fbpx
sabato, Dicembre 21, 2024
Home Blog Page 445

Arrow, ovvero quando la calzamaglia non fa il supereroe

Arrow_1ALESSANDRO MASTANDREA | Sopravvissuto a cinque anni di stenti e privazioni, solo, su un’isola misteriosa popolata da inquietanti presenze, scampato a un naufragio che ha visto la morte di padre e amante, torna in città, armato di arco e frecce, Oliver Queen, giovane e aitante miliardario animato da una oscura sete di vendetta nei confronti dei criminali che infestano Starling City.

E dagli inospitali lidi dell’isola semi-deserta, eccolo atterrare, comodamente seduto, sui sofà di casa nostra (Italia1, il lunedì in prima serata), grazie ad Arrow, trasposizione per il piccolo schermo dell’eroe fumettistico Green Arrow, della major statunitense DC Comics. Risposta della TV all’inflazione di supereoi cinematografici.

A dispetto, tuttavia, di un argomento all’apparenza leggero, è una bella gatta da pelare quella che si sono trovati tra le mani gli autori della serie.  Come fare, ai giorni d’oggi,  a rendere credibile un personaggio che si aggira per le strade della città vestito da Robin hood? Un compito, va detto subito, portato a termine solo in parte.

Non sempre, infatti, mescolando in provetta, per quanto sapientemente, un play boy  milionario svagato di giorno e giustiziere di notte, a sparatorie, acrobazie e piroette, si ottiene il giusto equilibrio tra istanze pop e autoriali. E sulla serie, più che altro, pare gravare minacciosa l’ombra rilassata, dai toni “Camp”, del pipistrello televisivo anni ’60, interpretato da Adam West (il Batman con le maniglie dell’amore, per capirci), piuttosto che quella ben più tetra dei lungometraggi diretti da Tim Burton e  Christopher Nolan.

E dire che tra gli autori suddetti compare un certo Marc Guggenheim, persona che i comics li ha frequentati da vicino.

Se l’Oliver Queen dei fumetti è un uomo maturo, sulla quarantina, padre di un figlio e con una non troppo sottile propensione anarchica, la sua controparte del piccolo schermo, come un po’ tutto il cast di protagonisti e comprimari, risulta invece poco più che abbozzata,  dal carattere poco “centrato”. Problema non di poco conto, trattando la serie di un arciere.

Stiano però sereni gli estimatori dei TV series, perché, tra un cliché e l’altro, qualche motivo di interesse pur esiste – soprattutto nell’intreccio orizzontale che si dipana lungo tutta la stagione; nei continui flashback, per esempio, che trasportano di continuo il protagonista agli anni passati sull’isola misteriosa a’ la LOST.

–       Da quale oscura associazione è presidiata l’isola?

–       Chi è lo sfuggente orientale che gli ha salvato la vita e che gli ha impartito un addestramento jedi?

ma anche nella struttura da tragedia shakespeariana, con il povero Oliver che torna a casa, solo per scoprire sua madre sposata a un altro uomo, e che questi ha preso il posto del defunto padre alle redini del suo impero economico. Novello Amleto, che ancora ignora del tutto le oscure macchinazioni che hanno prodotto il naufragio suo e del padre.

E di puntata in puntata – questa la parte che convince meno – il nostro Oliver/Amleto appare indeciso sulla strada da seguire. Lui che dal mondo cerca vendetta, pur subendone un’irresistibile attrazione. Perseguire senza posa i propri intenti belligeranti, oppure assecondare la sua vecchia natura, con un futuro già tracciato tra vernissage, modelle succinte e happy-hour?

Non è però tutta rosa e fiori la vita del miliardario con l’hobby del vendicatore mascherato. Cosa volete che siano un manipolo di spacciatori, di mefistofelici finanzieri corrotti o di semplici rapinatori di banche –abbattuti come mosche di puntata in puntata-  messi a confronto con le donne che sono solite circondarlo nella vita civile? Già perché, oltre la madre con lo scheletro del padre nell’armadio, anche i rapporti con la sorella e l’ex fidanzata non sembrano dei migliori. Un conflitto generazionale con la prima e un amore impossibile con la seconda (già però in via di risoluzione dopo una manciata di puntate – quando si dice “serie dal ritmo frenetico”).

Portare la maschera del “bon vivant” e tenerle lontane, oppure aprirsi e farsi amare mettendo a rischio la loro incolumità? Questo è il dilemma, cui nemmeno “l’agenda dei segreti” lasciata in dono dal padre morente – con nomi e indirizzi dei colpevoli del degrado cittadino, da accoppare all’abbisogna –  sa dare risposte. Anche gli eroi in calzamaglia, per quanto corrucciati nella loro personale battaglia, hanno un cuore e un ego da assecondare. Il caro Oliver, dopotutto, nonostante fame, patimenti e ferite è pur sempre un fustacchione. E il suo bel carico di cicatrici lo rendono ancor più irresistibile agli occhi di Dinah “Laurel” Lance, ex fidanzata, avvocato delle cause perse in odore di santità. Si da il caso, infatti, che a Oliver piaccia moltissimo vagare per la magione  con la camicia impertinentemente sbottonata, e c’è da scommetterci che prima o poi quelle ferite si riveleranno galeotte.

