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domenica, Settembre 8, 2024
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Il "ghigno amaro" delle Iene

lollo+lucci 1ALESSANDRO MASTANDREA | Strana specie queste “Iene”, bipedi antropomorfi che amano muoversi sui non facili crinali dell’etere, dove scivolare nel “già visto” è qualcosa di più che una remota possibilità. Tuttavia, sebbene celato da uno spesso strato di leggerezza, e al pari di trasmissioni di denuncia ben più blasonate, un nocciolo sul quale riflettere è possibile trovarlo.
Tra cazzeggio e denuncia, indignati eppure “Pop”, di strada ne hanno percorsa queste controparti televisive tarantiniane, dai tempi in cui, sconosciuti inviati, era una Simona Ventura non ancora sulla cresta dell’onda a capitanarli. Nel mezzo, la voglia di rinnovarsi per rimanere agganciati ai gusti delle nuove generazioni poco avvezze alla TV e molto più ai new media, loro che qualche ruga intorno al ghigno oggi la mostrano.
Questa edizione 2013 (Italia 1, domenica in prima serata) non fa eccezioni. Sebbene la formazione delle “iene da strada” sia rimasta grosso modo inalterata, è in studio che si consuma la più grossa delle rivoluzioni formali: via la coppia di iene maschili che affiancano l’ex letterina Blasi, capobranco e consorte del “pupone” nazionale, dentro il solo Teo Mammuccari coadiuvato dalle impertinenti voci fuori campo della Gialappas’s Band.
Ben altro discorso per quel che riguarda i contenuti, dove, come detto, ai momenti di alleggerimento
se ne alternano altri più vicini alla “TV dell’indignazione”.
Ed è la fotografia impietosa di un “popolo di santi, navigatori e truffatori” quella che ci viene restituita da molti degli inviati (Casciari, Viviani e Pelazza), dove è una telecamera spesso nascosta a mostrarci la vita in maniera non patinata. Una TV che dosa impegno e leggerezza, sebbene di primo acchitto pare sappia parlare più alla pancia che al cervello. Eppure, non fosse altro che per alcuni dei temi trattati, il cervello è stimolato eccome. Capita, per esempio, con le denunce raccolte da Paolo Calabresi e Laura Gauthier nella puntata del 27 gennaio: incentrata, l’una, sulla testimonianza anonima di una madre il cui figlio ha subito molestie da un pedofilo; l’altra, sulle malefatte di un sedicente manager dello spettacolo col vizio di proporre serate di sesso e droga a ragazze minorenni. Che le finalità spettacolari si frappongano alla profondità del discorso, sorta di velo o cataratta, opacizzandolo, è un dato di fatto. Tuttavia è quando cominciamo a chiederci come mai una madre preferisca la TV, magari in forma anonima, alle autorità preposte, che una prospettiva nuova comincia a farsi strada. Che si tratti di sfiducia nelle istituzioni, o dell’irresistibile attrattiva dei media, non è forse vero che alla TV deleghiamo, oltre ai nostri stati affettivi, anche il nostro fare, in una sorta di circolo in cui la vita rappresentata all’interno della cornice televisiva è più vera del vero?
Non ce ne vogliano i puristi del giornalismo televisivo di inchiesta, ma non è forse lo stesso sentimento di indignazione anche quello che proviamo guardando trasmissioni come Report? Non è forse alla pancia che parlano entrambe? Se così non fosse, dovremmo dunque aspettarci sollevazioni popolari con l’una e non con l’altra?
Anche “le Iene”, in definitiva, possono rivendicare una propria ragion d’essere, che trova una sintesi, ad esempio, nell’opera dello stralunato Enrico Lucci, capace di alternare diversi registri. E’ uno strano tipo di racconto il suo, che mescola elementi superficiali – come il facile sorriso provocato dal racconto della vicenda in un dialetto romano un po’ sguaiato – a elementi più commoventi, come capita nel racconto a tinte poetiche del viaggio fatto con Gina Lollobrigida in treno. Ne “i tormenti della diva” (domenica10 febbraio), grazie al giusto mix di immagini e musica, la iena Lucci, a dispetto della superficialità testuale di cui si è detto, sa di restituirci un quadro in realtà affettuoso:
“A ottantacinque anni Gì, ma che cazzo ce ne frega de un portacenere. A Gì guarda che bella ‘a vita”.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=DYyBfwhE_zw&w=560&h=315]

