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lunedì, Dicembre 30, 2024
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A lezione di "shakespearism" con il Prof. Tim Crouch

banquo arcuriMARIO DI CALO |. Nella bella rassegna “Trend/Nuove Frontiere Della Scena Britannica”, arrivata alla dodicesima edizione, a cura di Rodolfo Di Gianmarco presso la storica sala romana Teatro Belli, sono stati portati in scena due ‘pezzi’ del professore, attore ed autore Tim Crouch: Banquo e Peaseblossom, tratti dal ciclo dei monologhi “I, Shakespeare”, tradotti per la scena da Pieraldo Girotto e con la appassionata ed intensa regia di Fabrizio Arcuri.
A sipario aperto con tre neon bianchi sospesi nell’aria, che poi saranno quasi esclusivamente la fonte di illuminazione della serata, su un fondale di stelle filanti argentate si rifrangono le luci mentre due banconi bianchi di diversa grandezza servono rispettivamente come banco regia e l’altro, di volta in volta, come letto, bara, trono, podio per il protagonista.

Mentre il pubblico ancora si accomoda in sala, entra Enrico Campanati/Banquo – di bianco vestito e con un bicchiere di whisky in mano – che con una specie di gramelot cerca le parole giuste per poter riferire la sua versione dei fatti, ma lui è morto e gli spettatori sono vivi, a lui è capitato di morire, non a loro, e infatti incita e invita il pubblico con un: “Prova ad immaginare…”. Prova a tirare tutti dentro la sua vicenda, ed ogni spettatore diventa, di volta in volta, il conte di Glamis, Duncan, Macduff, insomma tutti i personaggi, inclusi i servi, della straordinaria storia che racconta.
Fleance suo figlio è impersonato da Matteo Selis, che armato di chitarra elettrica, interferisce con appropriate incursioni musicali nel monologo paterno, ma è all’occorrenza anche datore luci e/o commentatore dell’azione.

La storia che racconta Banquo è quella di Macbeth, giustamente proposta da un osservatore che non è più osservatore poiché spettro. Comunque siano andate le cose può solo raccontarle: la storia non si modifica, la si racconta e basta, con quanta più obiettività è possibile, ed è quanto fa Tim Crouch.
L’immaginazione serve solo a far comprendere meglio i fatti ma non modifica la realtà.
Enrico Campanati, con toni quasi cabarettistici, narra con afflato e giusto risentimento quanto accaduto. Pur usando a profusione sangue coagulato che attinge da varie botole situate ad arte sulla scena non risulta mai tragico, al contrario, come se il suo stato di ombra/spettro gli permettesse il giusto distacco dalle cose.

Sullo stesso impianto di rilettura del classico del Bardo è anche Peaseblossom, commissionato a Tim Crouch nel 2004 per il festival di Brighton: racconta dei fatti accaduti durante una famosa notte di mezza estate in una Atene immaginifica ed immaginaria, riportati stavolta diligentemente dal candore di un folletto dal nome di Fiordipisello, interpretato qui dal comunicativo Matteo Angius.
Una proiezione sul fondo del palcoscenico nudo avverte, all’inizio, che si tratta un primo studio/lettura ma appare a tutti gli effetti – e lo è – uno spettacolo compiuto ed anche ben riuscito, suddiviso in sei sogni: Il calabrone, Nudo, La Recita, Il Fiore, Pruriginoso Pruriginoso e La Morte.

In un contesto da 
post-festino, un naturalissimo Matteo Angius, con leggerezza ed autenticità, inforcando occhiali e qualche volta con il copione in mano, coinvolge il pubblico nello stesso gioco dell’altro spettacolo.
Lo spettatore, con l’uso di una maschera sopra-titolata, diventa ogni volta un personaggio diverso della storia, che il buon Fiordipisello con dovizia di particolari fa rivivere durante tutto lo spazio della notte, prima che sopraggiunga l’alba e non possa più sognare.
Con lui in scena stavolta c’è il regista Fabrizio Arcuri, che al banco di regia, accarezza con il suo sguardo sornione il suo attore, approntando spesso la scena con trovate illuminanti, come il carillon con i personaggi sospesi ad una cordicella, che diventano la commedia che inscenano gli artigiani ateniesi o quando, durante il matrimonio dei giovani sposi, accompagnati dalla celeberrima musica di Felix Mendelssohn, lancia riso a profusione.

Fabrizio Arcuri ‘scrive’ la sua regia in perfetto accordo con l’autore e racconta dei fatti accaduti assecondando e imprimendo leggerezza alle due famose storie Shakespeariane: scrive come se si trattasse di vere e proprie pagine, e se si tratta di Banquo del Macbeth utilizza il bianco dove il rosso sangue degli eccidi meglio risalti e meglio possa essere un monito per le generazioni future a non ripetere gli stessi errori; se invece si tratta di Fiordipisello del Sogno di una notte di mezza estate, aiuta e sostiene lo svolgersi della vicenda con proiezioni che conducono per mano durante tutta la durata della notte.
Sembra vivere uno stato di grazia nella duplice semplicità e freschezza di queste due nitide serate di apprezzabile teatro.

Qui un video di Maria Elena Buslacchi con un’intervista ad Arcuri. Provate a immaginare…
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=THE0nNebAho]

Le fumatrici di pecore, l'agnus dei e la pecora nera

le-fumatrici-di-pecore-foto-santa-castignaniRENZO FRANCABANDERA | Le fumatrici di pecore della compagnia Abbondanza/Bertoni aveva debuttato a Castiglioncello l’estate passata, quale esito di un percorso di crescita e confronto fra Antonella Bertoni e Patrizia Birolo.

