fbpx
giovedì, Dicembre 26, 2024
Home Blog Page 438

Mondocane#9 – Questo non è teatro

ammazzaMARAT | Io volevo parlare di Buenaventura Durruti. Una di queste volte ne parlo. Perché pensare agli stalinisti che si sparano con gli anarchici mentre dal cielo piovono le bombe nazifasciste, mi fa sempre salire un po’ il sangue alla testa. Credo che sia una metafora di tante (possibili) cose. O forse mi piace vederla così. Ma poi è uscita la sentenza di Stefano Cucchi. E ho cambiato idea. Non so perché ma sono andato a rileggermi il secondo capitolo de Il maestro e Margherita. Il protagonista è Ponzio Pilato. Si è svegliato male, l’emicrania lo tormenta, è (in)sofferente all’odore dell’olio di rose. Lo sente ovunque. Mentre la testa pulsa. L’immagine è quella di un uomo che non ne ha mezza. No tiene ganas, avrebbe detto Durruti. Non è solo questione di responsabilità. Certo, c’è una certa dose di paraculaggine. Ma non si arriva a diventare Procuratore della Galilea se non si sanno prendere decisioni. E infatti il popolo lo odia, viene considerato un sanguinario. Quel giorno semplicemente non ne ha mezza. Figurarsi poi se gli presentano davanti quella specie di freakettone. Uno che lo chiama subito “buon uomo”, prima di imparare le maniere educate dalla frusta del centurione Ammazzasorci. Dialogano i due, dialogano fitto. Mentre la testa pulsa. Pulsa forte. E alla fine Pilato decide, conferma la condanna a morte e lo spedisce a giocarsi la vita al voto popolare. A me fa venire la pelle d’oca quel capitolo de Il maestro e Margherita. Ma (appunto) è letteratura. La letteratura è così, rende meravigliose le cose più meschine. Torni a leggerle. Ma Stefano Cucchi non è letteratura. Non è teatro. Stefano è morto. 37 chili di lividi addosso. L’hanno ammazzato gli Ammazzasorci che ci ritroviamo liberi per le strade. Quelli con cui riempiono le periferie per difenderci. Stefano l’hanno ammazzato gli Ammazzasorci e l’hanno fatto lentamente, da sadici, senza compassione. Impuniti che manco ci pensano. Che si giustificano. Se la raccontano che ti pare di sentirli: “ci ha insultati, ce le ha tolte dalle mani le botte”. Sempre uguali gli Ammazzasorci. E non tiratemi in ballo Pasolini. Ma questa non è letteratura. Se hai l’emicrania, a me non interessa più nulla. Non sei Bulgakov. Se hai la pressione delle istituzioni, di tua madre, dei tuoi figli, del tuo cane, a me non interessa più nulla. Perfino degli Ammazzasorci a me non interessa più nulla. A me interessa solo che c’era da fare giustizia e non hai voluto farla. E questo non è teatro.

Helno est mort une fois encore, il est sorti après minuit

……Helno est mort…, Helno est mort…

1000.000 remords…

Disegno di renzofrancabandera

Corso base di Galateo per un FILF dabbene

passeraALICE CANNONE | Che le donne, in dolce attesa e subito dopo l’arrivo del pasciuto pargolo siano più belle è una comprovata verità. Quando però Gino Latilla gorgheggiava che “Son tutte belle le mamme del mondo”, in realtà si riferiva alla produzione di ferormoni, e a quei capelli più morbidi, e a quegli occhi più lucidi e quel corpo più accogliente, che  sono solo il bieco escamotage di Madre Natura per non far scappare verso altri lidi il maschio Alpha con cui ci si è più o meno felicemente accompagnate. Ma se Dio creò la donna e poi venne la MILF (che, per gli animi più candidi, è l’acronimo di “Mother I’d Like to F**k”, ossia: madre con cui ci si vorrebbe volentieri intrattenere), lo stesso discorso diventa meno ovvio e decisamente meno fisiologico per il FILF, ossia il father.
In una coppia di MILF e FILF ben assortita i ruoli sono sin dall’inizio ben definiti: “Il vero perfetto Papà non delega del tutto alla mamma la diseducazione e rovina del proprio figlio.”(Aldo Busi, Manuale del perfetto papà). Ma soprattutto è evidente come la mancanza di fascino per un neo FILF possa  essere una débâcle non solo affettiva, ma anche professionale: è presto dimostrato. Si pensi ad esempio a Corrado Passera e a cotanta beltà di moglie Giovanna Salza. Lei MILF combattente sul fronte, lui che dopo la paternità non è ancora riuscito a calarsi appieno nella parte. E se la storia ha fatto di loro una first lady ed un first gentlemen mancati, la colpa non va attribuita certamente a GOMBLOTTI!!  e scontrini e magagne politiche, ma ad un physique du rôle decisamente non all’altezza della situazione.

