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domenica, Settembre 8, 2024
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Le “Incisioni” globali di Danio Manfredini

ManfrediniVINCENZO SARDELLI | Un viaggio attraverso cinquant’anni di musica italiana, per raccontare l’animo umano e il suo bisogno d’amore. “Incisioni”, di e con Danio Manfredini, unica tappa lombarda del 2013 sabato 16 febbraio a Corsico, è un percorso fatto di versi, danze solitarie, immagini e schizzi monocromi proiettati su un velo. Ma “Incisioni è soprattutto musica, canzoni eseguite dal vivo, dalle tonalità livide e graffianti, roche e biascicanti.
C’è un mondo creativo dentro i linguaggi di questo teatro globale. Lo spettacolo è nato dall’input di Cristina Pavarotti e Massimo Neri (che poi l’hanno prodotto, con gli arrangiamenti di Andrea Bellentani) colpiti dalle tonalità canore di Manfredini. Il lavoro di gruppo ha selezionato brani tutti a metà strada tra l’esserci e il non esserci più, tra il riprendersi e il lasciarsi. Con il riferimento autobiografico a un amore durato sette anni e poi perduto, e la conseguente faticosa ricerca di nuovi equilibri.
“Incisioni” è una carrellata tra brani noti e meno noti della canzone d’autore italiana: “I giardini di Marzo”, “Povero me”, “Le tue mani su di me”, “Labbra blu”, “Ancora, ancora, ancora”, “Resta con me”, “Se è vero che ci sei”, “Ci sono molti modi”, “Insieme a te non ci sto più”, “Stupido Hotel”, “Nuotando nell’aria”, “Vento nel Vento”. Sono dodici cover che attraversano la storia della musica pop.
Per Manfredini la canzone è una porta di entrata in certe parti della vita, fa riaffiorare zone dell’immaginario e ricadere dentro mondi attraversati. E lui, in ogni brano, ci mette risonanze personali diverse da quelle originali. È proprio questo il senso di fare una cover.
La versione live intreccia l’aspetto musicale a una concezione più teatrale, che amplifica le suggestioni delle canzoni. Si esplorano le relazioni di coppia, le sfumature dei sentimenti amorosi. C’è l’amicizia, il rapporto padre-figlio, la ricerca del tempo perduto. Emergono, da questo rito canoro animalesco, la fatica dello stare insieme e del costruire, le ambiguità e le complicazioni di ogni rapporto umano. Ogni canzone è un frammento emozionale, un graffio. Tutti i pezzi rivelano una lacerazione. Il titolo “Incisioni” allude proprio alla ferita che lascia tracce indelebili.
Il viaggio parte con l’attore seduto dietro il velo-schermo trasparente. La luce scolpisce forme ed emozioni. Affiora una prigione di solitudini. L’amore cantato è patologia. Danio Manfredini è un fantasma incappucciato, mentre le note della sua chitarra attaccano “I giardini di marzo”. I “nuovi colori” della canzone di Battisti, però, non li vediamo subito, nonostante il girotondo-arcobaleno proiettato sul velo. Poi l’attore si materializza dall’ombra, viene alla luce, trova il contatto col pubblico. Le note allora si fanno intense e arrivano sul palco solide con Marco Bedetti al pianoforte, Marco Maccari al basso, Max Marmiroli all’armonica, Cesare Vincenti e Wilco Zanni alle chitarre.
Il percorso prosegue deciso: pezzi come specchi, sguardi come preghiere. L’attore è assorto, posseduto. Duetta in un ballo virtuale che non è danza né pantomima. Al pubblico sono offerte esperienze: gioiose o malinconiche, gentili, conflittuali, buffe e stravaganti.
Da questo percorso onirico affiorano quei mondi immaginari che nelle versioni originali dei brani erano più materiali. La voce roca di Manfredini è quella di un aruspice che sputa dalle viscere le canzoni ma anche i versi di Mariangela Gualtieri, impastati di cuore e saliva.
Questo spettacolo è tante voci insieme, tanti gesti custoditi in quel tesoro che è il corpo, capace di ogni sorta di escursioni poetiche. Sono immagini di paesaggi interiori che esplorano la condizione umana, che accomunano in uno sguardo empatico attore e spettatore, senza abbandonare la speranza che il bisogno d’amore trovi soddisfazione.