L. I. Lingua imperi

anagoorNICOLA ARRIGONI | L’urlo strozzato di Ifigenia, sacrificata dal padre Agamennone, la disquisizione fra un gerarca nazista e un linguista in divisa da Ss sulle lingue e la scientificità delle razze in area caucasica tratto da Le benevole di Jonathan Littel, la furia venatoria di San Giuliano, patrono dei cacciatori, rappresentano i tre blocchi drammaturgici di L. I. Lingua Imperi di Anagoor. I ragazzi di Anagoor: Anna Bragagnolo, Mattia Beraldo, Moreno Callegari, Marco Crosato, Paola Dallan, Marco Menegoni, Gayanée Movsisyan, Eliza Oanca, Monica Tonietto diretti da Simone Derai, costruiscono una messinscena che va in cerca dello stretto legame fra lingua e potere, fra idioma e dominazione dei popoli, lo fanno con una stringete argomentazione che si riversa sulla scena in una ‘rappresentazione anti-teatrale’, in una sorta di dimostrazione agita di pensiero possibile sul potere, sulla violenza con cui l’uomo deve convivere, una violenza che scoppia virulenta, che contagia le parole e il corpo e interroga le coscienze. Allora in scena accade che le parole diventino immagini, azioni, accade che la definizione di stranieri offerta dai greci con oi barbaroi, ovvero coloro che balbettano, o il modo con cui i russi definiscono i tedeschi: ‘muti’ trovino riscontro nelle bocche cucite di giovani che compaiono su un grande video, intervallati dal passaggio di pecore: due modi di significare il silenzio delle vittime delle guerre, un modo per dire del silenzio assordante dei sacrifici compiuti in nome dei confini posti non dalla razza o dall’appartenenza, ma dalla lingua e dalla necessità di segnare un’origine, un’autenticità di un popolo, piuttosto che di una nazione. Ecco che i corpi adolescenti degli attori/performer di Anagoor sono corpi ammassati, ecco che la freccia scoccata sul bersaglio è segno di un cacciare che è anche un essere cacciati e che si compie nello sguardo di un cervo che interroga e ci interroga. Tanti i segni che mettono a punto gli Anagoor, un chiedersi quale è l’origine del potere, della violenza ad esso connessa, del confine che rende l’atro non solo desiderabile, ma conquistabile, che rende l’altro oggetto e merce di scambio, che rende l’altro nemico, semplicemente perché diverso, semplicemente perché parla un’altra lingua, Veste in un altro modo… Hanno studiato e tanto i ragazzi di Anagoor, non fanno un passo senza un’auctoritate cui far riferimento, non dicono che per interposta parola eppure alla fine costruiscono il loro ‘discorso’, un dire che è dimostrazione argomentativa della banalità del male e della sua terribile e inquietante origine linguistica e pretese pseudoscientifiche, ma soprattutto un ‘discorso’ che alla fine riflette un modus teatrale, antiteatrale, un’estetica dell’essenziale e del barocco al tempo stesso che è calligrafia dell’anima e graffiante stupore di chi sta a guardare, di chi senza orizzonte non può che cercare un senso nelle maglie stringenti della lingua e dell’argomentare per trovare un bandolo di verità. L. I. Lingua Imperi è un lavoro che inquieta per la sua secchezza e per la freddezza e per quei corpi e volti di ragazzi poco più che adolescenti che dicono di una fragilità che angoscia e si pone come voce muta delle vittime che interroga il nostro presente.
L. I. Lingua imperi, violenta la forza del morso che la ammutoliva, con Anna Bragagnolo, Mattia Beraldo, Moreno Callegari, Marco Crosato, Paola Dallan, Marco Menegoni, Gayanée Movsisyan, Eliza Oanca, Monica Tonietto, Hannes Perkmann, Hauptsturmbannführer Aue; Benno Steinegger, Leutnant Voss; Voci fuori campo di Silvija Stipanov, Marta Cerovecki, Gayanée Movsisian, Yasha Young, Laurence Heintz; Traduzione e consulenza linguistica Filippo Tassetto; Costumi Serena Bussolaro, Silvia Bragagnolo, Simone Derai; Musiche originali Mauro Martinuz, Paola Dallan, Marco Menegoni, Simone Derai, Gayanée Movsisyan, Monica Tonietto; Musiche non originali Komitas Vardapet, musiche della tradizione medievale armena; Video Moreno Callegari, Simone Derai, Marco Menegoni; Drammaturgia Simone Derai, Patrizia Vercesi; Regia Simone Derai; Produzione Anagoor 2012, coproduzione Trento Film Festival, Provincia Autonoma di Trento, Centrale Fies, Operaestate Festival con il sostegno di APAP Network Culture Programme of European Union, niziativa realizzata con il contributo diFondazione Cassa di Risparmio di Trento e RoveretoAnagoor è parte del progetto Fies Factory Residenze SC – Culture of change | University of Zagreb – Student centre | Zagreb, HR; Tanzfabrik | Berlin, D; Conservatoire de Strasbourg, a Casalmaggiore, teatro Comunale, 27 gennaio 2013.

