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giovedì, Dicembre 26, 2024
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Io sono un pittore che faccio video: Adrian Paci e la creazione d'arte

the econunter adrian paciMARIA CRISTINA SERRA | “Ogni opera d’arte è un organismo vitale che va verso lo spettatore, in cui tutti possono trovare delle risposte. Nella semplicità delle cose vedo una pluralità di letture e significati diversi. Non ho la chiave di lettura del mio lavoro che secondo me deve rimanere aperto”. C’è tutta la tensione etica dell’artista che, attraverso i luoghi vitali, delle radici risale le vie delle discordanze e delle mescolanze, per cogliere le esigenze di alterità e il desiderio di comunità delle esistenze contemporanee in Adrian Paci.

Arrivato esule da Shkodra a Milano nel 1997, e ora consacrato a Parigi con la mostra antologica “Vies inTransit” al Jeu de Paume, curata da Marta Gili e Marie Fraser (in calendario a Montreal e al PAC di Milano), Paci dissolve la sua arte in bilico fra armonia e contrapposizione, per disegnare uno spazio ideale, popolato di duplicità e di metafore, lasciando che le assenze possano colmarsi di presenze. Storie costruite in libertà di immaginazione e di sperimentazione, composte di pittura, sculture, video, installazioni e foto. Le contaminazioni di Paci trasformano cronache ordinarie in liriche collettive; così che i conflitti e le meraviglie, i dolori e le consolazioni, si ricompongono su più livelli, riannodano trame perdute e fili spezzati di un Tempo comune ritrovato.

Una vita in transito che fissa con poesia la quotidianità come riflessa in uno specchio. Un gioco sovrapposto di finzioni, antitesi e somiglianze che attendono di assumere forme. ”La verità non è mai nella stabilità”, è il “passaggio” che si schiude al divenire, che lascia entrare intuizioni, folgorazioni, così da donare all’arte freschezza e suggerire il filtro della mediazione possibile. L’artista è un costruttore di sogni e di materia, un osservatore privilegiato che avverte la necessità “di far vedere e di condividere”.

paciV5Non c’è provocazione nell’arte di Paci, ma riflessione, un riverbero di luce e di penombra, un dettaglio per ricomporre un insieme, per rappresentare il carattere transitorio dell’esistenza e la sua capacità di modularsi ai cambiamenti imposti dalla Storia, recuperando simboli e gesti antichi, universali, che mantengono intatto il loro significato nella contemporaneità.

“The Encouter” ci introduce nel suo universo. Nel video girato a Scicli, i palazzi decadenti e la chiesa barocca di San Bartolomeo fanno da cornice alla ritualità di una stretta di mano fra l’artista e centinaia di persone: una ritmica processione per sigillare con la gestualità una testimonianza spirituale. Quel tratto geografico di terra siciliana immersa in una quiete metafisica sul Mediterraneo, crocevia di stratificazioni culturali, segna l’inizio di un viaggio, che raccoglie segmenti preziosi del passato per rivoluzionare l’equilibrio del presente. Il cammino dell’esule è carico di affanni. In “Home To Go” il tetto rovesciato di una casa grava sulle sue spalle curve e si configura come un gioco di ribaltamenti, dove le apparenze mutano: i mattoni perdono di pesantezza e acquisiscono la leggerezza delle ali. La lontananza genera nostalgia e distanza, dove ripensare appartenenze, riconoscere scissioni interiori e fragilità.

“Io sono un pittore che faccio video”, dice Paci e in “The Last Gestures” la formazione accademica conseguita in Albania emerge nei contrasti di chiaroscuro, nell’intensità dei primi piani, nei ritratti a tinte decise. Il matrimonio tradizionale albanese, proiettato su 4 monitor, mette a nudo emozioni contrastanti: dolore per l’abbandono della casa paterna, festosità per l’evento. Ma è il viso assente della sposa a fornirci una chiave di lettura e a richiamare l’attenzione sugli elementi estranei. I volti anonimi dei viandanti verso l’ignoto sulla scaletta di un aereo fantasma in “Centro di Permanenza Temporanea” evocano la sospensione atemporale di un’attesa che si apre ad una speranza o si chiude in una dannazione. E’ un’icona al mistero della morte “Vajtojca”: lamento funebre della prefica al capezzale dell’artista, che poi si sveglierà dal lungo sonno, declina la sequenza del surreale cammino nell’ignoto. La vita non è una trama semplice, sembra dirci Paci.

Fra le incognite e le concretezze, sono tanti i fili spezzati da raccogliere e i riferimenti ideali. La poetica di Pasolini è una suggestione sempre presente. E’ la vitalità del linguaggio del raffinato filologo che sminuzzava le stratificazioni della realtà e le sue asprezze per elevarle a profetiche liriche, ad incantarlo. ”L’incontro con Pasolini è stato intenso. Ho sempre guardato i suoi film con l’occhio del pittore, considerandoli come materia prima da cui partire per poi fare il mio intervento”. Ed è la pittura fluida, velata, a tinte smorzate che unisce il ritmo lento del particolare alla leggerezza delle sfumature a rilevarci Paci “Secondo Pasolini”. E’ Il trittico Decameron, Mille e una Notte e Canterbury a riservarci silenziose emozioni; a suggellare un incontro mai avvenuto, che la comune sensibilità ha reso possibile.

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Non si dice “Piacere”: quando il Galateo viene inaspettatamente in soccorso

Cecile KyengeALICE CANNONE | La vita delle signore e signorine dabbene può esser messa, nella vita quotidiana, a dura prova da aitanti leghisti che pensano di potersi proporre nell’altrui vita, presentandosi dicendo “Piacere”. Nelle peggiori delle ipotesi al sorriso di balsa può seguire addirittura un “Molto piacere”. E la signorina dabbene sa che nonostante la provocazione non dovrà mai cedere al tranello e cercherà di filtrare ciò che troppo velocemente potrebbe passare dal proprio cervello alle corde vocali.

