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domenica, Settembre 8, 2024
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I migliori dischi del 2012 (e i link per ascoltarli)!!

Liars-WIXIW1MANFRED ZEIT | L’anno in cui crollano definitivamente le barriere di genere, non più crossover, non più contaminazione ma assorbimento e fusione . Anno in cui molti “mostri sacri” del decennio precedente firmano il loro capolavoro definitivo compiendo una significativa svolta.

1. LIARS – WIXIW (Mute)

Oscuro, escatologico ma tremendamente suadente e ipnotizzante. I Liars tornano all’attitudine decostruttivista del loro capolavoro “Drum Not Dead” e costruiscono un mosaico sbilenco di elettronica artigianale dalle derive kraut e no wave. Un’opera che narra di relazioni, solitudini e desiderio (il titolo si pronuncerebbe “wish you”). Trasversale e penetrante nel suo parlare “al presente” giungendo da un altrove inconoscibile! (in fondo all’articolo il link ad una traccia audio)

2. DIRTY PROJECTORS – Swing Lo Magellan (Domino)

Mirabolante chirurgia pop per un album che suona classico – se non perfetto – al primo ascolto. Longstreth e la sua creatura multicolore strapazzano il concetto di canzone e con piglio jazzy costruiscono “operette” diaboliche dall’invidiabile pregio di sapere perfettamente coniugare musica colta e musica popolare trasportando l’ascoltatore in un meraviglioso estasiante regno sonoro. Un link

3. SWANS – The Seer (Young God)

Chi ha incontrato la micidiale macchina del frastuono che Michael Gira e la sua band portano dal vivo in questi anni, ne è rimasto certamente segnato. Ma qui gli Swans non si sono limitati a celebrare la loro grandezza assestandosi su livelli alti ma già consolidati e dati per assunti. “The Seer” è un’opera immensa e spaventosa: due ore di sublime dolorosa catarsi mancata. Tutte le anime (gothic, industrial, post hardcore blues e ritual) del geniale mostro newyorkese si fondono a comporre un affresco definitivo e messianico.  (in fondo alla chart il link ad una traccia audio)

4. BEACH HOUSE – Bloom (Sub Pop)

Ecco la fioritura meravigliosa di Alex e Victoria ancora baciati della bellezza, generosi nel dispensarne al mondo. Ancora un altro tassello di quell’equilibrio pop di eterea e sognante grazia. Ancora uguali a se stessi ma sempre in evoluzione: ancora più cesellati e immediati, ancora più raffinati e seducenti. (In fondo all’articolo il collegamento ad una traccia audio)

5. FIONA APPLE – The Idler Wheel Is Wiser Than The Driver Of The Screw And Whipping Cords Will Serve You More Than Ropes Will Ever Do (Epic)

Finalmente libera da pressioni discografiche di sorta, la ex ragazza prodigio del cantautorato drama-pop americano sorprende e da alla luce un autentico capolavoro. Questa è Fiona Apple: minimalista e turbolenta, sensuale e melanconica, geniale e disturbata. Album prezioso e di un’originalità ontologica e mai ricercata o atteggiata. Un’autentica confessione che si dipana libera e toccante. Il link ad un video

6. XX – Coexist (Young Turks)

Il trio londinese, sebbene forte di un Hype planetario, decide di non giocare facile: l’immediatezza del suo celebrato debutto è stata praticamente sotterrata. Qui le atmosfere e i suoni sono sempre i loro ma annegati in un brodo tiepido e laconico che mette i brividi. Carezzevole e straniante. Una piacevole conferma in evoluzione, e non tutti l’avrebbero creduto! Ascolta qui!

7. SCOTT WALKER – Bish Bosch (4ad)

Tra i grandi vecchi che non perdono il gusto dell’azzardo e si ripresentano di rado ma quando appaiono nuovamente, la loro forza e unicità debordano. Ormai sulla strada di un lirico delirante cantautorato avanguardistico e oscuramente “osceno”, Scott Walker è divenuto una sorta di marchio a fuoco nell’anima di che sa accoglierne la crudeltà nutriente.

8. JULIA HOLTER – Ekstasis  (Rvng)

Quando l’avanguardia si tinge di pop elettronico e distrattamente world senza nulla perdere del suo spessore concettuale. L’artista californiana alla sua seconda prova, raggiunge vette compositive d’intrigante e stratificata creatività. Qui un clic per sentire la sua musica

9. HOW TO DRESS WELL – Total Loss (Weird World)

Il soul che si tinge di etereo ed elettronica minimale. Nel suo secondo lp Tom Krell, esprime una classe inaspettata e cristallina. Un album che suona innovativo nel suo essere evocativo e cibernetico quanto lirico e introspettivo. Un nuovo mondo sonoro e poetico.

10. EGYPTIAN HIP HOP  – Good Don’t Sleep (R&s Records)

Ennesima next big thing inglese pompata da almeno due anni prima dell’effettivo debutto, da Manchester; la città del Post Punk più perturbato e sofferto, ma anche la città dell’Hacienda! Questi però non propongono “robetta” rimasticata, derivativa e inconsistente da mordi e fuggi. Il debutto dell’anno: raffinato, tortuoso, elettrizzante. (in fondo all’articolo il link ad una traccia video)

11. ANIMAL COLLECTIVE – Centipede Hz (Domino) / ARIEL PINK’S HAUNTED GRAFFITI – Mature Themes (4ad)

Accomunati in questa playlist come nel puntualissimo articolo di Simon Reynolds “Figli di madre natura”. Si potrà dire che questi artisti non sorprendono più come nei loro primi album ma no che abbiano smesso di fare musica originale, adorabilmente sghemba e succosa. Hanno dettato legge nel decennio passato, caratterizzandone profondamente l’ideale colonna sonora e qui continuano, per niente stanchi, ad accrescere due percorsi paralleli e fondamentali per l’evoluzione della storia del rock. Gli Animal Collective (di nuovo in quattro con il rientrante Deakin) stordiscono ricombinando le loro migliori intenzioni in chiave ipercinetica e smembrata. Ariel Pink si fa sempre più ricercato e cesellato nel suo ubriacante cocktail di profumate macerie retro-pop.

grimes visions12. GRIMES – Visions (4ad)

Amatissima oppure odiatissima; nulla sarà stato inventato ma non si può certo dire che il suono e certe melodie presenti in questo album non abbiano segnato gli umori musicali di questo 2012. Le “visioni” sornione e deliziosamente kitsch della ragazzaccia canadese sono certamente l’evoluzione più divertente e intelligente del synth pop odierno. Grimes vince.

