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domenica, Settembre 8, 2024
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Il discorso del re

NICOLA ARRIGONI | Una riflessione sul linguaggio, la forza della parola teatrale che trasforma la realtà e in controluce la parola che salva dall’abisso del nazismo la civilissima Inghilterra: questo il sottotesto de Il Discorso del Re di David Seidler, portato all’onore sul grande schermo da Tom Hooper con cast stellare e in teatro da Luca Barbareschi. Il Discorso del Re è la storia di Albert, futuro Giorgio VI (Filippo Dini), che salì al trono dopo aver sconfitto la balbuzie grazie al logopedista Lionel (Luca Barbareschi), in realtà un attore australiano fallito. Il Discorso del Re è una storia di amicizia fra un attore e il futuro re d’Inghilterra, è la storia del fallimento attoriale di Lionel e della debolezza di Albert il Duca di York, sullo sfondo l’orrore della dittatura nazifascista e della guerra. Luca Barbareschi — regista, traduttore e produttore — risolve tutto ciò con uno spettacolo che grazie alle scene trasparenti e mobili di Massimiliano Nocente cerca un movimento che sfrutta il fascino dei cambi scena a vista e che si lega a tre parallelepipedi mobili alternati a video d’epoca che delineano gli spazi e il tempo, ovvero lo scenario storico dell’Europa alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. I disegno luci di Iuraj Saleri, così come i costumi di Andrea Viotti sono didascalici, forniscono i confini visivi di una scena che è racconto e memoria, un racconto emotivamente sottolineato dalle musiche di Marco Zurzolo. L’effetto è gradevole — all’inizio — ma anche un po’ prevedibile. Contribuisce a dare eleganza visiva ad un narrare che si sostanzia nell’intimità del rapporto d’amicizia fra un attore che non sa fare l’attore e un Re che non sa di poter essere sovrano di Inghilterra. In tutto ciò Filippo Dini è un Bertie prima impacciato e poi sempre più spigliato, grazie alla cura del suo logopedista e un po’ psicologo Lionel, una sorta di brutto anatroccolo destinato a diventare cigno. E tutto ciò si verifica per la sfrontata sicumera di quell’attore australiano fallito ma che non si rassegna alla passionaccia per il palcoscenico, nei panni del quale Luca Barbareschi sta bene, sguazza, eccede, ammicca, si prende il gusto del bel dire e della macchietta.
Il pubblico apprezza, ride, sorride, applaude i due protagonisti: Dini più dimesso, contenuto e Barbareschi capocomico affamato di ribalta ed eccessivo. Intorno ci sono i comprimari: Astrid Meloni, Chiara Claudi, Roberto Mantovani, Ruggero Cara, Mauro Santopietro, Giancarlo Previati che altro non sono che funzioni caratterizzate di un rapporto a due fra l’attor mancato e il re svelato…. Ovviamente tutto ne Il Discorso del Re è chiaro, detto, spiegato con la recitazione, con i video, con i costumi, nessuna fatica per uno spettacolo che si svela in tutte le sue parti che sottoutilizza le sue potenzialità drammaturgiche, le fa galleggiare nell’aria in nome di un intrattenere con garbo e compiacenza. E allora anche il pensare al film di Tom Hooper è esiziale, non serve e non solo perché non c’è confronto possibile fra due linguaggi diversi, ma anche perché la stessa parentela testuale è lontana, ininfluente.
Il discorso del re di David Seidler, traduzione e regia di Luca Barbareschi, con Luca Barbareschi, Filippo Dini, Astrid Meloni, Chiara Claudi, Roberto Mantovani, Ruggero Cara, Mauro Santopietro, Giancarlo Previati, scena Massimiliano Nocente, costumista Andrea Viotti, light designer Iuraj Saleri, musiche Marco Zurzolo, produzione Casanova Multimedia, al teatro Ponchielli di Cremona, 20 dicembre 2012.
Un video promo dello spettacolo
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Raud Al Atir, ovvero l'arte araba d’amare