Riproposto per alcuni giorni al PIMOff di Milano, ha fatto registrare sempre il tutto esaurito, quasi a dimostrare come esista un passaparola sotterraneo ma incessante su ciò che è di qualità, o con cui comunque vale la pena le intelligenze sensibili si confrontino. Effettivamente l’estate scorsa era stata grande la commozione degli spettatori che avevano assistito al debutto.

Scenicamente, a parte un tavolino di legno sgangherato e senza tutte le gambe ben messe, situato alla destra del palco, due candelabri e qualche pecorella di plastica di quelle della collana deluxe della Schleich (che fa pagare un po’ più cari ma rifiniti a mano i capi di bestiame) non c’è altro se non le due interpreti, vestite di una tunica corta di cotone scuro. Scalze.

La personalità complessa e non canonica di Patrizia Birolo, il suo immaginabile vissuto deprivante, il suo corpo rotondo, poco istituzionale eppure così interessante, intriso di vita e segnato, per un verso. La nota e indescrivibile, longilinea eleganza di Antonella Bertoni dall’altro.

L’intelligenza delle due donne inizia un gioco fin dall’inizio, un gioco la cui trama risiede in una sorta di percorso iniziatico all’arte coreutica che la seconda vorrebbe rendere alla prima. Ovviamente, come in tutte le storie di confronto con il disagio, si capisce come poi, nell’evolvere dell’allestimento e verosimilmente anche di quella che fu la fase di preparazione allo stesso, le parti spesso di invertono, i ruoli si capovolgono, come avviene proprio dal punto di vista fisico anche nel duetto.

Lo spettacolo ha una sorta di unconventional ouverture, con le due che per riscaldarsi e quasi preavvisare il pubblico, entrano in scena in modo familiare per un riscaldamento di voce e corpo. In realtà questo presunto riscaldamento dura poi tutto lo spettacolo perché, al di là delle luci che si abbassano, lo spettacolo vero e proprio è un sequel organico del riscaldamento, con movimenti, imitazioni, tentativi, voli goffi e voli leggeri, ironia sull’arte scenica, attraverso lo sguardo forse non del tutto consapevole di Patrizia ma che, proprio in quanto tale, incorpora la crudeltà del fanciullo che grida “Il re è nudo”.

Nella performer che trascina inginocchiata un asse di legno per il palcoscenico nel senso della longitudinalità si coglie quasi il portato, il riferimento diretto ad una via crucis, ad una salita al Golgota.
E sulle note della Petit Messe Solennelle di Rossini e del bellissimo Kyrie con quel dialogo magico e così raro fra pianoforte e armonium, la simbologia dell’innocenza, dello sguardo diverso ma forse più acuto, prosegue e si sviluppa a questo punto per una più chiara volontà registica, allorquando viene introdotto, nella seconda mezz’ora di spettacolo, un riferimento al simbolo protocristiano dell’agnello salvifico e al contempo sacrificale.

Il tavolino si muta in altare, e in un paio di dissolvenze luminose e sovrapposizioni iconografiche, la ragazza diventa per analogia “la pecora nera” chiamata dalla società ad una faticosa e impossibile scalata verso un orizzonte cui evidentemente non arriverà mai. E così la sagomina della pecora nera rimane a mezz’aria, poggiata sull’asse che dovrebbe portarla in cima al tavolino, dove la aspetta tutto il gregge “bianco”, proprio come il personaggio protagonista di Novecento di Baricco, che resta a metà nel tentativo di scendere dalla nave che lo ha ospitato per tutta la vita.
Qui la simbologia è un po’ rovesciata ma il senso d’irrimediabile sospensione, incomunicabilità e impossibilità di condividere con il resto del consesso umano è lo stesso.

Il dialogo fra le due donne, i due esseri umani, le rispettive fragilità che la trama spettacolare è capace di mettere in giusta luce, sono la parte sicuramente più interessante dell’allestimento, che di ciò si nutre e in ciò trova alimento.
La simbologia su cui la regia ragiona, appare, a lungo andare, inutilmente insistita, in alcuni accostamenti perfino didascalica, e toglie poesia proprio perché accosta in sillogismo diretto e prova a dire in forma esplicita, come se il regista reclamasse per il suo occhio una presenza che nel duetto e nel dialogo fra le due donne in fondo non c’è e di cui fondamentalmente, per certi versi, per questi versi, non si sente necessità.

Insomma, in nessuna altra arte come nella danza l’esigenza di aggiungere segni e simboli ai corpi diventa ancillare. Proprio per la particolarissima presenza scenica di Patrizia, la pecora nera, ad esempio, diventa accostamento superfluo (e quindi in quanto tale facilmente eliminabile), introducendo una lettura che non dialoga alla stessa limpida altezza con quanto si scambiano le due protagoniste e con ciò che, per parte loro, sono in grado di costruire. Oltre le parole, oltre i segni, oltre le sovrastrutture del gregge di pecore bianche di cui facciamo parte.

Foto dell’articolo Santa Castignani
Qui un video dello spettacolo
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=E_E_wv2vP4g]