13. MENOMENA – Moms (Barsuk)

Alla loro quinta prova, i Menomena (rimasti in due) continuano a essere una delle realtà più intriganti e di spessore di tutto l’indie americano contemporaneo, eppure continuano a essere sottovalutati e a malapena citati da certa stampa à la page. Dopo il capolavoro “Mines” di due anni fa, un altro esempio di art rock iper-creativo, pulsante e svincolato dalle mode del momento. Intenso. Qui per sentirli

14. DEATH GRIPS – The Money Store (Epic)

L’hip hop apocalittico e hardcore del trio californiano è certamente una delle manifestazioni più indemoniate e reali dello spirito di questo tempo – con tutti i suoi limiti, con tutti i suoi accessi ed eccessi che vanno dalla grande originalità e forza espressiva a un rischio d’ingenuità ripetitiva all’agguato (quello in cui sono caduti nel secondo album pubblicato quest’anno “ No Love Deep Web”). Un link

15. LOTUS PLAZA – Spooky Action At A Distance (Kranky) 

Lockett Pundt si conferma grande autore di architetture Dream Pop dal cuore psichedelico. Chitarrista e compositore nei Deerhunter, l’altra anima della meravigliosa band di Atlanta – accanto a quella freaky e trasognata di Bradford Cox (Atlas Sound) – con questa sua seconda prova solista, trasporta gli animi in un universo iridescente, fluttuante, entusiasmante. Qui il link ad una traccia

16. FLYNG LOTUS – Until The Quiet Comes (Warp)

Alla sua terza prova, Steven Ellison confeziona un incessante e destrutturato flusso sonoro. Le influenze sono innumerevoli e mutanti, tutto è talmente amalgamato da divenire “unico” e trasportante. Un altrove sonoro irrinunciabile e prezioso. Un bel video qui

17. PEAKING LIGHTS – Lucifer (Mexican Summer)

Ancora autori di uno dei sound più bislacchi e imprendibili degli ultimi anni, Indra Dunis e Aaron Coyes partoriscono il loro album più curato e accessibile. Se il risultato è meno straniante ed eccitante che in passato, il pastiche di dub, psichedelia e retrò pop sintetico che il duo produce è qui più palpabile e “lucido”. Un link

18. KENDRICK LAMAR – Good Kid, M.a.a.d City (Aftermath Entertainment)

Il disco Hip Hop dell’anno. Nel solco della tradizione ma innovativo e profondo. Dal ghetto all’interiorità di un artista che non teme lo sconfinamento in altri generi (soul, funk, jazz, elettronica). Ma Kendrick, dato l’ambito di provenienza, non teme soprattutto di mostrare sensibilità e nudo dolore (mai incazzoso o di superficie).

19. CHAIRLIFT –  Something (Kanine Records)          

Il duo newyorkese alla sua seconda prova conferma un talento scanzonato e sincero. “Something” è  qualcosa di apparentemente innocuo nel suo lasciare il segno attraverso una raffinata e mai invadente ricontestualizzazione del codice synth pop. Fragile e intrigante. Il link ad una traccia

20. JAPANDROIDS – Celebration Rock (Polyvinyl) / THE MEN – Open Your Heart (Sacred Bones)

Due lavori che attestano quanto sia viva l’onda musicale che negli ultimi anni riporta il rock americano alla nuda sincerità delle migliori produzioni di fine anni ottanta – primi anni novanta. Entusiasti e immediati i canadesi Japandroids. Emozionale e stratificato il post hardcore d’ascendenza Husker Du dei newyorkesi The Men. Li sentite qui

21. ANDY STOTT – Luxury Problems (Modern Love)

Il secondo lp del producer inglese è una summa di tutte le tendenze più sofisticate e intriganti dell’elettronica contemporanea. Capace di condensare diverse anime, aprendo nuove strade a un genere spesso asfittico; “Luxury Problems” è un’opera soave, calda, eterea e martellante. (in fondo il link ad una traccia video)

22. BAT FOR LASHES The Haunted Man (Parlophone) / YEASAYER Fragrant World (Secretly Canadian / Mute)

Natasha Khan e gli Yeasayer – accomunati anche da passate collaborazioni – virano inaspettatamente verso una singolare ibridazione di elettro-pop, raffreddando sensuali ondate di beat afro-funk. Due album inquieti ma finemente torniti nella loro superficie tardo-modernista. Per ascoltare Bat for lashes

23. DEMDIKE STARE – Elemental (Modern Love)

Magnetica e monumentale opera di elettronica colta, come tutte le precedenti uscite del duo di Manchester. Un magma spesso e visuale di ambient oscuro e pulsante che trasporta altrove le menti, producendo pensiero.