P.S.: Per chi volesse leggere qualcosa sul personaggio, si consiglia di recuperare il bel volume “Lanterna Verde, Freccia Verde”, edito da Planeta de Agostini, che ripropone storie datate 1970 e disegnate dal grande Neal Adams (che affrontano temi per quei tempi tabù, come la droga). Oppure, di prossima pubblicazione per la casa editrice RW- LION, la ristampa della run di Mike Grell , scritta sul finire degli anni’80, in cui predomina un’ambientazione urbana, che risente di contaminazioni dalla letteratura noir e hard boiled; forse la versione definitiva dell’eroe.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=gk_ji5Yu_Mg]
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=vVQUkDo9OGo]

Flags of America: i grandi della fotografia in mostra a Modena

avedon_lowMARCELLA MANNI | La tradizione della fotografia americana è ancora per alcuni giorni in mostra a Modena: una ventina di autori, tutti indiscussi maestri, per una importante panoramica tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni Settanta.

La selezione di opere, nata da un ampliamento di un fondo acquisizioni, permette di approcciare filoni tematici e estetici che hanno attraversato la diffusione di un mezzo, quello fotografico, accogliendo da un lato le istanze della tradizione e, di pari passo con le evoluzioni tecniche, influenzando in maniera determinante la cultura fotografica e più in generale visuale, contemporanea.

La dimensione del Jupiter Portfolio di Minor White apre a una fotografia simbolica con temi concettuali viene da dire; per il grande erede di Stieglitz si parte da un dato reale, tangibile, usando il paesaggio come tramite per una idea altra di fotografia, come esplorazione della rappresentazione. Il paesaggio, quello della wilderness americana, torna in modi completamente diversi nella fotografia di Ansel Adams, che insieme a Weston insegue la “fotografia pura” con il gruppo f/64, in un incessante percorso di sperimentazione prima di tutto tecnica. L’accostamento di autori dalle personalità e dai percorsi anche molto diversi tra loro permette, attraverso i lavori in mostra, di avere esperienza diretta di uno dei punti fondanti dell’estetica dell’immagine, cioè come la fotografia dipenda da una consapevole scelta di stile, di uno stile visivo si intende, da come l’autore si riferisce da un lato al contesto e dall’altro al significato dell’immagine stessa. Vale quindi la pena di citare come tre degli autori abbiano condiviso un esordio importante: Garry Winogrand compare nella storica mostra New Documents al MoMA di New York, nel 1967 insieme a Lee Friedlander e Diane Arbus  accompagnati da un pensiero critico, affidato a John Sarkowsky , che in epoca di pieno espressionismo astratto detta le regole per quello che sarà uno degli stili più influenti della fotografia contemporanea. La comunanza del mezzo utilizzato, una piccola macchina fotografia, rende possibile scattare immagini in grado di cogliere espressioni del viso, la relazione tra il gesto, il movimento e gli oggetti in situazioni pubbliche, l’attenzione ai luoghi pubblici, in interno o esterno, che siano ristoranti aeroporti o lobby di hotel, ma soprattutto la città, attraverso le sue strade, codificando il “social landscape”, che tanto deve a Robert Frank.

“Credo che le immagini di paesaggio possano presentarci tre verità: la verità geografica, quella autobiografica e quella metaforica. La geografia di per se stessa è a volte noiosa, l’autobiografia è spesso banale e la metafora può essere equivoca” Robert Adams ci conduce con queste parole verso una idea di bellezza che è frutto di un lavoro personale, di una autenticità che è una ricerca di una armonia, di una composizione che sia in grado di recepire il dato naturale per renderlo in un nuovo paesaggio, quello della fotografia.

E sono proprio Robert Adams e Stephen Shore  inclusi, nel 1975, nella mostra New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape  che alla fotografia fa compiere un passo anche nella direzione del cambiamento di un paradigma per dirla alla Khun, cioè come portatrice di nuovi modelli di pensiero. In questa ampia rappresentanza che vede autori attivi a tutt’oggi come John Gossage e Richard Misrach, non si può poi non citare un “outsider” nel senso di unicità e di singolarità della ricerca, portata avanti parallelamente a un lavoro su commissione che per Richard Avedon ha significato la vera e propria codifica di un genere, sovvertendo i canoni della ritrattistica. Che si trattasse di modelle sconosciute, di icone di Hollywood (Marilyn Monroe su tutte)  o di capi di stato, le sue pose sono quelle di persone vive e reali, politica e disimpegno si mescolano senza ordini di grado e senza offuscare la forza comunicativa dell’immagine.

A scorrere in senso strettamente cronologico l’ampia rappresentanza di autori risulta evidente quel processo che tra la metà e la fine del Novecento è stato un vero e proprio processo di affiliazione della fotografia alla sfera delle arti contemporanee.  Un processo che si può dire ha attraversato l’arte concettuale, l’arte pop e che ha contribuito ad animare un dibattito sia teorico che tecnico-stilistico, sull’immagine fotografica, fino ad arrivare a considerarla, ad opera di teorici non a caso americani, un metro di confronto critico per riscrivere la storia dell’arte moderna tutta.

