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martedì, Gennaio 14, 2025
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Scontro di civiltà in cucina: ovvero dell’etica protestante nello spirito di Masterchef

hamburger offensivoALESSANDRO MASTANDREA | “Questo hamburger è offensivo a me e a tutti i cittidini americani. Fa schifo, è una merda”, e giù il piatto nella pattumiera. Se mai il lancio del piatto di porcellana divenisse specialità olimpica, Joe Bastianich avrebbe buone possibilità di vittoria. Figlio d’arte e migrante di ritorno, il Moriconi Nando della ristorazione internazionale, forma assieme a Carlo Cracco e Bruno Barbieri il trio più temuto d’Italia, secondo solo – per rimanere in ambito cinematografico- alle “tre madri” della famosa trilogia di Dario Argento. Pur avendo ben poco di atletico, Masterchef ha tutti i connotati di una vera e propria gara, disseminata di insidie e ostacoli dietro ogni angolo, una lotta contro il tempo e contro i climi torridi di una “cucina infernale”.
Non c’è spazio per perdenti e “dilusioni”, nella master class dei tre famosi giudici si gareggia per vincere, perché alla fine “ne rimarrà uno solo” ad accaparrarsi il “malloppo”.

E’ lo spirito dell’autoaffermazione e del primato a ogni costo che innerva i talent show, e MasterChef in particolare. Evoluzione e superamento dei vecchi format che hanno costellato l’esperienza televisiva dello scorso decennio, questi “reality 2.0” rifuggono come la peste “l’uomo senza qualità”, allora così ricercato, per qualcuno che invece si faccia portatore del saper fare. Tanto caro a questa fase politica di “larghe intese”, “il fare” assurge a vera e propria categoria dello spirito, mezzo imprescindibile per la vittoria finale e il primato, segno di appartenenza all’elite dei vincenti e predestinati. Da dove provenga questa richiesta incessante di cucina non è dato sapersi, eppure, a dispetto di ritmi di vita sempre più serrati che con la cucina mal si conciliano, l’arte culinaria è al centro di un’offerta mediatica tra le più intense, con il talent suddetto quale punta di diamante. Il cibo e la cucina –inteso come luogo fisico- in Mastechef assumono un doppia valenza: quello di ambiente familiare, caldo e inclusivo, e di cibo come elemento accomunante legato al piacere e alla sussistenza, ma anche luogo in cui la temperatura da tiepida e familiare vira al calor bianco. Dove, a suon di cucchiarelle in legno, si consumano le più accese rivalità, la lotta per il primato si gioca senza esclusione di colpi e le strategie si fanno spietate. Ambiziosi e determinati i concorrenti di Masterchef volano alto con le ricette, così come i tre giudici con le metafore: “il tuo foie gras è come macchina d’epoca, spande olio dappertutto”.

Ma il format ideato dal britannico Franc Roddam riflette anche un altro tipo di metafora, che difficilmente riusciremmo a cogliere senza guardare a Tiziana Stefanelli, vincitrice della seconda edizione. Avvocato di successo, moglie e madre di famiglia, da subito conquista il cuore di pietra dello chef Cracco, forse per le sue indubbie doti di angelo del focolare: “Io e Andrea siamo rivali, quindi lo squarterò”; “ A mia figlia dico sempre che l’importante è partecipare, ma noi tutti sappiamo che l’importante è vincere”. Ma si sa, i sani principi da soli non bastano a dar conto di una vittoria, e nel caso specifico potrebbe essere necessario scomodare nientemeno che Max Weber. Sbaglieremmo poi tanto se affermassimo che M-Chef riflette quella stessa etica protestante, di matrice calvinista, che nel famoso saggio del sociologo tedesco è individuata quale causa dello sviluppo capitalistico occidentale? In quest’ottica il successo non risulta più fine a se stesso, ma diviene anch’esso il segno della grazia divina operante su colui che alla vittoria è stato predestinato. E le parole della vincitrice si caricano quindi di nuove sfumature: “qualsiasi cosa si può fare nella vita, basta crederci tanto e avere determinazione”; “A vincere mi sento nel mio”. Per l’ignaro semifinalista Andrea, la sorte aveva già deciso. Le aspirazioni a un cambiamento, a una svolta nella propria esistenza, non potevano che infrangersi contro la coscienza della predestinazione, di un’appartenenza alla stessa elite dei tre chef -giudici che tutti ammirano.

scabin terra cuochiGrazie alla forza omologante dei format, l’etica protestante di cui Weber parla, pare aver trovato il proprio luogo ideale in cucina, contagiando perfino noi italiani, popolo fiero delle proprie tradizioni gastronomiche e dalla cultura cattolica. In questo clima di contrapposizione tra riforma e controriforma culinaria, che molto occhieggia al passato, quella che qui definiamo l’etica cattolica non poteva non abbozzare una contromossa, affidandosi alla veterana dei fornelli raccontati, Antonella Clerici e al superchef Davide Scabin. Ne la loro Terra dei cuochi, all’aria spietata tipica dei talent, si sostituisce il più nostrano clima alla “volemose bene”. E la differenza si vede, soprattutto nella sorte riservata ai non meritevoli. Se nel format anglosassone sono sottoposti a una vera e propria espulsione dal “corpo” della trasmissione, attraverso un angusto corridoio che tanto assomiglia a un budello, ne La Terra dei cuochi, il perdente, pur nella sconfitta, è comunque riammesso in studio dalla puntata successiva, sorta di perdono ricevuto dai due sacerdoti officianti. Scabin diviene il difensore della tradizione gastronomica italiana, mentre il manto di giudici implacabili è vestito nientemeno che dai familiari dei concorrenti, chiamati a deciderne le sorti. A completare il quadretto familiare, vi sono gli assistenti-padrini. Dall’indubbio blasone televisivo, costoro si caricano della stessa valenza religiosa di coloro che accompagnano i novizi verso i sacramenti più importanti, oppure, più pragmaticamente, di introdurre i concorrenti nel difficile mondo del madia televisivo, consiglieri e raccomandatori al contempo.
D’altro canto nella cattolicissima Italia è così che funziona: senza raccomandazione non si va da nessuna parte. Neanche in cucina.