FRANCESCO MEDICI | In tutta la storia della cristianità, fin dalle sue origini, si coglie una certa diffidenza verso la sfera della sessualità e del piacere sessuale. Alcuni padri fondatori della Chiesa fanno, anzi, una convinta apologia dell’astinenza dai piaceri dell’amore e a tutt’oggi, per i cristiani più integralisti, l’amplesso (tra i coniugi) è solo tollerabile in quanto finalizzato alla procreazione. Se la posizione ufficiale della Chiesa cristiana odierna è generalmente più aperta, permane tuttavia, per esempio, l’obbligo del celibato per il clero cattolico.
Desta d’altronde un certo stupore – in primis tra i musulmani di oggi – sfogliare alcuni testi giuridici islamici del XIII e XIV secolo i cui autori affrontano senza censure la questione della sessualità, al fine di determinare ciò che, al riguardo, è lecito oppure no alla luce degli insegnamenti della religione di Maometto. Ponendosi, ovviamente, all’interno del quadro del matrimonio (l’Islam, come noto, vieta i rapporti extraconiugali e l’omosessualità), questi antichi testi parlano in modo esplicito di desiderio, preliminari e posizioni dell’amore, attribuendo primaria importanza alle aspettative e al piacere dell’uomo e della donna. In un detto riportato (hadith), il Profeta associa l’atto sessuale tra marito e moglie a un’elemosina, in quanto atto di adorazione dinanzi al Creatore.
La sessualità è dunque, per un musulmano, espressione del credente che accoglie, senza riserve né pregiudizi, ogni dono dispensato da Allah, nello spirito come nel corpo. Perciò approfondire le proprie cognizioni nell’arte di amare non è un’azione perversa o peccaminosa ma, al contrario, un dovere per tutti i fedeli. In altre parole, per l’Islam, che intende porsi come religione dell’equilibrio, un essere umano senza sessualità non è equilibrato, come non lo è chi pratica una sessualità illecita e sfrenata. Recita un altro hadith: «Colui che è in età di matrimonio è bene che si sposi; il matrimonio è il mezzo migliore per spegnere gli sguardi lascivi e domare i desideri carnali. Colui che non può sposarsi, digiuni: sarà per lui un calmante» (al-Bukhari, XXX, 10).
È dunque in quest’ottica che va letto “al-Raud al-Atir fi nuzhat al-Khatir” (“Il giardino profumato per la ricreazione dell’anima” o anche “Il giardino profumato delle delizie sensuali”), vero e proprio manuale di erotologia araba appena ripubblicato dalle Edizioni Mediterranee nella collana “Sapere d’Oriente”. Il curioso volumetto (scoperto, si dice, nel 1850 da un ufficiale di Napoleone III di stanza in Algeria e noto in Occidente a partire dal 1884 grazie allo scrittore francese Guy de Maupassant), commissionato dal sultano di Tunisi Abdul Aziz Hafsid, fu composto presumibilmente tra il 1410 e il 1434 da Abu Abdullah Mohammed Ibn Uma An-Nefzaui, insigne giurista, letterato e medico originario di Nefzawa (nell’attuale Tunisia). L’opera, evidentemente ispirata al “Kama Sutra”, ricorda a tratti gli “Amores” e l’“Ars Amatoria” di Ovidio, e mostra numerose affinità con il nostro “Decamerone” per la presenza al suo interno di diverse novelle argute e salaci.
Il testo, articolato in una ventina di brevi capitoli, descrive nel dettaglio le innumerevoli modalità del coito; presenta opinioni relative alle qualità che uomini e donne dovrebbero possedere per essere attraenti; fornisce suggerimenti sulle tecniche sessuali e sulle precauzioni relative all’igiene; prescrive rimedi per curare le malattie veneree, l’impotenza e la sterilità; riporta un gustoso elenco di appellativi per indicare l’organo sessuale maschile e quello femminile; offre consigli alimentari per favorire l’amplesso e accurati ragguagli sul concepimento e la gravidanza; vi è inoltre una sezione dedicata all’interpretazione dei sogni e al sesso nel mondo animale.
L’autore, a dispetto dei contenuti licenziosi dell’opera (famosa come “Le mille e una notte” e assai diffusa in molti Paesi arabi, ad eccezione dell’Arabia Saudita), tiene tuttavia a presentarsi al suo pubblico come un individuo molto pio, e di ciò fanno fede le ripetute invocazioni all’Altissimo di cui è costellato il suo piccolo capolavoro, come si evince dall’introduzione, straordinario inno di lode alla bellezza femminile: «Sia lodato Allah, che ha posto la più grande gioia dell’uomo nel grembo della donna e la più grande gioia della donna nelle parti corrispondenti dell’uomo. […] Sia lodato Dio per aver creato la donna con le sue bellezze, la sua carne evocatrice di delizie, per averla provvista di lunghi capelli, di una graziosa figura […] e di gesti d’amore che accendono la passione. Il Signore del Creato ha concesso alla donna il potere della seduzione; tutti gli uomini, deboli o vigorosi, sono stati assoggettati dal Signore all’amore per la donna. La donna è l’origine dell’ordine o dell’anarchia, del sostare o del vagabondare. […] Io, servo di Dio, Gli rendo grazie; che nessuno possa salvarsi dall’amore per una donna bella e nessuno possa sfuggire al desiderio di possederla».
A questa edizione italiana, sebbene poco accurata nella traslitterazione delle voci arabe e alquanto carente negli apparati critici (cfr. “Il giardino profumato: per la divagazione della mente”, a cura di Younis Tawfik e Roberto Rossi Testa, ES, Milano 2009), va comunque riconosciuto il merito di rendere perfettamente il sapore genuino dell’originale nel raccontare di un erotismo naturale e spontaneo, scevro di qualsivoglia malizia o spirito libertino.
Per quanto concerne i capitoli dedicati alle prescrizioni per accrescere le dimensioni del pene e ai rimedi astringenti della vagina, corre infine l’obbligo al recensore di rammentare ai lettori e alle lettrici che i consigli forniti dal buon sceicco Nefzaui non rivestono alcuna attendibilità scientifica e devono pertanto essere considerati come mere curiosità di carattere storico-letterario…
Mohammed An-Nefzaui, Raud Al Atir. Arte d’amare araba, Edizioni Mediterranee, Roma 2012, pp. 179, € 12,50.