In questo video di qualche tempo fa Manfredini legge una poesia della Gualtieri accompagnato dal violoncello di Giovanni Ricciardi
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=-E8yXMbBrV4]

Arcuri, Civica e Cruciani e la giovane drammaturgia

Pieraldo Girotto 2-1LAURA NOVELLI | Provo sempre un certo entusiasmo quando mi trovo a dover scrivere di nuova drammaturgia. In questo caso, poi, l’entusiasmo si lega a una nota di personali affetto e ammirazione visto che i tre giovani autori in oggetto, Maria Teresa Berardelli, Niccolò Matcovich e Carlotta Corradi, sono stati tutti e tre allievi dell’Officina teatrale/Cantiere di scrittura e collaudo diretto da Rodolfo di Giammarco al Belli: palestra di allenamento alla parola teatrale e alle scritture per la scena alla quale per molti anni ho collaborato con lezioni (ma preferisco dire incontri) sulla storia e la teoria della drammaturgia.
E mi è difficile dimenticare quanta passione, quanta intelligenza, quanta originalità abbiano caratterizzato l’apporto di ogni singolo frequentatore del corso e, tanto più, abbiano nutrito le fasi di scrittura via via proposte. Adesso, questi tre promettenti drammaturghi (che hanno rispettivamente 26, 23 e 32 anni) approdano al Palladium di Roma con tre opere molto diverse tra loro, tradotte in scena da altrettanti registi scelti tra personalità emblematiche della nuova scena, che rispondono ai nomi di Fabrizio Arcuri, Massimiliano Civica e Veronica Cruciani. Il progetto, intitolato “Nuove Drammaturgie in scena” e inserito nel più vasto contenitore de “La provincia in scena”, è a cura dello stesso Di Giammarco e monopolizzerà il cartellone della sala di Garbatella dal 26 febbraio al 3 marzo.
Dichiara a tal proposito il curatore: “Investiamo su tre autori, su tre testi inediti, su tre modi diversi d’essere giovani drammaturghi, su tre scritture differentissime, su tre contenuti eterogenei, su tre partiture che chiedono attori/attrici non fungibili tra loro, e, last but not least, facciamo leva su tre registi “adottatori” che mettono il loro riconosciuto professionismo (senza tracce di dna in comune) a disposizione di questo triplice cantiere di messe a punto, di messe in scena. Una formula di rodaggio che usa meccanismi linguistici nuovi con l’avallo e il confronto di teatranti non spesso impegnati a lavorare con opere prime. E si scommette anche su un pubblico interessato e interessabile, perciò interessante. I tre testi in programma mostrano un’ininfluente ma laconica e innegabile condivisione: un titolo composto da una sola parola. Sterili, Radici, Peli. Segno di tempi che sintetizzano la comunicazione, il senso, la portata di una storia o di una non-storia. Sterili di Maria Teresa Berardelli, copione che ha ottenuto il Premio Riccione Tondelli 2009, è stato scritto dall’autrice (nata come attrice) all’età di 23 anni. Cinque personaggi, un luogo d’azione che è un’inerte stazione sotterranea della metropolitana, un disamore in atto tra un lui e una lei (confortata inutilmente da un altro), un parallelo rapporto morboso e “mancato” tra due sorelle, e un concertato di frasi quasi nord-europee, è parso un materiale molto compatibile con certe strutturazioni registiche atonali e seriali di Fabrizio Arcuri, alle prese con le dinamiche dell’Accademia degli Artefatti. Radici di Niccolò Matcovich è stato ideato quando l’autore (con alcune esperienze recitative) aveva 21 anni.
Due personaggi uno di fronte all’altra, un’identità maschile e una fisionomia femminile, senza alcun appiglio didascalico o di battuta che faccia decifrare la vera natura del loro rapporto, e quella che sostengono sembra un’agnizione con permanenti segreti, misteri, allusioni irrisolte, e il loro parlare è frugale sino all’inverosimile, è impenetrabile, e si spiega l’abbinamento con un regista come Massimiliano Civica che dell’austerità e della parsimonia ha fatto le sue cifre. Peli di Carlotta Corradi è stato concepito quando l’autrice (anche regista) aveva 31 anni. Qui è in gioco un’introspettiva, anatomica questione di gender trasfigurabile e rovesciabile che detta le regole di frasi, di complicità, di stimoli, di provocazioni, di denudamenti, di slanci, di ardori, di abbandoni e di (ef)fusioni che segnano le apparenze di due amiche alle prese con una partita a carte la cui posta è intimissima, e virulenta, e altra, e in questo caso una regista come Veronica Cruciani aveva a sua volta le carte per plasmare sillaba per sillaba ed epidermide per epidermide una disputa di desideri umani senza costumi. Poi vedremo se le alchimie di autori-testi-registi creeranno esperimenti o fatti compiuti. Ma il teatro, la nuova drammaturgia, non deve mai dare certezze”.
francesca_mazza-3Anzi, il teatro, tanto più se nuovo e giovane, deve avere necessariamente la forza di disarcionare pensieri ed emozioni. Deve coglierci impreparati. Deve saperci regalare una visione sempre “altra” rispetto alla realtà, sempre in fuga da ciò che appare scontato o normale. E sono quanto mai convinta che questi tre testi abbiano la capacità di farlo. Le note psicologiche della scrittura di Maria Teresa, minuziosa scandagliatrice delle relazioni interpersonali e dell’oscurità dell’animo umano diplomatasi come attrice all’Accademia Silvio D’Amico e già autrice di “Studio per un teatro clinico”, “Il paese delle ombre”, “Il signor P”, sembrano una danza dei non detti e dei sospesi atta a rivelare (forse) la verità di certi incontri (la trovate qui). Gli scarti surreali e le virate improvvise della scrittura di Niccolò, cauto artefice di linee sghembe e argute frustrate al senso comune attualmente allievo del secondo anno del corso di Drammaturgia della Paolo Grassi e già approdato sulla scena capitolina con “Grumi (memorie del cazzo)” e “L’Intruso”, somigliano a sassi silenziosi gettati nell’acqua dell’improbabile da cui si dipartono onde inattese e shoccanti (guardate questo video o quest’altro). La drammaturgia ironica, corale, ritmata, grottesca di Carlotta, sofisticata detective del mondo femminile con in repertorio titoli come “Lipstick” e “The Women” (da lei stessa adattato e tradotto dall’omonima opera di Clare Booth Luce) e con ampia esperienza come documentarista diplomata alla New York Film Academy,  sembra una mappatura felicemente ariosa delle fragilità umane più comuni, passate al vaglio di una narrazione che non ha mai nulla di scontato ma che, piuttosto, capovolge l’ovvio prendendolo a suo punto di partenza (per conoscerla meglio: 12 donne / the women / carlotta corradi e www.liquida.it/carlotta-corradi/).
In definitiva, ciò che si prospetta al Palladium, complice il sostegno nevralgico e illuminato di un’istituzione pubblica come la Provincia, è un monitoraggio di sentimenti, paure, incognite, pulsioni e rivelazioni che adotta lingue e linguaggi assolutamente odierni per confermare ancora una volta – e se mai ce ne fosse ancora bisogno – che il nostro teatro pulsa di giovani talenti e di energie nuove pronte a scommettere sul valore della scrittura contemporanea per la scena. Che poi, si sa, diventa anche la scrittura del regista e degli attori. Motivo per cui viene da pensare che siano proprio questi, prima e insieme al pubblico, ad avere un urgente bisogno di nuovi autori, nuove idee, nuove sensibilità.