Se gli attori danzano al Festival Equilibrio

ifhuman_fearanddesireBRUNA MONACO | Nove attori e una danzatrice. Provengono da percorsi artistici e formazione diversi. Anche in fisicità, lingua e cultura differiscono. IfHuman, come la maggior parte delle compagnie di danza contemporanea o di teatro-danza che si rispetti, è un gruppo ad ampio spettro di eterogeneità. Dietro le quinte, chi ha ideato il progetto e dato forma allo spettacolo: Gaia Saitta, regista, e Julie Anne Stanzak, coreografa.
Il modello di riferimento del neonato collettivo (creatosi proprio attorno a questo progetto) è il Tanztheater di Pina Bausch. Del resto Julie Anne Stanzak fa parte del Tanztheater da quasi trent’anni. In Fear and Desire (in prima mondiale all’Auditorium di Roma all’interno del Festival Equilibrio), però, manca non solo il genio degli spettacoli della Bausch, ma un punto di vista originale sul mondo e la capacità di trasformare le idee in corpi in movimento. Le paure e i desideri rappresentati sono ordinari, retorici e, peggio, sono detti: dal fondo scena avanzano uno alla volta i dieci interpreti, ognuno nella propria lingua nomina un bell’oggetto, un bel ricordo: un desiderio. Un brutto oggetto, un ricordo spiacevole: una paura. Troppo spesso l’impressione è di assistere a uno spettacolo poco meditato. E non è solo a causa delle piccole imprecisioni e di alcuni movimenti maldestri: l’autobiografismo ostentato e i ripetuti ammiccamenti al pubblico denunciano un’insicurezza di fondo.
Sottotitolo e presupposto teorico di questo spettacolo è Not everyone can be a dancer, But everybody can dance. Un assunto, in effetti, un po’ scontato, un’affermazione di buon senso, di difficile smentita. E il dato è ancor meno sorprendente perché non sono persone comuni quelle che il duo Saitta-Stanzak ha portato in scena. Non impiegate o impiegati inadatti al movimento, magari obesi e sedentari, ma attori dai corpi prestanti: non ci si può meravigliare più di tanto nello scoprire in un attore una predisposizione alla danza. Anzi. Soprattutto nell’era della commistione delle arti della scena, in cui teatro e danza si intersecano in ogni modo, fra loro e con altri generi performativi, dando vita ora al teatro-danza, ora al teatro fisico o al circo contemporaneo.
Fear and Desire resta comunque l’esordio di una compagnia appena nata, nonché la prima volta di Gaia Saitta alla regia. D’altronde è possibile che una prima mondiale in un contesto importante e altamente qualificato come il Festival Equilibrio fosse troppo impegnativo per una compagnia di così recente formazione. Anche le condizioni di produzione a cui il collettivo IfHuman ha dovuto attenersi non sono quelle delle compagnie riconosciute a livello internazionale, sovvenzionate, che di norma ospita l’Auditorium: a parte due residenze in Belgio e una in Puglia, Fear and Desire è stato portato a termine grazie all’auto-sostentamento del collettivo, come in genere, purtroppo, accade alla maggior parte delle compagnie italiane, a quel teatro off o indipendente che difficilmente accede alle grosse sale. È questo uno spiacevole indice del fatto che la situazione di precarietà generale e in particolare dei lavoratori dello spettacolo si sta ulteriormente diffondendo, ed è arrivata nei luoghi fino ad ora più stabili e sicuri? O è un segno positivo dell’apertura di grossi teatri di alta qualità verso le piccole produzioni indipendenti?

Potete trovare alcuni estratti dello spettacolo  sul sito del progetto:
http://www.fear-and-desire.com/IT/video.html

PACcottiglia #1

BXVI

«Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino».

PaneAcquaCulture all'Accademia delle Belle Arti di Brera, Milano

l43-101011194409_bigMILANO | 15 FEBBRAIO 2013 – h13 | ACCADEMIA DELLE BELLE ARTI DI BRERA |

Disegnare la scena in cinque tratti

Incontro coordinato dal prof. Italo Chiodi (cattedra di Disegno).

PER PANEACQUACULTURE interviene Renzo Francabandera (critico e live painter)
Con la partecipazione di Teatro Caverna