New Topographics, Stephen Shore, Diane Arbus, straight photography

[vimeo http://www.vimeo.com/32562146 w=500&h=281]

A cura di Filippo Maggia

Fino al 7 aprile 2013

Fondazione Fotografia, Largo Sant’Agostino 228 Modena

www.fondazionefotografia.it

.

L'Odyssey di Wilson: fra Méliès e melò

odissea wilson_francabanderaRENZO FRANCABANDERA | Bob Wilson è uno di quegli amanti di cui immagini già come verrà vestito all’appuntamento, che profumo e taglio di capelli porterà,  e anche di che parlerà mentre si sta seduti a tavola o in poltrona. Eppure riesce sempre in qualche modo ad ammaliarti, con l’eleganza formale, e quel principio greco del Μηδέν ἄγαν, ovvero il “Nulla di troppo” che è un invito alla misura cui Wilson sempre nella sostanza si attiene.

Ed ecco che l’Odissea per il cui debutto Wilson si è recato in Grecia in questi ultimi mesi caldi, è un melting di forme espressive che ricordano sul palcoscenico il primo cinematografo, il pop dei cartoon, il melodramma, l’opera. Ma senza che mai ci sia qualcosa che resti indigesto, che sia appunto di troppo. Odyssey di cui Wilson firma progetto, regia, scene e luci, dicevamo, è una coproduzione del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa on il National Theatre of Greece, Athens. Perchè poi magari pensi: ma che ci faccio qui a farmi raccontare l’Odissea da uno che viene dal profondo Texas. Ma Wilson ama senz’altro le sfide e la cultura europea, e ha il coraggio di proporcene una rilettura magari meno filologia, o meno cervellotica, ma spesso più agevole, con un piglio divulgativo capace di accostare i generi in maniera totalmente inaspettata.

Lo spettacolo dura nel complesso tre ore, divise in modo pressochè identico in due atti. Nel secondo, ovviamente, gran parte della vicenda è quella del ritorno e della vendetta sui Proci, mentre il primo è dedicato alle avventure del viaggio.

Dicevamo il “solito” Wilson, ma qui c’è un chiaro intento di rendere leggero l’epos, di giocare come Meliès con la macchina scenica, con la creazione di fantasia. Così tutti gli argani e i trucchi, i mostri e gli incubi sono giocati con creazioni immaginifiche e giochi di luce: di Polifemo si vede la grande testa, che occupa tutto il fondale come un pezzo di statua greca gigantesca lasciata lì, in bilico. Dall’alto sbuca invece la mano del mostro, ugualmente  dal sapore di statua, che aggancia i poveri malcapitati. Scilla e Cariddi sono mostri ingenui, da film da cinematografo degli anni Dieci-Venti, e proprio nel caso di Polifemo il regista svela la macchina, togliendo il paravento che occulta il carrello mobile su cui la grande sagoma è montata, facendolo vedere, svelando il trucco, lo scheletro dietro la fiaba, dietro questo antico cartoon che era l’Odissea. Con Scilla e Cariddi, il quadro visivo diventa di colpo un enorme zig zag, dove mancano solo le sovrascritte SCREEK, ZAC!, a commentare l’azione del mostro che azzanna i marinai.

odissea wilson_francabandera2Ci sono poi novità estetiche che introdotte in alcuni spettacoli recenti dal regista, ricompaiono magari come variazioni, un po’ come nei canoni di Bach. E non citiamo a caso il compositore, perchè nella regia della Passione secondo Giovanni dell’artista alcuni elementi diagonali sospesi compongono la scenografia, elementi che anche in questa Odissea ritornano sotto forma di neon che scendono dall’alto. O le capigliature e le maschere del viso estreme che già erano apparse nei personaggi-burattini tanto degli “Shakespeare’s Sonettes” con i Berliner Ensemble del 2009 che ne “L’affare Makropoulos”, che il pubblico italiano ha visto al Napoli Teatro Festival l’anno passato.

Il primo atto, il viaggio, le avventure, il fantastico, attraverso i mirabili giochi di controluce e di ombre cinesi di cui i notevoli attori si fanno interpreti, è decisamente più ricco, superiore e immaginifico. Le sirene gotiche dalle ali nere sanciscono la saldatura con il linguaggio più recente dei comics, ma nulla è mai pulp, al più pop, cercando un continuo dialogo fra l’iconografia dell’eroe contemporaneo e quella greca antica, con maschere e altre visioni antropomorfe che ci parlano dell’Odissea come di un kolossal del tempo antico, da alleggerire, possibilmente da troppa sovrastruttura filologico-interpretativa, per recuperare il piacere della storia.