Per informazioni sulla rassegna: www.atcllazio.it, www.romaeuropa.net, www.pav-it.eu

PlayStation 4: i confini del videogioco non saranno più gli stessi

PlayStation4ControllerALESSANDRO GUALANDRIS | Come ogni presentazione Sony, anche quella riguardante la Playstation 4, avvenuta a New York mercoledì 20 febbraio, è stata un evento che ha bloccato il mondo video ludico per tutta la sua durata. Seguito in diretta streaming da oltre due milioni di persone, Andrew House, presidente Sony Computer Entertainment, ha dichiarato “Crediamo che Playstation 4 rappresenti il passaggio per ripensare la console”. Giustamente il mondo delle console è cambiato, rispetto al lontano 1994, anno d’uscita della prima gloriosa Playstation. Allora, Sony, riscrisse il concetto d’intrattenimento in pixel, cambiando per sempre la vita dei video-giocatori da divano.
Ora il target cui punta è cambiato. La rete ha preso il sopravvento e il salotto di casa non è più il fulcro del gioco. Sony lo sa e con la nuova versione della sua console punta ad invadere prepotentemente quel mercato. “Ps4 – ha ricordato Andrew House – è prima di tutto una piattaforma costruita (…) per sperimentare nuovi modelli di business come free play e i giochi ad episodi”.
Ma andiamo con ordine. Prima di tutto, Sony, non mostra ancora la console, che uscirà intorno a Natale 2013, quindi presumibilmente farà il suo ufficiale debutto all’E3 di Los Angeles a luglio. Si limita a svelare il nuovo Pad controller, molto simile a quel DualShock che già conosciamo, ma implementato di un tasto di sharing rapido, così da permettere di condividere immediatamente sui social network i propri progressi o mostrare un video della sessione appena giocata. Inoltre presenta un touchpad frontale, inedito fino ad ora, che probabilmente sarà legato alle modalità di gioco. Mark Cerny, sviluppatore di lungo corso ora  lead architect della PS4, non entra nello specifico delle caratteristiche tecniche della console, ma dai primi filmati si ha subito l’idea che la casa Giapponese stia puntando molto sull’impatto grafico. Tuttavia ancora serpeggia nell’aria la delusione post E3 del 2006, quando furono mostrate immagini di giochi che poi non rappresentavano la reale grafica di quello che si sarebbe visto sulla Playstation 3, quindi è sempre meglio evitare facili entusiasmi. In seguito, tali specifiche sono state rese note online tramite un pdf.
La PlayStation 4 sarà dotata di una memoria ram da 8 GB, con processore AMD serie Radeon. Come la precedente sorella monterà un  lettore Blue-ray e sarà possibile collegarsi si via wi-fi che ethernet, ma avrà in dotazione porte USB 3.0. Sarà inoltre integrato un sistema di telecamere, chiamato Eye Toy,  molto simile al Kynect di casa Microsoft, in grado di mappare fisicamente il giocatore e riconoscerne i movimenti. Cerny ha definito la console “a platform by game creators, for game creators”, uno strumento, quindi, concepito dagli sviluppatori, per gli sviluppatori. “Abbiam voluto – prosegue – sapere cosa fosse importante per loro. Volevamo farli felici. Il nostro successo è stato creare un’architettura che potesse facilitare la manifestazione delle loro idee”. Ovviamente, se le premesse saranno rispettate, quest’upgrade che si avvicina alle potenzialità di un pc, offrirà alle case produttrici di creare giochi sempre più dettagliati e dalle ambientazioni vicine alla realtà. David Cage, di Quantic Dream, è salito sul palco della convention mostrando una tech demo in cui era riprodotto il volto in 3d di un uomo anziano, puntando l’attenzione sullo sguardo, vivo, trasmesso dagli occhi (da lui stesso definiti come “capaci di dare emozioni”). Sempre Cage, si è lasciato sfuggire che la potenza della PlayStation 4, permetterà di muovere in tempo reale oltre 30 mila poligoni (se pensiamo che Heavy Rain ne utilizzava 15 mila, comprendiamo la sua eccitazione). Altre case stanno sviluppando diversi motori grafici capaci di sfruttare al massimo le qualità offerte dalla console. Capcom con il suo Pantha Rei, sta lavorando in gran segreto al progetto Deep Down mentre il nuovo Final Fantasy by Square Enix, lavorerà con il Luminous Engine. Per ora solo rumors che cercheremo di approfondire in futuro.