Il teatro nel teatro di Giorgio Strehler

BRUNA MONACO | Un piccolo rialzo al centro del grosso palcoscenico del Teatro Argentina. Un palco sul palco, è così che Strehler cita Pirandello e mette il teatro al centro del suo spettacolo, fa meta-teatro. Senza elucubrazioni da filosofo, ma alla maniera pratica, visiva, da vero regista. Dal 1947, anno del debutto dello spettacolo, a oggi, si sono susseguite più di dieci versioni. Ognuna è l’evoluzione della precedente. Sono cambiate le scenografie, i registri recitativi, le maschere, gli attori, le atmosfere. Per Strehler l’Arlecchino servitore di due padroni è stato terreno d’elezione di una ricerca sull’attore e sul teatro. Un terreno fertile che ha dato negli anni frutti gustosi per palati raffinati, e non. Parlando di meta-teatro è sicuramente la versione del 1963 la prima a venire alla mente, quella denominata “edizione dei carri” (che vide per la prima volta in scena Ferruccio Soleri nel ruolo ufficiale di Arlecchino), rappresentata all’aperto nella Villa Litta ad Affori, vicino Milano. Ai margini della scena, defilati eppure protagonisti, campeggiavano due carrozzoni da compagnia di giro, di quelle in cui vivevano e con cui si spostavano i teatranti fra ‘400 e ‘700. Da quei carrozzoni uscivano gli attori che interpretavano il ruolo d’attori con una recitazione naturalistica, e una volta sul palchetto sopraelevato, la loro ribalta, si trasformavano negli esuberanti Arlecchino, Brighella, Florindo, Beatrice.
In quest’ultima versione vista al teatro Argentina la scenografia è modesta, stilizzata, vicina alle primissime edizioni: su un fondale che chiude sul retro il palchetto, scorrono come davanti a una finestra drappi dipinti: la casa di Pantalone de’ Bisognosi, la strada che dà sulla porta della locanda di Brighella, l’interno della locanda. Ma anche qui ciò che più balza agli occhi e pare interessante è quel che circonda lo spettacolo, la dimensione meta-teatrale: seduto ai bordi della piccola ribalta un suggeritore dialoga con gli interpreti della commedia goldoniana che per far vivere le maschere costringono anche il corpo e la voce a posture innaturali, nettamente extra-ordinarie. E questa differenza di registro interpretativo lo notiamo quando i “commedianti dell’arte” dal lavoro passano alla pausa: a scena finita, saltano giù dal palchetto, rilassano i muscoli, discorrono, si siedono, si insultano con fare naturalistico.
Gli attori sono eccellenti, perfetta la composizione dei quadri e sostenuto il ritmo generale dello spettacolo. Ma le voci arrivano flebili ai palchi di platea, alcune parti di dialogo sono incomprensibili e il piacere che viene dalla precisione e accuratezza di ogni dettaglio (dai costumi, ai movimenti alle luci) è in parte offuscato dalla sensazione che questo ennesimo Arlecchino servitore di due padroni sia un po’ sottotono. D’altronde sarebbe inevitabile il contrario: fra i tanti cambiamenti che hanno interessato lo spettacolo nel corso delle repliche e delle edizioni, c’è un’unica costante, Arlecchino, ovvero Ferruccio Soleri. Prima di lui solo Mario Moretti, l’Arlecchino melanconico e riverente che, morendo giovane, lasciò ereditare in fretta il proprio ruolo ad un allora giovanissimo Soleri che oggi, invece, a ottantatre anni, non si risolve a lasciare la scena e il ruolo di Arlecchino. È chiaro che negli anni e a furia di replicare in ogni parte del mondo uno spettacolo così fortunato e applaudito, il legame tra attore e personaggio si sia fatto indissolubile. Ed è vero che, nonostante la veneranda età, Ferruccio Soleri ha ancora una controllo del corpo e un’agilità invidiabili. È anche vero, però, che l’Arlecchino con cui Soleri ha conquistato e avvinto il pubblico internazionale era un acrobata dalla fisicità prorompente ed è forse questo il punto in cui si crea una crepa nell’identità attore-personaggio: può Arlecchino smettere d’essere un acrobata? Può Arlecchino smettere d’avere vent’anni e averne di colpo ottanta?
Il problema è che anche la drammaturgia si regge sul personaggio e che tutti gli altri attori, giovani e bravi, devono intonarsi al mattatore e tutto, così, si opacizza. Il problema è anche che in un paese come l’Italia in cui gli ottuagenari sono radicati ai posti di comando e non vogliono privarsene a nessun costo, lasciare gli eredi liberi di vivere ed esprimersi è anche un atto politico.

L’arlecchino servitore di due padroni nell’edizione del 1994:
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Ex Lavanderia, Torino – M. Levraggi

RENZO FRANCABANDERA | Dance Mania è il titolo scelto per la Stagione di danza 2012/13, quarta alla Lavanderia a Vapore – Centro di eccellenza per la danza di Collegno, un’efficace sintesi della passione del BTT per la danza e della volontà di proporre quest’arte ad un pubblico sempre più ampio. Dodici appuntamenti con compagnie e artisti nazionali e internazionali, astri nascenti del panorama coreutico e punte di diamante della scena mondiale.
Ne abbiamo chiesto a Matteo Levaggi, responsabile artistico di questo luogo magico, dopo il concerto del 6 dicembre di Michael Nyman, il Balletto Teatro di Torino, l’Ensemble Sentieri Selvaggi e l’Elise Hall Saxophone Quartet in un unico, straordinario spettacolo pensato e firmato per la coreografia, da Matteo Levaggi e prima dell’esibizione, prevista per il 20 pv di Megakles Ballet/Petranura Danza, compagnia catanese che porta in scena Ma-Shalai (20 dicembre), la dolce e selvaggia poesia siciliana con un tocco di ironia e di piacere.
In questi anni l’ex Lavanderia si è proposta come un centro di proposta culturale per la danza e le arti performative di calibro internazionale. Gli eventi di questi giorni ne sono testimonianza. Cosa ha permesso questo mix di sensibilità glocal? Quali sensibilità governano e indirizzano la vostra attività culturale?
L’interesse principale nella scelta delle compagnie presenti in stagione, è indirizzato verso quei coreografi che fanno della danza, della coreografia la loro prima materia di espressione. Dunque coreografi interessati al movimento, alla dinamica del corpo nello spazio, allo scorrere del tempo. Insomma, capaci di raccontare anche senza narrare una storia, ma creando una poetica coreografica personale e incisiva.
Come si è evoluto in questi anni il vostro lavoro? Qual è il ruolo avuto delle sponsorship private in questo? Può farci qualche nome?
Negli anni a partire dall’acqua LAURETANA, gli sponsor privati si sono accorti che qualcosa di interessante accadeva, che avevamo un pubblico e che avvicinandosi a noi potevano garantire con il loro contributo la buona riuscita degli spettacoli. Non ultima la sponsorizzazione di  Habitare&Karimedica per la serata Nyman.
E che rapporto avete con pubblico e territorio?
Direi che il pubblico è ancora in fase di formazione, quindi un rapporto in costruzione. La danza, a meno che non si tratti di balletto classico fatto in teatri di tradizione, di fenomeni commerciali o molto visibili a livello dei media è ancora indietro rispetto al teatro . La cosa interessante però è vedere che quando il pubblico va via da teatro, ha il sorriso e la voglia di tornare.
Quali sono gli eventi che ritiene interessante segnalare nel prossimo futuro che coinvolgeranno la struttura?
Sicuramente la prossima produzione del BTT firmata da me come coreografo,Sexxx, che vuole essere un’istantanea cosa è la danza oggi e che direzione deve prendere per continuare a vivere come forma d’arte. Sarà una coreografia potente e molto danzata (ci saranno le punte sia per donne che per uomini). Inoltre a maggio avremo Louise Lecavalier, star, negli anni 80, dei canadesi La La Human Steps e ancora oggi grande coreografa e danzatrice (uno degli ultimi lavoro che Nigel Charnock  ha creato è stato proprio per Lecavalier) Riuscite ad avere un orizzonte di programmazione pluriennale? State già guardando avanti?
Assolutamente! Con idee ambiziose e non solo per la danza.