La seconda parte soffre un po’ di questa scelta, a nostro parere perchè, schiacciata più sul nostos, viene resa con spirito meno ispirato. Nulla che non valga la visione, per carità, ma qui il semplice si impoverisce e vive di trovate da commedia dell’arte, di sagome, come quella del pastore fedele o della vecchia nutrice che sobbalza al suono di un campanellino. Il troppo facile qui intriga meno e la resa è più didascalica. Wilson è sempre Wilson, i suoi fondali saturi di colore acido che sfumano in tonalità acquerello valgono bene una cena: l’amante è vestito come al solito, con lo stesso taglio di capelli, lo stesso profumo, a dire le cose che ci si aspetta che dica. Ma tant’è, la cifra di un artista è riconoscibile quando cambiando il teorema artistico, la grammatica estetica resiste agli stress test. Lo spettacolo risulta quindi gradevole, leggero, coerente. Non innova. Non provoca. Racconta. E’ meglio quando, con musichette ragtime, ricorda i filmini di Mèliés, tanto che quasi ci si aspetta che un missile finisca nell’occhio di Polifemo come nella celebre sequenza della luna, mentre riesce meno quando deve raccontare il ritorno dalla donna, dalla patria. Qui si colora di tinte inspiegabilmente shakespeariane, ma bidimensionali.

Alla fine grande trionfo, il maestro sul palco per cinque minuti di applausi, e così anche la compagnia, giustamente omaggiata. Se vale la pena andarlo a vedere? Esattamente per lo stesso gusto di rivedere un supercult di cui si conoscono a memoria le battute, ma meglio di qualche cineasta sperimentale che alla fine ci faccia tornare a casa con un tanto grande quanto inutile mal di mare per una cinepresa armeggiata stile Blair Witch Project e poco più.

Il pensiero più stanco, e non siamo comunque nel nostro caso, di un genio sarà sempre più stimolante della miglior trovata di un imbecille. Qui c’è il confronto con la civiltà classica, la prima volta di Wilson. Insomma il solito amante che viene al tavolo, si siede e con piglio provocante inizia a raccontare di una sua strana prima volta in età matura. Volete non starlo a sentire?

Qui di seguito alcuni frammenti video dello spettacolo

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=g8EeNxaGHIs]
Piccolo Teatro Strehler
fino al 24 aprile 2013
Odyssey
progetto, regia, scene e luci Robert Wilson
testo Simon Armitage, drammaturgia Wolfgang Wiens
musica Theodoris Ekonomou
collaborazione alla regia Ann-Christin Rommen/Tilman Hecker
costumi Yashi Tabassomi
collaborazione alle scene Stephanie Engeln
supervisione musicale Hal Willner
collaborazione alle luci Scott Bolman
traduzione in greco moderno Yorgos Depastas
voice coach Melina Paionidou
suono Studio 19 – Kostas Bokos, Vassilis Kountouris
assistente alla regia Natassa Triantafylli
assistente alle scene Maria Tsagari
assistenti ai costumi Vassiliki Syrma
scenografie, oggetti di scena e costumi realizzati dai Laboratori del Piccolo Teatro
con Konstantinos Avarikiotis, Thanasis Akkokalidis, Yorgos Glastras, Zeta Douka, Stavros Zalmas, Marianna Kavalieratou, Lydia Koniordou, Alexandros Mylonas, Maria Nafpliotou, Vicky Papadopoulou, Lena Papaligoura, Akis Sakellariou, Yorgos Tzavaras, Apostolis Totsikas, Nikitas Tsakiroglou, Yorgis Tsambourakis, Kosmas Fontoukis
pianoforte Thodoris Ekonomou
Ciclope (voce fuori scena) Dimitris Piatas
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, National Theatre of Greece, Athens

Trend 2013: il teatro britannico scandaglia l’interiorità

banquoLAURA NOVELLI | Da dodici anni propone al pubblico romano una scelta ragionata di autori e testi provenienti dal Regno Unito che raccontano non solo un teatro felicemente empatico rispetto ai temi e alle questioni del contemporaneo ma anche – e soprattutto – un teatro capace di rinnovare i suoi linguaggi affidandosi all’estro e al mestiere di giovani autori. Motivo per cui la rassegna “Trend – Nuove frontiere della scena britannica”, curata da Rodolfo di Giammarco e attesa dal 2 al 14 aprile al teatro Belli di Trastevere, è sempre un territorio che vale la pena esplorare, un valore aggiunto rispetto alla consueta programmazione cittadina all’interno del quale è possibile trovare spunti, soluzioni, opere ed operazioni interessanti.

Quest’anno la mappatura delle drammaturgie in campo parrebbe lasciar emergere una decisa attenzione per i moti dell’animo, per le sfumature emotive, per i rivoli interiori degli esseri umani. “Cinque testi contemporanei, – spiega lo stesso di Giammarco – tre autori inglesi, due scozzesi, quattro quarantenni e una over sessanta. Un gruppo di amici universitari, un valoroso generale di shakespeariana memoria, tre ritratti ravvicinati e non classificabili di coppie sentimentali imperfette […] Con una trasversalità di approcci che sceglie fisionomie, sonda terreni, soppesa linguaggi restituendoci il quadro scombinato di una realtà che sembra guardare sempre di più all’interiorità”.