Si offrirà qui di seguito un breviario di basico Galateo per aspiranti FILF, per non cadere nelle peggiori delle insidie.

  • Quando si esce di casa, stravolti dal menage con l’infante, prestare comunque sempre molta attenzione al proprio abbigliamento. Patacche di muco sui vestiti sanno intenerire solo quando si è all’asilo. O controllare almeno che i rigurgiti siano intonati al colore del paltò.

  • Non lasciate che lo status symbol su cui trasferite il vostro ego sia l’ultimo passeggino della Stokke, al posto della Z4. E sobillati dalle proprie compagne bisognerà quantomeno mascherare gli occhi iniettati di invidia alla vista di un modello più accogliente e munito di ruote turbo.

  • Durante la passeggiate al parco non esponete il pargoletto a mezz’aria a mò di ampolla di S. Gennaro il giorno della liquefazione del sangue, nella vana attesa che qualche babysitter diciottenne vi fermi e vi chieda ammiccante “Oh, ma com è bello! O ma quant è grosso! È suo?!”

  • In qualsiasi cosa si sia evoluto il vostro legame in termini di svago di coppia, sappiate che la spesa del sabato non è annoverabile nella lista dei preliminari.

  • Iniziare a puntare le offerte dei volantini Prenatal con la stessa foga con cui si studiava minuziosamente il volantino di negozi di elettronica è veramente l’ultima spiaggia di una virilità che sventola bandiera bianca.

Esempi di come si possa sapientemente abbinare paternità – addominale tartarugato – carriera non sono chimere. Ed esempio da manuale è il depilatissimo Stefano di Martino, fresco di “congedo di paternità” da Amici, per stare vicino alla compagna Belen Rodriguez e al suo primogenito Santiago. “Capita a volte che il padre si occupi della prole − un fenomeno abbastanza frequente fra i pesci.” (Simone de Beauvoir)

Corrado Accordino e gli insoliti accordi di Mozart

mozartVINCENZO SARDELLI | Facile per Corrado Accordino regalare settanta minuti di buon teatro se il soggetto della pièce è il talento maledetto di Wolfgang Amadeus Mozart. Facile perché, nella breve vita di Mozart, è condensata una miriade di episodi. Facile anche perché, nella scelta delle musiche, c’è solo l’imbarazzo della scelta, e sempre al riparo da brutte figure.

Ma c’è di più in Mozart, monologo prodotto dalla Danza Immobile che abbiamo visto al Teatro Libero di Milano. C’è il mito che irrompe nella vita di un adolescente sconvolgendola da capo a piedi. C’è un dialogo costante, spirituale e artistico, tra il genio del Settecento e un teatrante del 2013, efficace a distanza di due secoli.

Lo spettacolo Mozart (assistente alla regia è Valentina Paiano) racconta in parallelo la vita del compositore austriaco e quella dell’uomo Corrado Accordino. L’incontro risale ai sedici anni dell’attore, adesso 42enne. All’epoca era un adolescente timido e impacciato, con un variegato armamentario di maschere per camuffarsi nel branco: cresta e piercing, abbigliamento heavy metal, gusti musicali hard rock. Poi la folgorazione per Mozart, la rivoluzione nel modo d’ascoltare musica, di pensare e agire.

Mozart sregolatezza, talento e debiti. Mozart irrequieto enfant prodige, artista eclettico, uomo inappagato. Mozart avvelenata vita di corte ed epilogo bohemien.

I costumi di Accordino fanno pendant con una scenografia scandita da tortuosi drappi color tabacco che, agitati da giochi d’aria, creano effetti coreografici che si combinano con le musiche. Le dita dell’attore mimano note immaginarie. Le braccia evocano movimenti visionari. I comandi da direttore d’orchestra sono zoomati da luci circoscritte come giochi di prestigio.

Sulla scena, creata da Maria Chiara Vitali, compare anche una scimmietta peluche, animata dalla mano e dalla voce dell’attore.

Energia recitativa, gesti puliti, linguaggio forbito, Accordino propone un Mozart contemporaneo sia per l’inquietudine della sua opera, sia per la biografia scopertamente romantica.

Entriamo nel mondo musicale di un genio. Colpisce la commistione di fragilità e impudenza. Irretisce l’irruenza cantabile, la capacità di prendere in contropiede gli spettatori. Il colore delle armonie svela la competenza unica della musica nel raccontare i sentimenti.
Un fisico intossicato, quello di Mozart. Un’esistenza animata dai contrasti. Sublime e impetuosa l’arte, con la pletora stregata di accordi fantasmagorici. Sofferta la vita, da ingegno precocemente svezzato, dalla salute minata.