Potrebbe capitarvi, nella vostra vita di signore o signorine dabbene, di diventare Ministro. E non solo vi toccherà presenziare a consessi di vegliardi democristiani; e non solo nelle trasmissioni televisive vi toccherà sorbire inutili domande su “quanto si sente Italiana” o “quanto si sente cattolica”, come se le proprio radici, il proprio sentire e la propria spiritualità possano avere una precisa gradazione di sfumature, come le palette di Chanel. Potrebbe addirittura capitarvi, durante la consegna della cittadinanza simbolica a 200 bambini figli di stranieri ma nati in Italia, di essere avvicinate da chi fieramente rappresenta la nobile Padania a Palazzo Marino. E capiterà anche che voi facciate dignitosissimamente finta di ignorarlo.

Alle origini del gesto, con la stretta di mano si intendeva dimostrare a chi si ha di fronte che non si stringevano armi in pugno. Il moderno galateo però, se nulla può contro vili rescissioni delle arterie causate non da pugnali ma da chilometriche unghie ricostruite, prevede clausole risolutorie molto severe su quando quella mano proprio non vada stretta.
Ogni signorina dabbene sa che formule come “piacere” o “molto lieto”, seppur possano apparire cortesi, sono in genere estremamente inadatte; il Galateo contempla questi convenevoli eventualmente e provvidenzialmente solo a fine incontro, perché nel momento in cui ci si presenta non si può sapere se sarà realmente un vero piacere conoscere quella persona. Per non parlare del servile “Onoratissima” con tanto di mano a pesce morto, che una signorina dabbene non dovrebbe mai riservare a nessuno.

Ma soprattutto quello su cui il Galateo non ammette deroghe e che fa di una damigella una vera Signora dabbene è l’osservare rispettosamente il precetto: “Capisco il bacio al lebbroso ma non la stretta di mano al cretino.” (Pitigrilli – Dino Segre, Dizionario antiballistico, 1953).

Le donne da domare, da Shakespeare ad oggi: pantere, serpenti o… canoiste?

The Taming PropellerRENZO FRANCABANDERA | Fra Cinque e Seicento deve essere successo qualcosa di grave. Sono diversi nella storia del teatro e della letteratura di quel tempo i testi sulla necessità di sedare la bizzarria femminile. Se nel III secolo dopo Cristo le donne contribuirono in maniera decisiva all’affermazione del culto cristiano su quello mitraico, grazie al fatto che il culto di Cristo era loro permesso a differenza di quello di Mitra, cosa sia successo fra 1500 e 1600 non è proprio chiaro. Certo, ciò che accadde il secolo dopo, si. Forse Shakespeare nel 1591 lo subodorava. Chissà.

Il tema torna in mente mentre la mia figliola di pochi mesi agita le braccia in una piscinetta, in una settimana di interrogativi sulle questioni di genere e sullo specifico femminile in Italia. Non entriamo nemmeno nel tema femminicidio, che è cosa talmente raccapricciante da alimentare tanto il ribrezzo profondo della parte civile del genere umano quanto interi palinsesti pomeridiani della peggiore tv commerciale.

Le letture di questi giorni regalano però due chicche che aiutano a meditare su una delle drammaturgie shakespeariane più controverse, in scena in questi giorni al Piccolo Teatro e non facile da veder proposta, proprio perché non agevole da trattare, “La bisbetica domata” nell’interpretazione della compagnia inglese Propeller.

La prima chicca è la notizia riportata da il Fatto Quotidiano che rende testimonianza di un attore travestito da donna in Egitto, molestato per strada da molti uomini durante una passeggiata. Era successo anche ad una giornalista francese, in collegamento dal Cairo. A lei come ad oltre il 95% delle donne in quel paese.

La seconda è l’apostrofo con cui il capo (uomo) di una forza politica di ampio consenso ritiene di qualificare ex ante il potenziale professionale di una neoministra, rea di essere “solo” una canoista olimpionica. Dovrebbe dunque un elettore chiedersi senza pregiudizi cosa potrebbe mai proporre di geniale in Parlamento un impiegato postale (portavoce al Senato di quella stessa forza politica)?

Eppure in questo caso avverto disagio, in questo apostrofare con senso di superiorità di giudizio che è proprio maschile. Solo maschile. Grossolanamente maschile. Disagio di trovarmi (mio malgrado) nel genere della quasi metà dell’umanità che giudica prima di conoscere cosa sa fare l’altro/a, lo zittisce prima che possa parlare, sente bisogno di addomesticare la bisbetica che pensa diversamente, quella metà che mette le mani al culo senza il consenso di chi la riceve.

Ci penso guardando la piccola che agita le braccia in acqua e scorrendo i pensieri passatimi per la testa qualche sera fa, riflettendo su come lo stesso Shakespeare che ha raccontato Ofelia, uno scrittore, un artista, abbia costruito (è vero, dieci anni prima) una drammaturgia intorno alla necessità di ammansire la bizzarria femminile, di costringere l’altro essere umano ad inginocchiarsi, a chiamare il sole luna e la luna sole, pur di diventare obbedientemente omologa.

Per questo sentimento di disagio penso occorra vedere l’allestimento dei Propeller in scena al Piccolo Teatro di Milano. Per assaporare una messa in scena realizzata da soli uomini (caratteristica della compagnia, come nella miglior tradizione del Seicento), giocata sottilmente, ma inesorabilmente, sul maschio che usa apparentemente supremazia intellettuale (ovviamente inesistente), ma nella sostanza protervia fisica. L’eroe è il domatore, bello, prestante, furbo. La donna bisbetica, invece, fisicamente poco femminile, è un po’ punkabbestia, “fuori”. L’allestimento, nella parte che tratta dell’ “ammansimento”, il secondo atto, calca sul rapporto di forza, sull’esercizio di una superiorità che in alcuni momenti si fa violenta, corporale, tanto che la protagonista finisce con il suo vestito nuziale letteralmente infangato, trascinata alla genuflessione.