La lingua contesa del Friuli

ANDREA CIOMMIENTO | “La Repubblica contesa” si fa punto di vista locale e universale grazie a un registro di comprensione accessibile e vicino al linguaggio della Commedia dell’Arte, foglio pregiato di tornasole della Civica Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe di Udine. È la scena a consigliarci una prima predisposizione del sentimento: palchetto in legno, quinte denudate e attori onesti nel loro fare fin dalle prime azioni. Gli allievi diretti da Claudio De Maglio raccontano a mo’ di canovaccio la storia rielaborata attorno al periodo “1617: dalla Guerra di Gradisca ai complotti d’Europa in Venezia” inserendo al suo interno stralci di getto contemporaneo in un canonico intreccio di repertorio da comici dell’arte: veleni e zizzanie a insaputa dei padroni, innamoramenti da ceto sociale affine, corpi attratti dall’istinto bilanciato nel proprio perineo. Gli attori masticano i luoghi prossimi alla visceralità di un popolo, o meglio, dei popoli incarnati da ogni maschera presente, che sia uno zanni, una servetta sarda o una balia friulana. Lo fanno rimescolando in taluni casi le carte proponendo anime geografiche differenti e ben riconoscibili (da esempio il Pantalone siculo e il suo vendere dolci e salati appetibili in tutta Venezia). È l’uso della maschera che trasfigura e si riappropria dei corpi, delle espressioni modellate e della voce emessa da ogni attore. Tra tutti gli allievi rendono lieta la nostra attenzione il primo Arlecchino che manifesta il suo essere padrone del movimento e dell’animo (agile e posato) e la balia friulana con il suo fare mai scimmiottante, presente al pragmatismo friulano con ingenua furbizia per niente sciatta, capace a nostra percezione di garantire la stessa qualità in ruoli ben più delicati e femminili.

La metamorfosi riesce didatticamente nella sua struttura da perfetto “manuale dell’attore comico” nel suo senso più canonico. Le uniche sbavature presenti riguardano la durata: quasi due ore per uno spettacolo dal retrogusto minimo di saggio sono azzardo, se non altro per la presenza di attori ancora in formazione accademica. Una simile scelta rischia di rivelare le toppe fallando il ritmo da tenere alto soprattutto in spettacoli di commedia. Anche l’uso del canto, nobile sia all’inizio che a conclusione, appare come un cassetto aperto e richiuso, poi nuovamente riaperto alla fine come spettacolo a sé in modalità stereo on/off. L’ultima esitazione riguarda il termine dell’allestimento liquidato in formula riduzionista, senza relazione con la profondità; per intenderci: l’idea di creare una comune di contadini in Friuli, con annessa battuta “mai dire mais” e una pannocchia come ultimo tesoro, tende a ridurre e non a impreziosire. “La Repubblica contesa” propone momenti brillanti che tirati nel tempo stridono, altri interessanti da rielaborare nella direzione della profondità.

Certamente encomiabile la scelta gestionale: inserire lo spettacolo in diversi cartelloni del circuito regionale è segno riconoscibile e pregiato della Nico Pepe di questi ultimi anni, garante di una formazione accademica aperta al mondo esterno grazie alla circuitazione di saggi/spettacoli nei teatri della regione, in festival come Avignone OFF e Mittelfest e alla collaborazione con altre scuole del panorama italiano come la Paolo Grassi di Milano. Una possibilità di crescita spedita al di fuori delle mura didattiche propria dell’agire teatrale senza deposito in sordina negli anni di studio. Certo è che una verità si fa segno irripetibile e costante in Friuli: la contesa vincente della lingua friulana. In questa occasione conclusa drammaturgicamente ad arancini, polenta e vino.

Novecento rom

rom-a-romaMARIA CRISTINA SERRA | In un mondo dominato dall’incertezza, in cui la percezione della sicurezza e dell’identità è garantita solo dalle costruzioni di steccati che confinano all’esterno tutte le possibili “diversità”, serve uno sguardo poetico per raccontare la verità. Se poi questa s’intreccia con la leggenda, si nutre di incantesimi raccolti intorno a focolari notturni, si misura con le vicende storiche del secolo scorso, per riportare alla luce memorie avvolte dall’oscurità, allora può nascere un grande romanzo popolare. Una volta entrati nel mondo dei “Figli del vento” e iniziato con loro “un lungo viaggio sotto le stelle dell’India e concluso tra i vigneti selvatici della Romania”, è difficile staccarsi dalle pagine del libro scritto da Sergio Pretto, “Novecento Rom”. La narrazione scorre fluida, limpida, coinvolgente; le storie di aprono e si chiudono senza confini; i personaggi sono abbozzati con la sottigliezza e la profondità, impastata di leggerezza e di sfaccettate trasparenze, che solo i veri narratori riescono a modellare. Al suo primo impegno come scrittore, l’autore arriva con un bagaglio di esperienza da giornalista economico alla RAI, di gentilezza d’animo mista al desiderio costante di volersi misurare con le vite degli altri, di spirito da eterno ragazzo e senso della sfida verso nuove avventure. Pretto ha vissuto per mesi in Romania, a stretto contatto con i Rom; ha condiviso le loro giornate e il loro cibo; è entrato nel loro sentire; ha ascoltato in silenzio i lunghi racconti e le millenarie memorie orali, incrociato voci e cercato riscontri nelle biblioteche. Poi, ha seguito l’ispirazione che gli saliva dal cuore e ha condensato tutto il prezioso materiale raccolto in un linguaggio letterario mutuato dalle suggestioni,oniriche e realistiche dalla tradizione latino-americana, per affabularci con una saga familiare che affonda le sue radici negli anni trenta e arriva ai nostri giorni.