Tricher 3: lo sferzante smascheramento dell'ipocrisia di Mo.Lem

tricher3VINCENZO SARDELLI | Che differenza c’è tra non dichiarare la verità e mentire? Tra l’accontentarsi di pubbliche verità e l’adagiarsi su private menzogne? È questo l’input da cui parte “Tricher 3_Non dire falsa testimonianza”, spettacolo selezionato per il Napoli Fringe Festival 2013, che i torinesi di Mo.Lem (Movimento Libere Espressioni Metropolitane) hanno portato in scena a Zona K a Milano.
“Tricher” è un work in progress sulla testimonianza, sulla ricerca dell’obiettività, sulla coerenza e sulla libertà espressiva.
“Tricher” è un verbo francese che significa “barare, imbrogliare, truffare”. Percepiamo subito l’inganno e la menzogna evocati dal titolo, ancor prima di entrare. Le quattro attrici sono erinni che selezionano in un surreale ceck in gli spettatori: li schedano, prima di introdurli in sala secondo un ordine arbitrario, preludio a un qualche timido coinvolgimento nella pièce.
La scenografia è assente: la costruiranno gli attori con la loro performance fisica, con una mimica icastica e variopinti oggetti che porteranno con sé. Anche le luci colorate, con il loro sottofondo ombroso, creano la scena.
Sipario: le erinni si sono trasformate in sexy-bambine. Chiara Cardea, Roberta Maraini, Silvia Mercuriati, Elena Pisu occupano lo spazio recitativo volteggiando chiassosamente con un quinto attore, Salvo Montalto, che sciorina un aeroplano giocattolo. È un continuo rimpiattino tra fiaba e cinismo, suggestioni oniriche e cruda menzogna. Gli attori sono palloncini sospesi debolmente oscillanti, ballerine-carillon, personaggi di fiabe, bimbi sognatori.
Anche la favola cela la menzogna, Cappuccetto Rosso rivela retroscena macabramente osé; Babbo Natale è una trovata per narcotizzare il cervello. La violenza però, anche nel Cappuccetto noir-erotico, non è mai esibita: è sempre simbolica. Si esprime attraverso un cartone infilzato con punteruoli. Del resto una bugia vale l’altra, e le invenzioni ingenue che seducono i bambini sono meno dannose delle menzogne degli adulti. Come certi genitori, che hanno sempre un motivo per inibire l’infantile naturale impulso a esplorare, esplorarsi, crescere.
La fiaba si tinge di giallo. Le luci eclissano. Rintocchi pesanti evocano il panico. L’uomo nero bussa alla nostra ipocrisia: è il nostro ventaglio di fobie, l’extracomunitario, l’ossessione di perdere le nostre certezze, il terrore che Equitalia ci lasci in mutande.
La paura costruisce muri. Come quello che continua a crescere in Palestina, e segrega un popolo e una nazione. La realtà irrompe come uno squarcio nello spettacolo: normalmente è un collegamento Skype da Nablus, stavolta è un’intervista proiettata sullo schermo. Ma a essere esibita è la nostra cattiva coscienza, che assume il colore rosso-sangue di una delle guerre sporche a cavallo tra due millenni.
Poi c’è l’ipocrisia della burocrazia asfissiante, delle truffe bancarie, dei piedistalli di funzionari pignoli che offendono la nostra dignità persino quando restituiamo un libro preso in prestito in biblioteca.
La nostra felicità si basa sulle sofferenze altrui. Ogni oggetto in scena è ambivalente: i libri danno la conoscenza che crea potere che degenera nell’arroganza; una bandiera può creare identità ma anche divisione; un aereo può diventare un cacciabombardiere; un cilindro può diventare un candelotto; un gessetto crea giochi o confini.
Il magico mondo infantile si frantuma: le bambole deflagrano in automi, fino alla dissoluzione. Non resta che distruggere la scena. L’epilogo è un’apotropaica litania: “prometto di dimenticare quello che ho visto e di ricominciare da qui”. Ammonisce a non confondere realtà e rappresentazione della realtà, a costruire un nuovo inizio.
Cala il sipario sulle note di “Non insegnate ai bambini” di Giorgio Gaber.
Nell’esibita disarmonica giustapposizione delle scene (il coordinamento registico è di Marco Ivaldi, Marco Monfredini e Francesca Tortora) lo spettacolo segue un filo logico di domande, forse con un tantino di luoghi comuni nelle risposte e qualche ovvietà nell’accostarsi a temi come l’omosessualità e il perbenismo bempensante e credulone che, immancabilmente, viene fatto coincidere anche con la religione.
Troppa carne al fuoco? Forse. È questo l’appunto più serio che si può muovere a una regia fantasiosa, capace di valorizzare le abilità recitative e coreografiche degli attori, ma che deve proteggersi con accortezza dagli eccessi-zibaldone per concentrarsi su uno stile comunicativo più solido ed essenziale. Così che anche il pubblico, che pure non è avaro di applausi a fine spettacolo, capisca con più chiarezza se, quando e come debba lasciarsi coinvolgere nella performance le varie volte che viene chiamato in causa.

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Mondocane#3 – Il rovescio di Agassi

fotoMARAT | A un certo punto Andre Agassi non vince più. Ha perso entusiasmo lo scugnizzo di Las Vegas. La risposta supera l’incrocio delle linee, il rovescio a due mani finisce in rete. Questione di vizi, donne sbagliate, manager che han rotto le balle e quel concetto che racchiude un mondo: nessuna gioia per una vittoria è pari al dolore per una sconfitta. Insomma, il guappo col parrucchino ha un che di esistenzialista. Così molla tutto e ricomincia dai tornei universitari. E risorge. Comunque Agassi mi è venuto in mente pensando alle recenti chiacchierate sullo stato dell’arte. Dove a raccontare del mondo del teatro c’erano i soliti amici: vecchi assessori, nuovi assessori, vecchi direttori di stabili (di quelli non ce ne sono di nuovi), vecchi professori universitari (idem), rivoluzionari istituzionalizzati. Radical-chic inchiodati alle poltrone, nel curioso ruolo di dar voce a problematiche popolari. Già. Oppure grillini teatrali de noantri, che ancora non si capisce bene come possano unire le istanze dei Lavoratori dell’Arte con la gestione da ragazzini di un qualsiasi centro sociale. Retoriche varie, slogan di più di mezzo secolo fa, velleità post-sessantottine. E io che pensavo ad Andre Agassi. Non so perché, come diceva Raz Degan. Forse sono fatti miei… O forse perché mi saliva quel bisogno di un passetto indietro, di respirare con più agio. Di sentirsi assumere parte della responsabilità delle cose, che non è che cada tutto maledettamente dall’alto. Un passetto indietro magari a fianco di impiegati e tecnici, quelli che non parlano mai. Oppure a fianco di chi fa i salti mortali per pagare tasse e contributi, mettere lo spazio a norma, trovare finanziamenti senza taroccar le carte. Un passetto indietro per fermarsi e ricominciare. Invece no, la solita logorrea di giacobini in camicia botton down. Anche se bisogna ammettere che si vestono meglio. Perché diciamolo una volta per tutte: i pantaloni nepalesi non faranno mai bene a nessun tipo di causa. Manco a quella dei nepalesi.