Questo Mozart bifronte lega con un filo sottile il compositore e l’attore. È continuo il rimbalzo tra passato remoto del maestro e passato recente dell’allievo. La passione per Mozart diventa per Accordino valore di riferimento, discriminante per qualificare le persone. Come quella ragazza, Sofia, portata a teatro a vedere Le nozze di Figaro: che delusione i suoi commenti insulsi, il jazz ascoltato alle cuffie, fino a cadere nel sonno profondo. Una storia d’amore sfumata.

Finisce sfumando anche il monologo di Accordino. Gli applausi sono per lui. Idealmente, sono anche quelli che mai potremo fare al compositore di Salisburgo.
Solo un suggerimento: limare alcuni episodi autobiografici, che frenano un minimo un ritmo per nove decimi avvincente.

Trailer
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=Gyjl7fm68vI&w=560&h=315]
 
Una delle opere di Mozart esplicitamente citate da Accordino: Il Concerto per violino nr. 3
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=378fNu_UPbA&w=560&h=315]

Quando è meglio andare a letto: ovvero Carosello nell’epoca dei Brand

carosello reloadedALESSANDRO MASTANDREA | Uno spettro si aggira per le strade delle nostre città e tra i tinelli delle nostre dimore. Non quello del comunismo immaginato da Karl Marx, quanto piuttosto un cane a sei zampe che, in guisa di murales, non può far a meno di dispensar consigli sul risparmio energetico. O magari, subito dopo, di un marchio stampigliato sul furgoncino di un indefesso lavoratore dei telefonini che, tra un’antenna in riva al mare e l’altra, ama stipare ciottoli e conchiglie di ogni forma e foggia nel furgoncino aziendale.
«Carosello Reloaded vuole rappresentare per il mercato pubblicitario una nuova e più evoluta forma di comunicazione nell’era del digitale multischermo, multipiattaforma: il Branded Entertainment, un’intersezione tra advertising e entertainment, tra pubblicità e contenuto editoriale». Così ha affermato di recente Lorenza Lei, a.d. di Sipra.
Parliamo allora dello spirito del Brand, che permea i palinsesti tv e le nostre intere esistenze.

Non se ne abbia a male la Lei se, a dispetto del tono enfatico e del vocabolario forbito, dovesse scapparci di segnalare quella certa discrepanza tra la dichiarazione e gli esiti raggiunti dalla “sua” neonata creatura, sorta di uovo di Colombo che, cavalcando dolcemente le onde dei ricordi, prova a rendere ancor più ambito lo spazio pubblicitario che precede il prime-time.
Per quanto celata dietro i fumi della nostalgia, di questa incongruenza interna a Carosello Reloaded potrebbe trovar traccia anche lo spettatore meno smaliziato. Se infatti appare piuttosto chiaro dove si collochi il “Branded”, è molto meno facile stabilire dove sia l’”Entertainment”, a conferma del fatto che anche per la TV pare vigere la “legge del remake”, con la copia che si dimostra quasi sempre incapace di raggiungere gli esiti dell’originale.
Della storica incarnazione, quella attuale sembra aver conservato solamente il nome e – in parte – la sigla, rimaneggiata con l’aggiunta di inserti in grafica digitale belli come denti dipinti di nero sui sorrisi delle modelle che campeggiano sulle insegne pubblicitarie. A confermare il sospetto che non si tratti di un semplice lifting, ma di un vero e proprio cambio di paradigma, è soprattutto la rivisitazione della struttura che caratterizza la versione storica. Se, allora, questa prevedeva una divisione netta tra la parte riservata allo spettacolo e quella prettamente pubblicitaria – dove la prima occupa un minuto e 50 secondi circa, mentre la seconda i restanti 30-, quella odierna prevede un unico lungo “spottone”, dai non meglio precisati intenti artistici. Quel che ne scaturisce è un contenitore privo di contenuti, dove la narrazione si fa indefinita come brodo primordiale e il Brand è l’unica forma di vita a emergere vittoriosa.
“Dopo il Brand il diluvio”, verrebbe da dire. Nemmeno le facce dei testimonial, da scaricare nel caso diventino tanto ingombranti da metterne in ombra la centralità – come capitò, anni addietro, a Nino Manfredi con una nota marca di caffè.
Non ce ne voglia dunque la Lei, dicevamo. Non ce ne voglia soprattutto se, per concludere, alla sua dichiarazione preferiamo le parole di Jean Boudrillard: “La società dei consumi è così la società dell’apprendimento del consumo, dell’addestramento sociale al consumo.[…] Il sistema industriale, avendo socializzato le masse come forza lavoro, doveva andare più lontano per realizzarsi e socializzarle (cioè controllarle) come forza consumo”.