Mi chiedo se sia l’unica lettura possibile questa, l’unico modo di raccontare questa storia. Se quattro secoli dopo, cercando di mantenersi prossimi ad un gusto popolare e al sentimento shakespeariano come i Propeller cercano di fare, sia impossibile leggere in modo diverso questi rapporti. Se non nella sostanza almeno nella forma. O se invece sia giusto raccontarla così, abbinando a quell’atteggiamento maschilmente domatorio la violenza che lo connota.  Come nel finale de Travolti da un insolito destino, con Giannini che insegue la Melato, prendendola a ceffoni con accento meridionale:”Ma cosa sei tu? Panteeera, seppeeente, porcooona?”

Mi assalgono questi pensieri mentre la mia piccola galleggia, e faccio di tutto perché venga su dolce e bizzarra, che sappia affermare il suo sensibile; mentre spero dentro di me che nessuno la giudichi prima di capire cosa sa fare, che nessuno le allunghi le mani al culo che lei non voglia, che possa essere donna serena, al limite anche canoista e ministra nella stessa vita, in una società senza domatori.

Alcune scene dello spettacolo
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Torino Fringe Festival: quando un'idea nasce "storta"

181021_171501959674422_1219435688_nANDREA CIOMMIENTO | Nella sua prima edizione torinese gli artisti del Fringe calpestano le strade urbane con vitalità d’intenti. La rassegna/ventaglio nasce da un’idea “storta” (si legge da comunicato) come prospetto di una vivace comunità culturale che non vuole farsi divellere. Nessuna élite di settore ma il segno di una morbida esplosione che desidera aprire nuovi spiragli per la scena indipendente in spazi non convenzionali dediti all’incontro tra spettatori e artisti.

Il Torino Fringe Festival è la guida esperienziale ai locali del centro, la ripresa di una cerchia invisibile di non-teatri nell’area del Quadrilatero, come il K-Hole, il Circolo Rainbow e lo Spazio Ferramenta o i più marginali, seppur vicini, Cecchi Point, Circolo OltrePo, San Pietro in Vincoli, Magazzini sul Po e Caffè del Progresso. Dieci giorni di spettacoli in un  programma cortese pronto a ospitare artisti e pubblico in ognuno degli spazi predisposti (da venti spettatori a salire) con conseguenti “sold out” nelle sale più minute: spazi integrativi -non alternativi- aperti ogni giorno dalle quattro e mezza del pomeriggio a sera inoltrata.

Abbiamo seguito, tra le varie proposte di spettacolo, La protesta – Una fiaba italiana, della Ballata dei Lenna, un canto delicato e nascosto che dissequestra le alterazioni dei nostri tempi: “disoccupazione”, “crisi economica” e “ribellione”. Nicola Di Chio, Paola di Mitri e Miriam Fieno sono attor giovani freschi di accademia ma già consapevoli della propria presenza scenica. Sono autori e interpreti di un lavoro essenziale che chiarifica il declino italiano alla ricerca convulsa di una protesta esistenziale e dell’identità di tre povere anime disperse e allontanate dal loro pane quotidiano.

Distinta nell’architettura drammaturgica ma affine nella sua pulsione sociale, scopriamo la freschezza dinamica de La spremuta di Beppe Casales. La narrazione inizia dal mercato delle “arance di Sicilia” e della loro parziale origine siciliana; il paradosso fa approdare in Calabria a Rosarno nei giorni della rivolta degli immigrati contro la ‘Ndrangheta e uno Stato inesistente. L’orazione civile è netta, incisiva e di sostanza, alleggerita dal ritmo e dalla qualità di sguardo dell’attore in scena. D’altra pasta le rivelazioni sceniche di Dario Benedetto della Compagnia Torcigatti con il suo Piglia un uovo che ti sbatto, presagio di apparente superficialità trasformata speditamente in leggerezza. L’attore torinese racconta il suo legame con il mondo femminile, la collaudata “teoria delle cosce” senza macismi e la concezione di “uomo misurato”. La parola si fa colloquio psicoanalitico fatto di teoremi da assimilare e verità da trasmettere allo spettatore, donna o uomo poco importa.

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Ancora un assolo nella dimensione del teatro/danza con Quintetto, di e con Marco Chenevier (Compagnia TIDA di Aosta), una performance corale ripartita fin dall’inizio, in cui l’attore/performer chiede agli spettatori il supporto tecnico e artistico facendo ricoprire i ruoli di artisti e ausiliari, tecnici luci e audio. Comprensibile finalità: uno spettacolo sui tagli alla cultura e sulla ricerca scientifica con dedica performativa a Rita Levi Montalcini. Altro “solo performer” tra musica elettronica e voce manifesta con Didie Caria e il suo Voce per il teatro, un patch work di musiche originali su testi propri, lavori passati e tracce di letteratura universale tramite l’opera di Buzzati, Saint-Exupéry e Calvino. Un allestimento in loopstation con chitarra, tastiera e webcam su palco. La rivelazione di pubblico e stupore, con passaparola giornalieri di sera in sera, porta il nome di Mi sono arreso a un nano, la ballata di disperazione e sorriso dei Mercanti di Storie, con Massimiliano Loizzi (narratore) e Giovanni Melucci (musicista). Una serata di confessioni viscerali sulla quotidiana oscillazione tra il sublime e l’o-sceno della vita di Piero Ciampi. L’interazione ricettiva di Loizzi supera l’azione scenica e la durata prevista coinvolgendo e portando lo spettatore a sentirsi parte organica dello spettacolo stesso, attivando in ognuno il sentimento più intimo, alleggerendosi di significato e arricchendosi di senso.