Da che fuggiamo? Dove corriamo? paure e desideri del terzo millennio

acrosslightblackLAURA NOVELLI | Di corsa. Da un punto x verso un punto y. Di corsa fuggendo da qualcosa, qualcuno, qualche luogo. Di corsa per raggiungere qualcosa, qualcuno, qualche luogo. E mentre si corre il senso di questo andare prende forma. Si allarga ai percorsi esistenziali degli altri. Diventa “coro” cittadino. Tramuta in drammaturgia.
Passa dalla realtà all’evocazione, dalla prestazione fisica a quella dell’anima: intercetta prospettive di riflessione sulle “traiettorie” sport, teatro, società, giovani, nuove tecnologie l’interessante progetto “Across Lightblack”, ideato dalla compagnia Dynamis Teatro Indipendente (regista, Andrea De Magistris) e realizzato grazie alla Hikari produzioni, in sinergia con il Vascello di Roma, Campo Teatrale di Milano, Festival Movimentale di Napoli. Proprio a queste tre città fanno capo, infatti, i sessanta liceali coinvolti in questa complessa maratona performativa che, utilizzando la corsa come metafora atta ad indagare desideri e paure della vita quotidiana nei contesti metropolitani (sono gli stessi adolescenti maratoneti ad intervistare i passanti chiedendo loro da dove fuggano e verso cosa corrano), si pone l’obiettivo di costruire una partitura itinerante di sentimenti, angosce, esperienze, illusioni capaci di ricostruire uno spaccato contemporaneo in presa diretta. L’apporto di strumenti analogici e digitali (smarphone, tablet, iphone, connessione skype) funge poi da cinepresa e insieme da cassa di risonanza dell’intera operazione, in quanto non solo permette di immortalare l’incontro tra performer e avventore ma ne restituisce al pubblico il contenuto (parole, immagini, suggestioni e commenti) proiettandolo su un grande schermo durante lo svolgimento stesso della “corsa” nelle tre città campione.
Il contenitore prescelto per questa proiezione conclusiva della manifestazione sarà la prossima edizione del festival Teatri di Vetro diretto da Roberta Nicolai (tra il 23 e il 30 aprile) e il grande schermo adottato per l’occasione sarà un palazzo del quartiere Garbatella di Roma, sede storica della rassegna capitolina. Ma il progetto ha già sperimentato una tappa pilota lo scorso mese (con dimostrazione all’Opificio delle Arti, sempre di Roma) e gli esiti raccolti, sia in termini di ricaduta sociale che artistica, sono stati entusiasmanti. Racconta la stessa Nicolai: “I ragazzi/maratoneti erano 20 a Roma e poco meno di 20 a Napoli e a Milano. Si riscaldavano all’Opificio, come immagino anche a Campo teatrale a Milano e a Start a Napoli, poi è stato dato il via e sono usciti per le strade delle tre città. All’Opificio c’era una regia ed era pienissimo di persone, per lo più giovani. Due proiettori ci rimandavano le immagini che i maratoneti catturavano durante la corsa. Scrollavano una serie di sms. Scrollavano una serie di foto e piccoli video. La regia dava spazio ad alcuni di questi e intrecciava video, foto, contributi scritti. Ogni tanto arrivava un collegamento skype con il quale dialogava Andrea De Magistris.
Ogni tanto arrivava pure una telefonata e Andrea parlava con le persone a Roma, Napoli e Milano che avevano voglia di interagire. I ragazzi ponevano alle persone la domanda di Alice (Qui invece, vedi, devi correre più che puoi, per restare nello stesso posto. Se vuoi andare da qualche parte devi correre almeno il doppio, dice la Regina di Cuori ad Alice) e Andrea ribadiva che stavamo facendo una ricerca sui desideri e le paure nella città metropolitana. La gente raccontava i fatti suoi, da cosa era scappata o cosa rincorreva, se correva o no nella sua vita. Un prete ci ha fatto una predica sulla morte. Un signora ci ha dato consigli sulla vita. Una ragazza ha pensato che Andrea le stesse facendo il filo.
L’umanità è davvero grandiosa per varietà ! Intanto scorreva il tempo: la maratona durava 42’, in omaggio ai 42 kilometri di quella ufficiale. La cosa straordinaria era che il testo teatrale si scriveva mentre lo si viveva, mentre accadeva. Enea Tomei (autore di racconti) ha fatto un esercizio di scrittura con il suo ipad durante l’evento. Poi lo abbiamo letto con Andrea e il risultato drammaturgico è incredibile! Nelle tre città, inoltre, c’erano adulti che aspettavano i ragazzi ad un traguardo allestito come punto ristoro: dopo 42’ avevano sete e fame! Mi sono emozionata quando all’Opificio è scattato un applauso quasi commosso. La vita è sempre più forte ….”.
Il progetto prevede anche il coinvolgimento di tre Accademie di Belle Arti (una in ogni città), i cui studenti seguiranno i performer aiutandoli a riportare in forma grafica sulle loro tute bianche i contenuti e il senso dei diversi incontri. E non è esclusa, infine, l’apertura dell’iniziativa a città estere, prime fra tutte Marsiglia. D’altronde l’obiettivo precipuo di “Across Lightblack” è proprio quello di indagare l’individualismo odierno, la libertà (apparente) che pensiamo di ottenere essendo sempre in movimento, la fine di quel senso etico che fa anteporre il benessere collettivo al proprio. Temi urgenti. Temi senza confini.