Che ridere, morire!

Oibò foto M_AchilliELENA SCOLARI |  Oibò sono morto è il bel titolo dello spettacolo prodotto dalla Compagnia Donati/Olesen per I Teatri del Sacro di cinque anni fa, con Jacob Olesen e Giovanna Mori, autori e registi del lavoro. Ci troviamo per vederlo al PalaBachelet di Oggiono – Lecco, uno degli spazi utilizzati per la rassegna provinciale Circuiti Teatrali. Citiamo il luogo di rappresentazione perché tutti gli spettatori presenti lo ricorderanno come un luogo “allarmante”…: lo svolgimento è infatti stato bruscamente interrotto dall’antifurto, partito a sorpresa e rimasto ostinatamente inarrestabile per alcuni minuti, vogliamo per questo attribuire una lode particolare ai due interpreti che, lontanissimi da alcune bizzose star del mondo teatrale, hanno professionalmente sospeso e poi ripreso lo spettacolo per portarlo a termine, offrendo un importante esempio di serietà e rispetto per il pubblico.

Lo spettacolo è esilarante. Ispirato agli scritti di due autori scandinavi, Arto Paasilinna e Jan Fridegard, racconta con tenera leggerezza che cosa ci potrebbe succedere dopo morti. Uno sciocco incidente stradale pone fine alla vita del protagonista che… si era voltato distrattamente per guardare il bel sedere di una donna, un atto vitale e godereccio provoca la dipartita. Da questo momento il personaggio vede il suo mondo senza essere visto e scopre una quantità di cose inaspettate: l’annosa intesa della moglie con il suo migliore amico, un funerale con pochi presenti che si rivela essere proprio il suo e altre buffe situazioni descritte con grande ironia. Irresistibile la stesura del necrologio da parte della vedova.

Chiediamo a Jacob Olesen, artista da sempre concentrato a farci ridere, il motivo della scelta di un tema “antipatico” come la morte per il suo spettacolo:

“Ho voluto affrontare un argomento difficile attraverso lo strumento che più mi è congeniale: l’ironia. Mi è piaciuto l’atteggiamento leggero ma profondo che i due scrittori nordici hanno ispirato a me e Giovanna Mori per parlare della morte. Trovo che  si possa riflettere molto sul senso della vita rendendo sereno il pensiero della fine”.

PAC : “Possiamo dire che Oibò son morto è in realtà un inno alla vita”?

Olesen: “Sì, certo! La causa della morte del protagonista è già una dichiarazione in questo senso: si può morire per una sciocchezza, per un gesto divertito e superficiale, in un certo senso però la vita continua, le emozioni del personaggio non si interrompono e anzi lo spingono ancora verso il sentimento. Nelle sue incursioni nel mondo dei vivi si innamora di una donna e aspetta che muoia per conoscerla nello spazio dell’aldilà che ora abita”.

PAC: “Questa donna è interpretata da Giovanna Mori, che ha un modo di stare in scena molto diverso dal suo: in lei c’è tutto il sapere clownesco, il movimento della scuola europea di Lecoq, c’è una scelta precisa dietro questi due caratteri”?

Olesen: “Sì, io recito con tutto il corpo, mi agito anche più del dovuto, proprio per accentuare le nostre opposte caratteristiche: Giovanna si muove pochissimo,  usa quasi solo le mani, in maniera impercettibile e concentra l’essenza dei personaggi nella particolarità del suo recitare misuratissimo e carico di arguzia”.

PAC: “La coppia scenica infatti funziona bene grazie a questo evidente contrasto. C’è molta sorpresa, presso il pubblico, davanti ad una recitazione così originale, si ha l’impressione che le parole nascano naturalmente mentre Mori le recita”.

Olesen: “Abbiamo scritto insieme il testo dello spettacolo e questo ha permesso a entrambi di cucire le parole addosso ai personaggi ma anche addosso al nostro modo di stare sul palco”.

PAC: “L’allegra coppia di defunti, una volta ambientata in questo nuovo spazio trasparente, si prende a cuore un’altra coppia, aiuta un uomo e una donna anziani ad avvicinarsi. A questo punto indossate delle maschere: è solo per distinguere i caratteri”?

Olesen: “Senza addentrarmi in letture psicanalitiche posso dire che le maschere aiutano anche a rendere più universali i due personaggi, le due anime sono tutti noi, e ogni spettatore ci si può ritrovare. Il nostro intento è raccontare con umorismo una situazione drammatica che assume toni di grande divertimento grazie ad una tenerezza leggera. I due vecchietti con le maschere fanno un balletto sulla musica degli Abba, c’è un effetto di buffo straniamento fino alla fine”.