24. TAME IMPALA – Lonerism (Modular)

La celebratissima seconda uscita della band australiana non è altro che un mirabile esempio di retrò mania esibita e vincente. Un pop rock psichedelico di beatlesiana memoria che suona come una raccolta di canzoni che parlano al presente poggiandosi su architetture musicali che potrebbero essere state composte a fine anni ’60. Gustoso e “pericoloso”. (Finchè c’è… qui l’album)

25. FRANK OCEAN – Channel Orange (Def Jam) 

Ecco il nuovo campione della black music mainstream d’oltreoceano. Debordante, sincero, romantico, ingenuo, toccante, accattivante ma mai banale, sensibile e terreno ma massicciamente prodotto. Un album che resta sebbene possa incontrare detrattori convinti. L’artista dal vivo in un video qui

LIARS
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=HGHJJKSQ7NQ]
SWANS
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=tyX7vc0k5_k]
BEACH HOUSE
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=FuvWc3ToDHg]
EGYPTIAN HIP HOP
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=6soo39DJnBU]
ANDY SCOTT
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=-aGEmhzQFr8&w=420&h=315]

A lezione di commedia dell'arte con Carlo Boso e Claudio De Maglio – videoreport

boso2ANDREA CIOMMIENTO | Le maschere di commedia si riappropriano in ogni istante del nostro presente grazie all’eterna lotta tra il precariato del mondo incarnato nell’Arlecchino e la prepotenza padronale dell’esistenza di Pantalone. Da qui in avanti tutto diviene possibile sui palchetti in legno e sui canovacci della scena contemporanea, ancor più in quella pedagogica della Civica Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe” di Udine, realtà che fa di commedia virtù, un foglio pregiato di tornasole nella formazione dei giovani allievi attori. Come abbiamo già scritto, la Nico Pepe di questi ultimi anni si apre alla complessità del mondo, rivela e compone fasi esperienziali a ventaglio dinamico da far vivere ai propri allievi, una possibilità di crescita spedita al di fuori delle mura didattiche propria dell’agire teatrale senza deposito in sordina negli anni di studio. L’Accademia di Udine si apre quindi al mondo esterno grazie alla circuitazione di saggi/spettacoli nei teatri in Regione e fuori Regione, in festival come Avignone OFF e Mittelfest, alla collaborazione con altre scuole come la Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano e alla programmazione di masterclass con maestri riconosciuti. Tra questi abbiamo incontrato -nei giorni della sua conduzione laboratoriale in Friuli Venezia Giulia- Carlo Boso, fondatore e direttore della Académie Internationale Des Arts du Spectacle presso lo Studio Théâtre di Montreuil (Parigi) e maggiore esperto nell’uso di maschera di commedia. Nel nostro contributo video abbiamo ascoltato la sua esperienza professionale integrandola con gli interventi di Claudio De Maglio, direttore della Nico Pepe di Udine.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=8LXuktCHwgo&w=560&h=315]

La città fragile di Gigi Gherzi – videoreport

prove spettacolo di Gigi Gherzi al Teatro LaCucina all'ex Paolo PiniRENZO FRANCABANDERA | Può uno spettacolo definire un’architettura dell’emotività attraverso l’interazione fra il pubblico e le creazioni artistiche che i curatori hanno preventivamente realizzato, suscitate dall’attività di studio e preparazione?
Il mosaico di luoghi dell’immaginario scelti fra le decine di quadri emotivi disponibili e portati sulla scena dagli spettatori stessi, appuntando parole, frasi, idee sul sentirsi pensiero debole dell’oggi in Report dalla città fragile di Gigi Gherzi, è davvero così immaginario o non finisce poi per comporre un’identità sociale assai vicina a quella che profondamente la contemporaneità genera? La città fragile di Gherzi/Floridia è un tentativo che si muove in questo ambito di indagine.
Liberamente tratto dal romanzo Atlante delle norme e dei salti dello stesso Gherzi, Report vuole creare una geografia dell’emotività liquida, sempre più soffocata da ritmi incompatibili con l’acquisizione di sicurezze, di spazi e tempi idonei a garantire la serenità dell’individuo nel suo agire sociale. Sempre più pressato da obiettivi, scadenze, aspettative, il tipo normale si trasforma ben presto in “normaloide”. E’ questa la parola venuta fuori dalla videochiacchierata con Gherzi nelle sale del Franco Parenti e di cui vi diamo conto oggi, e che ha continuato poi a frullarmi nella testa per giorni.
Perchè il confine è sottile. E tutti siamo lì, al bordo. Il passo che separa tutti noi da quel mix letale di ansie, aspettative mancate, obiettivi ingestibili è quello che in questo spettacolo Gherzi indaga, ideando alcuni personaggi, vocaboli, ambientazioni mentali di natura archetipica, arricchiti dal feedback del pubblico, che diventa poi alimento per i successivi visitatori.

Sicuramente l’impianto del progetto teatrale ha un sapore Anni Settanta, sia nel richiamo delle creazioni all’arte povera, kantoriana, sia nel tentativo di riscoprire un rapporto con il pubblico,  una strada di indagine interessante se arricchisce sia chi è al di qua che chi è al di là della quarta parete, e se in qualche caso è anche capace, se non del tutto almeno in parte, di abbatterla.
Gli spettacoli basati su questo rapporto con l’uditorio rimangono sempre perfettibili, e forse perfetti non diventano mai, ma possono essere di  stimolo. E l’insieme di creazioni artistiche e impianto scenico realizzato da Gabriele Silva, Luana Pavani e Pietro Floridia, che dirige lo spettacolo, appare un ambiente fecondo, non nuovo al teatro ma che da diversi anni non veniva proposto con un’organicità e una coerenza interna così forte. Forse questo è anche un po’ un limite per la parte di improvvisazione su cui il recitato dovrebbe per larga parte basarsi, ma tant’è: sarebbe assurdo se uno spettacolo sulla fragilità fosse un prodotto di indistruttibile compattezza e non di friabile malleabilità, penetrabilità, umanissima imperfezione. L’indagine appassionata, la creatività di chi ha lavorato al Report, valgono la fruizione. Di seguito l’intervista realizzata con Gherzi per PAC.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=ECEvhD7oD2k]

