, buona la regia, con un ritmo e una vicenda che tiene pero solo per due terzi della durata. Perché poi i protagonisti s’innamorano degli applausi, si avvitano in un monocorde narcisistico esercizio di stile, e non ne vogliono più sapere di scendere dal palcoscenico.

Peccato di gioventù. La prossima volta i protagonisti Giuseppe Barbaro, Pier Paolo D’Alessandro, Mauro Lamantia, Valentina Picello e Mattia Sartoni (musiche originali Filippo Renda e Simone Tangolo) sapranno limare quei buoni venti minuti: lo spettacolo guadagnerà in leggerezza e gradimento.

Leggerezza e gradimento sono invece abbinamento riuscito col senso della misura nello spettacolo “Stranieri”, della compagnia svizzera ZwischenTraumTheater, vincitore del premio Scintille. “Stranieri” è una riflessione sui temi della tolleranza e della multietnicità. Lo spettacolo, molto fisico, unisce danza, recitazione e musica. La pièce, originale, è fatta di storie personali, di fughe verso la libertà, di confronti fra culture sui temi dell’ingiustizia.

Sono storie di sogni. S’intrecciano musiche e voci. Lingue diverse si fondono, scivolano con le immagini che evocano.

Sette attori di tre nazionalità (italiana, belga, tedesca) sul palcoscenico si frantumano a incarnarne altre identità ancora: maghrebina, russa, rumena. Si rifugiano in uno scantinato senza documenti, senza nome né privacy. Sono clandestini, persone illegali che vivono di espedienti, sfruttati dal lavoro nero. Sono laureati costretti all’elemosina, persone che si vendono, richiedenti asilo, persone cui non è stato rinnovato il permesso di soggiorno, gente di passaggio che si nasconde.

Lenzuola appese, costumi multicolori, danze e note esotiche: “Stranieri” è un coro d’immagini, di parole che diventano ricordi, paure, bisogni. Uomini e donne evocano altri uomini e altre donne. Sono frammenti di storie recitate in coro, voci solitarie che rompono il silenzio, immagini veloci di volti, di labbra e di occhi.

Il palco diventa vaudeville e bidonville, corsa di movimenti. È una multicultura dissacrante e ironica, senza vittimismi, e senza nascondere i problemi che stanno dietro ogni esperienza di viaggio, dietro il tentativo spregiudicato di evadere dalla miseria. È un melting-pot dinamico che dalle parole passa per il corpo e raggiunge vorticose espressività. Il gioco spiazza il pubblico, con una marea di danze soft, individuali e corali, che si sposano con la sceneggiatura.

I versi finali di “Siamo figli di nessuno”, poesia del fotografo iraniano Reza Khatir, ci ricordano che, da qualunque parte veniamo, ognuno in fondo racconta una sola storia: lasciare alle spalle il passato, scivolare sul presente, immergersi in apnea nel futuro. Laura Belli, Daniele Bianco, Lea Lechler, Daniele Pennati, Adele Raes, Lorenzo Torracchi, Jördis Wölk contribuiscono ciascuno col proprio punto vista a creare un lavoro omogeneo che tocca corde profonde, e che elude ogni tentazione virtuosistica fine a se stessa.

SHITZ della compagnia Idiot Savant:
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=OKBvbZszB0E]
STRANIERI della compagnia svizzera ZwischenTraumTheater:
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OPEN | Daniel Ezralow’s New Show

ezralow_notemusicali_lowdef.1354719324NICOLA ARRIGONI | C’è voglia di conferme e leggerezza, c’è voglia di ‘tradizione’ e disimpegno al tempo stesso, c’è voglia di ritrovarsi per un’ora e mezza a guardare un gruppo di danzatori che colorano di fantasia e di déjà vu lo spazio scenico con video e videoclip e qualche concessione alla sensibilità ecologista. Open di Daniel Ezralow è il nostalgico centone di quella danza visiva e ottimista che ebbe alla fine degli anni Ottanta i suoi capofila nei Momix e negli Iso – non è un caso che in entrambi i gruppi abbia militato Daniel Ezralow -, per quanto riguarda la danza visuale, e in Alan Parsons Dance per una coreografia di tipo atletico/contemporanea. Tutto ciò confluisce in Open di Daniel Ezralow uno show multicolore che strizza l’occhio allo spettatore, frequenta un linguaggio coreografico neoclassico, senza per questo rinunciare ad una modern dance che alla fine esce prepotente nei saluti finali e nelle prove solistiche dei singoli Chelsey Arce, Dalila Frassanito, Santo Giuliano, Stephen Hernandez, Kelsey Landers, Re’Sean Pates, Marlon Pelayo, Anthea Young.