Potremmo chiederci, da ultimo, quale sia il riscontro da parte della città di Torino che ha ospitato un nuovo festival indipendente portando fin dal suo nome la vivace vocazione del Fringe scozzese, sberleffo suburbano di nobile serietà nato ai “margini” dell’ufficiale Festival di Edimburgo (Edimburgh International Festival) che da decenni porta avanti la costruzione di un alfabeto scenico in dialogo con le città del mondo e con le arti tutte. Potremmo chiederci, anche, quale sia il taglio cristallino che unisce la programmazione selezionata e proposta (a Edimburgo l’esplosione performativa non accoglie cernite da parte di una direzione artistica: lo staff scozzese si fa garante di supporto organizzativo e promozionale portando così a un’esplosione consapevole e intelligente); potremmo infine chiederci se gli artisti italiani -attingendo dalla vitalità edimburghese- stiano perseguendo anch’essi, oltre al nome/marchio, la ricerca di nuovi alfabeti di creazione artistica e il desiderio di un tratto personale, identitario e irripetibile. In altre parole: ci chiediamo nei termini più sani se il TO-Fringe sia un’azione nata dal basso ma pronta ad alzarsi in piedi per scoprire la propria altezza; o quantomeno quella del suo padre nordico.

Mondocane#6 – La compagnia dei celerini

08032012371MARAT | Immobili. Di fronte a “L’origine del mondo” di Courbet. E chi vuole intendere intenda. Difficile non riconoscersi. Che a un certo punto in Viridiana di Buñuel, i mendicanti entrano a dare un’occhiata nella villa della protagonista. Immersi nel lusso, si siedono a una lunga tavolata come a comporre L’ultima cena di Leonardo. Ed è in quel momento che osservano una donna alzarsi la gonna di fronte a loro. Immobili, appunto. Immobili come quell’autista d’autobus che vent’anni fa stette ad osservare il mio amico Carlo che si calava le braghe. In una notte londinese di birre, cassa dritta e traffico bloccato.
E Carlo vive. Immobile come la nuova stagione del Piccolo. Che regala una lista lunga così di nomi già visti e (ri)conosciuti. La meglio gioventù (over 40) del teatro italiano. Non un nome di rottura. Non un talento ancora in divenire. Non un mezzo esempio di teatro performativo. Immobile nella propria importanza. E così sia.
Immobile come la Milano che osserva i celerini entrare in università. Agghindati in total blue antisommossa per sgomberare una libreria (una libreria), la ex-cuem, spazio proustiano di tesine e programmi fotocopiati. Madeleine accademica. I celerini che entrano in Statale mi mancavano. Ovviamente su espressa richiesta del magnifico rettore Gianluca Vago, l’unico a poter autorizzare l’intervento. Magnifico rettore che ai tempi dell’incarico si autodefiniva l’uomo del cambiamento. Ex-cuem rioccupata nel giro di una manciata di ore. Era ovvio. Ma il gesto è lì che ancora dà noia. Che mica se ne sono sentite tante di voci a riguardo.
Milano immobile, Milano che osserva. Un battito di vita ai margini, nei percorsi indipendenti. Dove è vero quel che vedi (forse). Giusto per crederci ancora, darsi un tono. Ma mentre Borghezio arrivava a Niguarda che il sangue non era ancora asciutto, Milano era immobile. La Milano che parla la mia lingua e che fuma le mie sigarette era immobile.
Perché noi si valuta, mica si reagisce di pancia. Facciamo minuti di silenzio, apriamo tavoli, limiamo comunicati. E stiamo lì. Immobili a fare tappezzeria. Mentre gli altri si divertono. E limonano con le ragazze.

Disegno di Renzo Francabandera

Torino GLBT Film Festival, prospettive dal mondo

torino glbtEDGARDO BELLINI | C’è sempre qualcosa di memorabile nella programmazione Torino GLBT Film Festival, che nel 2013 festeggia i suoi ventotto anni di attività con un nuovo, robusto incremento di spettatori. L’occasione di confronto fra punti di vista lontani – una ricchezza di sguardi e di voci che gli organizzatori curano con attenzione – racconta un’immagine sempre inedita del mondo e delle vicende umane; e una stessa storia d’amore, di crescita, di ribellione, promuove valori e significati che appaiono diversi in virtù della moltiplicazione dei contesti e delle culture.

Circa centoventi film, distribuiti in quattordici sezioni, restituiscono un affresco composito e problematico sulla “questione” omosessuale e transessuale nei diversi territori del pianeta, con una ricchezza di temi e di sfumature che è decisamente eccezionale ritrovare all’interno di un’unica rassegna di cinema. Il direttore Giovanni Minerba – nel 1986 creò il festival assieme al regista e compagno Ottavio Mai – rivendica il carattere culturale e politico della rassegna, che coltiva l’aspirazione alla libertà e all’espansione dei diritti. Cita la ministra francese Christine Taubira nel momento della recente approvazione della legge che estende il matrimonio e l’adozione alle coppie dello stesso sesso: «Noi siamo fieri di ciò che facciamo, l’atto che ci accingiamo a realizzare è bello come una rosa di cui la torre Eiffel, assediata, all’alba vede infine sbocciare i petali».

La sezione forse più “politica” è quella che porta il rivendicativo titolo «We are family», concentrata sui temi del riconoscimento civile e giuridico della coppia omosessuale, della genitorialità, della convivenza. Ed è faticoso, per noi spettatori italiani, rinnovare la consapevolezza che in materia di diritti civili il nostro Paese si trova un paio di gradini più in basso rispetto a tutto il resto d’Europa, alla quasi totalità dei paesi occidentali, e – da qualche anno – anche a una parte dell’America Latina. I film italiani di questa sezione, Vorrei ma non posso e i corti Uguali ma diversi e Regina bianca, presentano coppie gay e lesbiche che vorrebbero unirsi in matrimonio e godere delle tutele giuridiche saldamente garantite altrove, mentre devono ancora oggi accontentarsi di piccoli rituali simbolici. Ben più avanzata la prospettiva sviluppata in altri Paesi: i film francesi – Mon arbre, Histoire belge –, isreaeliani – Inyan shal min –, canadesi – The committment –, spagnoli – Right2love – raccontano piuttosto del desiderio di paternità e maternità, della possibilità di allevare figli, di espandere alla luce della modernità la nozione inerziale e ideologica di “famiglia tradizionale”; ed è significativo che in questi film i colori della narrazione siano a volte leggeri e brillanti, disimpegnati da quel doloroso misto di frustrazione e avvilimento che spesso pervade la cinematografia nostrana a tematica GLBT.