Il divertimento sincero del pubblico conferma la riuscita dello spettacolo, poetico e molto molto divertente. Due ottimi interpreti per un soggetto che sa parlare della morte attraverso la risata, la manifestazione più umana della vita.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=MIz_BAhFMS8]

Una prima per Emanuel Gat al Théâtre de la Ville

GAT - peiteANTONELLA POLI | Si tratta di una prima per Emanuel Gat al Théâtre de la Ville, un appuntamento importante di fronte al pubblico esigente del teatro parigino, tempio della danza contemporanea.
In programma Brilliant Corners, balletto creato nel 2011 per il Festival di Montpellier.
Quest’opera esplora le possibilità di comunicazione fra gli individui, il desiderio allo stesso tempo di unirsi e di separarsi per riconquistare la propria libertà: i danzatori dall’inizio alla fine si scambiano sguardi ammiccanti, si avvicinano e si allontanano senza fratture e ciascuno con la propria gestualità. Anche i duo, ove il sentimento d’unione si manifesta in tutta la sua forza, diventano occasione di separazione dopo alcune sequenze eseguite all’unisono dai protagonisti.
Il linguaggio coreografico é molto ricco, lo stile fluido. Vanno apprezzati per la ricchezza di tutti i dettagli lessicali impiegati.
Il coreografo inventa per i nove danzatori in scena movimenti singolari, ciascuno danza la propria coreografia e questa ricchezza fa comprendere tutta la profondità del lavoro coreografico valorizzata dalla fluidità dei gesti che permette di creare quadri successivi omogenei.
Come lo stesso Emanuel Gat afferma, l’attitudine che bisogna avere di fronte a Brilliant Corner per cercare di comprenderla si sintetizza nell’interrogativo «why does it look the way it does?» piuttosto che in « what will it look like » o «how do I want it to look?».
La differenza di livello evidenziata tra questi due differenti approcci ci mette di fronte a tutta la complessità di questo balletto che ci emoziona anche per la sua semplicità.
L’accompagnamento musicale é firmato dallo stesso coreografo, una composizione astratta di suoni che guida i danzatori senza divenire l’elemento ritmico predominante. Tralaltro ricordiamo che Brilliant Corners é il titolo di una composizione di Thelonius Monk del 1957, anche se le due opere musicali non hanno alcun punto in comune salvo la metodologia adottata dai due artisti nel processo di creazione : il musicista s’interroga sull’effetto del mélange dei suoni e il coreografo sull’amalgama dei movimenti necessaria a creare una composizione omogenea ed equilibrata.
Questa prima parigina é stata senz’altra un successo per Emanuel Gat ma un dubbio sussiste : il tono di quest’opera rimane lo stesso per tutta la sua durata come anche il suo significato, non ci sono evoluzioni. Quindi non potrebbe tutto ció annoiare il pubblico ? Il dibattito resta aperto anche se inevitabilmente va riconosciuto il buon livello di ricerca coreografica.

Ecco un video per i lettori di PAC
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=hLYes-EdlO4]

IRON MAN: una vita tra cuore e metallo

IronManALESSANDRO GUALANDRIS | In “The Avengers”, film campione d’incassi di Joss Whedon, Capitan America chiede a Tony Stark “Sei grosso con quella corazza ma senza, cosa rimane?” “Beh, vediamo – risponde l’eroe di metallo – sono un genio, un milionario, un playboy e anche un filantropo”. Una domanda simile è stata il pretesto per introdurre la conferenza stampa per i 50 anni di Iron Man tenutasi al Cartoomics 2013. Filippo Mazzarella s’interrogava con Stefano Bethlen, Head of Theatrical Distribution & Marketing The Walt Disney Company, se sia l’uomo a fare la macchina o la macchina a fare l’uomo. Sembra quasi un trattato di bioetica filosofica. Ma non stavamo parlando di fumetti?

Il personaggio di Iron Man, fin dalle sue prime apparizioni, ha subito evoluzioni meccaniche molto evidenti, descritte e portate in mostra proprio alla convention milanese appena citata, ma la componente umana del personaggio di Tony Stark è sicuramente la più affascinante. Miliardario redento al bene, durante la sua lunga carriera passa ogni travaglio che la vita umana riserva: la morte di affetti cari, la caduta nel vizio dell’alcolismo, la responsabilità di ciò che ha seminato e le conseguenze di un passato da venditore di morte.

Se l’armatura indossata nei primi anni di attività sembrava una deriva fumettistica del robot del Mago di Oz, la crescita tecnologica del mondo ha imposto design sempre più accattivanti e definiti: ovviamente ciò che poteva sembrare all’avanguardia nel 1963, anno della sua prima avventura nel mondo Marvel, non poteva esserlo anche nel 1970, figuriamoci nel XX secolo (qui potete trovare un esauriente elenco di tutte le armature apparse nei 50 anni di vita dell’eroe) . D’altra parte, non si tratta di un costume, di una calzamaglia, alla quale si può semplicemente cambiare colore o il taglio della maschera. La scelta di creare un percorso storico per seguirne le evoluzioni, è stata il fulcro della mostra presente al Cartoomics, nella quale erano esposti diversi elementi presi dai film, ma anche riproduzioni fedeli delle oggettistiche legate più esplicitamente al fumetto.

Ma, come dicevamo prima, macchina o uomo? La scelta di Robert Downey Jr come versione “fisica” di Tony Stark è stata sicuramente azzeccata, al di là della bravura dell’attore nel calarsi nella parte, per sottolineare quel concetto che sta alla base del personaggio: Tony Stark stesso è una maschera. La sua superficiale arroganza, la sua misantropia e le continue battute sarcastiche, nascondono il dramma di un uomo che è costretto a vivere con pezzi di metallo che possono liberamente scorrergli nelle vene, se non fosse per un cuore artificiale, da lui stesso creato, che li raggruppa per non disperderli e ucciderlo. Si tratta di un super eroe che ha un handicap di partenza micidiale, una spada di Damocle sempre pronta a cadergli in testa.