Se ieri, da quel lontano 3 febbraio 1957 che diede i natali alla fortunata trasmissione, si era soliti dire: “i bambini a letto dopo Carosello”, oggi converrà invece seguire l’istinto – di genitori e cittadini, prima ancora che di consumatori- e non aspettarne neppure l’inizio.

P.S.: per approfondimenti, si consiglia la lettura di: “Come i bambini diventano consumatori”, Ed. Laterza.

http://www.youtube.com/watch?v=QaAoB78ONNI

Mondocane#8 – All tomorrow's parties

mondocane8MARAT | Nico me lo sussurra all’orecchio. Con quel suo vocione che fa a pugni coi lunghi capelli biondi. “Che vestito indosserà la povera ragazza alle feste di domani?” L’ascolto dal cellulare, neanche fosse la radiolina di una volta. Ma non c’è Sandro Ciotti, ci sono le feste di domani. Dove speri di rivederla. Quella che sei convinto che se non ci fosse stato lui ti avrebbe detto sì. Le feste che sorprendono. Che osservi col cipiglio snob del critichino. E poi invece sei lì che ti diverti. Come al Festival IT. Dove puoi scoprire che il teatro “indipendente” non è bellissimo ma almeno è vivace. Molto. Cosa che nei primi approcci può contare parecchio. Nell’incompiuta Fabbrica del Vapore, trionfo della mondanità alternative-chic. Dove Milano si accorge che l’autogestione dal basso funziona, con buona pace delle occupazioni liceali. E che se impari dalla musica, ci piazzi qualcosa da bere e una comunicazione (finalmente) all’altezza, perfino il teatro può funzionare. Certo, va un po’ messo a bolla. Dalla logistica alle porte aperte a tutti, che si trova roba da circoli ricreativi dopo-lavoro. Si potrebbe almeno pensare a una lineup… Ma si lavora in prospettiva. Fin dalla tavola rotonda con alcuni palcoscenici milanesi a far da maestrini e l’assessore Del Corno (quasi assente la critica). Sul tavolo: analisi delle condizioni di sussistenza degli “indipendenti”, ipotesi di riunirsi in associazione, opportunità o meno di farsi affidare uno spazio comunale (l’Ansaldo?). E un interrogativo a suonare come un’eco: ma quanta comunità muove il teatro “indipendente”? Slogan (sogno) vs praticità (realpolitik). Ovvero: voi affidereste una delle grandi potenzialità di Milano ai teatranti indie raccolti in gruppo? Nel caso voglio esserci. Fatemi partecipare alla rissa. Ma forse sarebbe più utile se l’ottima organizzazione di questi tre giorni – dove sono passate due mila persone – non si perdesse in voli pindarici ma dimostrasse lucidità. Per ribadirsi il prossimo anno, certo. Ma anche (e soprattutto) per porsi come voce politica “extraparlamentare”, consapevole delle proprie forze e dei propri limiti. Allora sì aprire un tavolo con il Comune. Magari per trovare nuove forme di patrocinio e promozione, canali privilegiati di visibilità, dialogo con gli operatori. Insomma, quale vestito s’indosserà in futuro? A volte anche un tubino nero alla Brenda Walsh fa sfaceli. Lo si è visto. Che se invece per uscire si aspetta di avere un paio di Louboutin si fa notte. E sai che noia.

Ciao Franca Rame, donna davvero speciale

franca in scenaMARIA CRISTINA SERRA | Franca Rame si è spenta ieri mattina a Milano e al nostro risveglio una nota di malinconia e di incredulità ha dato inizio alla nostra giornata.

Quasi che le anime nobili ci sembra non debbano mai lasciarci, ma idealmente accompagnarci nelle asperità e nelle dolcezze della vita.

Si è spenta una stella, ma ci ha lasciato una preziosa eredità. Era una donna forte dall’anima lieve, un’eterna ragazza sognante che l’esperienza degli anni aveva reso saggia, ma mai dura o disincantata. Che conosceva la certezza dell’amore e la fatica di preservarlo. Che dopo tanti anni e tante lotte, dentro e fuori il suo cuore grande, sapeva ancora dire del suo uomo: “Dario è il mio tutto”!

Eppure Franca Rame non è mai stata neanche per un istante “la metà di niente” né l’ombra di un grande uomo, teatrante magico e inventore di fantasmagorie di esistenza e di teatro, era soltanto una persona molto speciale, che ora avrà raggiunto le stelle, da dove potrà continuare a diffondere i suoi sorrisi luminosi e la sua ironia pungente.

Per ricordarci che la vita è leggerezza, ma non è mai sottrazione di peso, e che la distinzione tra ciò che è vero e nobile, e ciò che non lo è, resta ben visibile a tutti.

E’ sufficiente solo avere gli occhi liberi e la mente immaginifica di un bambino per vedere oltre le apparenze. E saper trascrivere la realtà, come poesia, su di un canovaccio che non è solo il teatro della vita, ma la vita che si fa teatro.