Di grande valore civile e conoscitivo il focus della «Mezzaluna rosa», una sezione di film e documentari sulla condizione delle persone omosessuali e transessuali in alcuni paesi islamici, che rivelano – per lo più attraverso storie ed avventimenti personali – situazioni e scenari culturali poco conosciuti allo spettatore occidentale. L’eloquente e coraggioso reportage Chuppan chupai (“Nascondino”), ambientato in Pakistan, porta sullo schermo quattro vicende umane aspre e conflittuali, ma anche la forza della rivendicazione politica e civile, dell’aspirazione alla serenità. Forte e diretto anche il documentario I am gay and muslim, un viaggio del regista olandese Chris Belloni attraverso il Marocco, in cui emergono situazioni personali di grande spiritualità, alla ricerca di un equilibrio difficile fra sentimento umano e devozione religiosa, senza troppa nostalgia per l’occidente. Singolare la vicenda della pellicola Out loud, primo film libanese a tematica gay, intriso di slanci e utopie, sogni di libertà e speranze d’un mondo migliore, sulla scia della Primavera araba. Durante le riprese del film, il regista Samer Daboul ha incontrato non poche difficoltà – per via dell’argomento trattato – fra interruzioni, furti e insulti; al punto che ha deciso di realizzare un documentario sulla produzione del film stesso, che è diventato così una testimonianza diretta della faticosa situazione della comunità GLBT nel Paese.

0Veniamo alla competizione e ai riconoscimenti. La giuria formata da Lidia Ravera, Vladimir Luxuria, Diego Dalla Palma, Travis Fine, Federico Boni, ha assegnato il premio «Ottavio Mai» per il miglior lungometraggio al film tedesco/olandese Boven is het stil (“Di sopra c’è silenzio”) del regista olandese Nanouk Leopold, un’intensa storia di solitudine e di affetti mancati; «per l’elevato livello recitativo degli interpreti, per la crudezza poetica, per la fotografia livida e carnale» scrivono i giurati nelle motivazioni del premio. Fra i documentari la giuria composta da Basil Khalil, Nina Palmieri e Piergiorgio Paterlini ha premiato The love part of this di Lya Guerra, poetica biografia che ripercorre a partire dagli anni Settanta la storia d’amore di due donne, dei loro figli, e del loro avventuroso viaggio attraverso gli Stati Uniti; e una menzione speciale va al reportage Born this way, una raccolta di testimonianze d’amore e di persecuzione, di disagio e di speranza, ambientato in Camerun. Fra i cortometraggi vince lo struggente Bunny, storia di un coniglio di pezza che lega alla vita un uomo anziano e malato, e il suo compagno. Infine nella sezione «Queer award» viene premiato il lungometraggio cileno Joven & Alocada, breve saggio di educazione sentimentale ai tempi del blog, intriso d’ironia e senso di libertà.

Fra gli altri lavori presentati in questo festival vale la pena di citare lo splendido film polacco W imie (“In nome di”) che affronta i turbamenti di un giovane sacerdote di campagna che s’innamora di uno dei ragazzi problematici affidati alla sua tutela; un’eccellente narrazione silenziosa e allusiva, ricca di sguardi obliqui sulla vicenda, con una tessitura narrativa distesa che ricorda vagamente la poetica inquieta di Kieslowskij. Fuori programmazione è stato presentato il film israeliano Yossi, sequel del fortunato Yossi & Jagger del 2002, con un superbo Ohad Knoller nei panni del tormentato e fragile protagonista.

A contorno delle proiezioni, il festival ha riservato alcune interessanti occasioni di confronto con personaggi di riferimento della comunità GLBT; come il disegnatore tedesco Ralf Konig, celebre per le sue strisce satiriche sulla vita quotidiana dei gay e sul rapporto fra l’uomo e la religione; o come il cantautore Renzo Rubino, premio della critica al recente Festival di Sanremo con la canzone Il postino.

Il trailer di Boven is het stil

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W imię Zwiastun – OFFICIAL TRAILER HD (2013)
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Diciannove ragazzi e il “miracolo” di fare teatro insieme

Miracolo in città foto GalvagnoLAURA NOVELLI | Un inno alla bontà. Quella vera, nobile, spiazzante. Una bontà che in parte somiglia alla pietas di virgiliana memoria e in parte evoca un disincanto tutto infantile. Un inno alla solidarietà, alla fantasia, alla poesia della vita, alla speranza tenace in un futuro migliore. Parrebbe navigare controcorrente il senso di uno spettacolo come “Miracolo in città” che Roberto Gandini ha presentato nei giorni scorsi all’Argentina di Roma come esperienza conclusiva del Laboratorio Integrato Piero Gabrielli portando in scena diciannove ragazzi, alcuni con disabilità, coinvolti in allestimento vivace, lieve, corale, divertente, dove l’essere “insieme” non costituisce solo un valore tematico ma rappresenta il nocciolo duro di un percorso basato in ogni suo aspetto sulla condivisione e l’inclusione.