Il libro inizia con “una ragnatela di parole”, che tessono insieme i ricordi lontani di un popolo costretto da un’antica profezia a una fuga senza fine, ai riti propiziatori intorno alla culla di Decebal, figlio di Simplon e Izvoranka, venuto alla luce nel1971 aTimisoara, in Romania, cuore zingaro d’Europa, che da lì a poco si sarebbe frantumato, disperdendosi fra le macerie “di una democrazia reclamata da migliaia di morti, una piattaforma di cemento incrostata di sangue e di segreti”. E’ con le pagine che ci trascinano nel flusso della rivolta popolare contro il regime di Ceausescu, nell’inverno del 1989, che si entra nel vivo della storia. I personaggi prendono forma in un gioco lieve di intrecci concentrici che si inanellano fra di loro, una catena di eventi dove anche le note drammatiche appaiono svuotate di dissonanze e di inutili asprezze, per elevarsi alte in una sinfonia corale perfettamente orchestrata. Le parole affiorano impastate di terra e sudore, lacrime e slanci d’amore, visioni profetiche e riti magici, piaghe sulla pelle e asprezze del dolore.

Un abbraccio carnale che mette da parte i pudori, per donarsi liberamente al lettore e spingerlo dentro i labirinti di una trama complessa, sull’onda delle emozioni, alla ricerca di immagini perdute, da riunire con un filo segreto che sciolga l’enigma per farsi metafora dell’esistenza. Le figure femminili spiccano per la complessità dei loro tratteggi e dei sentimenti che interpretano. C’è la passione verso i propri uomini, amati ogni notte in modo diverso “affinché l’abitudine non li sazi”; la nobiltà d’animo di Jonela, che chiede alla vita soltanto di esaudire i suoi sogni arditi, di essere libera di poter esplorare il futuro immaginato e troppo presto perduto, travolto dai fatti insensati della Storia; la forza e l’orgoglio di Grifina, che reprime le sue lacrime nel regno degli inferi di Auschwitz, che “non permetteva alcuna commozione e ai deboli non concedeva alcuna possibilità di vivere”. Sarà il desiderio di vendetta a sorreggerla e a tenerla in vita.

Anche nelle pagine più toccanti non c’è mai una caduta nel sentimentalismo, ma al contrario la forza del racconto nasce dalla crudezza melodiosa di un linguaggio che scava negli abissi dell’animo umano, per fare uscire bagliori di autenticità. Sono i dettagli, numerosi e descritti con minuziosa, istintiva sensibilità, a farci entrare in empatia con un mondo così lontano dal nostro, costruito su argini esistenziali e geografici ben definiti, permettendoci così di naufragare verso frontiere sconosciute, in cui il tempo avanza e retrocede e i confini sono strisce sottili che uniscono, invece di separare; dove anche l’orrore del Male lascia sul terreno i corpi dei morti, ma risparmia gli spiriti dei non-vinti.

Come un eroe epico, Ofiter, il re dei nomadi, si spinge oltre il buio delle tenebre. E’ schiacciato dalla violenza della “Notte dei cristalli” il 7 dicembre del 1941, che si abbatte in tutti i campi nomadi della regione di Craiova, “sconvolgendo il presente per distruggere il passato”. Durante la lunga marcia fra la neve, attraverso le strette gole dei Carpazi, verso l’annientamento del suo popolo “lerciume di razza inferiore”, stringendo al petto il cadavere della figlia più piccola, decide di rischiare l’impossibile per salvare la sua gente. “Dobbiamo agire”, pensò, “altrimenti si muore. Tutto il mondo prega, ma migliaia di morti sono figli della preghiera”. Fu così che dentro le tombe, scavate nella terra, insieme a chi soccombeva per la fatica e la malattia, furono nascosti donne e bambini, protetti da coperte e arbusti, sotto le croci piantate per segnare la “fragilità dei deboli”: e 2.161 anime, come per miracolo, si salvarono dai campi di concentramento.

Ogni istante del libro si schiude magicamente ad altri istanti, il sogno si incatena con la vita; sentieri imprevedibili ci sospingono a vagare attraverso l’Europa di ieri e di oggi, per scoprire labirinti sconosciuti, adagiati sull’orizzonte misterioso dell’infinito. L’inquietudine, la nostalgia, la dolcezza, il desiderio, il rimpianto, la paura, l’orgoglio, il coraggio, si rincorrono nell’universo rom, escono dalle pagine del libro per aiutarci a vedere le cose per come sono realmente, lasciandole fluire liberamente, oltre il rosa dei tramonti, per entrare nel fango delle periferie grigie. E allora si può meglio comprendere il significato del perché “la storia del mondo era stata percepita dagli zingari come un cerchio, in cui la fine coincideva inevitabilmente con l’inizio…sapendo che per cercare il futuro, bisogna andare verso l’ignoto oscuro, attraverso ciò che è ancora più oscuro e ignoto”.

Un’intervista all’autore in due parti su Radio Ies

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[youtube http://www.youtube.com/watch?v=SqJYUHfj82I]

Tutto Esaurito!

RENZO FRANCABANDERA | E’ stato un mese di teatro alla radio, un mese di programmazione dedicata al teatro, con serate in diretta, spettacoli delle ultime stagioni appositamente registrati per Radio3, frammenti di archivio, repertorio, radiodrammi originali e voci – interviste e commenti – dei protagonisti del palcoscenico. Tutto nel segno della scena contemporanea italiana e straniera.