Informazioni: www.dynamisteatro.it, www.teatridivetro.it
Qui un breve ma significativo video sull’iniziativa
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=lQFDJXQLw7Y]

I classici per una nuova etica del teatro: conversazione con Valerio Binasco

Valerio_BinascoNICOLA ARRIGONI | C’è un teatro che sa essere poetico ed etico, c’è un teatro che non s’arrende, ci sono artisti che amano complicarsi la vita e soprattutto mettere a disposizione la loro intelligenza per resistere alla barbarie del presente. Valerio Binasco, regista e attore, appartiene a questo teatro dell’etica e della poetica, è uno che sa spendersi, che sa dare e ha il coraggio di pensare il futuro. Il futuro/adesso per Valerio Binasco è la Popular Shakespeare Kompany, il presente è La Tempesta di William Shakespeare, l’ultima opera del Bardo per dare respiro ad una compagnia nuova e antica al tempo stesso.
La Tempesta è una sorta di rito propiziatorio scaturito dal clima di tristezza con cui viene vissuto il mondo della cultura – dice Valerio Binasco -. La scelta è fra l’arrendersi e il fare un atto folle e combattere al di là della crisi.
E come?
Forse non è più tempo di barricate ideologiche, la mia scelta è quella di frequentare in un modo creativo, felicemente disperato le grandi opere teatrali dell’umanità.
Da qui La Tempesta?
Sì ma anche e soprattutto la Popular Shakespeare Kompany.
Le due cose sono legate ovviamente…
Beh La Tempesta è la prima produzione della Popular Shakespeare Kompany, un gruppo di attori fra i 21 e 53 anni che ha deciso di rispondere al clima depressivo dei nostri anni, di non accettare la crisi come scusante o pretesto per ammazzare il mondo del teatro e della cultura in genere.
Una nuova compagnia per rispondere alla crisi?
Un gruppo di attori che decide un atto folle.
Quale?
Di affrontare i grandi autori e testi con il minimo dei mezzi e il massimo della recitazione. L’obiettivo è restituire allo spazio scenico il suo potere evocativo, la capacità di essere spazio di immaginazione e non semplice restituzione di un’immagine. Il mio sogno è fare uno spettacolo con una lampadina da 2,20 watt. Ovviamente esagero ma lo spirito è quello.
Una sorta di pauperismo del teatro?
Pochi mezzi, mezzi essenziali ma una consapevolezza: per ricominciare il teatro deve ripartire dall’attore, dalla recitazione. Bisogna essere consapevoli della tradizione per costruire il futuro, su essa non appiattirsi, ma tenerla come sfondo. Da qui il nostro obiettivo: riuscire a produrre un grande testo della classicità all’anno.
E come?
Rendendo tutto essenziale ma non l’impegno e la voglia di recitare degli attori. Dalla recitazione, dall’attore può rinascere il teatro. Consapevoli della tradizione che ci ha preceduto si può andare avanti, non per riproporla in maniera sterile, ma per recuperare quel gusto per il teatro che è la felicità degli attori e del pubblico.
Non è un ossimoro il fatto che la vita della Popular Shakespeare Kompany inizi con l’ultima opera di Shakespeare?
Forse lo è, ma nella Tempesta c’è il racconto della fine della civiltà, della fine delle cose. Prospero allarga le braccia e lascia cadere quello che ha creato, la sua magia, la libera, la proietta verso un futuro che esula da lui… Forse c’è anche il fatto che sto iniziando una nuova fase della vita verso l’anzianità che non alla giovinezza…. C’è certamente la consapevolezza che il nostro mondo è giunto alla fine, mai come oggi l’Occidente sembra assomigliare ad un’isola deserta in balia del mare. Non siamo però nella landa solare di Strehler, nella mia Tempesta si compiono intrecci, ci sono morti e assassinii caratterizzati da una violenza un po’ livida.
Cosa si deve aspettare lo spettatore da questa Tempesta?
Nulla, un gruppo di attori che recita. In scena gli unici attrezzi sono due bastoni. Per il resto ci siamo noi con la nostra voglia di recitare e di essere presenti per dare corpo alla poesia di Shakespeare. La Tempesta è possibile grazia all’aiuto iniziale del Festival di Verona e del Teatro Stabile di Prato di Paolo Magelli. Poi a sostenere la compagnia e gli attori sono a volte piccoli sponsor. No è vero che non ci sia voglia di investire in cultura. Noi stiamo trovando sostenitori che hanno passione per il teatro vera e intensa.
L’obiettivo della Popular Shakespeare Kompany?
Ovviamente avere un repertorio. Intanto il prossimo anno lavoreremo al Mercante di Venezia con Silvio Orlando che ci ha dato la sua disponibilità….
Sempre Shakespeare?
Lo abbiamo eletto a nostro mentore. Ci si rivolge a Shakespeare con disperata fame di teatro, nei suoi testi c’è iscritto il canone occidentale.