Parrebbe navigare controcorrente perché, traendo ispirazione dal celebre libro “Totò il buono” di Zavattini (qui riadattato da Attilio Marangon) e, ancor più, dal film “Miracolo a Milano” che De Sica girò nel ’51 su sceneggiatura dello stesso Zavattini, il lavoro regala al pubblico una favola moderna che racconta la bellezza del dare, l’armonia di un gruppo di folli poveri sognatori idealisti, non privi di quella ingenuità infantile capace di scalare le montagne più ardue, costretti a combattere contro l’arroganza di un potere meschino e avido, convinto di poter comprare uomini e donne con la stessa facilità con cui compra terreni e giacimenti di gas.

A capeggiare questa congrega di disgraziati c’è ovviamente Totò, il protagonista: un giovane perbene e privo di ogni malizia che si affaccia alla vita dopo anni di reclusione in orfanatrofio con la docile magnanimità di un angelo. La sua bontà potrebbe essere presa per stupidità e oggi un giovane come lui rischierebbe certamente di essere vilipeso, ghettizzato, considerato un idiota. E invece Totò, sorriso sempre pronto e piena fiducia nel prossimo, è un vincente. Un personaggio grande, lirico, fuori dagli schemi. La magia di cui serve per risolvere la difficile situazione in cui si trovano lui e i suoi amici è una magia tenera, perché ha a che fare con gli affetti (in particolare con una “pragmatica” mamma defunta che scende ogni tanto dal Paradiso per dargli un cavolo magico in grado di far esaudire i desideri di chiunque), con la trascendenza, i sogni, la libertà, l’altruismo. Ma la forza dello spettacolo sta nel maneggiare questi sentimenti – e dunque le figure che li incarnano – con ironia e leggerezza, lontano da qualsiasi nota patetica o buonista.

D’altronde al Laboratorio Gabrielli si lavora da sempre così. Nato nel ’94, sostenuto dal Teatro di Roma in sinergia con il Comune e con l’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio, oggi questa realtà d’eccellenza nel quadro della pedagogia teatrale italiana conta 18 laboratori pilota e 197 laboratori decentrati. In quasi vent’anni di attività e di progressiva irradiazione nel tessuto scolastico romano, ha realizzato 130 spettacoli e 399 repliche (per un totale di 132.279 spettatori), documentando messinscene e backstage in ben 47 video ( www.pierogabriellinellescuole.it; rimandiamo anche a un nostro precedente contributo intitolato “Allenare le emozioni tra scuola e teatro: www.paneacqua.info/2012/07).

A fronte di questa robusta lista di numeri, Gandini e gli operatori che lo affiancano hanno sempre saputo modulare il “viaggio” formativo ed artistico intrapreso con i ragazzi secondo parametri di semplice, spontanea e giocosa umanità: studenti di varie età e varie scuole, diversamente abili e non, attraversano insieme l’energia del teatro e diventano attori (alcuni componenti del cast di “Miracolo in città” recitano da tempo, mentre altri sono al loro debutto), si allenano ad ascoltare le loro emozioni, i loro corpi, riempiono ciascuno i vuoti dell’altro. Alla fine, sul palcoscenico, sono tutti semplicemente interpreti di una storia che va oltre i limiti o i talenti individuali per restituire una finzione mai posticcia né mai auto-celebrativa. Teatro punto e basta.

Anche questo ultimo lavoro, assai legato alle suggestioni che i giovani interpreti hanno elaborato dalla visione del film di De Sica (pellicola che, accolta con freddezza nel nostro Paese ma pluripremiata all’estero, è stata di recente restaurata) e dal meno noto “Dedes’Ka-Den” di Kurosawa (primo film a colori del maestro giapponese , anch’esso incentrato su una storia di marginalità e degrado sociali), è teatro di altissimo livello, arricchito da musiche dal vivo di Roberto Gori (e cantano tutti molto bene), scenografie naïf e praticabili di Paolo Ferrari , costumi fantasiosi di Loredana Spadoni. Elementi nevralgici nella costruzione di un ritmo baldanzoso, allegro, persino scanzonato, che sarà tuttavia l’epilogo a convertire in una “conciliazione” giocoforza lirica e surreale: proprio come nel film di De Sica, i protagonisti prenderanno il volo sopra la città per inseguire il loro sogno di giustizia. A dimostrazione che c’è sempre una via di fuga possibile. Un’utopia per cui vale la pena combattere. Un obiettivo che si può raggiungere a furia di colpi di fantasia e altruismo. Ingenuità disarmante? Forse. Ma anche un messaggio chiaro che vuole aprire uno spiraglio di sollievo in questi terribili tempi di crisi in cui stiamo soffocando. Tempi in cui per paradosso un’arte “vecchia” e in fondo semplice come il teatro può davvero educarci – e rieducarci – all’umanità.

Foto Francesca Galvagno

L’insostenibile peso del grande nome

Ganz RETOURRENZO FRANCABANDERA | Non c’è modo di scampare alla vicissitudine del grande nome. E’ il grande nome a rendere imperdibile un evento, uno spettacolo, la nostra stessa esistenza. La titanica supremazia del superominismo mediatico determina le tendenze. Si compra la marca indossata da, il prodotto con la rèclame di, lo spettacolo con.

In forma amplificata questa sorta di zucchero che caratterizza il mercato dell’arte si sostanzia anche di zollette dal contenuto glicemico particolarmente accentuato. Facciamo l’esempio preparando una bibita con un grande autore classico, Pinter, un protagonista della cultura di un paese che da anni esercita supremazia mediatica nel settore (Luc Bondy, nuovo direttore artistico dell’Odéon-Théâtre de l’Europe) e aggiungiamo il dolcificante decisivo, il “cast d’eccezione”, grandi nomi del teatro e del cinema internazionale (e già qui siamo nel cuore della vicenda): per chi bazzica i luoghi sacri dello spettacolo nazionale (in questo caso il Piccolo Teatro di Milano), è nella maggioranza dei casi una maionese impazzita già prima di assaggiarla. Ma impavidi giocatori di poker contro il nostro tempo libero, andiamo a vedere le carte per questa mano dal sapore sospetto.