Vi lasciamo con due video: L’anomalo Bicefalo, spettacolo integrale con Dario Fo e una bellissima intervista a Franca che parla del suo rapporto con il compagno di una vita.

[youtube http://www.youtube.com/watch?NR=1&v=mt5Y0PTFZas&feature=endscreen]

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=_qV3B98YE9o]

L’allucinato teatro-danza di Patrizia Aroldi e Afra Crudo

patti

VINCENZO SARDELLI | Maggio al femminile al Sala Fontana di Milano. Due monologhi tra teatro e danza, accomunati da una forte componente emotiva e ipnotica, hanno visto in scena Patrizia Aroldi con Giduglia e Afra Crudo con L’ultima madre. Convertita dal management al palcoscenico la prima, allieva alla scuola di Pina Bausch la seconda, lega le due performance la poetica drammaturgica di Danio Manfredini, straniante aruspice del teatro italiano, che ha collaborato a entrambi gli spettacoli.

In Giduglia Patrizia Aroldi si muove come una sonnambula: naso rosso-ciliegia, abitino a imbizzarriti veli bianconeri, gigantesca valigia, frustino sado-maso, scarpacce gradasse, megafono fatato, occhialoni; tutto rigorosamente zebrato. Tra i megaspecchi ossidati che compongono la scenografia campeggia la giduglia, vorticosa spirale metafora degli appetiti umani.
La giduglia risucchia questa donna pagliaccio dai tratti felliniani, dalla lenta danza solipsistica. Guidata da una voce fuori campo, la clownessa procede a ritroso nella propria anima. Titubante, depressa, poche idee ma confuse, duetta con un cappotto fantoccio, le cui mani scorrono malandrine sul suo corpo. Dialoga col proprio io sull’amore. Arriva al decadimento, al simpatetico sfogo con Dio in punto di morte.

La musica irrompe come sceneggiatura nella narrazione. Rimbalza da ritmi jazz and blues ai virtuosismi violinistici di In the Mood for Love (metafora della fugacità della bellezza e dell’amore) fino all’audacia espressiva della Patetica di Beethoven e alle note dello Stabat mater di Pergolesi. Le luci evocano atmosfere catalettiche. Creano sfondi surreali. Morte e rinascita convivono in questo sincopato percorso di conoscenza, che la parola non può esprimere in modi convenzionali. La protagonista biascica un grammelot disarticolato, che la potenza del gesto rende comunicativo. Con il lirismo delle piccole cose Patrizia Aroldi ci ricorda l’importanza di conoscere noi stessi. Siamo meno buffi quando non ci prendiamo sul serio. Siamo liberi se ci lasciamo sconvolgere dal potere dell’arte.

afra cÈ un teatro-danza terrigno e atavico quello di Afra Crudo nell’Ultima madre, visionario viaggio autobiografico dalle tonalità macabro-erotiche. Sullo sfumato di ricordi infantili, l’autrice ridesta un Sud arcaico. È un discesa primordiale. Una vecchia decrepita nella sua casa-prigione, riaccende stati di coscienza fantasmagorici. È un delirio di metamorfosi. La danza basita di Afra Crudo parte dalle viscere. Crea movimenti nevrotici, in una Puglia contadina che richiama atmosfere alla Carlo Levi. Affiora la presenza del male, con i rituali apotropaici narrati da Ernesto De Martino.
La danzatrice diventa cartomante, sposa, morta-vivente, fedele-bigotta, prostituta. Le trasformazioni nascono da un dialogo interiore, da un paganesimo di religione e stregoneria, di devozione familiare e sessualità compressa.

Questo spettacolo con un gusto dell’orrido emulo di Lovecraft e Dario Argento, fa uso di pochi elementi: un tavolino, una radio, una candela, un mazzo di carte, un fascio di fiori, una maschera da vecchia decrepita. Un camerino si ribalta e diventa bara. Al suo interno avvengono i cambi d’abito che animano le coreografie.
Un po’ danza macabra, un po’ sacra rappresentazione, il monologo volteggia tra Bach a Mendelssohn, tra il rock demoniaco di Marilyn Manson e le tonalità barocche di Henry Purcell, con incursioni jazz. Le luci di Nicola Righetti, fioche o aggressive, assecondano effetti sonori (curati con Giampaolo Verga e Andrea Miranda) che vanno dal fruscio della radio allo scrosciare della pioggia, dal guaire dei cani al mugghiare degli amanti.
Afra Crudo presenta il suo ballo pervasivo. Madonna addolorata dai veli nuziali profanati, angelo intirizzito dalle ali bigie, passa dal Tanztheater alla tambureggiante danza africana.
La ricercata armonia d’opposti nasce da un bisogno d’unione. Rivela il bisogno di un’espressione totale. Mira all’intensità del sentimento: doloroso, lacerante, con qualche stereotipo. Comunque d’impatto.