Eppure, la convention non sembrava puntare l’attenzione solo sulle capacità grafiche della nuova creazione Sony, bensì sulla concezione innovativa che si vuol dare al videogaming. Uno dei maggiori investimenti di Sony, voluto fortemente dal presidente/CEO Kazuo Hirai, è stato nel cloud gaming. Questa tecnologia chiamata Gaikai (costata 380 milioni di dollari), permetterà di giocare in streaming su PS Vita, ma soprattutto su smartphone e tablet. L’obiettivo sarà di portare tutti i giochi di PS4 sui vari device e consentirà di recuperare i titoli usciti per la precedente console senza costi legati alla retro compatibilità. Inoltre depositando il software sui server Gaikai si potranno evitare continui aggiornamenti di hardware, creando una sorta di compatibilità totale tra le parti.
Sarà un futuro diverso quello che aspetta i video giocatori sparsi nel globo. Le nuove console-piattaforma offriranno svariate possibilità integrate alla rete e al gaming online, permetteranno di scaricare direttamente i propri giochi preferiti senza doverli acquistare fisicamente e consentiranno una continuità di gioco mai avuta grazie ai device mobili. Aspettando le contromosse di Microsoft e Nintendo che non si faranno certo attendere troppo (per ora per la prima solo voci concernenti la 720 “Durango”, mentre la Wii U uscita a dicembre attende di stupirci con i nuovi attesi titoli) vi consigliamo di guardarvi il video della presentazione avvenuta a New York :
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=EbvQydPhCh8]
Continuate a seguirci!

Riccardo Mannelli in esclusiva per PAC – il videoreport

MANNELLIRENZO FRANCABANDERA | Appassionati di disegno in Italia penso non ne esistano che non abbiano amato la grottesca capacità di Riccardo Mannelli di raccontare, con ininterrottamente crudele realismo, il tempo in cui viviamo.
Tratto distintivo del lavoro del grande artista toscano, che ha fatto la storia della satira a mezzo stampa degli ultimi trent’anni in Italia con le celebri collaborazioni per Tango, Cuore e più di recente Repubblica e il Fatto quotidiano, è la capacità sintetica di parlare attraverso l’ostensione della corporeità umana.
I grovigli di bocche, mani, seni, pance con cui Mannelli ha raccontato l’Italia della grandeur socialista, o quei sordidi strabismi del sottobosco burocratico democristiano che riportano a certe tele di Sughi, per finire all’inguinalità berlusconiana, con la nazione intera precipitata intorno alle vicende pelviche del suo duxetto barzellettaro, e all’attesa dei nostri giorni di un dopo che ancora non si capisce che strada potrà prendere, tutto questo, dicevamo, Mannelli l’ha saputo raccontare come pochi altri, restando fedele ad un codice creativo essenziale e a suo modo talmente forte da non aver bisogno di mutare nel tempo, se non nei soggetti.
E’ come se l’artista avesse lasciato fuori dalla sua finestra per tutto questo tempo una webcam per raccontare l’umanità dei vizi privati, ma con una capacità di sospendere il giudizio, o meglio agevolarlo allo spettatore delle sue opere con l’uso quasi di uno specchio. E se la capacità sintetica del suo disegno è più nota, i corpi resi con una pittura così carnalmente e cromaticamente prossima alla complessità di segni e alle dinamiche compositive di Bacon e Lucian Freud, non può che avvincere.
E avvinti siamo restati a Carloforte, Sardegna, in occasione della personale che Botti du Schoggiu, nel suo Festival di fine estate ospitato sull’isola dell’isola, ha dedicato all’artista. Perché questa pittura avvicina ed allontana insieme, spinge quasi a toccare l’incarnato reso con tecniche così sapienti e ne fa contemporaneamente provare distanza e necessità di distacco.
Riccardo Mannelli ha raccontato a PAC, in questa intervista video, il suo rapporto con il sentimento creativo, i suoi soggetti e l’arte.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=UQStkaL7e1g]