Un dato emblematico, questo, che ci conforta nella convinzione che, dopo tante rotture, tante intuizioni trasgressive, tanta violenza verbale e tante ossessioni “contro”, la produzione scenica d’oltremanica – ormai da anni, a dire il vero – stia cercando un equilibrio tra ricerca del nuovo e necessità di abitare una parola che rifletta con pacata saggezza i nodi cruciali dei nostri tempi confusi. Anche appellandosi ai classici. E non è un caso che tra i titoli in scaletta  figurino  due omaggi shakespeariani firmati dall’estroso Tim Crouch, “Banquo” (riflessione sul tema del potere ispirata al “Riccardo III”) e “Peaseblossom” (sguardo infantile che si posa sul mondo degli adulti e, rievocando il “Sogno di una notte di mezza estate”, si fa domande sull’amore), affidati alla regia di un esperto “crouchiano” quale è Fabrizio Arcuri (ricordiamo “An Oak Tree”), anche regista di quel ben noto “My Arm” che qui precede e in un certo qual modo introduce il dittico.

Ad aprire la vetrina è invece David Harrower, autore scozzese divenuto celebre in Italia per il suo scabroso e sottile “Blackbird”, allestito da Lluis Pasqual nel 2011 con gli ottimi Massimo Popolizio e Anna Della Rosa protagonisti, che in “Bravo con le ragazze” torna ad occuparsi di un caso morale immaginando la vicenda di una donna tormentata da un episodio occorso nel suo passato che riprende a sconvolgerla, complice l’arrivo in paese di un giovane uomo, ma che resta inesorabilmente insoluto. In scena ci sono Vanessa Scalera e Tiziano Panici, anche regista.

Si intitola poi “Sette melodie per flauto” la piéce del giovane londinese Sam Hall che, diretta da Paolo Zuccari e animata da ben dieci attori, racconta le vite di alcuni amici d’università lungo un arco temporale di trent’anni: i ricordi personali si intrecciano a quelli collettivi mentre  passato, presente e futuro sfuggono alla banale logica della consequenzialità per mostrare come tutto sia cambiato e come tutto cambi.

Scavano infine nella (im)possibilità della relazione umana (non solo quella di coppia) le ultime due proposte in programma: “Stoccolma” di Briony Lavery, imbastito su una cena di compleanno durante la quale l’entusiasmo e la passione di Todd e Kali (Vincenzo Di Michele e Ketty di Porto) trascolorano in un gioco al massacro all’ultimo sangue (regia a firma di Marco Calvani), e “Essere norvegesi” dello scozzese David Greig, che si interroga sul senso di identità e sui presupposti necessari per entrare in contatto con gli altri, tanto più se stranieri. Sorretto da uno stile ironico ma incisivo, questo lavoro, che si avvale della regia di Roberto Rustioni (anche in scena con Elena Avigo), pone quesiti cocenti a livello sia individuale sia politico e, come d’altronde tutti gli spettacoli proposti, ci chiama in causa direttamente. Informazioni: www.teatrobelli.it.

Uovo Festival Milano: la stravagante ironia esistenziale di Gunilla Heilborn

gunilla heilbornVINCENZO SARDELLI | Tonalità satiriche che s’innestano su scene di ordinaria semplicità caratterizzano “This is not a love story”, della coreografa e film maker svedese Gunilla Heilborn, ospite della undicesima edizione di “Uovo”, la kermesse di danza ospitata alla Triennale-Teatro dell’Arte di Milano dal 20 al 24 marzo, di cui abbiamo parlato in altri due contributi recenti.
Rombo di tuoni e lampi abbaglianti, metamorfosi, passione: c’è di tutto in questo spettacolo impostato su un’estetica da road movie, dai tratti rarefatti tipicamente scandinavi. Fughe, slanci oltre la forma e le apparenze, voci in viaggio, luci nella notte: la verità è arte. Come l’aria s’insinua nelle trame della vita. È potenza liberatrice.
“This is not a love story” vede sulla scena Kowalski e Vera, un uomo e una donna in viaggio verso una consapevolezza di sé e del mondo così difficile da raggiungere. Qui la parola ha una sua importanza autonoma. Rimane scolpita nella recitazione intensa e naturale dei due attori-performer, Johan Thelander e Kristiina Viiala. Essi, straniati, seguendo gli stilemi di un poetico teatro dell’assurdo, danzano e continuano a esplorare la realtà sulla base delle cinque domande del giornalismo anglosassone: chi ha fatto che cosa? Quando? Dove? Perché?
Le cinque W come i cinque sensi. Sono indagati paesaggi interiori di giostre, di alberi e parchi, di anziani che camminano lenti l’uno a fianco all’altra, nell’onirico, malinconico, esaltante viaggio della vita.
È una poesia semplice che si fonde con le note elettroacustiche del norvegese Kim Hiorthoy. I due performer cantano, ballano, recitano in un inglese scandito, la cui traduzione in italiano è proiettata con sopratitoli che però ogni tanto s’interrompono, sostituiti da puntini di sospensione. Perché in realtà il mondo che ci circonda – sembra si voglia dire – non sempre è sondabile e immediato, non sempre è così ragionevolmente comunicativo.
In quest’alchimia di musica e poesia si fondono spazi naturali e uomini, atmosfere rarefatte, come le luci che illuminano la scena. Come la ricerca incompiuta, inappagata, di quelle emozioni forti di cui i protagonisti sono alla ricerca. Il loro viaggio è un’odissea introspettiva alla ricerca di ariosi spazi primigeni. Kowalski e Vera camminano l’uno accanto all’altra, fino alla fusione in un unico punto che sfuma all’orizzonte.
È un viaggio d’impatto visivo, di persone che si muovono in un modo inconsueto, capaci di colpire con l’essenzialità del gesto. Conta solo la trasformazione, la riflessione, espressa con spiazzante icasticità e umorismo. La danza subentra qua e là laconica, commentando con sagacia la vacuità del mondo contemporaneo.
Questo teatro globale non pretende di insegnare niente. Offre solo esperienze: gioiose o malinconiche, gentili o conflittuali, buffe e stravaganti. Sono immagini di paesaggi interni che setacciano la condizione umana. Con la speranza che il bisogno di vita trovi soddisfazione.