Il ballo social: da Gangnam style ad Harlem shake

harlem-shakeALICE CANNONE | “Gli unici maestri di ballo che potevo avere erano Jean Jacques Rousseau, Walt Whitman e Nietzsche.” Dichiarava Isadora Duncan. Che oggi, come allora, non si sarebbe limitata a sfidare le rigide norme della danza accademica e della società del suo tempo, rifiutando le lusinghe del successo, abbandonando di punto in bianco tournée e impresari promettenti per perseguire fino in fondo la sua ricerca artistica. Oggi Isadora avrebbe certamente ballato con PSY, filosofo sudcoreano massimo esponente del “Gangnam Style (강남스타일)” pensiero.
Ma il vuoto esistenziale in cui l’umanità rischiava di ritrovarsi nel post Gangnam è stato colmato in modo salvifico e puntuale da nuova avanguardia artistica: Harlem Shake, effimero rito di iniziazione collettiva che dura solo 30 secondi. E data per verità assiomatica che “il ballo è un rozzo tentativo di entrare nel ritmo della vita” (George Bernard Shaw), Harlem Shake entra nel ritmo della nostra vita con la prepotenza propria delle avanguardie sperimentali.
Il pezzo del 2012 è firmato da un 23enne produttore di Brooklyn, Harry Rodrigues, che ha scelto come nome d’arte Baauer. Tutti sembrano contagiati dall’escalation dei suoi beat: dall’esercito norvegese alla squadra maschile di nuoto dell’Università della Georgia, che ha improvvisato una performance sott’acqua.
Sembrano finiti i tempi in cui le danza era solo una più o meno velata scusa per lo sdoganamento degli strusciamenti. Dal ballo del mattone, lentamente, guancia a guancia, vige ora la regola del “più si è, e meglio è”: i video che spuntano come funghi su YouTube, infatti, sono il frutto di gang bang coreografiche: nei primi secondi regna la quiete, poi esplode il ritmo e la scena cambia rapidamente e davanti alla telecamera è il caos. Ognuno segue il suo pazzo ritmo, spesso arricchito da un cambio d’abito degno del miglior Brachetti.
E non saranno di certo le avanguardie artistiche a spaventarci. Ad un certo punto però ridateci pure “Il tempo delle mele” e gli strusciamenti, che ci mancano troppo.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=DGR6SXazeEI]

Riso amaro per “Ferdinando”

Ferdinando CirilloVINCENZO SARDELLI | L’universo piatto di una società deflagrata, la repulsiva forza scatenante di torbide pulsioni e desideri repressi: è nel contrasto la forza di “Ferdinando”, terribile testo di Annibale Ruccello sulla depravazione umana, di scena al Teatro Menotti di Milano con la regia di Arturo Cirillo.
“Ferdinando”, capolavoro beffardo tragico e divertente, in bilico fra insofferenza e incontinenza, disegna personaggi a tutto tondo. Scritto nel 1985 con canoni veristi, è quasi un’eccezione nell’opera di Ruccello, autore stabiese scomparso troppo giovane, capace di penetrare con forza le pieghe dell’anima svelandone fantasmi e inquietudini.
Sipario. Le figure in scena si compongono immediate, vivide. L’ambientazione risorgimentale richiama atmosfere tra De Roberto e Tomasi di Lampedusa. Nell’agosto 1870 i Savoia, ormai al potere, si avviano a espugnare Roma. In una cadente casa di campagna ai piedi del Vesuvio si arrocca Clotilde, sussiegosa baronessa in disarmo, malata immaginaria fedele ai Borbone. La nobildonna si presenta seduta su un letto rigonfio di cuscini, lunghi riccioli sciolti sulle spalle, camicia da notte, voce lamentosa impastata di un napoletano musicale e aggressivo. Sta recitando il rosario con Gesualda, doppione diversamente crudele, parente-zitella povera, serva-infermiera contro cui Clotilde rovescia il rancore che cova dentro. Di tanto in tanto fa visita alle due donne Don Catellino, untuoso prete-gaglioffo corrotto dagli appetiti terreni, che ha una tresca con Gesualda e subisce da Clotilde le peggiori ingiurie.
La scena cupa e claustrale è composta da un letto a una piazza troppo stretto per gli incontri che dovrà ospitare, un divano, un candelabro poggiato inclinato sul pavimento, allegoria scontata di una civiltà in declino. Dal soffitto piove un enorme drappo, quinta aggiuntiva dietro cui i si spogliano, si vestono, tramano e trescano i protagonisti.
A portare scompiglio è l’arrivo di un giovane parente orfano, esile e glabro, cherubino ossequioso, demonio ruffiano scanzonato. Ferdinando intacca gli ambienti fossilizzati, soffia via l’odore stantio. Le sue ali fanno decollare perfino il candelabro. Efebico e mingherlino, questo Dongiovanni in miniatura scatena gli insospettati rigurgiti ormonali della zia ipocondriaca e i tardivi pruriti di Gesualda, fino a sedurre don Catellino, prete dall’appetito sessuale evidentemente bisessuale e insaziabile nella vicenda di Ruccello, improvvidamente nominato suo precettore.