La strampalata lezione di liberismo di Renato Sarti

chicagoboys_SartiVINCENZO SARDELLI | “Chicago Boys”, strampalata conferenza-spettacolo teatrale di e con Renato Sarti, racconta il degrado socio-economico del nostro tempo.
Esalazioni caliginose; un rifugio antiatomico con un brodo di coltura in cui sguazza come un coccodrillo un uomo volgare in palandrana rosso porpora, simbolo del potere; una donna-pantera seminuda (Elena Novoselova) degradata a trastullo sessuale: sono questi gli ingredienti scenici.
Luci rossastre soffuse creano un’atmosfera underground. La colonna sonora è centrata sul sottofondo rock and roll e rhythm and blues di Lou Reed, con qualche escursione nella musica classica e nel jazz.
Sullo sfondo scorrono, proiettate su una coppia di pannelli, dieci lezioni sulla falsa epopea del liberismo. Le immagini mostrate sono filmati di disastri ambientali, sorrisi irriverenti di uomini-caimani, storie passate e recenti di cinismo e violenza. Si parte dalla Prima Guerra Mondiale, si arriva ai giorni nostri. Cent’anni di dissoluzione.
Lo sfruttamento della ricchezza planetaria ad opera di pochi uomini avveduti e senza scrupoli a danno di una moltitudine di sprovveduti: ecco il mondo prefigurato dai Chicago Boys, giovani economisti cileni formatisi all’Università di Chicago nel 1970 circa sotto l’egida di Milton Friedman. Le loro politiche si caratterizzarono per un processo di privatizzazione e di liberalizzazione dell’economia mondiale che avrebbe condotto sì allo sviluppo economico dei paesi occidentali, ma anche ad acuire – denuncia Sarti – i già forti squilibri tra ricchi e poveri.
È un’economia degenerata quella dei “Chicago boys”. Pochi leader della politica e della finanza mirano al profitto sfruttando ogni mezzo, dalla guerra alla catastrofe naturale, dall’asservimento di altri uomini alla menzogna mediatica, fino al ricatto che fa leva sul bisogno di sicurezza.
Come una litania il protagonista, immobile nel proprio delirio di potere, cita gli slogan di questo liberismo selvaggio: “pubblicizzare le perdite e privatizzare i guadagni”, “libera volpe in libero pollaio”. Osserva come le grandi multinazionali abbiano puntato l’attenzione sullo sfruttamento delle materie prime. Intanto ogni giorno muoiono 5000 bambini nel mondo per mancanza di acqua potabile.
Crisi economica e crisi di valori. Ma questo testo è un dramma sulla cattiveria del genere umano, di cui i potenti sono solo un riflesso. Sarti, realista e aggressivo, spalleggiato da una caustica Elena Novoselova, porta in scena sentimenti oscuri e morbosi. Ci indigna.
Lo stile epico e grottesco del testo ribadisce che il teatro può confrontarsi con ogni aspetto della commedia umana. Il racconto-denuncia diventa psicodramma. Sprofonda nel delirante canto finale del protagonista, trasformatosi ormai in assassino.
Le note di Lou Reed sfumano nel punk. È il commento alla sottocultura demoniaca e scioccante esibita in scena. È una sorta di outing, che giudica e condanna i vizi del potere.

CHICAGO BOYS
testo e regia Renato Sarti
con la collaborazione di Bebo Storti
con Renato Sarti e Elena Novoselova
scene e costumi Carlo Sala
video realizzati in collaborazione con Fabio Bettonica e N.A.B.A. – Nuova Accademia di Belle Arti Milano
Il trailer di “Chicago boys”
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=ZhJMJsuLb_s]

La regina degli Elfi

urlELENA SCOLARI | Nella costellazione dei piccoli teatri milanesi segnaliamo una crescita interessante nella programmazione del Teatro Oscar: abbiamo già parlato de La bestia nella giungla dall’omonimo romanzo di Henry James, oggi ci soffermiamo invece su La regina degli elfi, dal testo del premio Nobel Elfriede Jelinek, recentemente messo in scena a cura di Angela Malfitano, che con questo lavoro vuole rendere omaggio il suo maestro Leo de Berardinis.