Di chi è figlia la video arte? Nam June Paik a Modena

Sacro-e-Profano-lowMARCELLA MANNI | In mostra fino al 2 giugno a Modena una selezione di lavori di Nam June Paik.
Nato a Seul nel 1932 e con studi al conservatorio di Tokyo, Paik si trasferisce in seguito in Germania dove alla fine degli anni 50 lavora con Karl-Heinz Stokhausen e ha occasione di conoscere John Cage. Il profondo legame con la musica ha segnato tutta la sua produzione artistica, all’insegna dell’improvvisazione e della sperimentazione mediatica. Viene quindi naturale il coinvolgimento fino dalle prime esperienze con George Maciunas e con i suoi incontri internazionali
a Wiesbaden, in Germania, che preludono alla costituzione del movimento Fluxus. E del fluire, della liquidità, verrebbe da dire oggi, Paik ha fatto una cifra stilistica, mescolando i confini tra le arti e rompendo gli schemi tecnici a favore dell’interscambio culturale.
La collaborazione con la violoncellista Charlotte Moorman si concretizza in numerose performance, oggetto il violoncello suonato, mimato, distrutto come in One for Violin in cui la Moorman, nel 1985, interpreta la oramai classica performance di Paik, di cui sono in mostra le tracce, la parti del violino in una scatola di plexiglass.

E giocare principalmente sul filo della musica viene facile quando ci si relaziona con i numerosi interventi che Paik ha compiuto in Italia, che lui ha sempre inteso, prima ancora di visitarla e di stabilirvi anche durature collaborazioni professionali, come la patria dell’Opera. Proprio l’opera rappresenta la summa di quello a cui un evento artistico può aspirare per Paik, un complesso e delicato equilibrio di musica, movimento e spazio, i capisaldi della “sua” arte elettronica. In pieno situazionismo l’arte per Fluxus diventa “arte divertimento” che deve essere “semplice, divertente e senza pretese” e “ desiderio di partecipare alla competizione dell’essere sempre un passo davanti agli altri, con l’avanguardia.” Negli anni fedele a questa linea, come testimoniano in mostra la Maria Callas (1993) ironica e affascinante, così come un simulacro di Giuseppe Verdi (1995) affidato a pianola, violino e l’immancabile monitor o un Luciano Pavarotti in forma di radio, lo humor autoironico di Fluxus è evidente nei robot, così come nelle video installazioni Sacro e profano, (1993) o una trasfigurata Venere di Botticelli con il volto di Hilary Clinton (1997).
A guadarli ora i suoi robot, le sue macchine video-sonore, si leggono tracce di una tecnologia senz’altro superata nei mezzi, ma assolutamente contemporanea nella poetica e nell’esplosione creativa. La tecnologia è per Paik prima di tutto uno strumento per diffondere l’arte, un’indagine che si compie sia in termini spaziali che temporali.
Ma sono la televisione, il video prima e la videocamera poi che permettono a Paik di sperimentare con l’immagine in movimento, che si trasforma in un caleidoscopio di potenzialità. Le prime performance di Paik sono legate al video e lavorano con un ready-made, cioè con materiale già girato, mettendo in scena la distorsione, il disturbo, ottenuti semplicemente attraverso l’uso di una calamita vicino al tubo catodico. Con la diffusione delle videocamere portatili il lavoro di Paio conosce evoluzioni e sperimentazioni che può affidare in prima istanza al girato, per poi aprirsi a successive modifiche.
La sua performance del 1984, il primo dell’anno, in cui ha messo in scena Good Morning Mr Orwell, una trasmissione live tra New York, e Parigi, collegata alla Germania e alla Corea del Sud, è quello che può essere definito un villaggio globale dell’arte.
E proprio Marshall McLuhan nel 1964 in Gli strumenti del comunicare scrive “La TV è un medium che respinge le personalità marcate e preferisce presentare procedimenti di lavorazione piuttosto che prodotti perfettamente finiti”. A quasi cinquant’anni di distanza il dibattito filosofico e estetico sull’immagine in movimento è tutt’altro che chiuso.