L’essenziale allestimento di “This is not a love story”, di Gunilla Heilborn:

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=Od2LwO41V6E&w=560&h=315]

Uovo in camicia con Petra Hrašćanec

petra uovoVINCENZO SARDELLI | Custodiamo un tesoro nel corpo: la capacità di esprimerci senza parole. E quante storie possono essere raccontate senza pronunciare una frase. “Uovo performing arts festival”, kermesse sapida, rapida, indisciplinata, refrattaria a ogni etichetta, è ben rappresentata da “Love will tear us apart”, di scena alla Triennale di Milano domenica 24 marzo, prima parte di una trilogia della compagnia De Facto che unisce drammaturgia, coreografia e performance, nel segno della danza contemporanea.

La croata Petra Hrašćanec, con la regia di Saša Božić, si presenta sul palco deserto con solo uno stereo. Acconciatura da maschietto trasognato, look scanzonato e spaccone, il suo sbarazzino “Love will tear us apart”, incentrato sulla relazione tra movimento e musica, è uno spettacolo con tanti sorrisi e, forse, una lacrima.

Fantasioso l’amore proposto da quell’aria vagabonda, da quel danzare impertinente. Petra Hrašćanec, mani nelle tasche, camicia grigia che proprio non vuol saperne di restare nei pantaloni attillati, è ribelle a ogni limite paludato. In antagonismo ai cliché classici, propone, partendo dalle note post-punk dei Joy Division, una danza oscillante tra tinte goth (con atmosfere opprimenti) e squarci rispetto a tale clima ossessivo, con musiche e gesti veloci e cadenzati.

Petra Hrašćanec esprime la relazione tra se stessa e gli altri sul malinconico intimismo di “Poses” uno dei pezzi cult del cantautore canadese Rufus Wainwright. La voce baritonale di Matt Berninger dei National ispira moti più leggeri, con un sottofondo sardonico. Si arriva poi al liberatorio polistrumentismo elettronico dei Tuxedomoon, con epilogo catartico sul folk-pop dolce e delicato degli scozzesi Belle and Sebastian.

Non si prende mai troppo sul serio, Petra. La sua danza è fatta di balzi-permaflex, di volteggi da farfalla, di sguardi intensi e fissi. È un’esibizione con pause, pose mute, interazioni con il pubblico, scambi con uno spettatore solo chiamato a caso sul palco.

In questo lavoro in bilico tra riflessioni introspettive ed energiche irruzioni rock, la danza astratta della performer croata mette in azione vorticosa le varie parti del suo corpo scomposto (la testa o il ciuffo dei capelli, le mani o il bacino, le spalle o le braccia). Oppure ricrea il puzzle dell’oggetto fisico, immortalato in pose statuarie. L’amore in scena è pathos, eros dilaniante; ma anche armonia, grazie all’atto stesso della danza.

La sensazione che rimane al pubblico è che l’ineffabile controllo del proprio corpo sia il principio del controllo dell’io, della padronanza di sé, per poi avvicinarsi con ironia anche all’arcano che sta dentro chi ci circonda. Un’esibizione pungente ed effervescente, apprezzata da un pubblico giovane, risucchiato nei luoghi insondabili della mente della danzatrice.

Petra Hrašćanec balla sulle note dei Joy Division:
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=hLBAjAPvvw0&w=560&h=315]