Come e se possibile ancor più dell’anno scorso quando già per tutto il mese di novembre Radio 3 aveva dato spazio ai linguaggi della scena. Tutto esaurito! è stata una vera e propria rassegna all’interno del palinsesto di Radio 3, volta sa creare attenzione a nuove forme di fruizione dei linguaggi scenici.
Radiodrammi, pezzi d’archivio, nuove creazioni, grandi interpreti. Partito il 29/10 con Una lettura del Woyzeck dal Woyzeck di Büchner di e con Claudio Morganti, il programma della rassegna è continuato riproponendo vere e proprie gemme d’archivio fra le quali L’Arialda di Giovanni Testori con la regia di Giuseppe Bertolucci, per passare ai drammaturghi contemporanei, come Lucia Calamaro, Michele Santeramo, Sergio Pierattini, Andrea Cosentino e Laura Curino, terminando ven. 30 nov con Lo stupro di Lucrezia di William Shakespeare con adattamento e regia di Valter Malosti, che sarà ospite nei prossimi giorni a Milano a Teatro .
Ne abbiamo parlato con Laura Palmieri, che ha curato la programmazione insieme ad Antonio Audino.
Laura, che bilancio possiamo trarre quest’anno di Tutto esaurito! ?
Sicuramente la programmazione teatrale over size di Tutto esaurito ha attratto, sin dalla prima edizione, sia la stampa specializzata, che la “comunità teatrale” insenso ampio, ma soprattutto è stata recepita sicuramente come una novità positiva dal pubblico di Radio3, forse più affezionato, soprattutto nella fascia serale, alla programmazione musicale. La riproposta anche quest’anno di un mese di “teatro quotidiano” ha consolidato tra gli ascoltatori questo appuntamento, suscitando in numero assai maggiore interventi, commenti, ed anche richieste specifiche di ascolti teatrali (soprattutto per quanto riguarda la programmazione delle rarità conservate nel nostro archivio teatrale), o segnalazioni di spettacoli visti dagli ascoltatori sui palcoscenici teatrali. Questo ci conferma che la consuetudine di un appuntamento e la volontà precisa di dare spazio al teatro – spesso considerato un genere elitario ai fini degli ascolti non solo televisivi, ma anche radiofonici – fanno emergere che la richiesta in questo ambito è molto più ampia e importante di quel che comunemente si crede.
In che modo gli ascoltatori hanno potuto interagire con il progetto?
In primo luogo attraverso gli sms e le e-mail, che sono sempre arrivati numerosi ogni sera durante la messa in onda, e anche nei giorni successivi. E’ possibile inoltre sintonizzarsi sul sito di Radio3 (www.radio3.rai.it) per seguire la diretta audio, alla quale, per questa edizione di Tutto esaurito, è stata aggiunta anche la possibilità della diretta video per le cinque serate che abbiamo realizzato nella Sala A, alla presenza di pubblico. Per questo esperimento i dati sono stati piuttosto incoraggianti (oltre 5000 contatti in un mese).
Alcune serate sono state lanciate anche sul nostro profilo Facebook di Radio3. Dal giorno successivo alla messa in onda è stato poi possibile riascoltare o scaricare in podcast ogni singolo evento, che rimane podcastabile per circa due settimane dall’elenco podcast del sito di Radio3, nel programma IL TEATRO DI RADIO3. Sapremo solo dopo il 10 dicembre i dati podcast del mese di novembre.
La radio in molte nazioni europee, è uno strumento potente per la divbulgazione e la conoscenza del teatro ma soprattutto delle nuove drammaturgie. Cosa avete pensato a questo proposito per Tutto esaurito?
Per quanto mi riguarda posso dar conto di questi ultimi 15 anni, da quando cioè sono arrivata dalla televisione a Radio3 per seguire, insieme ad altre colleghe, il progetto di Teatro alla Radio che Luca Ronconi realizzò negli anni tra il ‘97 e il ’98, durante la direzione di Roberta Carlotto, che coinvolse molti eccellentissimi nomi del teatro italiano nella realizzazione di 33 piéces radiofoniche, dalla Lisistrata di Aristofane all’Assoluto naturale di Goffredo Parise, solo per dar conto dell’ampio sguardo sia cronologico che autorale. A quello sono poi seguiti altri importanti progetti di produzione di teatro radiofonico, dal ciclo del 2000 Europa oggi curato da Franco Quadri, in cui spesso furono anticipate le realizzazioni sceniche di testi di autori contemporanei ancora semi sconosciuti in Italia, come Mark Ravenhill o Sergi Belbel, per fare solo due nomi significativi della nuova drammaturgia; al Terzo Orecchio di Mario Martone , che chiese alla scena sperimentale e di ricerca italiana di realizzare dei pezzi scritti apposta per la radio, fino ai cicli del Consiglio Teatrale curati da Franco Cordelli, dieci nuove produzioni per sei anni consecutivi che hanno coinvolto moltissimi attori e registi in una panoramica sulla drammaturgia del 900 europeo e americano. In questi ultimi anni, con la direzione di Marino Sinibaldi, la nostra attenzione si è decisamente concentrata sulla scena contemporanea, dando spazio a molti giovani e nuovi autori, che hanno trovato un palcoscenico qui a Radio3 per presentare i loro lavori, spesso fruibili solo da una cerchia ristretta di pubblico specializzato. Come anche numerose sono state le collaborazioni con alcuni autori e registi della nuova generazione, per la realizzazione di produzioni originali che indagassero il rapporto fra il linguaggio teatrale e quello radiofonico, come ad esempio i radiodrammi originali che abbiamo proposto nella passata e in questa edizione di Tutto esaurito, realizzati da gruppi come Fanny e Alexander, Muta Imago, Babilonia Teatri o da grandissimi artisti come Claudio Morganti. Credo di poter rispondere, a conclusione, che Radio3 sia diventato sempre più in questi anni un luogo di confronto, di accoglienza e di promozione per la scena teatrale italiana, e che abbia certamente contribuito alla sua diffusione e conoscenza verso un pubblico desideroso di scoprirla e frequentarla.