I due lavori di cui abbiamo fatto menzione hanno in comune l’essere ispirati a due testi difficili e complessi, Henry James per la profondità di pensiero sul mistero dei rapporti tra uomo e donna, espressa però con una sottigliezza cristallina; La regina degli Elfi è invece una riflessione sul teatro e sulla Storia, altrettanto profonda ma a nostro parere, meno intelligibile allo spettatore.
L’autrice Elfriede Jelinek è austriaca, ottiene il premio Nobel per la letteratura nel 2004, vive tra Austria e Germania e in questo lavoro si concentra sulla realtà del periodo nazista.
La protagonista è Paula Wessely, attrice di teatro viennese realmente esistita e che si è lasciata irretire dal regime hitleriano. Lo spettacolo comincia con la proiezione (troppo lunga) di un collage di scene di film con la Wessely e di spezzoni di video delle parate naziste, con particolare attenzione alle tanto promosse attività sportive, strumento di forte propaganda per la sana vita nazista.
L’attrice (interpretata da Angela Malfitano) è morta e viene portata in scena (cioè in platea) a spalla, da sei giovani, seduta nella sua bara e truccata di tutto punto. Il suo è un monologo, recitato interamente da questa posizione di decesso sospeso. Ascoltiamo un’orazione funebre che l’attrice dedica a se stessa, restia a lasciare il suo pubblico e la fama raggiunta, la donna rende la bara il suo ultimo palcoscenico. Ci parla, proprio in qualità di spettatori, del Potere, in un parallelo ardito e inquietante tra il potere del capo sulle masse (ovvero del fuhrer sul popolo) e dell’attore sul pubblico.
Fino a circa metà spettacolo ci piace seguire il fluire di un ragionamento che punta a spiegarci come lo spettatore sia continuamente ingannato (bella la sintesi della battuta: “Questo teatro non è così piccolo, vi abbiamo convinto che il palco lo fosse per far sentire voi più grandi), a un certo punto però il discorso si fa faticoso, si avvoltola troppo su se stesso e si perde il filo del paragone tra carisma dell’attore e carisma del dittatore (non diciamo dittATTORE, per carità).
Angela Malfitano è brava, indubbiamente il difetto di fluidità non sta nella sua recitazione, raffinata, convincente e misurata, forse ci sono invece alcune scelte di regia che confondono un po’ e non aiutano lo spettatore nella lettura del significato: i sei giovani, parte del corteo funebre, anch’essi truccati come la protagonista, rimangono in scena per tutta la durata, immobili, a reggere la cassa, salvo una salita sul palcoscenico (anche questa troppo lunga) durante la quale si cambiano a vista indossando abiti tirolesi e poi cantano una canzoncina in tedesco mentre mimano esercizi di ginnastica. Tornano poi al loro posto, accompagnando le ultime parole del monologo con alcuni gesti di cui confessiamo candidamente di non aver capito il senso scenico: spillare birra, cucire…
L’attrice esce, per sempre, di scena, accettando la fine e permettendo la fine dello spettacolo, lo spettacolo della sua vita e della sua morte.
Il testo ha, a nostro avviso, una scrittura che lo avvicina ad un saggio, letterariamente parlando, pertanto richiederebbe che lo spettatore fosse più accompagnato per comprenderlo appieno. La tesi dell’attore ingannatore ai danni del pubblico connivente, perché in fondo il pubblico vuole subire l’incantesimo del teatro, potrebbe essere più sfumata, per lasciarci una maggior quota di libero incanto.

Qui alcune sequenze di un video sullo spettacolo
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=1RbyZb9_vZc]