Un interessante video sulla mostra, disponibile sul canale youtube di ArtistaViaggiatore www.ilogo.it
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=r7IYkLoyEXo]

Nam June Paik in Italia
A cura di Silvia Ferrari, Serena Goldoni e Marco Pierini
Fino a 2 giugno 2013
Galleria Civica di Modena
Palazzo Santa Margherita
www.gallericavicadimodena.it

Quando i linguaggi si mescolano e sovrappongono

alynCLAUDIO FACCHINELLI | Non è facile definire il genere (musicale, teatrale, coreutico?) di ciò che si è visto l’11 febbraio scorso nella sala grande del teatro Franco Parenti di Milano. Ma è proprio questa polivalenza che qualifica l’evento.
Si trattava di una serata di beneficenza, a favore di Alyn Hospital di Gerusalemme, un centro di eccellenza per la riabilitazione di bambini e ragazzi disabili, punto di riferimento di tutto il Medio Oriente, e non soltanto. In questi casi, spesso ci si accontenta di qualche nome famoso, meglio se televisivo, che richiami persone di buona volontà, disponibili a passare una serata a teatro per sostenere un’istituzione meritoria, mentre è secondaria la qualità intrinseca di ciò che succede in scena. Ma qui non è stato così.
Illusion Corners – questo il titolo dato all’evento – era, principalmente, un concerto jazz, nel nome di uno dei più estrosi, folli protagonisti della musica nera americana, Thelonious Monk. L’improvvisazione, l’imprevedibilità, la diversità, fornivano quindi la cifra che, con precaria ma lucida consapevolezza governava l’intero progetto, punteggiato da melodie a volte aspre e dissonanti, da ritmi spezzati, che si cercavano e rincorrevano, fra il pianoforte di Enrico Intra e la tromba, il sax, la batteria e il contrabbasso del Meridith4et, integrato dal clarinetto basso di Achille Succi. Ma, fra un pezzo e l’altro, due attori, Sara Donzelli e Alessandro Ferrara, provvedevano, dall’alto di una balconata, a gettare qualche sprazzo di luce sulla personalità di Monk, leggendo brani riferiti alla sua vita – ad uso di un pubblico costituito, per lo più, da non specialisti. Nelle loro parole si ricorrevano i nomi di Charles Mingus, Gregory Corso, Norman Mailer, Allen Ginsberg, compagni di avventure in quella strabiliante e trasgressiva stagione americana che è quella del secondo dopoguerra, della Beat Generation.
Alla creatività artistica di quel periodo faceva riferimento anche Philippe Daverio, testimonial d’eccezione, dichiarandosi non critico d’arte ma studioso di antropologia, sollecitato da una maliziosa Chiara Zerlini, in funzione di presentatrice. Ma proprio l’arte visuale, fin dal risuonare delle prime note, trovava un suo spazio: Renzo Francabandera, qui nel ruolo non di critico teatrale ma di pittore e illustratore, tracciava un contrappunto pittorico, con pennellesse, pastelli, rulli, ma anche a mani nude, su un pannello di due metri per quattro, creando un’opera che si ipotizza di mettere all’asta in una prossima occasione, sempre a beneficio di Alyn Hospital.
piera principeIn questo incrocio di linguaggi espressivi, in un orchestrato disordine, punteggiato dalle incursioni sul palcoscenico di una masnada di folletti (le giovanissime allieve della scuola di danza Arté), si inseriva il gesto asciutto e rigoroso di Piera Principe, danzatrice già distrutta da un incidente e risorta alla danza, in improvvisazioni col contrabbasso di Michele Anelli e col pianoforte – percosso, più che suonato – di Enrico Intra, mentre la voce sensuale di Sara Donzelli restituiva, per immagini e sensazioni, la storia di Piera.
Non so se ho reso l’impasto di emozioni, suggestioni, dipanate secondo un’ardita concordia discors, e l’empatia che dagli artisti sul palcoscenico si propagava nel pubblico. Certo, un evento, ideato da Ivan Bert (coordinatore e tromba del Meridith4et) e messo in scena dal giovane regista Alberto Oliva, che varrebbe la pena di replicare.

Foto di Marco Bignozzi

PACcottiglia #2 – ANAGRAMMI – IL CASO GIANNINO

ULTRAVIOLET | Oscar Giannino Fare per fermare il declino = Errar in corsa è facile: non fingere diploma!