mondocane#2 – Il lavoro nobilita

BRIE2MARAT | Giovane per definizione. Vivace laboratorio di idee e talenti per uffici stampa e giornalisti impigriti. Il contesto storico-sociale spinge verso una deriva elitaria (di figli di papà). Questione di forma e di sostanza. Ma certe sere riesce ancora a donare meraviglie a basso costo. Va beh, comunque la si pensi, il teatro off arriverà da metà giugno nella capitale.
Torna il Roma Fringe Festival, marchio registrato che proprio in questi giorni ha terminato di raccogliere le adesioni al bando: 20 euro per partecipare, 330 quelli da versare se si sarà fra i 60 gruppi selezionati. Per spese di segreteria il primo obolo, per “spese di gestione dei palchi con i relativi service, dei tecnici e del personale addetto al corretto e regolare svolgimento del festival” (estratto dal bando) il secondo. Ovvero per l’organizzazione dello stesso. Spostamenti, vitto e pernottamento sono esclusi, ma delle tre repliche garantite in una settimana in una sala da 100 posti, ci si può tenere l’incasso (cara grazia: ma quante belle figlie Madama Doré). Cinque euro il biglietto. Che forse gli artisti in scena non dovranno pagare…
Questo il succo de “la grande vetrina italiana del teatro off” (dal sito). Certo che se il Roma Fringe Festival è “la grande vetrina italiana del teatro off” vuoi non esserci? E vuoi davvero star lì a far notare la sempre più diffusa e disdicevole consuetudine di far pagare l’iscrizione? E in fondo che cosa sono 330 euro per partecipare da protagonisti alla “grande vetrina italiana del teatro off” e aver la possibilità di vincere i premi in palio? Chissà cosa avrebbe detto mio nonno. Se gli avessero detto che per costruire le strade come aveva sempre fatto, ora gli operai dovevano pagarsi gli strumenti da lavoro e affittare il tratto da asfaltare. Chissà che avrebbe detto di questo concetto tutto contemporaneo di pagare per lavorare. Lui con quelle mani grosse come 1Q84 di Murakami, sempre chiaro in testa chi sfrutta e chi prova a non farsi sfruttare, il padrone mai chiamato con altro nome. Che la busta paga non si prende ringraziando. Eh già, nonno.

Ma qui ti fanno le pacche sulle spalle, mica bruscolini. L’ego ribolle. Partecipi alla “grande vetrina italiana del teatro off”, occasione unica, hai pure una pagina web e puoi gestire la tua comunicazione/promozione (anzi, sei calorosamente invitato a farlo). Chissà cosa avrebbe detto mio nonno. Probabilmente si sarebbe versato ancora un po’ di dado liquido nella minestra, indeciso se cercare di capire o di farmi capire. Dietro gli occhi, una manciata di parole, chiare e leggibili come il murales sotto casa mia: “Ma trovati un lavoro, cazzo…” (cit. Fabri Fibra).

Howool Baek a Milano – il videoreport

howool-baekRENZO FRANCABANDERA | E’ stato il palcoscenico del sempre vivo PIMOFF di Via Selvanesco sotto la direzione artistica di Barbara Toma ad ospitare la prima volta a Milano della coreografa coreana Howool Baek. Ospite l’anno scorso a Bassano con il suo assolo NOTHING for body, la giovane ma già matura artista ha presentato al pubblico del PimOff anche un duetto FADE, sul tema delle relazioni di coppia, fra spazi, sovrapposizioni, oppressioni e fughe.
L’assolo NOTHING for body è invece un originale progetto coreografico, accompagnato dal musicista Matthias Erian, che si sviluppa attraverso il corpo dell’artista, amplificando la portata e il significato possibile di ogni gesto, quasi a cercare l’espressione degli occhi nelle mani, o nelle piante dei piedi, sfruttando il ritmo, la vitalità e la forza dell’inspiegato.
Abbiamo incontrato e intervistato Howool Baek e vi proponiamo lo scambio vivo, le immagini dei suoi lavori, il suo sorriso e la sua forza di reclamare l’importanza e la necessità per l’arte di non dire mai in modo esplicito. Una lezione da tenere sempre viva.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=AoNlZ_U3LqU]

Eva Kant: 50 anni da complice della rivoluzione femminile

 solo evaALESSANDRO GUALANDRIS | Proviamo per un attimo a tornare con la mente all’Italia degli anni ‘60. Immergiamoci in un paese in forte crescita economica ma con la cultura ancora radicata in un’estetica classicista come quella per vent’anni enfatizzata dal fascismo e caratterizzata da una società molto conservatrice. Pensate, per esempio, di vedere nei cinema “La Dolce Vita” di Fellini e il giorno dopo, sull’Osservatore Romano, leggere richieste di censura che auspicavano addirittura l’intervento della magistratura (pazienza se poi, nello stesso anno, la pellicola vinse a Cannes la palma d’oro. Vive la France!).  La donna è ancora lontana da un’emancipazione radicale e potente. I personaggi femminili di spicco nel cinema e in tv, sono ragazze dalle forme abbondanti, dipendenti dalle figure maschili di riferimento: che sia un conduttore cui fare da valletta “stupida” o l’(anti)eroe di turno, schivo, a volte quasi grezzo ma affascinante, cui affidarsi per essere salvata, poco conta: di fondo l’animo femminile è ancora soffocato.

In questo clima, due sorelle, Angela e Luciana Giussani, compiono una vera e propria impresa decidendo di dare vita ad un sogno. Angela, dotata di un grande ingegno imprenditoriale, ma anche di coraggio e fantasia, fonda la piccola casa editrice Astorina, con la quale pubblica (e pubblicherà sempre) Diabolik. Affiancata dalla sorella Luciana, più timida ma non meno geniale, danno vita a quello che non sarà un semplice fumetto, ma la storia di un paese. E solo dalla mente di due donne così diverse dal loro tempo poteva nascere il personaggio di Eva Kant.