Sul filo del racconto con Laura Curino

ANDREA CIOMMIENTO | Al suo terzo anno la rassegna “civilMente”, sulla responsabilità civile e l’imprenditorialità sociale (5-13 novembre 2012), ha reso possibile il dialogo tra le piccole e grandi realtà del tessuto torinese grazie al dinamismo multidisciplinare proposto e all’ascolto attivo delle attuali necessitàgLocal. In tale occasione ogni giornata è stata una possibilità di scoperta per l’espressione teatrale, l’audiovisivo, la danza e molto altro ancora. Il focus dell’anno intitolato “abiTO” ha fatto confluire lo sguardo di luoghi in pienezza d’animo, quelli in cui ognuno dovrebbe prendersi cura dell’altro con la stessa dedizione rivolta ai cari delle proprie case. La rassegna si è rivelata una panoramica vitale su tutto ciò che riguardava l’associazionismo e la partecipazione attiva con accesso aperto a ogni spettatore interessato grazie alla formula Up yo tou, un modo alternativo di pagamento dei biglietti che da tempo gli artisti di strada chiamano offerta “a cappello”, così garantendo una condivisione della proposta culturale senza sbarre sociali o identità classiste. Tutte le associazioni coinvolte di origine no-profit hanno mostrato un volto sano e interessato alla buona riuscita di un atto di ricerca profonda, sul senso di un’economia civile promotrice di sviluppo sostenibile in piena affinità con il tema dell’anno: abitare per “sentirsi a casa, ospitati da uno spazio che non ci ignora, tra cose che dicono il nostro vissuto, tra volti che non c’è bisogno di riconoscere perché nel loro sguardo ci sono le tracce dell’ultimo congedo”, scriverebbe il filosofo Galimberti. Un’idea progettuale equilibrata, azzeccata e aderente alla realtà, sostenuta dal lavoro di Enrico Gentina, direttore artistico e responsabile di Municipale Teatro, e Pierluigi Ossola, ideatore della rassegna e coordinatore delle attività dell’Osservatorio sull’economia civile (Camera di commercio– Torino).

La conclusione della rassegna ha visto la presenza di Laura Curino e del Comitato Imprenditoria Femminile (Camera di Commercio- Torino) con “Camminando sul filo. Elementi di acrobatica quotidiana per signore”. L’interessante approfondimento ha proposto in poco meno di tre ore la costruzione organica sull’identità della donna negli ambienti famigliari e professionali di ieri e di oggi in una particolare formula d’intreccio teatrale tra spettacolo e formazione. Una narrazione di storie al femminile che in questi tempi di esacerbati consumi lascia spazio alla promozione di un bene ancor più prezioso dell’economia, quello relazionale; in questa direzione siamo stati testimoni di uno scambio di valori senza mercantilismi, nel suo senso più profondo.

La rassegna è stata promossa dall’Osservatorio sull’economia civile della Camera di commercio di Torino, Associazione Baretti, Kairòs – consorzio di cooperative sociali, Confcooperative Torino, Legacoop Piemonte e il Corso di laurea in Educazione Professionale dell’Università di Torino.

Per approfondimenti: www.civilmente.org

Natura Dèi Teatri

RENZO FRANCABANDERA | Da molti anni Lenz Rifrazioni è una delle realtà più orientate alla commistione nell’area emiliana che ha come baricentro Parma. Festival, rassegne, progetti sull’identità, l’integrazione, “l’innesto”.
Dopo i primi giorni dall’inizio dell’edizione 2012 del festival Natura dei Teatri, una rassegna ibrida sulla scena, con artisti di tutta Europa, abbiamo intervistato Maria Federica Maestri, della direzione artistica di Natura Dèi Teatri e Lenz Rifrazioni.
Un progetto triennale, il vostro (2012_2014) indica in OVULO, GLORIOSO e I DUE PIANI, per un’indagine approfondita sui linguaggi della creazione contemporanea. Ci vuole audacia a guardare così lontano di questi tempi…  Le date della diciassettesima edizione della rassegna sono quelle comprese fra l’1 e il 9 dicembre 2012 con un campo d’indagine che si orienterà sulla lettura performativa dell’identità ovulare- macrocellulare del linguaggio artistico contemporaneo. A cosa alludete nello specifico con questo concetto?
OvulO è un nome triadico liberamente tratto da “ingestioni” provenienti dal filosofo la cui scrittura ha una forte assonanza con la nostra modalità di creazione: Gilles Deleuze. A Deleuze abbiamo sottratto tre elementi stimolanti, tre suggestioni concettuali. Non è quindi meccanicamente diretta la ragione per la quale il Festival è interpretato da artiste femminili. In primo piano c’è la necessità di dare evidenza ad un linguaggio ovulare, cioè sostanziare un progetto artistico attraverso opere “nutritive”, compositivamente definite.
Se il “Glorioso” si contrappone al linguaggio organico del corpo concreto, ne “I due piani”  si incontreranno, senza contaminarsi e subordinarsi, due piani linguistici schizofrenicamente tesi verso l’unità.
Il discorso attorno all’ovulo è maturato nel tempo, allo stesso modo in cui maturano i significati che comportano la necessità dell’azione. Più che un festival “al femminile” preferirei dire un festival di artiste, perché chi come noi pratica da lungo tempo un’indagine estetica profonda, non tollera più mediazioni e medietà e spinge sempre più fino in fondo il proprio acceleratore interiore, emotivo ed intellettuale.  Non ci interessa restituire uno specchio più o meno fedele dei linguaggi performativi contemporanei ma, come dice Deleuze, usare il coltello, ossia penetrare con lama tagliente il mondo. Non è una visione ideologica e politica quella di scegliere un universo artistico femminile ma una volontà di sbilanciamento, di estremizzazione della differenza. Oggi, a distanza di un anno dal suo concepimento, questo contenuto si è fatto molto forte anche dal punto di vista della “questione sociale” peraltro andando quasi a coincidere con la giornata contro la violenza sulle donne. Penso non sia sufficiente agire sul piano politico della legislazione, ma che l’umano debba esaltare la propria debolezza attraverso il potere della lingua. Il linguaggio è potere e deve esserlo per i disabili, per le donne, per i bambini, per tutti coloro a cui è stato negato: non è sufficiente averlo per diritto – certo – ma bisogna conquistare il dovere della lingua. Fare un’esperienza intellettuale significa inanellare queste due polarità. Il nostro lavoro, sia nella progettazione del festival come nel nostro percorso artistico, è un procedere per innesti; le drammaturgie anticipano una visione in una sorta di futuro circolare in cui quello che accadrà è già accaduto. La visione rende necessaria l’azione.
Le condizioni esterne oggi sono molto difficili: tutto impedisce di proseguire un percorso come questo fatto di avvenimenti interiori e non di eventi. E quindi, sì, è audace il pensare in un esistere lungo. Magari poi lo si pensa, basta però che non ci tolgano almeno la possibilità di farlo.
Le ispirazioni tematiche che dichiarate, derivano da suggestioni filosofiche tratte dall’opera di Gilles Deleuze. Perché Deleuze? Quale contributo specifico ritenete abbia dato alla semiotica con riguardo alle arti sceniche, che ve lo fa preferire ad altri studiosi ugualmente attenti a quanto oggetto della vostra indagine (mi vengono in mente sia Deridda che, ancor più Merleau-Ponty)?
Il teatro filosofico è fisica di pensiero, visualizzazione dell’anomalia e della variazione. La scrittura di Deleuze è disorientante, labirintica, in una rotazione, spirale di sensi. Le prime letture formano e fondano la nostra identità poetica, segnano il passaggio dall’adolescenza alla maturità, diventando così parte della nostra biografia.
Il Festival Natura Dèi Teatri si svolge a Parma negli spazi post-industriali di Lenz Teatro. Ritenete importante questa caratteristica per così dire site specific?
E’ stato importante alla fine degli anni ’80 quando abbiamo cercato uno spazio che corrispondesse alla nostra identità, al nostro concetto di bellezza. Questo è il nostro museo, la nostra pinacoteca, la nostra Wunderkammer in cui si continua a riscrivere la lingua del teatro, è un vuoto e un pieno, è silenzio e rumore. La fabbrica è un luogo non anonimo, non neutro: il ‘900 ha costruito fabbriche al posto delle chiese e le fabbriche dismesse sono le nuove cattedrali del ventunesimo secolo. Dopo oltre 20 anni di attività, visto che le cose non sono mai definitive, il nostro spazio è ancora in balia di possibili mutamenti negativi, cambiamento di destinazione ad uso commerciale. E questa possibilità – drammatica – rafforza ancora di più la sua funzione di conflittuale, e la sua occupazione psico-interiore è ulteriormente mutata. Lo fabbrica è un luogo non rassicurante, non domestico, ma la sua cifra architettonica è quella stilisticamente più in sintonia con il nostro linguaggio scenico, per dimensioni, volumi, per il rapporto sospeso che si ha con lo spettatore. In questa edizione del Festival il pubblico è a metà, non ha un suo posto predefinito, abita l’intercapedine, sta poeticamente in mezzo, nel cuore dell’impulso.