Origami di banconote per mazzi di fiori della contemporaneità

Camille HenrotSABRINA VEDOVOTTO | Di tempo ne è passato a sufficienza per poter fare una analisi lucida e il più possibile oggettiva. Mai come quest’anno si è attesa tanto la preview della Biennale di Venezia. Già, perché è di questo che ci accingiamo a parlare. Una Biennale dalle aspettative incredibili, vuoi per il nome del curatore italiano, Massimiliano Gioni, vuoi per la sua giovane età, ma soprattutto per la mole di personaggi invitati, non tutti artisti. Ma di questo si è già detto. Il palazzo enciclopedico, questo il titolo della grande mostra, non tutti artisti, non tutti vivi, molti artigiani, molte persone al di fuori di ogni contesto artistico etc etc.
Non è necessario entrare nel particolare della grande mostra, già è stato fatto ampiamente, vorrei però sottolineare qualche particolare, qualche elemento di riflessione. La mostra di Gioni ha la caratteristica di poter essere letta con una duplice chiave, in maniera piuttosto superficiale, veloce e senza soffermarsi troppo, oppure invece cogliendo ogni piccolo particolare, ogni minimo segno di possibile riflessione. Come già scritto da molti, e da lui stesso affermato, è una mostra che racconta una intimità propria, un desiderio di conoscenza talmente vasto che appare impossibile a chiunque. Uno scibile tanto ricco, un numero così ampio di partecipanti, un numero di opere incredibile, e oltretutto opere enciclopediche appunto. Una mostra che richiama ad una introspezione, che fa l’occhiolino all’irrazionale, al supposto, a quello che si definisce l’onirico. Ma non solo. In questa enciclopedica visione del mondo, si osservano quelle che potremmo definire delle paranoie di questi cosiddetti artisti. Un lavoro estenuante, lungo, laborioso e a volte assurdo, ma perfettamente in tema con la mostra.

Nel voler leggere i lavori presenti con un atteggiamento approfondito, bisognerebbe avere la possibilità di vedere la mostra forse per dieci giorni, con interruzioni almeno di una settimana, per poter assorbire, digerire, e avere dei pensieri che abbiano un senso logico. Vederla in pochissimo tempo ti dà solo la possibilità di assaggiare, di percepire quello che potrebbe dire, gli insegnamenti che potrebbe dare o anche i paradossi che si potrebbero scoprire. È dunque, volendo essere davvero banali, tutto e niente, dipende appunto da come si vuole leggerla. I capolavori si intuiscono immediatamente però, anche solo vedendola in due ore; ed è così che il video di Camille Henrot, e la performance di Tino Sehgal (rispettivamente Leone d’argento e Leone d’oro alla Biennale) sono due lavori che i miei occhi hanno subito recepito come opere con la O maiuscola. Il mio debole per Sehgal forse mi ha impedito di essere obiettiva, ma il video della giovane artista francese, da me mai sentita prima, aveva un qualcosa di molto particolare, e non è un caso che la stanza dove veniva proiettato fosse stranamente piena (stranamente perché di solito, nei casi di grandi mostre i lavori video purtroppo vengono fruiti in maniera superficiale).

Charles RayUna volta usciti dalle sale della grande mostra, tutto ciò che è stato appena detto perde di senso e significato, perché i padiglioni non sono solo intimi e riflessivi, ma sono soprattutto molto proiettati verso la realtà contingente. Chi con opere dirette, chi con discorsi edulcorati, molti artisti hanno infatti scelto di raccontare cosa sta succedendo. Hic et nunc.

Sbilanciandomi direi che il premio come miglior padiglione forse sarebbe dovuto essere assegnato alla Grecia, per un lavoro incisivo, intenso coraggioso forte, ma soprattutto contemporaneo. Tre video di rara bellezza, in cui le storie di altrettante persone si intrecciano, in modo sottile ma inequivocabile. Lo sfondo è una triste Atene, desolata abbandonata, deserta quasi.

C’è un immigrato che raccoglie ferrivecchi nei cassonetti, ma che poi all’interno di uno di questi trova un mazzo di fiori realizzato con origami di banconote, c’è un giovane che va in giro a filmare la città con il suo ipad fino a che non trova i ferrivecchi abbandonati dall’immigrato, e poi infine c’è una vecchia e sola collezionista, che nelle sue tediose giornate trascorre il tempo a fare forgiami con banconote vere, anche da cinquecento euro. Un paradigma della società contemporanea, che Stefanos Tsivopoulos sottolinea e ci sbatte in faccia.

Incisivo è anche il padiglione inglese, con il lavoro intenso di Jeremy Deller, considerato però dal The Guardian troppo mainstream, o ancora il padiglione russo, o quello spagnolo, con un immenso lavoro di Lara Almarcegui. Detriti di cemento, tegole e mattoni occupano la sala centrale, altre montagne di detriti più piccole fatte di segatura vetro nelle sale perimetrali, dove il pubblico può camminare intorno. Una camminata triste e desolante intorno, ma non sopra, ai detriti del mondo.