Scoppiano i conflitti fra i tre protagonisti in sottana, irretiti dal ragazzo, dannato catalizzatore degli equilibri in scena.
La dissoluzione imperversa. I personaggi si lasciano avviluppare dal devastante vortice di lussuria e gelosia. Si abbandonano al peccato con compiacimento. Il violento climax di pulsioni e conflitti frantuma ogni argine morale. È un cimitero di spettri in carne e ossa che terrorizza persino i morti. È un piccolo mondo mediocre e protervo, carico di tensioni, rancori e sogni infranti. I personaggi, terrificanti e disumani, sono macchiette senza coscienza.
Detto questo, è impossibile non confrontare questa messinscena scarna con quella maestosa di Isa Danieli, diversi anni fa. La regia di Cirillo, in altre occasioni più affidabile custode dell’eredità di Ruccello, si nega tutta una serie di sfumature. La scena è priva di quel realismo originario capace di rendere perfino l’odore di candele, medicine, urina, fiori appassiti, lenzuola sporche e rosolio.
Per converso, la proclamata intenzione di Cirillo di “tradire” il testo rimane a metà. I personaggi appaiono grigi e irrisolti. Sabrina Scuccimarra, pur ispirata, non regge pienamente il confronto con la Danieli che, oltre che regista, era stata anche interprete di Clotilde. A maggior ragione Monica Piseddu lascia a metà la costruzione di Gesualda, non crede totalmente nel suo personaggio, gli fa il verso, con un napoletano stretto e aspro che stride con la musicalità intrinseca nel testo. Più credibile il prete, interpretato dallo stesso Cirillo, mentre Ferdinando (Nino Bruno) rimane irrisolto sia come presenza scenica, sia per la recitazione acerba.
Altri elementi di criticità. I cenni musicali scritti da Francesco De Melis sono poco sfruttati; rimangono sottofondo, commento episodico, non dialogano con la sceneggiatura. Le variazioni luminose sono estemporanee. Sono invece mantenute della drammaturgia la componente linguistica e quella antropologica. Pur con le riserve di sopra, è preservato il patrimonio di una lingua napoletana vitale, schiusa a una miriade di sonorità, alle ricche affascinanti contaminazioni di una tradizione millenaria.
Rimane il disperante degrado dei protagonisti, la loro miseria, la loro rabbia perenne, pesante e deforme, che la fragorosa risata finale di Clotilde non esorcizza. La desolata nudità dell’anima tocca corde profonde e tragiche. Diventa segno dell’impossibilità di sperare, sognare, vivere. È un’umanità che boccheggia nell’acquitrino di un presente senza riscatto. “Ferdinando”, comico e surreale, tratteggia una storia che si arresta lungo la strada delle “magnifiche sorti e progressive”.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=rCl7G11R1KM]

Gabriele Basilico, il fotografo che misurava il mondo

basilicoMARIA CRISTINA SERRA | Le città sono un mosaico di frammenti dove si incrociano esistenze, ricordi, speranze, rovine; sono il luogo dove scambiare parole, merci, esperienze. “Un simbolo complesso”, ha scritto Italo Calvino in Lezioni americane, “che mi ha dato le maggiori possibilità di esprimere la tensione tra razionalità geometrica e groviglio dell’esistenza umana”.
Epicentro della modernità e incontro di ogni possibile contraddizione, ma anche “le città sono un libro che bisogna leggere per intero, diversamente si rischia di non afferrarne il senso”, spiegava con l’abituale voce pacata e gentile, il grande fotografo Gabriele Basilico, morto mercoledì 13 febbraio a Milano, all’età di 68 anni.
Delle città gli interessavano soprattutto le periferie, le zone destinate all’espansione, gli angoli dismessi, le prospettive insolite. “Se è vero”, ribadiva, “che la città è come un gran corpo dilatato, incommensurabile, per capirci qualcosa bisogna aver pazienza, tenere a bada quel sentimento di conquista, quella vertiginosa sensazione di possesso che un’immagine troppo rapida e furtiva può restituire”.
Il suo lavoro era sempre accompagnato dalla “misurazione visiva” del territorio in cui si svolgeva e da una riflessione lenta, rigorosa, per comprendere in quale direzione orientare l’obiettivo. Nessuna improvvisazione, nessun attimo fatale, ma la ricerca costante, invece, di un dialogo serrato con le cose e i luoghi da fissare nelle istantanee, per sondare le affinità elettive nascoste, per far emergere un’anima segreta da decifrare. Si deve entrare in contatto ascoltando con gli occhi le parole sottaciute: “Il silenzio, il vuoto, l’assenza di accadimenti aiutano a porci in relazione con lo spazio, senza negarne vita e umanità”.
Le sue celebri foto di Beirut devastata dalla guerra civile non hanno bisogno di cadaveri per descrivere l’orrore: bastano le case sventrate, alte verso il cielo, come cattedrali dell’odio. Le ferite delle bombe richiedono un’emozione controllata, fatta di rispetto, di equilibrio “che esige considerazione e responsabilità. Poi, succede qualcosa, forse la città ascolta, intuisce la situazione e poi subentra un silenzio metafisico, una pausa, dopo la quale si può agire”. C’è commozione nel ricordare la sensibilità particolare, l’emotività, il sentimento che Gabriele Basilico riusciva a trasmettere con il suo lavoro.
Un suo modo speciale di osservare la realtà “contemplandola”, creando un’empatia sottile fra lui, le cose e lo spettatore, coniugando fra di loro le distanze geografiche e quelle temporali in un unico vissuto. Il suo viaggio esistenziale e artistico era partito da Milano, dopo la laurea in architettura. Alla fine degli anni Settanta con “Ritratti di fabbriche”, realizza così un reportage sui manufatti industriali dismessi, per documentare le trasformazioni di un luogo identitario in cui si era formata una comune coscienza civile, per restituire loro un valore estetico. Prosegue in Francia, nel 1984, con un progetto finanziato dallo Stato “Mission Photographique de la D.A.T.A.R.” sulla mappatura dei cambiamenti nell’era post-industriale del Paesaggio.
Lui la registra percorrendo la costa da Mont Saint Michel verso la Normandia, fino al confine con il Belgio.
Questa esperienza segnò la sua svolta e determinò l’intuizione che il paesaggio naturale, integrato dalle costruzioni architettoniche dell’uomo, poteva diventare il suo punto di partenza in direzione dell’infinitezza. Lì, le architetture normanne confuse con gli opifici, la terra, il mare, il vento, le barche, il cielo grigio, tutto rievocava la pittura fiamminga, la sua luce e la sua concretezza. Esperienza fondamentale che tradusse poi nel libro “Bord de Mer” e che gli fornì la chiave di comprensione, per definire il punto di vista ideale da dove far partire il suo sguardo prima dello scatto. La realtà raccontata dalle immagini di Basilico è complessa, è un continuo “prendere le misure”, cogliere i significati, operare delle scelte, individuare i baricentri.
Istanbul rimane sospesa tra Oriente e Occidente, fra modernità e tradizione; si estende lungo il Bosforo e si chiude polverosa e antica nei vicoli, splendida, come nelle pagine di un libro di Pamuk. Gli agglomerati urbani di Shangai visti dall’alto sono rinchiusi fra colonne di grattacieli; quelli di San Francisco si affacciano leggeri sulla baia. Mosca, città orizzontale, è vista per contrasto in verticale, dall’alto delle torri staliniane, mentre si perde lungo le anse della Moscova. Paestum sollecita un’immersione affettiva, una sospensione di giudizio; così come Roma, attraversata dal suo fiume, che sembra scorrere maestoso, interrotto solo dai ponti, dall’ansa dell’isola Tiberina e da Castel Sant’Angelo, che si specchia nell’acqua con riflessi evanescenti. “E’ l’astrazione della fotografia a permettere di svincolarsi del tempo”. Un dono che Basilico ci ha lasciato insieme ad un prezioso suggerimento: “Con la fotografia non puoi giudicare il mondo, ma puoi fare una cosa molto più necessaria: misurarlo”.