A questo punto l’armatura non è altro che un mezzo per sfogare rabbia e frustrazione, generati da un senso di colpa dovuto al suo passato e alle responsabilità di scelte non sempre ponderate. Non dimentichiamo che all’inizio delle sue avventure Iron Man era un combattente del comunismo e fu rilanciato negli anni 70 per sostenere la guerra in Vietnam. Con il passare degli anni e con la libertà post maccartismo di scrivere sceneggiature più audaci, la figura dell’eroe è cambiata e le problematiche psicologiche sono diventate un nuovo pretesto per calare Tony Stark in una dimensione più umana.  Ed è qui che arrivano i film della nuova generazione.

tonyL’universo Marvel visto in celluloide è leggermente diverso da quello presente nelle pagine dei fumetti, ma lo spirito e i toni sono quelli raggiunti dai volumi degli ultimi anni. Con i primi due film targati Jon Favreau, sono state narrate le origini e le prime scorribande dell’eroe con uno sguardo ai primi problemi con l’alcool e i difficili rapporti umani che Tony Stark non riesce a mantenere. Tuttavia la comicità e la leggerezza della narrazione permettono di non scendere troppo nell’analisi psicologica del personaggio, godendosi esplosioni a tutto volume al ritmo degli AC/DC. Dopo The Avengers, la Marvel partirà con la fase due del progetto cinematografico, portando all’estremo quelle conseguenze generate dalla quasi invasione aliena, fermata in tempo dal gruppo di eroi (ecco invece il cofanetto della Fase 1). Nella vita del miliardario in armatura entrerà la figura del Mandarino e dai trailer del terzo capitolo diretto da Shane Black visti negli ultimi mesi, è facile intuire un declino più cupo e drammatico. Giustamente in linea con le vicende di carta, dove la crisi dell’uomo postmoderno, privo di certezze, si rispecchia nei super eroi.

In fondo, dietro ad una maschera, di metallo o di pezza, c’è sempre un uomo.

Vi lasciamo con due video: uno direttamente realizzato durante il Cartoomics con foto e riprese della mostra dedicata a Iron Man; l’altro con il nuovo trailer de “Iron Man 3” in uscita il 24 aprile.

Stay Tuned on PAC

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[youtube http://www.youtube.com/watch?v=Pz1aiadrOTE]

La Londra dei grandi attori

Quartermaine’s Terms GINA GUANDALINI | A Londra l’offerta più ghiotta resta sempre quella teatrale. Tra musical, prosa, tragedia, avanguardia, non passa una settimana che non ci sia una “prima” di qualche interesse, con pubblico sempre al completo, competente ed entusiasta.
Anche chi non ama particolarmente il comico Rowan Atkinson deve ammettere che una delle prove attoriali più convincenti della stagione la sta dando lui, al Wyndham Theatre, ogni sera; a sala strapiena.
è una commedia di Simon Gray che conta ormai più di trent’anni. Il titolo ha un doppio significato: “ i trimestri di Q.”, un professore più o meno negato all’insegnamento in una scuola per stranieri, e “le condizioni, i punti di vista di Q.”. Mr. Bean è qui un docente molto più a suo agio in sala professori, anzi incollato alla poltrona, a interagire con superiori e colleghi, che in classe.
Non che gli altri siano modelli di aggiornamento o efficienza: tutti hanno problemi e frustrazioni, e si parla molto di assenti, come è nello stile di Gray. Siamo ai primi degli anni ’60, in una Londra polverosa dove si fuma accanitamente e si tace spesso. Atkinson tiene molto bene sotto controllo le smorfie, i tic e i manierismi che lo hanno reso un personaggio da cartone animato, ed entra nello spirito dell’autore, che è un piccolo Cechov di fine Novecento.

Rupert Everett torna nel West End recuperando e dando credibilità al play di David Hare sugli ultimi anni di vita di Oscar Wilde, Judas Kiss. Nel ’92, all’Almeida Theatre, con protagonista un Liam Neeeson alla vigilia del balzo cinematografico di Schindler’s List e una regìa pesante, il testo era risultato lento e non convincente. Adesso, quest’uomo obeso e amareggiato, martirizzato dal viziatissimo giovane aristocratico Lord Douglas nel corso di un vagabondaggio tra Londra e Napoli, è una ricreazione sorprendente. I critici hanno rispolverato compatti il cliché secondo il quale se un attore è nato per interpretare un ruolo, questi è Everett come Oscar Wilde. Ma nell’insieme, la prova è di trasformismo: si stenta a riconoscere il guizzante attore leggero che le scene londinesi ben conoscono. Infatti Hare, commediografo e sceneggiatore cinematografico di lunga esperienza (Fanshen, Plenty, Il mistero di Weatherby, Il danno, The Reader) ha resistito all’idea di riproporre per l’ennesima volta il brillante lanciatore di epigrammi e paradossi, per disegnare invece l’artista disfatto e oppresso dall’ostilità sociale, dalla morte incombente, dalla delusione di non essere amato; e Rupert Everett si ritaglia un personaggio indimenticabile. Freddie Fox, figlio del veterano attore James, è un bel ragazzo qui biondissimo e capriccioso, ed è perfetto negli eleganti panni dell’isterico “Bosie”.

L’ultimo film della serie di James Bond, Skyfall, che tuttora richiama un bel po’ di pubblico nei cinema londinesi, porta chiaramente avanti anch’esso il discorso teatrale: contiene infatti un “passaggio di consegne”. Dai tempi di Goldeneye la veterana del palcoscenico Judi Dench si è assunta per sette film il ruolo del “capo” di Bond, chiamato “M”. L’idea di assegnare un ruolo così maschile e decisionista a una donna ha avuto successo. La Dench fu portata alla notorietà mondiale nel 1960, a quindici anni, dal nostro Zeffirelli, che la volle come infantile Giulietta nella sua rivoluzionaria messa in scena di Romeo and Juliet a Stratford-on-Avon. Ha poi proseguito con una carriera, nel teatro di prosa e anche nel cinema, di altissimo livello, alla pari con Maggie Smith e Joan Plowright. Adesso, in Skyfall, muore uccisa dal cattivo di turno, e il ruolo di “M” torna ad essere affidato a un uomo: viene preso in consegna da Ralph Fiennes, che qui è l’ammiraglio Gareth Mallory. Ecco assicurata una occupazione fissa per il futuro al nostro mellifluo ed elegante attore britannico, ormai più che cinquantenne: e ormai sempre in oscillazione tra film d’azione, in cui appare lievemente sprecato ai patiti del palcoscenico, e ruoli teatrali introspettivi.