Buenos Aires e la fotografia

baires2ANTONELLA POLI | « Regarder parfois voir », ci dice Jacques Borgetto durante il nostro incontro dell’11 giugno scorso. Parigi é la sua citta. Ma lui  é  il fotografo dei viaggi, dei paesaggi e degli animali. La fotografia é stata da sempre il suo mestiere come lo stesso autore afferma. Quest’arte gli dà la possibilità di concretizzare in immagini la sua sensibilità verso gli esseri umani, di cogliere le luci e la forza della natura , di scrutare al di là degli sguardi di un semplice cane. Di origine italiana, (suo nonno paterno era piemontese), ha cominciato a viaggiare molto presto per mettere al servizio del suo “occhio” acuto la sua caméra. Fedele alla tecnica tradizionale dell’argentique, oggi Jacques Borgetto si é aperto anche al digitale, senza che il suo stile sia cambiato. L’Argentina, il Cile, il Tibet, il Mali sono state le sue mete importanti che gli hanno permesso di descrivere con un realismo acuto queste parti del mondo lontane dalla sua Francia mettendone in rilievo gli aspetti più nascosti, inconsueti e soprattutto fotogrando e immortalando l’anima delle popolazioni che incontrava sul suo cammino. Viaggi esplorativi, pieni di carica umana, di cui oggi Jacques Borgetto ne riconosce tutto il valore per l’arricchimento che gli hanno fornito. Le sue collezioni permanenti alla Maison de la Photographie européenne testimoniano il suo percorso d’artista.

Dopo pubblicazioni come L’autre versant du Monde, Nous avons fait un Beau Voyage et Terres Foulées (Ed. Filigranes), oggi appare nella collana Portraits de villes[1] delle edizioni Be-Pôle, Buenois Aires. Il primo incontro del fotografo con questa città era avvenuto anni fa quando spinto dal desiderio di ritrovare i suoi parenti paterni si era recato laggiù. Grazie alla loro esperienza, aveva potuto cominciare a conoscerne gli usi e costumi, a coglierne gli aspetti più contradditori, a frequentare le milonga, ascoltare e vedere il tango e a entrare in contatto nei bistrot con la popolazione la più eterogenea della capitale sudamericana. L’occasione del progetto di  questo nuovo Portrait de ville  ha ricondotto Jacques Borgetto a Buenos Aires.

Ancora più che la prima volta, ha identificato questa città come ville de nuit , gioiosa, architettonicamente diversa nei suoi stili con i suoi grattacieli e le case abbandonate, e contraddittoria per le differenze sociali esistenti. Non esistono classi intermedie, si passa dai quartieri più poveri e sporchi ove gli sguardi della gente esprimono il disagio e l’umilità a quelli più ricchi ove si vive agiatamente. Questo é uno dei temi delle fotografie di questo libro,  che possono essere lette secondo tre filoni principali : il contrasto stilistico dell’architettura, i bistrot e il tango, i paesaggi.

Baires4L’elemento umano, che é sempre messo in risalto, le arricchisce donandole l’anima. Sguardi comuni e sorpresi s’incrociano nei bistrot, passionali nei duo di tango, e nei paesaggi in cui la popolazione locale é ritratta nei loro aspetti quotidiani. Prevale il bianco e nero, il colore appare nelle foto scattate nel Delta del Tigre ( questo nome proviene dall’appellazione data dai primi colonizzatori europei ai giaguari del Sud America), zona che fa parte di Buenos Aires e che é situata all’estremità  sud del Rio Paranà. In particolare, ne viene ritratta la natura rigogliosa con le sue luci e ombre, le sue costruzioni caratteristiche, come delle palafitte, che ospitano gli indigeni del luogo. Il contrasto appare tra la semplicità di vita degli abitanti del luogo e  le tinte forti della vegetazione che risaltano vigorose dappertutto.

Due fotografie di questo libro suscitano curiosità: sono quelle in cui il fotografo gioca con l’infinito, aprendo degli spazi di lettura al limite dell’inganno. Come credere che si tratti di un cavaliere che attraversa la sommità di una scalinata quando in realtà é solo una statua ? E come immaginare che l’uomo che si pensa si stia gettando nel vuoto in realtà é anch’esso solo un bronzo? Basta trovarsi di fronte a queste due foto per crederci e riconoscere le doti fotografiche dell’artista. Questo libro dà un ritratto di Buenos Aires che va al di là dei luoghi comuni che si conoscono e ci apre una panoramica a trecentosessantagradi su questa capitale del Sud America.

« Il faut qu’une cause sentimentale devienne une cause formelle pour que l’œuvre ait la variété du verbe, la vie changeante de la lumière » scriveva Bachelard, e l’arte di Jacques Borgetto ne é un esempio.


[1] Della stessa collezione fanno parte Roma, Napoli, New York, Brasilia, Sarajevo, Parigi per citarne alcune

Mondocane#11 – Il Professore dimezzato

fotoMARAT | Nove e mezza del mattino. Piena notte. Mi svegliano i bassi di uno stereo. E mi accorgo che il vicino sta ascoltando Branduardi. Sì, Branduardi. O tu ciellino sovraeccitato che rompi i coglioni senza neanche un valido motivo… Allora mi alzo e bevo il caffè, che tanto non è cosa. E osservo. Il caseggiato di ringhiera che mi avvolge. In fondo a destra c’è la gabber. Fanciulla delicata di anfibi e bestemmie. Che in un indimenticabile Natale accolse i doni del Signore sparando techno hardcore in cortile. Roba da 180 battiti al minuto. Che ognuno c’ha le sue tradizioni. In fondo a sinistra l’anziano vetraio. Vive sul mio stesso fuso orario. Di notte è al suo tavolo di lavoro, la finestra aperta, gli occhiali sulla punta del naso. È una figura rassicurante, qualcosa tipo “casa”. Sotto invece intravedo la sciura Maria, sul balcone con il ventaglio a rinfrescarsi in mezzo alle cosce. E tutti insieme si sta qui, si sta bene. E mentre mi accendo la prima sigaretta, penso invece a quella strana convivenza del Crt. Il contrappasso del reinventarsi con l’aiuto dei nemici di un tempo: Crt Artificio e Triennale. Che fuoco e fiamme fece per avere indietro il Teatro dell’Arte, scoprire di non sapere cosa farsene e ora ridarlo in gestione alla neonata fondazione dei “Crt”, dall’età media elevata assai. Questa la soluzione trovata da Quaglia, supermanager (e politico) chiamato a risanare un teatro sommerso dai debiti, fioriti sotto la monarchia del Professore. Tanti debiti. Pochi margini d’intervento. Allora, vieni a vivere con me, come cantava Luca Carboni. Che la vita è troppo corta e non possiamo perdere tempo, o forse è proprio il tempo che non può perdere noi. Ma qui non c’è cuore. E mi viene il dubbio che sia questo il gusto amaro che sento in bocca. La scelta è giusta. Forse l’unica. Ma la sensazione di avere di fronte un governo tecnico, mi spiazza. Sano? Sano. Ma in due ore di conferenza, neanche mezza parola di teatro. Teatro vero. Ci saranno dei curatori al posto di un direttore artistico. Uno spazio ancora da rendere agibile a iniezioni di denaro pubblico. Attenzioni ministeriali da conquistare, debiti da pagare, i pochi dipendenti rimasti da assorbire (loro sì, tutto cuore). Insomma, strategie aziendali per i tre nemiciamici. Come Red & Toby. Eppure… Eppure da qualche parte ci devono ancora essere le foto. Di Kantor. Del Living. Della Mnouchkine. Forse in qualche baule.