Qui di seguito alcuni video in cui Gabriele Basilico spiega cosa significa essere fotografo:

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=P5AtyyXM7qM]
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=jFtI0nF462U]
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=au4zHIRx6Y0]

Riflettori su Ambra Senatore e Caterina Sagna

Ambra Senatore- © Rita CigoliniANTONELLA POLI | Le Festival Art Danse di Digione (08/01-2/2/2013) pone i suoi riflettori su due rappresentanti della coreografia contemporanea italiana noti in Francia : Ambra Senatore e Caterina Sagna.
Le due coreografe offrono al pubblico la possibilità di confrontarsi con due universi completamente differenti : quello di Ambra Senatore che apre gli orizzonti verso la concezione di un nuovo senso della realtà partendo da elementi semplici e quotidiani e quello di Caterina Sagna, che analizza più da vicino le problematiche della nostra epoca con un linguaggio più denso.

Con John, nuova creazione, la Senatore reinventa la nozione di tempo e crea la scenografia dello spettacolo « in itinere ». Infatti via via che il pezzo si sviluppa, gli elementi che la compongono vengono installati sul palcoscenico. Non c’é musica, i danzatori ballano per durate minime, accordandosi al tempo di discesa e al battito dei becchi di picchi di legno che discendono lungo assi di legno che vengono posti lungo il contorno della scena. Tutta la prima parte é caratterizzata dall’alternanza di giochi umoristici fra gli interpreti che si confrontano con la brevità del tempo a loro disposizione per esibirsi in danza.
Passeggiando e fermandosi sul palcoscenico, scoprono quasi per caso sotto il linoleum che copre il suolo del palcoscenico dei cd che vengono eseguiti solo per qualche istante, maniera probabilmente simbolica per trasmettere il messaggio che la musica va ricercata altrove.
Dall’inizio alla fine ci si trova di fronte ad uno spettacolo che viene creato direttamente di fronte e con il pubblico.
Quest’ultimo interagisce anche con i danzatori quando questi iniziano a domandare i nomi di alcuni di loro e ad utilizzarli per creare soggetti di storie di vita comune al limite del comico.
Nella seconda parte di John, finalmente si ritrova la leggerezza e la limpidezza del linguaggio coreografico di Ambra Senatore : un momento di rottura che ci fa abbandonare il senso d’improvvisazione che animava lo spettacolo fino ad ora.
Costruzione-Decostruzione puó essere il binomio di lettura di questa creazione perché quando tutti pensano che lo spettacolo é al culmine, improvvisamente i protagonisti decidono di smantellare il palcoscenico e ricominciare da capo.
Le assi con i picchi ritornano, i cd vengono rinascosti sotto il linoleum, le trottole primi elementi posti in scena riappargono. É un momento pieno d’humour, simbolo di come tutto non é definitvo e si puó reinventare.
Bal en Chine di Caterina Sagna, anch’essa une première, é totalmente di altro stile. La coreografa analizza il comportamento della società contemporanea verso lo « straniero ». Come esempio prende le vicissitudini di un condominio che pensa di avere dei vicini « cinesi ». La scelta di questo popolo é fatta per caso, poteva trattarsi di arabi, giapponesi, non é questo che conta, é il senso di alterità che entra in gioco.
I dialoghi e le opinioni che i condomini si scambiano verso i loro vicini asiatici sono spesso crudi e mostrano tutta l’avversità verso chi non fa parte della stessa razza e cultura.
La danza, che non manca, é energica e costituita soprattutto da corse sul palcoscenico e da ampi port de bras. Il paradosso del tema di questo spettacolo appare chiaro quando gli stessi protagonisti scoprono che tutti i loro problemi denunciati nelle pseudo riunioni di condominio non vengono dai cinesi, perché in realtà non ci sono cinesi intorno a loro. Solamente falsi pregiudizi erano causa delle loro lamentele. La coreografa avrebbe potuto affrontare un tema cosí importante e con il quale ci confrontiamo quotidianamente con maggiore profondità senza utilizzare molti luoghi comuni. Il finale si allontana stilisticamente dal resto dell’opera, il sentimento di disprezzo lascia spazio all’accettazione senza riabilitare peró completamente lo « straniero ».