Nel video che proponiamo Rupert Everett parla dell’opera “Judas Kiss”
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Se i dati concreti non bastano a parlarci dell’anima: Deflorian-Tagliarini di nuovo a Roma con il dittico “Rzeczy/Cose” e “Reality”

Reality foto di SILVIA GELLILAURA NOVELLI | Una donna come tante. Una vita come tante. Trascorsa a Cracovia tra gli anni Venti del ‘900 e il 2000. Un marito internato in un campo di concentramento e liberato alla fine della seconda guerra. Due figli. Un matrimonio dissoltosi con un abbandono. Solitudine. E un segreto così intimo e sorprendente da essere stato carpito solo dopo la morte: per ben 57 anni Janina Turek – questo il nome della donna – ha meticolosamente annotato su 758 taccuini divisi per argomento i “dati” della sua vita. Sarebbe a dire: colazioni, pranzi e cene, regali ricevuti e regali fatti, visite ricevute e visite fatte, spettacoli teatrali visti, telefonate, programmi televisivi, incontri fortuiti, appuntamenti fissati. Migliaia di annotazioni che ricostruiscono, con geometrica precisione, il suo rapporto con la realtà, con la nuda e cruda concretezza del quotidiano, così come esso si è sviluppato nel corso di un’intera esistenza.
I quaderni, ritrovati dalla figlia della donna dopo la scomparsa di quest’ultima e poi pubblicati dal giornalista polacco Mariusz Szczygiel, sono diventanti il fertile terreno di riflessione e sperimentazione su cui si muovono da tempo Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, coppia di attori/performer già famosi per lavori come “Rewind” (omaggio a “Cafè Müller” di Pina Bauch) e “From a to d and back again” (ispirato al pensiero di Andy Warhol) che hanno dedicato al misterioso tesoro della Turek due produzioni diverse ma complementari: la performance “Rzeczy/Cose” e lo spettacolo “Reality”, entrambi in cartellone al Palladium di Roma nei giorni scorsi.
E se la diversità dei due lavori è cosa facilmente intuibile e deducibile, la loro complementarietà merita senza dubbio un discorso più ampio. Nel primo titolo vediamo, infatti, gli interpreti muoversi tra numerosi scatoloni di “cose”, quasi in uno scenario di trasloco in atto. Un trasloco che è il “nostro” trasloco. Oggetti di uso domestico, indumenti, libri che ci parlano di noi stessi, dei nostri ricordi, delle mille piccole faccende in cui spendiamo le nostre giornate, costruendoci quel fare, toccare, riporre, usare, che è poi il nostro esserci, il nostro tentativo di dare un senso al quotidiano, di giustificarne l’ingombrante necessità agli occhi nostri e di chi ci sta accanto. E’ forte qui, nella sua semplicità, il tentativo di lasciare al pubblico i silenzi e la lentezza di un’esperienza fruitiva del tutto personale (e, per certi versi, ci vengono in mente due romanzi della Nouvelle Vague francese come “Le cose. Una storia degli anni ‘60” e “La vita, istruzioni per l’uso” di Georges Perec).
Nel secondo titolo, invece, siamo spettatori chiamati a condividere domande importanti che si aprono nei vuoti, negli interstizi, nelle pieghe sommesse di quei 748 quaderni. Chi era realmente Janina? Perché ha sentito il bisogno di annotare tutta quella mole di dati? Cosa cercava mentre compilava quelle pagine? E’ possibile che da quei puntuali elenchi traspaia qualcosa dei suoi sentimenti, delle sue emozioni, delle sue paure? Migliaia di annotazioni oggettive bastano per ricostruire un’identità?
Non è un caso che l’interessante spettacolo, sorretto dall’ottima prova della Deflorian (Premio Ubu l’anno scorso proprio per questa interpretazione e per quella regalataci ne “L’origine del mondo” di Lucia Calamaro, dove tra l’altro la relazione fra mondo femminile e oggetti costituiva un elemento emblematico della drammaturgia), sia costruito proprio come una sorta di indagine biografica che usa la forma e le forme del teatro per costruire e subito dopo decostruire un possibile identikit della donna e dei momenti cruciali della sua esistenza. A partire proprio dalla morte, avvenuta in una strada di Cracovia, per infarto, mentre tornava a casa dopo aver fatto la spesa. E dunque: i due attori provano a morire nello stesso modo in cui presumibilmente morì Janina. Dirigono le loro azioni, le spiegano, le mettono in prova e in vita sotto gli occhi del pubblico azionando uno straniamento che, decontestualizzando gli avvenimenti, li fa balzare ad un piano di riflessione sulla loro rappresentabilità e, in ultima analisi, sulla loro veridicità.
Il momento in cui la donna prende la decisione di scrivere i diari, quello in cui reagisce all’abbandono del marito, i pomeriggi da anziana trascorsi davanti alla tv scandiscono altri passaggi significativi della sua vita. Ma, sembra volerci dire “Reality” (in replica il 12 aprile a Terni e il 20 a Casalmaggiore), questa ricostruzione in bilico tra fatti registrati e reazioni/emozioni solo immaginabili, tra esteriorità e immedesimazione (qui sta anche il nodo centrale di una prova attoriale non facile e certamente lodevole in entrambi i protagonisti), tra mondo concreto e ineluttabile fluidità dell’anima, possiede una trappola che ci fa inciampare nell’ignoto.
Forse insomma ben poco di quanto ha annotato Janina nei suoi straordinari quaderni ci serve oggi per parlare veramente di lei. Lo scrive lei stessa nelle cartoline che si mandava costantemente: “Ho vissuto o ho fatto finta?”. In fondo c’è qualcosa della Winnie beckettiana in questa donna dai contorni sfuggenti che sembra attaccarsi voracemente alla concretezza del reale per fuggire al terrore di essersi persa, di non ritrovarsi, di non sentirsi. La sporta di Winnie, con il suo spazzolino da denti, lo specchietto, l’ombrellino, funziona un po’ come la scrittura di Janina: un’ancora nel mare minaccioso e imprevedibile della vita. Ma anche questa è solo un’ipotesi. Una suggestione. Un’idea.