Oscar Giannino - Illustrazione di Renzo Francabandera 02/2013
Oscar Giannino – Illustrazione di Renzo Francabandera 02/2013

Incontro pubblico con Sabrina Impacciatore alla Fondazione Sipario Toscana – conduce Andrea Ciommiento

Impacciatore1CASCINA (PISA) | 23 FEBBRAIO 2013 – h17.30 | FONDAZIONE SIPARIO TOSCANA |

Conversazioni sul contemporaneo

incontro pubblico con Sabrina Impacciatore prima dello spettacolo È stato così, regia di Valerio Binasco

PER PANEACQUACULTURE conduce Andrea Ciommiento (autore e reporter culturale)

Link diretto al sito:

http://lacittadelteatro.it/notizie/5077/

Seguendo un’insegna per fuggire dal quotidiano: Paravidino si diverte con Woody Allen

exit-paravidinoLAURA NOVELLI | E’ una commedia briosa, intelligente, lieve il nuovo testo di Fausto Paravidino, “Exit”, che lo stesso autore porta in scena al Piccolo Eliseo di Roma con un cast di ottimi interpreti composto da Sara Bertelà, Nicola Pannelli, Angelica Leo e Davide Lorino. Si parla sostanzialmente di amore. Amori incerti, sfioriti, inquieti, alla ricerca di un (im)possibile equilibrio. Ma se il tema è a dir poco abusato, la forma che il noto drammaturgo genovese adotta in questa piéce possiede una forte originalità: una struttura a episodi che insegue il ritmo cinematografico del migliore Woody Allen intercettando echi del teatro di Jon Fosse e un certo gusto per lo straniamento brechtiano.
E certamente vi si ritrovano pure tanti aspetti propri della produzione precedente dello stesso Paravidino, dall’approccio investigativo nei confronti delle relazioni affettive (e basti citare “La malattia della famiglia M”, fortunato lavoro approdato quest’anno anche alla Comedie Française di Parigi) alle diffuse venature socio-politiche (“Genova 01” o “Noccioline”), dal taglio agrodolce delle battute alle continue sfasature temporali, fino a quella felice circolarità della scrittura per cui nessun elemento drammaturgico appare causale o viene sprecato. Qui, però, l’astrazione geometrica in cui i personaggi, semplicemente A,B,C e D (con buona pace di Beckett), si muovono e agiscono, pur se simbolica di migliaia di situazioni simili, sembra sospingere il registro complessivo del lavoro verso una drammaticità volutamente negata, volutamente ingoiata, o meglio, volutamente esteriorizzata. Prendendo, infatti, a motivo ispiratore il celebre testo di Fosse “E la notte canta” (allestito da Valerio Binasco nel 2008), e dunque un algido quadro di incomunicabilità di coppia dilaniato da pause e silenzi fino al tragico risvolto dell’epilogo, Paravidino lo dilata attraverso la lente dell’ironia e lo rilegge con levità quasi disarmante, affidando ai protagonisti (Bertelà e uno splendido Pannelli) il duplice compito di immedesimarsi nei panni di una moglie e un marito (tra l’altro docente universitario di politica internazionale) in crisi e, nel contempo, di raccontarne al pubblico (come se questo fosse assimilabile, appunto, alla cinepresa di Allen) i risvolti emotivi, le sensazioni, la storia cronologica del loro rapporto, i motivi di litigio (un paio di calzini avuti in regalo, le divergenze ideologiche, la gelosia mal riposta, il desiderio/paura di avere figli), la decisione di separarsi.
Il tutto con distaccato vigore didascalico, quasi fossimo incappati in un “Pasticciaccio” di Gadda/Ronconi rivisitato in toni sarcastici o, più opportunamente, in un’opera di Jaun Mayorga. Scandito in tre capitoli (“Affari interni”, “Affari esteri”, “Resa dei conti”), lo spettacolo poi, a livello visivo, sembra un ritmato omaggio al ready made postmoderno, con quell’affastellarsi di oggetti feticcio del contemporaneo (insegne, scritte al neon) che ne sottolinea lo svolgimento e quei colori acidi che ne puntualizzano la sarcastica allegria di fondo. Allegria fino a certo punto ovviamente. Perché è naturale che il matrimonio, scoppiato per problemi interni, produca poi nuove relazioni esterne, incarnate da una giovane studentessa di B molto alternativa e sinistrorsa e un ingenuo suonatore di chitarra tutto cuore e altruismo (un Lorino spontaneo e disinvolto).
Tuttavia, malgrado queste vie di fuga (o forse proprio grazie a loro), alla fine il cerchio si chiude, i conti di pareggiano, e non importa capire dove la storia vada a parare perché, si sa, negli affari di cuore non c’è mai nulla di scontato. Messi in gioco tutti i cliché del caso, insomma, Paravidino riesce a sovvertirli con arguto divertimento, mescolando la quotidianità delle relazioni con la guerra in Iraq, Bush e la dittatura; barattando la fragilità degli uomini e delle donne con la forza magnetica dell’esistenza stessa. E dunque “Exit” (prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano che ne ha già programmato una tournèe italiana per l’anno prossimo) non può che piacere, divertire, far pensare. Il pubblico esce dalla sala contento, alleggerito, compiaciuto di vedere come la sua vita somigli a quella di molti. In definitiva, un lavoro assai godibile, ben fatto, ben scritto, ben recitato. Anche se, personalmente, rimpiango un po’ il Paravidino di “Natura morta in un fosso”, portato al successo da Fausto Russo Alesi nel 2001. Forse semplicemente perché di crisi di coppia, di matrimoni alla deriva, di tentativi di fuga dal grigiore della routine ne abbiamo fatto una tale scorpacciata da digerirne a fatica anche le pietanze più riuscite.