La realtà è parola: Omero, Quintiliano e le Ariette

Omero quintilianoRENZO FRANCABANDERA | “La tua azienda favorisce la mobilità”. Così mi capitava di leggere su un banner nella homepage di una intranet aziendale in questi giorni. Un messaggio a qualche decina di migliaia di dipendenti di un grande gruppo sparsi nel mondo e chiamati a salpare con l’audacia di Ulisse. Verso dove? Da- a? E per quanto tempo? Mi imbarco ma tornerò a casa?
“Nessuno potrebbe superare Omero per sublimità negli argomenti di grande importanza e per proprietà in quelli di minore importanza: è ricco e conciso, ma è serio, degno di ammirazione per l’abbondanza per la concisione, supera tutti non solo per le sue capacità poetiche, ma anche per il suo vigore oratorio.”
E’ la versione data oggi per la maturità. Quintiliano che parla di Omero e dice “Ci ha dato infatti un modello” e Luciano Canfora in una esegesi del testo per Repubblica dice che il commentatore latino solleva una questione di fondo ovvero la centralità della parola nella comprensione del reale. La realtà è parola.

E Odisseo è un modello che regge a circa tremila anni di tradizione rapsodica. Ma è proprio la figura di Ulisse che evidentemente in questo tempo, nel nostro tempo, ha da dire. Anche Bob Wilson ha scelto di recente di dire la sua sul poema, con ricco dispiegamento di forze, trasformando l’Odissea in una sorta di avvincente cartoon dove mostri ed epifanie fantastiche si confondono al limitare fra coscienza e incoscienza.
L’Odissea è diventata un po’ la Bibbia del nostro tempo. Non per diffusione, perchè una qualsiasi biografia di Justin Bieber ha sicuramente molti più lettori fra i giovani. E perchè se giri telecamera alla mano nei mercati di Comasina a Milano c’è gente che ti guarda candida e ti dice che Omero non sa chi sia, e anche su Ulisse ha qualche dubbio.

E’ diventata la Bibbia perchè incorpora il sentimento dell’incerto, quell’angoscia della partenza senza certezza d’approdo per l’uomo del Duemila, lo stessoche non è nemmeno sicuro di riuscire a sopravvivere ancora 100 anni come specie vivente ma che trova in sè la scatenante forza di mettere al mondo suoi simili. Ecco, in tutto questo c’è qualcosa che 2800 anni fa evidentemente era uguale e che i rapsodi cantavano in modo molto chiaro.
Ulisse è sempre esistito.
E il teatro sembra averne fortissimo bisogno. Aveva un che di Ulisse l’Amleto padre di Latella, che cercava un alfabeto del contemporaneo nell’Hamlet’s project. E’ esistito in quegli esperimenti di Cesar Brie con il teatro delle Ande, in cui guerre e migrazioni erano proprio il codice di riporto per la spiegazione del reale da parte del regista italo argentino ai suoi attori boliviani.
Ed è la proposta che fa in questi giorni ad Olinda il Teatro delle Ariette, con un gruppo di abitanti del quartiere Comasina di Milano. Persone arrivate in Italia o che sono nate qui, ma che forse il destino spingerà a nuove migrazioni. O esseri viventi che un palmo di terra ferma alla propria coscienza non l’hanno mai potuto dare. A governare il progetto sono Stefano e Paola delle Ariette, con il loro modo di fare scena semplice, tradizionale, edibile, e che ha da sempre come centro proprio la parola attorno al desco. In fondo è quello che accade nell’Odissea con Ulisse che racconta nel dopocena qualche anno di vita.
Qui sono le periferie che, addentando brandelli di testo omerico, lo porgono all’ascoltatore. E la preghiera dell’accoglienza supplicata in tre o quattro dialetti africani diversi, in spagnolo latinoamericano, in afgano, in italiani diversi, con accenti di ogni regione. Insomma quanti Odisseo sono approdati a Comasina? Il Teatro delle Ariette ha scelto cinque episodi. Ha concentrato il fuoco sul racconto orale e sul porgerlo agli ascoltatori come l’eroe di Itaca ai Feaci. E in poche immagini qualificanti.
Pochi oggetti, le parole del misterioso Omero, una barca, il pubblico a bordo di un’imbarcazione in balia delle onde. E noi, marinai del contemporaneo, naufraghi appesi alle gabbie dei pescatori nel Canale di Sicilia per sopravvivere, favoriti o costretti alla mobilità e per di più obbligati, mentre siamo li’ appesi a sentire qualche sciocca rilasciar dichiarazioni che “beh, questo è un buon motivo per smettere di mangiare tonno”.
Faceva bene Circe a trasformarci in porci.