Vidéo :
Passo di Ambra Senatore, progetto vincitore del Premio Equilibrio 2009 della Fondazione Muscia per Roma presso l’Auditorium Parco della Musica di Rom
Bal en Chine
[vimeo http://www.vimeo.com/43896561 w=500&h=281]
Link :
http://www.ambrasenatore.com
http://www.caterina-carlotta-sagna.org
http://www.art-danse.org

Toto Cutugno e l'Armata rossa, ovvero Sanremo dal tv-popular al web-dem

20130213_cr2SPECIALE | Il nostro reportage multivocale sul Festival. Da Mastandrea a Cannone agli altri, i nostri e vostri commenti su Sanremo 2013. Per tutti i giorni del festival sanremese seguiremo, a nostro modo, la rassegna con un vortice di micro-narrazioni, che incalzi vincitori, ospiti e pulci-notizie sulla rassegna musicale della nostra mini-tv italiana.

Inviateci le vostre micro/narrazioni (max 5 righe) all’indirizzo paneacquaculture@gmail.com e sarete i nostri reporter speciali sul vostro magazine preferito.

 

Sanremo: da popolare a democratico

cutugno rossoALESSANDRO MASTANDREA | Poco prima delle note del “Va, pensiero” di Giuseppe Verdi, seduto sui gradini in posizione raccolta, lui solo illuminato, al centro della scena eppure familiare e domestico, Fabio Fazio l’aveva premesso che avremmo assistito a un Festival di Sanremo popolare per definizione:
“ Il festival di Sanremo è la trasmissione più popolare della TV. Popolare è una bellissima parola […] ma popolare non vuol dire facile, popolare vuol dire “per tutti” e riuscire a parlare a tutti non è per niente facile”.
E facile non è, dopo 63 anni, riuscire a essere popolari. Eppure, questo ennesimo e ineluttabile ritorno del Festival, almeno nei numeri, popolare pare proprio che lo sia. 14 milioni di spettatori nella prima puntata, e 12 milioni 477mila – con uno share del 42.21- nella seconda. Un successo. Come non capitava da anni.
Merito di Fabio Fazio, Luciana Littizetto e autori, di quel frullatore di discorsi e argomenti diversi, di cultura alta e bassa, nel solco di una tradizione incurante del mutare di gusti e generi televisivi, che è Sanremo; e, forse, vincente proprio per questo. Dove può godere di assoluto rilievo la performance di Toto Cutugno che canta “L’Italiano”, accompagnato dal coro dell’Armata Rossa.
D’altro canto, un rinnovamento del Festival nell’era dei reality 2.0 -dei cosiddetti “talent show”- non potrebbe essere attuato senza un suo snaturamento. Così, piuttosto che virare sui toni da competizione esasperata, di frustrazioni, aggressività, lacrime e catarsi finale, meglio pescare dal bacino dei concorrenti offerto dai talent suddetti: X-Factor&friends (nel senso del defilippiano “Amici”).
Nel contempo, tuttavia, fanno il loro timido ingresso new media e social network, sia con gli onnipresenti Facebook e Twitter, ma soprattutto con l’accordo commerciale stipulato con Spotify, il servizio web di musica in streaming appena sbarcato in Italia, dove sarà possibile ascoltare sia i brani dei concorrenti di questa edizione, che due playlist contenenti, rispettivamente, le canzoni vincitrici dal 1951 al 2012 e la selezione di brani non vincitori (che comunque hanno lasciato il segno nella storia della competizione).
Dunque Sanremo, da popolare, si appresta a diventare anche democratica grazie al Web. E si spera che un giorno, grazie proprio al Web, potranno godere di pari dignità tutti gli artisti che hanno calcato il suo palco: Povia e Jalisse compresi.
Gli estimatori di Domenico Modugno e Toto Cutugno, con Armata Rossa al seguito (il video cercando in rete si trova), sono avvertiti.

Teatro Minimo – videoreport

rivincita teatro minimoRENZO FRANCABANDERA | L’occasione è data dalle repliche presso Teatro i a Milano della nuova drammaturgia di Michele Santeramo, La rivincita. Di ciò che il video in fondo a queste righe racconta anticipiamo nulla, se non proprio il fatto che sia, a nostro avviso, testimonianza e sintesi di quello che la compagnia pugliese intende da anni dal punto di vista sia poetico che teorico sul fare teatro, rivolgendosi a questa arte come alla declinazione artigianale di un vero e proprio mestiere.
Lo spettacolo, diretto da Leo Muscato e interpretato da Michele Cipriani, Vittorio Continelli, Simonetta Damato, Paola Fresa, Riccardo Lanzarone e Michele Sinisi, ambienta in una serie di sequenze sketch la vicenda ricca di salti di tempo e spazio di due fratelli e delle loro famiglie al bordo della disperazione materiale, in un tessuto sociale in cui vittima e carnefice, strozzino e fallito, finiscono per bere assieme il caffè e a dire l’un dell’altro: “è una brava persona”. A tenere tutto assieme sono rocambolesche vicende di uova, semi e denaro.
Bella la scena povera ma che lascia vedere e no, come le persiane del Sud spione, pensata da Federica Parolini, e le luci di Alessandro Varazzi, capaci di creare atmosfere e ambienti. In crescita, accanto alla sicurezza della recitazione sporca e sincera di Michele Sinisi, sia Vittorio Continelli che Paola Fresa.
Sopra le righe, invece, i modi con cui Riccardo Lanzarone declina anche in questo spettacolo i suoi personaggi borderline. A tal proposito riteniamo che la regia non sia riuscita del tutto ad addomesticare in modo armonico i caratteri ricchi di sfumature pensati da Santeramo all’interno di un narrato scenico che, come nella centenaria tradizione della commedia italiana, ha si bisogno di maschere grottesche e di alleggerimento, ma che sappiano farsi interpreti di un’irridente e crudele modernità, da cui invece certe figure dalla vocazione macchiettistica rimangono a volte, a nostro parere, un po’ lontane.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=c9J0PIdKCnk]