Le Retour, Il ritorno a casa (1965). E’ il ritorno anche di Bruno Ganz al teatro. Lui, il cofondatore della Berliner Schaubühne con Peter Stein. Lui, l’attore ultra settantenne di origini svizzere, assente dalle scene dal 2006. Era rimasto con l’amaro in bocca per l’ultimo spettacolo interpretato, Lo stupro per la regia di Goerden, e si riservava un ultimo colpo per il palcoscenico.

Ed ecco la proposta a quanto pare non rifiutabile, dal neo direttore dell’Odèon, anche lui di Zurigo, che, affidandogli la parte di Max, lo affianca ad un cast stellare nella vicenda di Teddy, affermato docente di filosofia che torna dopo anni in visita alla sua famiglia paraproletaria con la moglie Ruth, famiglia di cui fanno parte, dopo la morte della madre, il padre Max ex-macellaio, lo zio Sam tassista e i due fratelli minori Lenny e Joey.

Con Ganz sono infatti in scena Louis Garrel – Joey (figlio d’arte da sogno, ricordando The Dreamers con Bertolucci), Pascal Greggory – Sam, Jérôme Kircher – Teddy (l’ultima volta in Italia era stata al Napoli Teatro Festival con l’Hamlet-Cabaret di Langhoff), Micha Lescot – Lenny (altro figlio d’arte, da tre anni in scena per Bondy, dopo il grande successo de Le sedie di Ionesco), e la seducente Emmanuelle Seigner – Ruth.

Nel secondo atto la vicenda prenderebbe una piega dai toni dolorosamente comici, da torbidi bassifondi, quando Ruth rivela la sua indole sessualmente vivacissima, che rinvigorisce di colpo la famiglia tutta maschia. Ma Luc Bondy non cala la mano stellare, la proposta audace, a vantaggio di un più monocorde realismo sporco in stile America anni Sessanta, come a raccontare una serie di quadri di Hopper ma senza quel tranquillizzante e insieme angosciante universo cristallizzato. Qui siamo in un fotogramma quasi proletario, i muri scrostati, i vetri della casa sporchi. Lo zio che vive in una roulotte parcheggiata in soggiorno. Tutto trasuda un uso modesto del sapone.

La vicenda diventa via via soffocante ma la regia non scarta, si ferma sull’idea dell’interno notte, sul microcosmo bloccato dalla presenza carnale di lei, più che sul più avvincente e poco indagato schema di relazioni grottesco ma concreto fra i maschi del branco. E questo inevitabilmente porta la nave in una secca senza particolari sussulti emotivi.

Insomma Ganz, nonostante la sua personale interpretazione di altissima caratura, non era forse destinato ad un finale teatrale col botto. Anche la stampa francese si divide fra chi grida al capolavoro (Le Figaro) e chi resta deluso (Le Monde).

Richiesto, in un’intervista per il Corriere, di quali siano le altre grandi sfide per questo tempo maturo della sua carriera, rivela di essere alle prese con una serie tv diretta da Ridley Scott, intitolata The Vatican, che verrà trasmessa in tv il prossimo autunno, la traduzione televisiva di uno di quei polpettoni dalla copertina a lettere dorate in rilievo, che anni fa guardavamo con orrore solo in mano a turisti americani. Ora che l’invasione degli ultracorpi tipografici è completata, che anche noi amiamo lo shopping con la sorella della Kinsella, i misteri esoterico-vaticani di Dan Brown e seguaci, sicuramente sorbiremo prima o poi la serie in tv su qualche canale a pagamento.

Dove si era fermato il buongusto dei successori di Felice Peretti da Grottammare (Ascoli Piceno), alias Sisto V, che hanno tutti finora rinunciato alla cacofonica abbinata, Ganz pare non abbia resistito, decidendo di interpretare il ruolo del papa Sixtus Sextus, invisichiato in intrighi con il cardinale di New York e l’avido segretario di stato Sebastian Koch (cognome che non dubitiamo nella pronuncia americana abbia un suo evocativo effetto). “Trovo questa idea così dark molto originale” ha dichiarato.

L’importante è non lamentarsi del sapore dell’ultima volta, se si hanno le papille gustative compromesse. O forse è colpa del grande nome. Rimettiti presto in sesto, Sisto!

Cultura dell'oggetto e oggetto della cultura

book vs eBookSIMONE BIANCHI | Chi non ha mai annusato la stampa fresca di un libro? Chi non gode nello scartare un album LP nuovo nuovo, da consegnare allo stilo del giradischi? Va anche di moda; che l’amico si è fatto il Linn apposta per farti sentire un paria (dimenticandosi che mastichi giradischi da trent’anni buoni): senti qua come suona, altro che i file. E ti mette su un LP stampato dagli stessi file. Ma gira. E questo fa una differenza, pare.

Oppure i libri: ‘ah, guarda, non mi potrò rassegnare mai ai libri elettronici, se ne va tutta la poesia della carta, il profumo della stampa, io il libro lo voglio tenere in mano’. Ora, non è che il tablet io lo tenga coi piedi, per leggerlo. E ci sono dentro un centinaio di libri. Voglio vederti con una carretta di libri accanto al divano. Poi mi sai dire.

Capita di essere testimoni di questa sorta di bonaria reazione alla modernità. I libri vengono scritti su computer da decenni ormai, la musica è prodotta in studi digitali, il cinema stesso sta dimenticando la pellicola; ma, finché la forma finale della distribuzione ricordava quella classica (il libro stampato su carta, la musica o il film su un disco), il consumatore manco se n’è accorto. Passare dal superotto muto al DVD è stato, anzi, un sollievo per tutti.