Weegee. Il crimine in primo piano

al metropolitan

MARIA CRISTINA SERRA | Il mondo è spietato, senza mezze tinte nelle foto di strada, virate al nero, di Uscher-Arthur Fellig, divenuto celebre nell’America degli anni Trenta col nome d’arte di Weegee. Sono le notti di piombo ad offrire documenti per i suoi reportage, attraversate dalle pallottole delle Smith&Wesson e dalle sirene della polizia, con i cadaveri ancora caldi a terra, ricoperti di stracci occasionali e di pagine sgualcite dei tabloid, i rivoli di sangue a formare irregolari pozzanghere sull’asfalto. Lui arrivava spesso prima dei detective sul luogo del delitto a bordo della sua Chevrolet, attrezzata a camera oscura mobile, con tanto di radio sintonizzata sulle frequenze della Omicidi di New York. “La radio della polizia era la mia ancora di salvezza. La macchina fotografica era tutta la mia vita, la mia lanterna di Aladino”. Lisette Model, che delle persone ritraeva l’anima, lo immortalò nel ‘45 con l’inseparabile Speed Graphic a tracolla, dotata di flash a lampadine per squarciare l’oscurità della scena con un fascio di luce abbagliante, per raccogliere i dettagli più disparati, in apparente contrasto con la scena madre, in una essenziale inquadratura, per raccontare i fatti più efficacemente delle sue didascalie e dell’articolo che le accompagnava. Una buona dose di cinismo, distacco emotivo, senso della misura e autentico sentimento di pietà erano i suoi ingredienti: rievocati nella mostra “Weegee. Murder is my business”, a Palazzo Magnani di Reggio Emilia (fino al 14 luglio).

Non era un mistero per lui che fra la vita e la morte scorreva un sottile e debolissimo filo, sempre pronto a spezzarsi. Uscher Fellig era destinato fin da piccolo a guardare la realtà senza preliminari né filtri che ne addolcissero le asprezze. Era appena sbarcato con la famiglia ad Ellis Island, nel 1910, proveniente da Zloczew, terra al confine dell’impero austro-ungarico, per sfuggire alla povertà e ai pogrom, che subito l’Ufficio immigrazione gli cambiò nome, americanizzandolo in Arthur. Il Nuovo Mondo lo accolse in quel groviglio di promiscuità etnica e culturale, affanni e delusioni miste a speranze, che era il Lower East Side di New York. Da lì partì la sua avventura alla conquista della prima pagina sulla cronaca di nera; da quella consuetudine a respirare l’odore della fatica a fine giornata, misto ai vapori densi delle zuppe che bollivano per la cena, riempiendo di respiro vitale gli androni dei fatiscenti caseggiati sovrappopolati. Era allenato a confrontare i tanti volti della miseria che insieme alle differenti lingue si mischiavano in un unico universo; a registrare le condizioni della classe operaia; a osservare i giochi e i riti dei bambini che celebrerà poi in foto come: “Children on Fire Escape” e “Summer of the Lower Est Side, divenute simbolo di un’epoca.

Arthur Fellig iniziò nel ’14 a misurarsi con la vita, lasciando la scuola e facendo i mestieri più umili. Negli anni ’20 da tecnico di laboratorio passa a fotoreporter per l’Agenzia Acme News Pictures, che riforniva di scoop tre quotidiani della Mela: “Daily News”, “World Telegraph” e “Herald Tribune”. Poi, nel ’35, arriva la notorietà come free lance e firma le sue foto con un timbro speciale: “Credit photo by Weegee. The Famous”. Gli angoli malfamati di N.Y., come quelli scintillanti dei club dove risuonavano le note dello swing e i ritmi sincopati del jazz, non avevano segreti per lui. Erano impercettibili i confini fra criminalità e legalità, ma il suo “Occhio Indiscreto” (film di Howard Franklin, con Joe Pesci, che si ispirò alla sua figura) riusciva sempre a penetrare nelle ambiguità fra le luci della ribalta e le ombre sinistre del National Crime Syndicate. Sono l’audacia, l’ironia, le angolazioni spericolate e il gusto delle contrapposizioni a regolare il suo obiettivo, “sparato, senza pensare troppo”. A volte usando una luce radente, soffusa, per non far vedere troppo sangue; in modo che “lo sguardo rigido del cadavere si potesse confondere con quello di un povero diavolo che schiacciava un pisolino”. A volte, la vittima è circondata da un’umanità curiosa, che si affaccia nella foto, per avere un attimo di celebrità, indifferente alla compassione, assuefatta alla violenza .

offenders

Vogliono invece celare la loro identità i due arrestati di “Offenders in the Poddy Wagon”, col viso coperto dai cappelli. Solo una borsetta accanto ad un lenzuolo bianco, che buca la notte sulla Park Avenue, ci dice che lì sotto giace una donna. C’è la simultaneità del racconto nell’arresto di Anthony Esposito: un guizzo di reazione bloccato da imponenti poliziotti ripresi di spalle. Domina il sarcasmo in “The Critic”, con la concretezza della cronaca a contrapporre ricchezza e povertà: l’entrata al Metropolitan Opera delle vecchie dame agghindate è macchiata dall’avanzare di una barbona ubriaca. Incongruenze della vita. I tanti volti della metropoli, “in cui bellezza e bruttezza si sovrappongono; tutti amano la bellezza, ma la bruttezza permane”.