Links
www.realitydiario.tumblr.com
www.dariadeflorian.it
www.antoniotagliarini.com

Cosa rimane quando finisce l'amore

clotureBRUNA MONACO | Nel luglio del 2011, in occasione della presentazione di Clôture de l’amour al Festival d’Avignon, Pascal Rambert, autore e regista dello spettacolo, ha ottenuto una serie di importanti riconoscimenti. A soli due anni di distanza Clôture de l’amour è già stato tradotto in numerose lingue e ha esordito negli Stati Uniti in Russia e in Croazia. In dirittura di messa in scena anche in Germania e in Giappone. È arrivata a Roma, al teatro Vascello, la versione italiana di cui lo stesso Rambert ha curato la regia.
La scenografia è essenziale: una sala prova semi-vuota, bianca, una panca in legno, una sbarra per esercitarsi alla danza, le porte anti-panico sul muro che fa da fondale. Anna in jeans, maglietta e zaino in spalla entra dalla porta sul fondo seguita da Luca, anche lui in abiti casual. Gesti ed espressioni ci suggeriscono un’azione quotidiana: chissà quante volte prima di oggi sono entrati in quella palestra, stessa attitudine, stesso orario. Ma l’impressione di quotidianità è subito scalzata dalle parole di Luca: lo spettacolo è iniziato da meno di tre minuti e siamo già all’apice narrativo. Non ci sono preamboli né presentazioni: Luca dice ad Anna di non amarla più. Infranta l’impressione di quotidianità, ora tocca a quella di realismo. I nostri due protagonisti sono in piedi, uno di fronte all’altra, separati da un vuoto di pochi metri che si riduce a qualche decina di centimetri se Luca nella foga dell’attacco si avvicina alla compagna. Anna incassa immobile, ma i muscoli fremono. L’unica sua risposta, non verbale, sta nelle reazioni involontarie del corpo: le sopracciglia che vibrano, gli occhi che si arrossano di pianto, le spalle che si flettono sotto il peso delle parole di Luca. Gli addominali contratti tentano di sorreggere quello che fu un corpo ed è già una carcassa vuota che vorrebbe dissolversi per non subire più insulti e umiliazioni. Al realismo del contesto scenico si oppone il totale anti-naturalismo dell’azione: dura poco meno di un’ora il monologo di Luca e avrebbe potuto continuare a lungo, essere infinito il suo parlare e il silenzio di Anna. Nel testo non ci sono appigli per una fine. È un espediente drammaturgico a interrompere il flusso: un gruppo di bambini apre la porta anti-panico del fondo scena ed entra sostenendo di dover provare una canzone. Fronte al pubblico, il coro di voci bianche intona Bella di Lorenzo Cherubini mentre i coniugi, tesi e perplessi, abbandonano finalmente le postazioni mantenute per un’ora con un po’ di fatica e artificiosità. Camminano per la palestra, aspettano che giovani cantanti, finita la prova, educatamente salutino e ringrazino, escano. L’intermezzo è servito a ribaltare la situazione scenica. Ora Anna occupa il luogo scenico e drammaturgico che era stato di Luca, è il momento della replica. Simmetrica si ripete la dinamica della prima parte dello spettacolo: in un lungo monologo di circa un’ora Anna contrattacca. Luca in silenzio, incassa. Non sono recriminazioni per eventi o mancanze del passato quelle di Anna, riprende una a una le parole di Luca, risponde a ogni sua accusa denigrandolo a sua volta, dandogli del bugiardo.
E poi? Cosa resta? Parole, questo sembra dirci Rambert. La fine di un amore lascia solo parole vuote. Senza la passione, del vocabolario amoroso a cui dà vita una storia di coppia, non resta che una lingua morta. Se la struttura drammaturgica di questo Clôture de l’amour visto al Teatro Vascello è estremamente semplice e schematica, molto più ricercata è la lingua. I due protagonisti sono due intellettuali che hanno sempre rifiutato il linguaggio banale e sciatto della “gente”, espressioni vacue come “una vita rosa e fiori” o “stare fuori come un balcone”. Ma se il loro “noi” s’era creato intorno alla negazione di quel tipo di vocabolario, ora, con la fine della comunione e in qualche modo della comunicazione, non possono a farne a meno. Pascal Rambert infarcisce il testo di richiami meta-teatrali: Anna è un’attrice, Luca un regista. Vita privata e professionale si sono fuse al punto che nemmeno in un momento tragico e cruciale come la separazione riescono a dimenticare il proprio ruolo. Centrale è l’attenzione di entrambi al corpo dell’altro: “alza la schiena” “sta’ dritta”.
Un’operazione drammaturgica arguta, che si esaurisce però in se stessa, la schermaglia verbale non va oltre la constatazione di un fatto: smettere di amare è come, d’improvviso, smettere di capirsi. È una Babele, la fine. All’intuizione non segue molto, il testo finisce con l’essere un colto girare intorno a echi di Wittgenstein e struggimenti post-strutturalisti. E la recitazione dei due interpreti, soprattutto nella parte femminile (troppo esteriore e artificiosa), non aiuta il testo a superare se stesso.

Foto dell’articolo di Futura Tittaferrante

Alcune sequenze della versione francese dello spettacolo

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