Giduglia: primi studi di un percorso che porterà la parola a diventare sempre più rarefatta:

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=hwvi8ecNDuo&w=420&h=315]
L’ultima madre, di e con Afra Crudo
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=CDA62DHVMsw&w=420&h=315]

Insert Coin to continue: come salvare la nostra immaginazione

HikikomoriALESSANDRO GUALANDRIS | L’immaginazione è la prima fonte della felicità umana. O almeno così la pensava Giacomo Leopardi. Non sembrano essere d’accordo con lui le grandi major dominatrici del mercato dei videogames, come Sony e Microsoft. Perché? Con la presentazione della nuova console di casa Gates, la Xbox One, decisamente più rivelatrice della conferenza stampa di qualche mese fa relativa alla Playstation 4, la grande battaglia dei guru dell’intrattenimento video ludico inizia ufficialmente.

Ciò che ci preme evidenziare, in questo momento, non è un elenco delle varie funzionalità esaltate durante l’evento, ma una riflessione sul futuro sociale dei videogiochi. Già nell’articolo su Ankama e suo Dofus, gioco di ruolo online, affrontavamo il problema di una tendenza all’isolamento di questi neo giocatori, che con la definizione di comunità virtuale, deviano il concetto di aggregazione che è insito nella parola stessa. Il problema, guardando alle prossime uscite in arrivo per le console di nuova generazione, si allarga a macchia d’olio.

Sia Xbox che Playstation hanno capito che la rete e i vari social saranno il vero upgrade per le loro entrate economiche e stanno preparando il terreno per incanalare le scelte dei loro prossimi clienti verso quella direzione: quasi tutti i futuri giochi avranno sessioni online essenziali per il completamento delle avventure virtuali gestendo completamente la vita sociale dei giocatori stessi. E’ come se il classico parco estivo dove ritrovarsi con gli amici per una partitella a pallone o qualche chiacchiera, venisse sostituito dalle piazze virtuali dove scambiarsi nuove informazioni per battere il fatidico mostro dell’ultimo livello. E non sono pochi coloro che poi diventano dipendenti. Stiamo esagerando? In Giappone il fenomeno dell’Hikikomori è presente già dagli anni 90, per poi raggiungere la sua più grande esplosione con l’avvento di internet e la possibilità di sostituire i rapporti sociali fisici con quelli virtuali: giovani e non giovani decidono di isolarsi dalla vita esterna, chiudendosi nelle loro case/camere, evitando contatti con chiunque se non in casi di estrema necessità. Tale fenomeno si sta espandendo anche in Europa e negli Stati Uniti.

Inoltre, analizzando i titoli in uscita, non si può evitare di notare che questi giochi saranno caratterizzati da un comun denominatore: l’assenza di fantasia e coinvolgimento per il fruitore. Tutto è già scritto, tutto è già deciso. Non ci sono interazioni o enigmi da risolvere che possano far variare la trama o coinvolgere il giocatore nel ragionamento, solo interminabili sessioni di lunghe sparatorie, pestaggi o banali momenti di salti ed evoluzioni da una piattaforma all’altra.

Marco Accordi RickardsChe fare quindi per scappare da questa morsa a due tenaglie che stanno per affrontare tutti gli appassionati di videogiochi? Come sempre in questi casi, quando un’arte sembra aver trovato il suo zenit ed è destinata a cadere, ci si rifugia nelle origini e si riscopre cosa l’aveva resa grande. Arte e videogiochi possono quindi ancora coesistere? Certamente! Ne siamo sicuri dopo aver visitato il Vigamus, museo del videogioco di Roma, neonato nel campo difficile dell’arte per esposizione, ma che vive grazie ad un progetto nato più di quattro anni fa. Proprio nella recente notte bianca dei musei oltre 1000 persone gli hanno fatto visita. Tra le stanze,  alle  pareti, nelle teche si trova la storia dei videogames. Per chi ha passato ore e ore davanti ad uno schermo con i mano un joypad o ha speso fortune in cabinati dentro i quali rossi idraulici evitavano perfidi animali chiodati, questo posto è un tuffo nel passato, come nemmeno Marty McFly ha vissuto con la delorian. Ma è anche un luogo per capire e approfondire quello che sta sempre di più diventando un nuovo mezzo di espressione artistica e che rischia di diventare solo un nuovo contenitore economico.