Un grande attore a Elsinore

ELENA SCOLARI |  Examleto in scena al Franco Parenti di Milano fino al 6 dicembre 2012, un grande Roberto Herlitzka rende onore al capolavoro di Shakespeare.

“E non dovete trinciar l’aria con la mano, ma imprimere, bensì, dolcezza al gesto. Poiché nel torrente, nella tempesta o nel vortice della passione, proprio allora dovete acquisire e dar forma a una sorta di moderazione”. Così Amleto istruisce gli attori della compagnia che metterà in scena la tragedia dell’uccisione del padre. Parole d’amore per il teatro e regole che mai sarebbero da dimenticare…

Certo non le dimentica Roberto Herlitzka, grande attore in questa versione di Amleto prodotta da Teatro Segreto (già in tournée da qualche anno), nella quale, solo sul palco, ci regala una prova recitativa eccellente, direi stupefacente, se già non lo avessimo apprezzato come uno dei migliori in Italia, anche sul grande schermo.

La riscrittura del testo, curata da Herlitzka stesso, è intelligente, moderna, freschissima nella sua complessità. L’idea centrale dello spettacolo è che Herlitzka/Amleto non solo interpreti tutti i personaggi, ma che Amleto sia tutti loro, che li racchiuda tutti in sé: un Amleto archetipo dell’uomo che ha dentro di sé la fragilità e l’amore di Ofelia, l’ambizione dello zio, la sudditanza di Gertrude, la superficialità della corte, la saggezza del becchino, lo spirito di Yorick, la giustizia di Laerte e il senso dell’amicizia di Orazio.

Così come Herlitzka è lo spettacolo tutto, mattatore fantastico in continuo e abile equilibrio tra mille registri diversi, che attraversa con la disinvoltura dell’acrobata, saltellando agile dal tragico al lirico, dal minimal all’umoristico, dal poetico al parodistico.

Possiamo osservare che tale bravura può, qua e là, risultare un po’ esibita, mai con compiacimento ma talvolta lievemente insistita, a svantaggio del coinvolgimento emotivo, siamo comunque dell’idea che davanti a tanta capacità non si possa essere che essere grati.

Allo spettatore è richiesto uno sforzo di attenzione molto alto, non c’è sosta, mai e seguiamo l’attore su un ottovolante teatrale di rara qualità. Il passaggio da un personaggio all’altro avviene in un battito di ciglia, pur conoscendo bene l’opera non ci si può distrarre.

Roberto Herlitzka indossa un semplice abito scuro e usa solo pochi oggetti evocativi: una sedia, una spada, il flauto (Amleto a Guildenstern: “Tu mi potrai prendere per qualunque strumento che vorrai, tastarmi quanto vuoi: non puoi suonarmi”), la cornice di uno specchio e il teschio di Yorick. Si muove con gestualità sapiente ed estremamente duttile sul palco.

Il lavoro drammaturgico è improntato all’asciuttezza, con ironia si sottolineano la mancanza di onestà, attualissima, e il disprezzo per la virtù. Lo stile di recitazione è quasi sempre a togliere, a “buttare via” con finta distrazione versi splendidi dando l’impressione che possano sgorgare naturali, c’è un distacco diffuso che esalta i momenti di maggior indignazione verso le bassezze che Amleto ha scoperto essere state perpetrate contro l’amato  padre, e che saranno tragicamente vendicate.

Una nota di perplessità, marginale, va al piano luci di Examleto, che ci è parso non abbastanza curato, brusco rispetto alla svelta dinamicità dell’interprete, alcuni cambi un po’ secchi e la strana scelta di un faro a  pioggia fuxia durante l’Essere o non essere.

Amiamo particolarmente l’Amleto, ritenendolo un compendio ineguagliabile delle passioni umane, un catalogo sottile e crudele di ciò che ci muove alla vita, e alla morte.

Siamo sicuri che a Elsinore Herlitzka sarebbe il benvenuto.