Alvarez Bravo. L’occhio della libertà

ManuellvarezBravo_LaCeleberrimaaddormentataMARIA CRISTINA SERRA | L’esistenza è composta di dettagli: piccole cose che assumono grandi significati. Desideri e sogni si mischiano alla realtà e cercano ali per volare in alto. Manuel Alvarez Bravo (1902-2002) aveva imparato a non avere fretta, ad assaporare la cantilena lenta del tempo, in cui nulla è statico, tutto è un continuo fluire di forme, fra le quali scorgere schegge di sentimenti e fascinazioni del quotidiano. “Don Manuel” (così lo chiamava lo scrittore Carlos Fuentes) “è un genio, capace di regalare un istante di riposo alle turbolenze del mondo, affidando a chi guarda il compito di restituire movimento all’immagine”. La vita rurale e le tradizioni, la vita di strada e la gente che l’anima, la luce del giorno che taglia angoli e facciate con “magico realismo”, le ombre misteriose che insinuano solitarie inquietudini, diventano presto lo scenario dove realizzare il suo “sogno ad occhi aperti”, dove non c’è posto per eroi, celebrazioni, monumenti.
Il Jeu de Paume ha celebrato il maestro della fotografia messicana, che camminava al passo col Tempo. Come spiegano i curatori dell’expo ”Manuel Alvarez Bravo, un photographe aux aguets” (dal 13 febbraio al 19 maggio anche alla Fondaciòn Mapfre di Madrid), Laura Gonzales Flores e Gerardo Mosquero: “le sue sono immagini fragili, delicate, impalpabili. Così la fotografia diventa poesia in grado di catturare il passaggio transitorio degli esseri umani sulla terra”. Alvarez Bravo non rimase estraneo ai profondi fermenti sociali e politici che attraversarono il suo paese dalla rivoluzione del 1910 in poi, né restò indifferente a quella passione civile e culturale a tinte forti, nella definizione d’una identità nazionale, che tanto appassionò l’intellighenzia del tempo. Il suo impegno si concretizzò nella sperimentazione di un nuovo linguaggio fotografico, nel quale unire i motivi più arcaici, legati alla sua terra, con le inquietudini della modernità: ”l’importante per un fotografo è la sua opera, la sincerità la capacità di trascendere il piano documentale e cogliere la pienezza umana”
Il forte legame ideale con Diego Rivera, Frida Khalo, Rufino Tamaya, Tina Modotti, Edward Weston, Cartier-Bresson ed Eisenstein non lo distolse dall’individuare, fin dagli anni Venti, una sua autonomia intellettuale che ben presto superò i confini geografici, per farsi modello etico e artistico, centrato sulla dignità e l’equilibrio insito nella realtà, pronto per essere catturato e sublimato.
C’è in Bravo il senso perenne di un lungo respiro, denso di quiete, dove all’attimo fuggente si sostituisce la pazienza della lentezza, resa con tratti raffinati, senza artifici. La concretezza vitale del reale e l’immaginazione lieve dell’astrazione si armonizzano fra di loro, plasmate da sapienti e discreti effetti di luce che strutturano la composizione. Ogni cosa per lui nasconde un segreto da rivelare; una visione del mondo, dove anche la linea sottile fra il visibile e l’invisibile si carica di atmosfere oniriche: ”la luce e l’ombra hanno esattamente la stessa dualità che esiste tra la vita e la morte”.
Ritagli di carta, avvolta in spirali o piegata in origami, si trasformano con il suo obiettivo in onde minimaliste per la serie “Vogues de papier”: macchie di umidità sui muri e gocce di vernice sparse sulle pareti in tracce di esistenze da decifrare. La freddezza del calcestruzzo gli ispira il senso costruttivista del presente, in cui piani e linee si incontrano nello spazio in sintesi estrema, come in “Triptyque beton”. Modernità e passato vanno di pari passo nella sua arte. L’immobilità delle croci piantate in terra fra le rovine in spettrali geometrie hanno la struggente malinconia dei ricordi d’infanzia, segnati dai lutti della guerra civile e nello stesso tempo mostrano un profondo senso di spiritualità, fissato pure da figure di angeli, di Cristi, di scale che si innalzano.
Il linguaggio di Alvarez Bravo sembra cifrato: una campana sospesa fra le travi in un orizzonte indefinito e una casupola affiancata da tre scheletri di alberi (“Trois arbres et une maison”) possono trasmettere quel senso di infinito che può nascondersi fra le pieghe della banalità apparente. Con eleganza espositiva, la mostra si sviluppa in otto capitoli, per facilitare l’orientamento nella vasta produzione di questo maestro, ancora troppo poco conosciuto. “Formare”, “Costruire”, “Apparire”, “Vedere”, “Esporsi”, “Camminare”, “Sognare”, “Giacere”: sono le voci verbali sotto cui i curatori hanno raccolto la sua multiforme opera, iniziata da autodidatta. “Fu la fotografia di Atget a mettere sottosopra il mio modo di pensare, a indicarmi le strade da percorrere”, confidava.
Giacciono in un tempo e in uno spazio sospeso le sue immagini-icone: ”Ouvrier en grève assasiné” e “La bonne renommée endormie”. Il giovane operaio assassinato durante uno sciopero giace in una pozza di sangue che disegna una macabra maschera sul volto, disteso e rivolto al cielo; il contrasto fra il bianco della camicia aperta sul petto e lo scuro del fondo è addolcito dalla stretta angolazione; la pietà prevale sulla violenza, la drammaticità trascende l’evento per conferirgli un valore eterno, che lo innalza a simbolo. La tensione estetica è palese nel ritratto della ballerina di “buona reputazione”, distesa nuda, con i fianchi e le caviglie fasciate, nella vulnerabilità del dormiveglia. Era nato come un manifesto surrealista, concordato con Andrè Breton, ma poi l’atmosfera fantastica messicana prevalse, grazie al sottile gioco di dissimulazione della composizione. “L’invisibile è sempre contenuto nell’opera d’arte che lo ricrea. Se l’invisibile non può essere percorso, l’opera d’arte non può esistere”.
“La fille des danceurs” è un’alchimia di equilibri e di misteri. La ragazza, vestita di bianco, il sombrero e lo scialle sceso sulle spalle, ripresa mentre osserva nel tondo di una finestra una scena che possiamo solo immaginare, sovverte la semplicità dell’atto. C’è una storia oltre il muro piastrellato che rompe il silenzio iniziale, trasformando un’istantanea stilisticamente perfetta, in un racconto poetico nel quale il mistero e la magia si fondono in un palpabile senso di serenità. La seduzione delle parole entra nell’inquadratura, la completa. La contrapposizione di elementi in “Pàrabole optique” crea un effetto multiplo: occhi e occhiali nel negozio d’ottica si riflettono nelle vetrine e intercettano il nostro sguardo in un gioco di dissonanze. Sono i titoli spesso a fornirci la chiave di lettura delle sue foto, una specie di ponte per attraversare la realtà e rivederla allo specchio, come “Les amoreux de la fausse luna”, che per sognare non devono attendere la notte.

Qui il link all’archivio di Bravo con tutte le foto, divise anno per anno.
Qui un filmato sulla mostra realizzato dalla galleria
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