Ne abbiamo parlato con uno dei suoi fondatori, nonché direttore, Marco Accordi Rickards, non solo appassionato di videogiochi ma un vero e proprio pioniere di quella che può diventare una nuova ottica sul mondo virtuale: insegnante dal 2008 presso la facoltà di lettere e filosofia all’università degli studi di Roma “Tor Vergata” nei Corsi di Laurea Di Informazione e Sistemi Editoriali e presso lo IED di Roma, con il corso Storia e critica del videogioco. E’ caporedattore di Game Republic, essenziale rivista per chiunque viva con il pad tra le mani. E’ presidente di AIOMI, Associazione Italiana Opere Multimediali Interattive, che organizza annualmente l’Italian Videogame Developers Conference, per diffondere e promuovere la cultura del videogioco. Abbiamo quindi deciso di fare un collage tra video e foto realizzati presso il museo e di offrirvi la versione integrale registrata, sulla quale rimaniamo come sempre aperti ai commenti per approfondire e raccogliere testimonianze di altri appassionati.
Ecco la video intervista e il reportage sul Vigamus
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=NJCHxvhid74&w=560&h=315]

Mondocane#7 – C'ha trombato la miseria

la miseriaMARAT | “Loro perbenino a raccogliere i libri e tutti a scrivere sui giornali; noi a smadonnare per tirare via gli animali morti nelle stalle da soli, con le mani, come le bestie”. Mi manca già Carlo Monni. E quanta furia c’era in quelle parole, quando se la prendeva coi ragazzotti provenienti da mezza Europa per l’alluvione di Firenze. La rabbia che si trasforma in qualche specie di bellezza. Che lui quella terra la conosceva sul serio. Che il Monni ci raccontava Dante e Cecco Angiolieri ai suoi maiali. E poi la gente. In giro a parlar con tutti, a camminar per le campagne, a respirare il vento. Su e giù per i palchi della provincia, i set dei registi più importanti, le Case del Popolo. Ci penso in questi giorni. Mentre lavoro. Mentre mi arriva l’agenzia che anche Don Gallo se n’è andato. Un altro che la conosceva bene la miseria. E quella direzione ostinata e contraria. Ora e Sempre. Poi improvvisamente mi vien da pensare invece a certi intellettualismi di bassa lega delle giovani promesse del teatro italiano. A chi non conosce Dino Campana e pensa di poterne fare a meno. A (presunti) artisti idolatrati, la loro superbia d’essere unici e originali. E a quegli altri con le loro narrazioni civili, ogni volta a cercar di far leva su quel che rimane della mia anima di sinistra. Che non (se) ne può più. Un giro in una cantina occupata e tutti anarco-insurrezionalisti. Valà, valà, che ci sono ancora bestie da spostare. Invece si crede che sia un vanto non farsi comprendere. Non domandarsi del pubblico. Fingere di volare alti, come quei palloncini a forma di coniglio che mi compravano da piccino. Ai giardinetti di Porta Venezia. Che si sgonfiavano e mi sembravano diventare tristi come un’illusione svelata. “Ma non capisci Marat che invece quello era il momento più bello? Finalmente si avvicinavano!”. Mi ama proprio. Ed è vero, non avevo capito niente. Meglio che vada anch’io a spostar le bestie.

Addio Carlone.

Teatro junior: LaFabbrica trionfa al Play Festival con “Aspettando Nil”

nilVINCENZO SARDELLI | Roma capitale al Play Festival di Milano. Aspettando Nil, prima parte di una Trilogia dell’attesa della Compagnia LaFabbrica, ha vinto la rassegna Play Festival. La kermesse ha visto sfilare al Teatro di Ringhiera dodici compagnie tra il 13 e il 19 maggio. Una gara, sette serate, dodici spettacoli, settanta artisti under 35. Due giurie, una popolare, l’altra di critici web. Nove le città rappresentate: Milano, Zurigo-Torino, Roma, Ancona, Bologna, Padova, Firenze, Palermo.

Primo premio, l’inserimento nel cartellone del Piccolo Teatro di Milano. Tre serate nella stagione 2013/2014. Roba mica da pettinare le scimmie.

Eppure ci si aspettava di più da questa rassegna, con dodici finalisti frutto di una scrematura che partiva da un totale di 113 proposte.

A spiegare i meccanismi della prima selezione, l’istrionica padrona di casa Serena Sinigaglia: quarant’anni, cinquanta regie, “pazza dai capelli rossi” come l’ha definita Sergio Escobar. «Il 70 percento delle proposte – dice la regista promotrice della rassegna – arrivava da scuole professionali sparse in Italia. Abbiamo ritenuto di portare al festival almeno uno spettacolo per provenienza di scuola. Dunque: Paolo Grassi, Piccolo Teatro, Filodrammatici, Silvio d’Amico, Stabile di Torino e Nico Pepe di Udine».