I quadri si costruiscono su un’antologica di pezzi ipercelebri della tradizione classica dai Notturni di Chopin, al Romeo e Giulietta di Prokovief, da Ponchielli a Beethoven, ad una Carmen giocata con pupazzini e ballerino en travesti. La colonna sonora preclara che fa da sostegno a una serie di situazioni: dalla palestra, alla vita frenetica di una sorta di commesso viaggiatore, dalla sfida pugilistica di due promessi sposi, all’ecologica condanna dello spreco di energie e materie prime, in nome di un rispetto dell’ambiente. C’è di tutto in Open, ma soprattutto c’è la nostalgia di una vitalità che pare un po’ raggelata nello stile anni Ottanta, che come dire è puro svago, senza poesia ed emozione. Si avverte in Open un gioco stanco, a tratti ripetitivo che non scatta, non emoziona e quando va bene fa apprezzare un pizzico di atletismo dei danzatori in scena. In realtà il pubblico risponde, vi si ritrova, è ululante nel seguire quei danzatori il cui corpo non fatica a metamoforsizzarsi nella proiezione video, perché la loro fisicità, la loro plasticità è alla fin fine bidimensionale, ologramma di sudore e corpo prestato ad un danzare dell’occhio che Daniel Ezralow ha costruito e affinato in favore di telecamera, gestendo le coreografie di grandi show dello sport universale. In tutto ciò l’occhio dello spettatore riposa e si accasa, in tutto ciò c’è l’anestetico di una bellezza colorata e che vuole stupire con effetti speciali che sanno del tempo che fu, che a tratti fanno tenerezza e non possono che essere premiati dal bisogno presente di sicurezza e conferme, sicurezza e conferme che si possono recuperare negli anni in cui eravamo spensierati, giovani e carini….

 
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Cantiere Koltès

ELENA SCOLARI | La regia di Renzo Martinelli riporta all’attualità Lotta di negro e cani, testo del 1979 di Bernard-Marie Koltès, in scena al Teatro i di Milano fino al 12 marzo 2012.

Più che in scena questo spettacolo è “in cantiere”. L’ottima, davvero ottima idea scenografica di Martinelli, padrone di casa del Teatro i di Milano, ha trasformato infatti il teatro in un cantiere. Niente più platea e palco: un vero e proprio ponteggio rettangolare è l’impalcatura sulla quale, ad altezza primo piano, sono collocate le file di poltrone sui quattro lati, gli spettatori vedono quindi la scena sotto di loro, o per meglio dire, la controllano dall’alto.

Siamo in Africa, in un cantiere edile francese, l’ingegnere bianco Cal ha appena ucciso in un dubbio incidente un operaio nero e ha fatto sparire il corpo gettandolo nelle fogne.  Il fratello Alboury viene a reclamarne il cadavere presso il capocantiere Horn, lo vuole restituire alla madre per rappacificare il suo dolore. Ma il morto non c’è e non ricomparirà più.

Questa la fosca ambientazione di un testo disperato, cupissimo, scritto da Koltès in una lingua (è stata scelta la traduzione di Valerio Magrelli, adattata da Francesca Garolla) teatralmente difficile perché insieme colloquiale e antinaturalistica.

L’impianto scenico è forte, il pubblico diventa realmente il guardiano del cantiere, dei fatti e delle parole che vi scorrono, sorveglia, quasi spia la soffocante atmosfera, rimanendo “sollevato” ma non distante. L’allestimento è indubbiamente elemento pregevole e imprescindibile di questa messinscena, aiuta molto un testo plumbeo e privo di speranza che, a nostro parere, è altalenante nella sua resa. Lo spettacolo dura due ore e nella prima metà si avvertono ridondanze e lungaggini che, se non inserite in uno spazio dinamico e originale come quello inventato dal regista, appesantirebbero non poco il lavoro.

Le voci degli attori sono raccolte da microfoni panoramici sparsi sul ponteggio, creando un interessante effetto di eco che dona una sacralità paradossale alla bassezza di ciò che viene detto e che vediamo accadere. Suoni sgraziati e neon lividi accompagnano i movimenti dei personaggi prigionieri di un luogo ostile.