Dead Space 3: nel buio nessuno vi sentirà urlare

Dead-Space-3(1)ALESSANDRO GUALANDRIS | Il filosofo Gotthold Ephraim Lessing affermava che l’attesa del piacere è essa stessa il piacere. Di sicuro, i fan di Dead Space non l’avranno pensata così durante la lunga attesa del terzo capitolo della saga di Isaac Clarke. Le immagini rilasciate nei mesi prima dell’E3 e durante la rassegna stessa, mostravano un’ambientazione diversa dai soliti cunicoli bui a cui eravamo abituati. Addirittura si vedevano immagini del personaggio sperso in mezzo alla neve, in chissà quale pianeta remoto.
Questo senso straniante, lo si ricava anche all’inizio di Dead Space 3, quando dopo una piccola introduzione fuori programma, ci si trova a sparare in superficie, tra le vie della Terra, a poliziotti e militari, come in un qualsiasi Call of Duty. Ma Steve Papoutsis, produttore esecutivo di Dead Space, l’aveva detto “perché vi dovete preoccupare?”. Ed aveva ragione. In breve tempo si ritorna nell’angosciante mondo horror-SciFi, dove ogni rumore pompa adrenalina in chi gioca.Per offrire un prodotto completo, alla Visceral Games, han ben pensato di aggiungere molte novità alla loro fortunata serie, rischiando di uscire da quei contesti che hanno reso celebre la saga, ma riuscendo, alla fine, a garantire un gioco completo e di sicuro gradimento. A livello narrativo la storia riprende con un gustoso riassunto dei due precedenti capitoli (che richiama il “nelle puntate precedenti” tanto caro alle serie tv) e durante la campagna in modalità singolo giocatore verranno finalmente risolte molte questioni aperte più di quattro anni fa. E’ importante notare come la sceneggiatura del gioco svolga da subito un ruolo importantissimo nella genesi dello stesso. Dare una continuità logica e impegnarsi nella crescita evolutiva di ciò che si è prima seminato a livello storico, è una dimostrazione di come l’attenzione sulla scrittura sia fondamentale.

Sempre Steve Papoutsis insiste molto nel far notare come per lui questo punto sia stato un gran successo. In un’intervista fatta alla mitica rivista-horror americana Fantagoria, che potete leggere qui, analizza diverse fasi dell’opera di produzione. Anche la creazione del personaggio secondario, il sergente Carver, ha richiesto un notevole sforzo di studio del background che poi andrà ad incidere non solo sulla storyline generale, ma anche sulla modalità di gioco stessInfatti la vera grande chicca di questo Dead Space 3 è la modalità in co-op, dov’è possibile giocare in rete la campagna story mode con un altro giocatore.
Ma perché viene ritenuta così alternativa? Perché i due personaggi, Isaac e Carver, sono per motivazioni differenti provati da un pesante passato. Ciò li porta ad avere diverse reazioni a quello che si trovano davanti e, nel caso di Carver, a distacchi frequenti della realtà. Quindi capiterà che le immagini sul proprio televisore siano differenti rispetto a quelle del nostro partner e mentre noi ci faremo un trip nella memoria deviata del sergente, il povero Isaac dovrà vedersela con un’orda di necromorfi, sperando che il suo amico torni presto in l giocatore vive tutta questa angoscia.
L’uomo digitale, il personaggio che si muove a seconda di dove noi vogliamo farlo spostare, diventa carne. Il suo stato mentale, che condiziona le nostre scelte, lo eleva sopra il canonico “omino di pixel” e gli dona uno spirito, quasi un anima. Sembra che gli sviluppatori americani di Visceral abbiano voluto dare maggiore importanza al cuore del gioco, all’affetto per il giovane ingegnere travolto dagli eventi, piuttosto che all’impianto tecnico, alla confezione.  Infatti i progressi legati alla grafica non sono certamente così notevoli come di solito ci si aspetta da un terzo capitolo. Il motore grafico Godfather Engine (conosciuto anche come Visceral Tech engine), potenziato fortemente, permette, a differenza dei due giochi precedenti, l’utilizzo di diverse tecniche per migliorare gli effetti di distorsione e di rendering dell’ambiente ( per citare le principali Anti Aliasing, l’SSAO o il Bokeh Depth of Field).
Purtroppo però, lo studio delle uniformi dei militari e di altri personaggi non principali e la caratterizzazione dei volti (Isaac e il sergente a parte) sono al limite dello sforzo artistico e il dettaglio nelle scene con vasti paesaggi non sono certamente il fiore all’occhiello di questo gioco. Le tute indossate dal nostro protagonista, subiscono un leggero restyling, ma nella sostanza non abbiamo grosse novità (tralasciando la possibilità di utilizzare la tuta del protagonista di Mass Effect 3, nel caso lo si abbia giocato e si conservi ancora il salvataggio). Tuttavia, per questo Dead Space 3, non era necessario.
La longevità è garantita dalle svariate novità legate alla composizione di nuove armi, alle missioni intermedie durante la storia principale, che permetteranno di avere nuovi bonus, e alle diverse modalità di gioco legate al multiplayer (oltre alla già citata co-op). Ma soprattutto grazie a quel mix di paura e adrenalina che fa da padrona in questa saga. Immersi nel buio e nella tensione.

Tra i labirinti di un’astronave con le pareti dipinte con il sangue, illuminando il nostro cammino con la sola torcia presente sull’arma. O tra le nebbie di un pianeta inospitale e terrificante, pronti a saltare sul nostro divano ad ogni apparizione di necromorfi urlanti, decisi a dividerci in tanti piccoli pezzi.

Per comprendere meglio vi invito a guardarvi il filmato seguente che contiene l’incipit e le prime immagini di gioco con un’ambientazione diversa dal solito
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=XNndaiA-cBk]

Mentre il filmato successivo, per poter apprezzare le tetre ed anguste stanze in cui muoversi diventa una gara con i propri nervi
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=XXMOD-ISO6U]
Non vi resta che spegnere le luci, alzare il volume e sperare di essere più veloci dei vostri orridi nemici!