Trailer da “Occhio indiscreto”

Le grottesche «Memorie del sottosuolo» di Trifirò

trifiròVINCENZO SARDELLI | Ogni uomo nasconde un sottosuolo. C’è un istinto borderline in ciascuno di noi. Qualche volta ne restiamo schiacciati. A tratti, un’inesorabile provvisorietà inchioda le nostre vite. Se riuscissimo a vivere nel presente saremmo già degli illuminati. Invece, spesso, ci compiacciamo del dolore, non calcoliamo la felicità.
Nella trasposizione teatrale di Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, di scena al Sala Fontana di Milano, Roberto Trifirò scende in mutandoni di lana attraverso il pubblico. Si dirige, sardonico e stordito come un pugile che ne ha prese tante, verso un palcoscenico di cartoni impolverati e tavolini grezzi, rimasti da sparecchiare da un tempo indefinito.
Le note potenti della chitarra di Lou Reed accompagnano un essere neghittoso verso un’autoironica esplorazione di sé. Egli infierisce su se stesso, tra facezia e maledizione. Svela il sottosuolo di una personalità malata. Parla dell’educazione ricevuta, del complesso di qualità e difetti che lo definiscono. Rende pubblica una vita ammorbata da solitudine e melanconia.
L’occasione del riscatto ha il volto trasparente della prostituta Liza (Caterina Bajetta). Lui cerca di trasferire in lei la propria ansia di redenzione. La invita a emanciparsi da un destino degradante.
Liza si lascia convincere. Riappare con la nostalgia di una vita pura. Adesso è lei che cerca di trascinare lui. Invano. Liza s’allontana con dignità. Lui sprofonda, attraverso una botola sul palco, nelle viscere sordide del sottosuolo. Si sollevano le note di Arancia meccanica. Il sottosuolo diventa prigione e tomba.
Di questo spettacolo colpisce la simbologia. La scena-tugurio di Gianni Carluccio è vagamente metafisica. Lo studio su luci e colori è attento. Il buio asseconda l’isolamento, marca la separatezza del personaggio dagli altri, ridotti a proiezioni schizofreniche. Un azzurro-cielo-imbrunire fa da sfondo all’analisi esistenziale iniziale. Nella prima parte del dramma le luci sono ferme. È il protagonista che le cerca. Vi si adatta, ora lasciandosene lambire, ora rifugiandosi in zone d’ombra.
Quando compare Liza le atmosfere si fanno lunari, le luci iniziano a muoversi. Le tonalità sfumano dal fucsia al rosso, con un sottofondo soft grigio, azzurro, verde, ancora più metafisico.
La recitazione piana, senza sussulti, della Bajetta è sinonimo di un minimo equilibrio psichico ed etico. Trifirò invece ruggisce e squittisce. La sua voce oscilla, tra tonalità roche e buffi acuti infantili.
Anche i costumi hanno una valenza allegorica. Trifirò esordisce in mutandoni, esibisce la sua sgraziata disumanità. Poi indossa, senza camicia, precari gilet e pantaloni intrisi di borotalco. Infine prova, con un cappotto, ad arginare il gelo esistenziale verso cui sprofonda.
Se il livello semiotico dello spettacolo è valido, qualche dubbio rimane invece sulle scelte registiche di fondo. I toni farseschi di quest’interpretazione sporcata di napoletano intendono ammorbidire la pièce. La pantomima vuol temperare la tragedia. Questa scelta di registri “tradisce” il testo, l’annacqua, un po’ lo banalizza. Non ci sono particolari variazioni , il ritmo è sostanzialmente monocorde, l’esito un po’ statico.
La semplificazione (abbiamo visto cose migliori di Trifirò) inficia l’appeal scenico, ma non la riflessione dello spettatore. Che di fronte alla miseria morale del protagonista può concludere, con Ennio Flaiano, che «la situazione è grave ma non è seria».
Aforismi di Dostoevskij
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=YNkyukXt0ZU&w=420&h=315]
Dostoevskij a scuola con D’Avenia
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=_DnDo7mH19Q&w=420&h=315]
Fëdor Dostoevskij, Roberto Trifirò, Caterina Bajetta, Gianni Carluccio, Ennio Flaiano, Lou Reed, Teatro Sala Fontana, vincenzo sardelli

Dante Hailighieri

ANDY VIOLET | Anche nei più ottimistici paradigmi di interpretazione storiografica, quelli che vedono nel susseguirsi degli eventi del mondo un continuo progresso, un’inarrestabile evoluzione verso forme migliori di convivenza umana, non è possibile estromettere la presenza del male dalla storia: che siano solo il polo negativo di una necessaria dialettica del divenire storico, ineludibile effetto collaterale dell’esistenza, o che siano l’essenza stessa del mondo, come ritengono le correnti più radicali, la violenza, la morte, il conflitto, la guerra, sono parti integranti della realtà del passato come del presente. La letteratura, che racconta la realtà, ma ne fa anche parte, come prodotto storico ben definito e profondamente radicato nell’humus del proprio tempo, non sfugge a questo postulato: ogni atto artistico è un atto di riflessione che si colloca nella circolarità del rapporto tra scrittura e realtà, poiché interpreta il reale, ma ne è a sua volta influenzato, così come è influenzato dalla rete interpretativa costituita dalle opere precedenti.