Abbiamo nominato i primi tre personaggi che compaiono in scena: lo sgradevole Cal, il ruolo più difficile, è reso nevroticamente efficace da Rosario Lisma, Alberto Astorri è il duro capocantiere Horn, teso a risolvere razionalmente il “pasticcio”, Alboury è il fratello della vittima, interpretato da Alfie Nze, la cui rigidità è coerente con il tono fiero del suo personaggio. Horn non è però appiattito sulla sua reazione pratica all’incidente, ha anche un lato fragile, quasi tenero: si fa raggiungere in Africa da Léone (Valentina Picello, convincente nel suo stato di stralunata illusione), una delicata commessa parigina che ha mollato il lavoro per seguire e sposare quest’uomo appena conosciuto. L’azzardo non si rivela fortunato e il mazzolin di fiori che Horn, maldestro, cerca più volte di porgerle, finirà nel fango. Come i sentimenti, la giustizia e la pietà calpestati in questa storia cruda e buia.

Obiettiamo a chi ha definito datato il testo di Koltè dicendo che il punto di interesse di Lotta di negro e cani, scritto più di trent’anni fa, non è nel tema del razzismo, pur presente, bensì nel fallimento umano e privato di queste quattro persone, che non riescono a incontrarsi davvero, a capirsi, ad aiutarsi. Alboury il negro non entra in comunicazione con gli altri proprio come non si capiscono gli altri tra di loro, seppur uniti dalla stessa etnia e dalla stessa lingua. Il problema è nella lotta, nel rapporto di continua contrapposizione tra gli uomini, che ormai faticano a fidarsi l‘uno dell’altro.

Ecco perché il capocantiere Horn offre il whisky al fratello nero dicendogli: “Fidati, fidati dell’alcool”.

Il Pantani delle Albe – videoreport

Albe-PantaniRENZO FRANCABANDERA | Non ho mai inserito nel commentare uno spettacolo il mio privato, perché ritengo la prassi totalmente inutile e nociva. Nel caso di Pantani, però, non posso andare con la memoria alla sera passata al Teatro Massimo di Cagliari senza ricordare che è stata la prima volta che la mia piccola bimba di appena sei giorni ha messo piede in un teatro, e agli sguardi amorevoli di Ermanna, Marco e di tutta la compagnia, compreso il fisarmonicista che ha eseguito per lei una ninna nanna in assolo prima dello spettacolo. Per me Pantani è iniziato così.
Se è vero che il mondo del teatro, come quello del ciclismo si ricorda durante lo spettacolo, va avanti un po’ fra gelosie e piccole cattiverie sottolingua, ricordare questo frangente personalissimo è anche un modo per dire che il teatro sa anche essere comunità accogliente, tentativo di dialogo, non vorrei dire famiglia per non scivolare nella melassa peggio di Ofelia nel fiume, ma a volte è un consesso umano capace di riscaldare l’animo.
Torniamo ora lucidamente a Pantani.
Lo spettacolo è un’inchiesta-narrazion-farsesco-coral-epic-tragicomic-dramma contemporaneo sulla vicenda del figlio di una famiglia modesta che, dopo la gloria, termina la sua spericolata fuga nella polvere. Ascesa e declino di Marco Pantani non raccontata da lui medesimo, in una struttura drammaturgica composita che ingloba diversi generi del teatro, senza appiattirsi su nessuno di loro.
La narrazione del vissuto dello sportivo avviene attraverso i ricordi delle persone a lui più care, la famiglia, gli amici, il giornalista che l’ha seguito quando era meno comodo, nel tentativo di andare oltre la damnatio memoriae mediatica a dieci anni dalla sua scomparsa. Lo spettacolo, non breve, si fa seguire senza mai appoggiarsi sulle note della noia.
Qualcosa, nel nostro sentimento sulla fruizione, resta da registrare nella seconda parte dello spettacolo, dove il ritmo del travolgente primo tempo viene sostituito da una narrazione più intima e meditata, cui viene però un po’ meno la lama affilata della prima. Ma di spettacoli di tre ore e mezza di tragedia contemporanea che filano a questo ritmo non se ne ricordano molti. Assai più spesso si assistite a proposte indigeste e autoreferenziali. Forse alla fine lo spettacolo parteggia, si schiera. Ma almeno, in questo, dichiara l’intento, palesa il punto di vista. E’ più corretto di quando a volte la scena, eletta a giudice supremo, si appella alla finta indipendenza, cercando impossibili equilibrismi ed equidistanze alla buona.

Che Pantani sia, scorrendo le pagine dell’epos, un Ettore o un Edipo (ovvero se cada, suo malgrado, da innocente o colpevole) non lo potremo forse mai dire con certezza, ma sicuramente interrogarsi è giusto. Lo spettacolo va visto, anche e soprattutto per ricordare un tempo, un decennio, di cui questa vicenda assume caratteristiche assolute, che vanno da quella del ragazzo della riviera romagnola, a quella di un’Italia tutta, illusa dal successo e poi tradita, violentata, e gettata lì a morire sola.

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