E’ la nuova forma di distribuzione finale, quella che spaventa. La musica o i film come file in una memoria, i libri in PDF nell’ebook. Ahia. Come osi TU, togliere la poesia all’Arte? Touché.
Quello che facevamo noi geek negli anni ’90 ora tocca da vicino la vita di tutti. Un ebook non ha odore di stampa. I lettori di file computerizzati non ti mostrano dove fisicamente la tua musica o i tuoi film si trovino…

Come se il libro fosse l’odore di stampa. O il film la copertina del DVD. Come se il piacere fosse quello di girare l’album LP ogni venti minuti.
La fotografia di un quadro non è il quadro. La fisicità dell’opera è una parte importante del suo valore artistico. E questo vale, appunto, per un quadro, per un manoscritto, per l’edizione speciale di un libro, per un concerto dal vivo o la prima di un film.

Ma un ebook contiene tutto intero il libro, esattamente come la normale edizione a stampa. L’album musicale in formato FLAC acquistato online, a differenza del CD o dell’LP, contiene una copia esatta del master originale registrato in studio.
Quando metto su la Resurrezione di Mahler voglio che il mio impianto esca dalla scena e mi lasci in pace per 85 minuti. In LP sono quattro facciate. Un lavoraccio infame. Tanto vale aspettare il concerto in un teatro raggiungibile.

Smettiamo di adorare l’oggetto, per di più stampato in serie. Liberarsi del supporto aiuta a concentrarsi sia sul contenuto artistico delle opere che sulla qualità tecnica delle edizioni. D’altro canto tra quarant’anni si dirà, vieni su da me, ti faccio vedere la mia collezione di veri libri di carta. Ecco, magari, non buttiamo a mare tutto subito.

“Sonata per ragazza sola”: il bifronte omaggio di Federica Bern a Irène Némirovsky

federicaVINCENZO SARDELLI | Le ballate popolari di Mistinguett, graffiante soubrette della Parigi Belle Époque, il pianoforte ritmico e barbarico di Béla Bartók, l’ebbrezza evocativa di Franz Schubert: è musicale lo sfondo a “Sonata per ragazza sola”, di scena al Teatro Litta di Milano. I muri grezzi della sala Cavallerizza sono la cornice di questo monologo di Federica Bern, con la regia di Francesco Villano.

Il palco a forma di T s’incunea nel pubblico tagliando in due la platea. Pochi oggetti sulla scena realizzata da Fiammetta Mandich: un drappo rosso come scenario, un abito di gala su manichino, uno sgabello da pianoforte. Lo spettacolo omaggia Irène Némirovsky, scrittrice russa espatriata in Francia e morta ad Auschwitz. È liberamente tratto da due suoi racconti biografici, Il ballo e Jezebel.

Il manichino disanimato è l’emblema di una festa che non inizia, di un tempo inconsistente.

La protagonista interpreta, in una Parigi anni Venti, Antoinette e Fanny, figlia e madre. Abito azzurro al ginocchio, i rossi capelli raccolti lambiti dalle luci felpate di Fulvio Melli, Federica Bern giostra tra le due donne. Divisa come gli spettatori, la giovane attrice s’insinua in un rapporto complicato. Antoinette, con un pacco di lettere d’invito (non saranno mai spedite) attaccato al collo a mo’ di collana o di borsa, è la classica adolescente un po’ ipocondriaca. In opposizione a una mamma scriteriata e normativa che la trascura, Antoinette oscilla tra fantasia e realtà, con quel quid di malizia che irretisce lo spettatore. Ironica e leziosa, Antoinette si smarrisce nelle sue rievocazioni letterarie, da cui attinge l’inventario noir che, tra Giulietta, Ofelia e Anna Karenina, le suggerisce spunti suicidi. Lo sgabello diventa trampolino di un tuffo virtuale, di passaggi lastricati e abissi onirici in cui Antoinette scivola, nuota, volteggia. La morte, più che una minaccia, è la proiezione di un desiderio di protagonismo, lo stesso evocato dal drappo-sipario o dall’abito-manichino. La muta tastiera di compensato nelle sue mani intona laconici «vorrei ma non posso». Le cantilene puerili e briose di Antoinette fanno evaporare l’angoscia che così non ristagna, mantenendo pièce e personaggio sopra la linea di galleggiamento.

Lo sdoppiamento si materializza in Fanny, una madre che rimuove le proprie insufficienze con il rituale di regole con cui dirige la figlia. Attraverso Fanny la Némirosky ridicolizza la Parigi frivola dei salotti, il bel mondo che esorcizza malattia e decadimento attraverso pettegolezzi e giudizi. Fanny organizza una soirée che non sarà. Fanny/Antoinette s’imbriglia nella chilometrica collana di perle che la stritola come le corde di un insaccato, che la fa inciampare. Chilometrica come il cordone ombelicale che lega e separa madre e figlia, come la lista degli esponenti della bella società di cui la donna elenca vizi e difetti.

Ogni giorno Fanny si alza, si veste e sogna ancora l’uomo fatale. Vive nel rimpianto di una bellezza sfiorita. Vagheggia un decoro svanito. Il suo sorriso falso è un sudario che la cipria ridondante non basta a mascherare. Le luci scherniscono la sua carcassa in calze da seta, la sua disperazione autistica.

Questo monologo a due voci esalta le qualità recitative di Federica Bern, figlia-ragazzina trascinante e impertinente, madre imperativa punita per la sua futilità.

In fondo, la presenza in scena di una sola attrice, più che l’espediente di chi è costretto a far di necessità virtù, serve a rimarcare una sola identità bifronte. Antoinette e Fanny sono una sostanza e due simulazioni, due risposte inadeguate allo stesso bisogno di tempo: quello che non c’è ancora per la ragazza, quello ormai andato per la dama. Malate la prima di fantasia e vendetta, l’altra di realtà e risentimento. Ironica ed empatica la figlia, patetica e refrattaria la madre.

Un’attrice, uno spazio piccolo, pochi elementi. Una miriade di sfumature, che ci proiettano, con qualche insistenza didascalica qua e là, nell’ambivalente rapporto madre-figlia, nel variegato cosmo dell’amore, nei meandri dell’indole femminile.

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