Metà delle proposte proveniva da Milano, ed ecco selezionati quattro gruppi meneghini. Per gli altri si è cercato uno spettro ampio, da Padova a Palermo: «Abbiamo privilegiato le idee e i progetti di gruppo di lavoro. Sul piano estetico abbiamo cercato di offrire un ventaglio dal teatro d’attore  a quello visivo. Abbiamo cercato di selezionare solo quei lavori che ci sembrassero di livello professionale. Sappiamo bene che uno spettacolo non si giudica dai video e dai materiali. La sfida era anche questa».

Noi di PAC la rassegna l’abbiamo vista tutta. Ecco le nostre considerazioni.

Sulla vitalità e sul coraggio dei giovani. Osare poco poco di più, cari ragazzi? D’accordo, le sceneggiature erano per lo più originali, quasi nessuno si è cimentato con i classici (che pure, se ben reinterpretati, sono capaci di comunicare emozioni sempre nuove). Però in qualche caso assistere ai vostri spettacoli è stato un po’ come vedere le nuove proposte sanremesi scimmiottare la più scontata canzone all’italiana.

Sull’efficacia delle scuole. Andare a scuola non vuol dire essere scolastici. Gli spettacoli più deludenti? Proprio quelli delle scuole. Paura di mettere il naso fuori dal seminato. Movimenti sulla scena così costruiti da risultare artefatti. Recitazione pedante. Dizione accademica che neanche un mezzobusto televisivo. Come in La prostituzione raccontata al mio omeopata, di Evoè, con quattro ragazze diplomate alla Paolo Grassi nei panni di prostitute dell’Est e della Nigeria: si raccontavano con inflessione ambrosiana così marcata da sembrare radical-chic appena uscite dal quadrilatero della moda. Deludenti anche le esibizioni di Oyes con Effetto Lucifero (Accademia dei Filodrammatici e una performance i cui sussulti erano legati a una recitazione più o meno urlata), di Formelinguaggi con Contagio (didascalico spettacolo draculiano che cavalca l’onda lunga di Twilight). Di scuola Paolo Grassi anche le Brugole, con Boston Marriage, primi vagiti di una recitazione che inizia a emanciparsi dagli esordi cabarettistici.

Sulla rarefazione del testo. Con le eccezioni di Benji (degli anconetani di Bel Teatro, onirico ma frammentato viaggio di una bambina in fuga dalla violenza del mondo degli adulti) e di Boston Marriage, il nuovo teatro prescinde dal testo. Operazione legittima, che si dimostra seria solo se parte dalla scomposizione di un tessuto di base in cui si conoscono alla perfezione i meccanismi drammaturgici. Cosa che hanno provato a fare con  eleganza i fiorentini di Inquanto teatro (la cui ironia di fondo in Abba-Bosch non è stata pienamente colta  dalle giurie) e gli internazionalissimi ZTT, il cui Stranieri, terzo classificato, coniuga senza esibizionismi danza e poesia. Coinvolgenti (anche se un po’ fini a se stesse) le pièce a scatole cinesi Buco (Teatro Bresci) e Hamelin (Gli Incauti). Non pienamente persuasivi gli spettacoli di denuncia Buonanotte (dei palermitani Quartiatri) e Dissenten, dei baresi Vicoquarto Mazzini. Questi ultimi, pur con scelte registiche da dosare meglio, hanno ottenuto il secondo posto (e l’inserimento nel cartellone del Ringhiera) grazie a una recitazione intensa.

Sulle vincitrici. Si sente nella nuova scena italiana l’assenza di una scuola di drammaturgia. Forse ha ragione Sergio Escobar quando invita a una transizione morbida tra vecchie e nuove generazioni. Meno male che c’erano Elisa Bongiovanni e Giada Parlanti. Dentro i limiti d’età per il rotto della cuffia, guidate alla regia da Fabiana Iaccozzilli, le due attrici romane si sono imposte con Aspettando Nil, spettacolo evocativo sui temi dell’educazione, del rapporto madre-figlia, del valore dell’esistenza. Rovistando come topi nella spazzatura, danzando con la carrozzella sulle note del Guglielmo Tell, brindando all’atto supremo con lo champagne, LaFabbrica ha proposto un Aspettando Godot al femminile, con una sorprendente gamma di registri espressivi.

Basta un attimo di viltà per deturpare una vita, bisogna prepararsi una vita per rendere sublime l’istante della morte. Questo il messaggio dello spettacolo. Quanto al prossimo Festival, ci basta che sia preparato dalle giovani compagnie con un minimo di creatività scanzonata in più. E con quella cura capace di bucare persino un video di cinque minuti.

“Aspettando Nil”, primo classificato

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=nGh8C8RDHUs&w=560&h=315]
“Dissenten”, medaglia d’argento
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=_jhObayVjvU&w=560&h=315]
La coreografica colorata pedagogia multiculturale di “Stranieri”, terzo classificato
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=v2OoEEY–H4&w=560&h=315]