Parte dell’importanza della Divina Commedia di Dante, come per altri nodi apicali della letteratura mondiale, sta proprio nella sua capacità di rappresentare la Weltanshauung di un’intera epoca: è il frutto maturo, la summa enciclopedica di una visione medievale del mondo, destinata a dissolversi nel giro di una sola generazione. E’ più che naturale che in questa visione onnicomprensiva dell’esistenza umana rientrino temi scomodi, scabrosi, elementi che giudicati con l’occhio del nostro tempo risultano inaccettabilmente lesivi della dignità della persona, ma che nell’europa tardo duecentesca erano la norma.
Ebbene sì, dunque, Dante era omofobo, antisemita, antislamico, proprio come denuncia il gruppo Gherush92, che ha proposto l’eliminazione della Commedia di Dante dalle scuole per via dei versi contenenti invettive contro i sodomiti e la figura di Maometto. Ciò che forse stupirà l’associazione Gherush92 è che tutti questi aspetti dell’opera di Dante sono noti a qualunque insegnante di Italiano, e non vengono affatto sottaciuti. Da un punto di vista didattico e formativo è anzi essenziale che il lato oscuro che accomuna Dante all’antislamismo delle Chansons de Geste o all’antisemitismo Mercante di Venezia di Shakespeare venga studiato, spiegato, criticato, poiché esso è il lato oscuro dell’intera cultura europea, quel calderone da cui sono scaturite, di volta in volta, le crociate, l’eccidio dei nativi americani, la Shoà.
Censurare tutto questo per il timore che lo studio del Sommo Poeta spinga intere generazioni ad aderire in massa a partiti neonazisti non farebbe che produrre l’effetto contrario, favorendo quell’ignoranza che alla base del plagio mentale su cui fa perno il semplicismo razzista della propaganda ideologica, che non a caso assume la forma acritica dello slogan come mezzo elettivo di comunicazione. Al contrario, riannodare i fili del lungo percorso storico-culturale sotteso alle manifestazioni più bieche di intolleranza può servire a decostruire il pregiudizio, a dimostrarne l’infondatezza, a smantellare la catasta di menzogne in cui esso si radica.  Dunque, proprio come quei bambini che, troppo protetti da madri apprensive, vengono lavati di continuo, sterilizzati, disinfettati per timore di infezioni, finiscono poi per essere più deboli di fronte alle malattie, così le menti ingenuamente preservate dal male attraverso il silenzio della censura non  vengono salvate: esse saranno le prime a cadere, vittime della mancanza di mezzi critici e d’autonomia di pensiero di fronte alle manifestazioni più becere e violente dell’incultura.

The dead: la nostalgia secondo Città di Ebla

Città-di-Ebla_The-deadGIULIA MURONI | Un corpo, sovraesposto e dissezionato nelle proiezioni, in penombra. Un corpo silenzioso, che non produce narrazione.

L’ultimo lavoro della compagnia Città di Ebla, The dead, presentato al Teatro Gobetti nell’ambito della 18esima edizione del Festival del Colline Torinesi, prende liberamente le mosse da un’ opera letteraria, alla ricerca di un dispositivo originale di rappresentazione. Dopo la “Metamorfosi” di Kafka, la compagnia sceglie come riferimento il celebre racconto di Joyce, “The dead”, ultimo brano della raccolta “Gente di Dublino”, qui assunto come fonte ispirazione e molla di un meccanismo creativo che di proposito non vuole volgersi verso una riproposizione dell’opera nel suo registro testuale, ma si pone alla ricerca di un’autonomia nei linguaggi, nei contenuti e nell’estetica.

Sigarette, una caffettiera, un baule, calze. Dettagli quotidiani che popolano una stanza anonima. Fotografie scattate da un uomo di cui si intravedono solo le mani. Versa il caffè, lo porge alla donna, ma soprattutto la ritrae con insistenza, in modo impressionistico, quasi morboso. Uno sguardo maschile invadente, onnipresente, voyeuristico, che non si disperde mai nella donna, ma ribadisce sempre la propria posizione di soggetto. Lei, muta, spesso nuda, è resa oggetto di questa attenzione incessante. Sappiamo dal flyer che è una danzatrice (ma non la vediamo mai danzare) e che in lei si ricompone il ricordo di un amante perduto (ma non riusciamo a cogliere, nell’atmosfera rarefatta e frammentata, quel senso di nostalgia). Il suo corpo, sovraesposto e dissezionato nelle proiezioni, resta in penombra sulla scena, distante dallo sguardo del pubblico. Soprattutto il suo corpo resta silenzioso, non produce alcuna narrazione.

La scena, allestita come una qualunque stanza da letto, è tagliata sul proscenio da un velo di tulle.  Su di esso vengono proiettate le fotografie, scattate sul palco da Luca Ortolani, che si intersecano con le poche azioni compiute dalla performer Valentina Bravetti: mettersi le calze, toglierle, guardarsi allo specchio, fumare. Lo sfalsamento dei piani produce un senso di vertigine: qual è la realtà? La perdita dello sguardo verso molteplici piani conduce alla messa in discussione del punto di vista assodato, della visuale protetta e rincuorante. Il tappeto sonoro, curato da Franco Nardi, alterna rumori provenienti dall’esterno con sequenze di suoni che, nella relazione con le immagini, fanno da contraltare emotivo e percettivo alla narrazione.  Come nel racconto, il finale è segnato dalla caduta della neve, che, celando i contorni di tutte le cose, le rende indifferenziate e ne determina la fine.

E la sua anima gli svanì adagio adagio nel sonno mentre udiva lieve cadere la neve sull’universo, e cadere lieve come la discesa della loro estrema fine sui vivi e sui morti.

Del celebre racconto viene ricercata l’aura epifanica dell’emersione del ricordo, ma lo spettacolo sembra scivolare nel formalismo e, intriso com’è di compositi effetti scenici, finisce col dare vita ad una narrazione effimera. La performer sulla scena compie un numero veramente esiguo di azioni, non particolarmente significative, l’atmosfera sembra sospesa, in attesa di qualcosa che non arriva.
La ricerca estetica di Angelini risulta interessante, ricca di immagini intense, tagli di luce non banali e sonorità incalzanti, pur non riuscendo a trasformarne l’intima struttura in una forma spettacolare, e rimanendo prossima ad una sorta di elaborazione installativa, di cui anche la dimensione scenica (come già era successo per il lavoro su Kafka) amplifica il nesso.  Nel sempre difficile equilibrio dei contesti scenico performativi in cui la parola è assente, nella mancanza di quell’elemento umano, non-mediato, la narrazione del corpo, magari attraverso il movimento, può costruire una drammaturgia autonoma e convincente.
Ma la regia pare voler chirurgicamente sottrarre anche questo elemento di costruzione intellegibile di significato, e così se per un verso l’uso di strumenti e tecniche che allarghino la gamma di azioni e possibilità può essere una fonte di ricchezza, rimane tangibile il rischio per chi assiste di non raccogliere sufficienti elementi o di avvertirli come sfuggenti per la costruzione dei regimi di senso, fondanti l’opera d’arte stessa.