Un video sullo spettacolo
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La Tempesta di Binasco

tempesta-binascoNICOLA ARRIGONI | La Tempesta di Valerio Binasco – interprete nel ruolo di Prospero, regista e traduttore – è uno di quegli spettacoli che è destinato a farsi pensiero ricorrente nella mente dello spettatore, perché si incide direttamente nell’anima. Questa la sensazione registrata al calare del sipario.
Eh sì, sarà infatti difficile dimenticare l’ingresso di Binasco/Prospero, una sorta di sciamano in cui il potere della magia combatte col dolore dell’esilio. E’ straordinario l’Ariel di Fabrizio Contri, un Ariel anziano, parkinsoniano, con cappotto e maglia di Superman, servo pigro e allampanato che reclama la sua libertà. Lo spazio di questa Tempesta è uno spazio vuoto, racchiuso in pareti rosso sangue rappreso, è una sorta di landa rossastra come quelle cave che ci sono a pochi chilometri da Avignone e in cui Brook ambientò il suo Mahbhahrata.
E a Peter Brook e alla sua Tempesta Valerio Binasco rende omaggio con un ingresso di grande intensità che la richiama. C’è fin dall’inizio una tensione livida in questa favola shakespeariana che si pone in fragile equilibrio fra una comicità tesa e amara e una violenza sotterranea che si esprime nelle intenzioni e nella azioni dei personaggi che hanno perso loro stessi e che si ritroveranno solo quando lo sciamano Prospero al disegno di vendetta farà seguire il perdono. Valerio Binasco è un duca di Milano di grande verità, dimesso e autorevole, determinato e dolente nel suo ruolo di signore esiliato, tradito dal fratello e con la figlia Miranda come sua unica consolazione. Miranda è Deniz Ozdogan una bambina che sogna, sogna l’amore, sogna la libertà del cuore e la troverà nel Ferdinando dalla erre moscia di Roberto Turchetta. Toglie il fiato la scena d’amore fra i due in cui la leggerezza dell’adolescenza si sposa con la poesia dei gesti e delle parole; i due sono i primi destinati a riconoscersi, a ritrovarsi grazie alla forza dell’amore. Per tutti quell’isola è infatti luogo della perdita di sé e dello scatenarsi della pulsione violenta. Lo è per il Calibano di Gianmaria Martini che invita Stefano e Trinculo ad ammazzare Prospero, lo è per Sebastiano che tenta di ammazzare Alonso, re di Napoli, sollecitato da Antonio, fratello di Prospero, interpretato dal cremonese Sergio Romano. In questa Tempesta se Ariel è un anziano un po’ allampanato, il Re di Napoli e gli altri cortigiani sembrano appartenere a Cosa nostra, Trinculo e Stefano sono comici lividi.
Gli inganni dell’isola, le strane apparizioni orchestrate dall’Ariel trasformano quella compagnia di naufraghi in un gruppo di uomini terrorizzati, disorientati, fino a quando Prospero si svela loro e alla punizione fa seguire il perdono… Valerio Binasco e i suoi attori della Popular Shakespeare Kompany: Fortunato Cerlino, Andrea Di Casa, Simone Luglio, Fulvio Pepe, Giampiero Rappa, Ivan Zerbinati sono un corpo unico, sono un meccanismo di pura poesia che alla fine commuove, commuove Binasco, Prospero occhialuto che nel tirare le fila della storia regala una prova interpretativa sublime, straziante come straziante è il vento che si alza e che Ariel incoraggia con uno scuotere di borsina… Pura poesia, puro teatro.

Qui un video dello spettacolo
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LA TEMPESTA di William Shakespeare spettacolo della Popular Shakespeare Kompany con (in ordine alfabetico) Valerio Binasco, Fortunato Cerlino, Fabrizio Contri, Andrea Di Casa, Simone Luglio, Gianmaria Martini, Deniz Ozdogan, Fulvio Pepe, Giampiero Rappa, Sergio Romano, Roberto Turchetta, Ivan Zerbinati, costumi Sandra Cardini, scene Carlo De Marino, musiche originali Arturo Annecchino luci Fabio Bozzetta, direzione allestimento Ronni Bernardi, regia e traduzione di Valerio Binasco, produzione Oblomov Films/Teatro Metastasio Stabile della Toscana con il contributo di Estate teatrale veronese, Comunale di Casalmaggiore, 19 gennaio 2013