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La sindrome di Wesselmann e la solitudine dell'artista

Spam_SalvatorePastore-NTFI 2013RENZO FRANCABANDERA | “Come capire Burri? Eh, è una parola!”
Ci  sono cose che occorre fare quando si è da soli. Quando si è certi di essere da soli. O non fare proprio. Anche per chi fa arte, o per chi ne fruisce.
L’arte è piena di questo tipo di eventi, e quella performativo-contemporanea riluce di esempi, e altrettanto le pagine della critica, in un meccanismo spesso coinvolto a tal punto in quello produttivo da non riuscire più a prendere le distanze e a valutare il dialogo fra la proposta di un artista e i suoi contemporanei. Al netto della capacità visionaria e anticipatrice che sempre all’artista viene riconosciuta, non è raro assistere a produzioni stanche, mancanti del nerbo della urgenza, o a gesti di tale autocompiacimento da non riuscire a trovare senso del limite.
Ho sempre trovato mirabilissima evocazione dei conflitti fra sensibilità di massa e arte in una chicca della commedia all’italiana che si trova nella pellicola Il mistero di Bellavista, in cui due uomini di pochi mezzi, consapevoli della loro esile sovrastruttura, si confrontano dopo una visita alla Galleria d’Arte Moderna, in merito all’effetto sul loro sensibile di opere come quelle di Burri, Fontana e Wesselmann. Ve ne raccomandiamo la visione a fine lettura.
E il pensiero torna forte in gola dopo i due cazzotti presi all’apertura del Napoli Teatro Festival.
Partiamo con Peter Brook e dal suo “Lo spopolatore”di Beckett, proposto dal regista come un’estenuante mise en espace, una lettura scenica praticamente, con la sua storica attrice Miriam Goldschmidt che copione alla mano, legge e di tanto in tanto leva gli occhi dal testo, per muoversi lentamente qui e lì sul palco, verso uno o l’altro dei pochissimi elementi scenici (uno sgabello entro una piccola isoletta di sabbia, tre lunghe scale di legno addossate alle quinte). L’ottantottenne maestro, che sceglie questo testo per raccontare di un’umanità chiusa in una sorta di cupa caverna senza via di fuga, con un incombente senso di morte, a fine spettacolo si dice contento. Il pubblico non si capacita della visione. Il critico osserva profondamente l’attrice, prova a scrutarne la movenza cercando di renderla avulsa dal testo, cerca di respirare il peso di quelle parole provando ad intuire nei rari sguardi infuocati dell’attrice un ideale sottotesto non alla portata di tutti. Sopravvive il testo. Bello, ricco, ma non troviamo ragione di una residenza di un mese per arrivare ad un esito dal peso specifico onestamente inconsistente.

Passiamo allora alla drammaturgia contemporanea e al lanciatissimo Rafael Spregelburd (prima a Napoli e poi a Torino alle Colline) che firma testo e regia del monologo “Spam”, affidato all’attore Lorenzo Gleijeses con contrappunto sonoro digitale eseguito dal vivo da Alessandro Olla (che segnaliamo). Il testo dell’autore argentino sarebbe anche (ove molto asciugato) interessante, avendo il canone del thriller spezzettato in poco più di trenta episodi giornalieri che l’attore porge con casualità da arte eventuale (sulle dinamiche randomiche nell’arte si leggano gli interessanti studi del nostro Sergio Lombardo, fra i massimi esponenti appunto della corrente), affidando ad un sorteggio iniziale l’ordine delle portate. La drammaturgia ha inserti di arte e semiologia di carattere straniante, che introducono nel plot elementi di disturbo, come un lungo (ma sempre frammentato) excursus sulla lingua che usavano gli abitanti dell’antica città di Ebla, ad esempio. Come la comunicazione del nostro tempo, frammentata, insulsa, cambiando l’ordine della quale pare non cambiare nulla della trama di fondo del nostro vivere: il testo ogni sera cambia per non cambiare, in un eterno gioco del quindici dove l’ordine finale non arriva mai. Ma così per due ore e mezza… un calvario, con l’interprete a portare la croce. Fra slanci promettenti ed inarrestabili folate di vigile incoscienza, dopo due ore scegliamo di non assistere all’arrivo al Golgota. Almeno Brook, in difetto di lucidità artistica, non fa ancora sentire la mancanza del senso della misura e del tempo.
Il Masticator di teatro borghese può cercare di affidare ad un epsilon piccolo a piacere le ragioni della mancata comprensione dell’inarrivabile profondità delle due proposte.
Il Masticator di teatro borghese può cercare allora di leggere segni superiori, con cui la plebaglia del pubblico pagante debba necessariamente essere incapace di porsi in relazione (non che il pubblico pagante abbia poi sempre ragione nell’esaltare o criticare, anzi, è giusto vada spronato sempre a studiare per capire i plagi, le mediocrità, il consumato).
Ma lo stomaco ribolle, la ragione abbaia.
Per parte di chi scrive, l’arte resta ancora possibilmente analizzabile in senso gramsciano con l’artista che è tale “in quanto segna esteriormente, oggettivizza, storicizza i suoi fantasmi” e con l’opera da studiare nella sua manifestazione materiale, all’interno della realtà, che va analizzata per storicità, comunicatività e specificità. Dei due lavori in questione, invece, più forte di tutto resta la sensazione di solipsistica volontà auto centrata sull’esperimento artistico, il cui potenziale comunicativo, il cui impatto sul pubblico, viene messo totalmente in secondo piano.

Ricordo con un certo maturo imbarazzo l’irrompere genitoriale in stanza durante le prime scoperte del sé, del corpo in adolescenza. E ancor più son convinto: ci sono cose che occorre fare quando si è da soli. O non fare proprio. Almeno in certi momenti della propria vita.

Foto: Salvatore Pastore
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