Durante la splendida chiacchierata-presentazione in onore della mostra dedicata ai cinquanta anni di Eva Kant, tenutasi a Cartoomics 2013 (vi abbiamo accennato qualcosa qui), in compagnia di due grandi sceneggiatori della serie, Mario Gomboli e Tito Faraci, ai quali si sono uniti gli storici disegnatori Giorgio Montorio e Enzo Facciolo, abbiamo viaggiato nella storia italiana, nella sua società, attraverso le tavole di un fumetto. In questa panoramica, risalta l’evoluzione data attraverso la figura di Eva Kant alla posizione della donna dal 1963 in poi. Fin dal suo esordio nel terzo numero, L’arresto di Diabolik, dimostra di non essere la solita bellezza superficiale da salvare e sovverte questa dinamica evitando lei la forca allo spietato criminale.

Ora sembra difficile comprendere tale impatto nel mondo artistico e sociale, ma in un periodo in cui un giudice poteva ritirare un numero di Diabolik solo perché si vedevano lui ed Eva dirigersi, mano nella mano, verso un letto senza essere sposati, era facile percepirne il senso di disagio. Inoltre la bella ladra, sconvolgeva anche i canoni di bellezza dell’epoca: longilinea, atletica e senza prorompenti curve da mostrare. Come ricordava Gomboli “Mina in quel periodo girava con un cesto di frutta in testa, Eva Kant si presentò fin da subito con uno chignon semplice che poi sarebbe stato la moda degli anni successivi, fino ad oggi. E’ il personaggio più originale della serie. Diabolik trova le sue origini nella letteratura francese, come ad esempio Arsenio Lupin, mentre Eva era totalmente nuL'arresto di Diabolik (marzo 1963)ova”.

Da quel momento, dal suo arrivo nella vita del glaciale ladro, che per molti collezionisti coincide con il vero inizio di Diabolik, Eva Kant e il suo amante rappresentano per volontà di popolo la coppia italiana. “Sono stati probabilmente – continua Gomboli – la prima coppia di fatto italiana”. Perché se l’attrattiva principale erano le scorribande dei protagonisti e le battaglie con l’acerrimo nemico Ginko, “(…) i lettori – ci spiega Faraci – apprezzarono molto le scene che di solito non ci sono in altri fumetti del genere: Diabolik ed Eva che compiono azioni quotidiane, come guardare la tv in salotto e scambiarsi battute in cucina. Raccontare Diabolik ed Eva voleva dire raccontare una coppia italiana”.

Si spiega così tutta l’attenzione mediatica che negli anni ha esercitato la creatura delle sorelle Giussani. Nonostante la sua natura da fuorilegge, è stata spesso richiesta per campagne sociali e di carattere umanitario. Fino ad attirare anche grandi case commerciali che l’hanno inserita in numerosi spot, in molti dei quali rappresentava la vera forza della coppia: la donna (completamente emancipata e indipendente) che aiuta Diabolik, bloccato da una foratura della mitica Jaguar E. Ecco perchè il pubblico la considerava vera. Ci si poteva identificare.

Angela e Luciana Giussani hanno creato uno dei capolavori della storia del fumetto mondiale ed Eva Kant è sicuramente il loro lascito più importante, per il valore sociale che ha rappresentato. Se l’arte ha spesso il compito di narrarci la storia del tempo cui appartiene, sicuramente la complice per la vita di Diabolik identifica la storia di una difficile conquista raggiunta dalla donna in Italia. Di certo più lenta di come un personaggio innovativo e controtendenza come lei avrebbe accettato.

Vi lasciamo con un video realizzato alla mostra “Eva Kant: 50 anni da complice”, di cui vi abbiamo parlato, che attraversa tutte le fasi storiche della prima splendida metà di secolo di Eva, accompagnata dolcemente da un lento jazz.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=0F9IUomHdlo]

Fracassi e perversioni: amore bestiale con padrone

blondi fracassi 1RENZO FRANCABANDERA | La prima perversione deve essere stata non cedere alle perversioni. E questo sia per Sgorbani, che firma la drammaturgia, sia per il duo Martinelli-Fracassi che in questo progetto di racconti di amore e dittatura si sono tuffati da alcuni mesi.
In realtà l’idea di Blondi era in gestazione da circa tre anni e trova realizzazione nel 2013 grazie alla scommessa del Piccolo Teatro. Questa perversione è riuscita. Di quello che è stato forse il punto di partenza, l’amore nella sottomissione animale, nell’esito spettacolare non resta che qualche pallida traccia tanto nel testo quanto nell’azione scenica. Il fulcro è altrove.

La seconda è per così dire ambientale. La perversione è tipicamente un atto immaginabile in un luogo chiuso. Qui invece siamo di fronte ad uno spazio importante, ad una perversione esibita. Il Teatro Studio nella nuova conformazione senza platea frontale e senza palco rialzato ha una parte appena entrati dove si sistema l’emiciclo degli spettatori, e tutto il resto dello spazio agibile che si prolunga fino alla parete di fondo per circa trenta metri. Lo spazio dell’emiciclo è vuoto, quello sul fondo, all’ingresso, riempito con una ventina di brande che diventeranno poi elemento scenico determinante. Sensazione di chiesa gotica sconsacrata, dove fra le brande in metallo da nosocomio si aggira questa cagna dal sembiante identico a quello del padrone. Felice l’intuizione scenica di Renzo Martinelli cui va dato merito per l’idea.

E qui siamo alla terza perversione: il letto. La cama. Il giaciglio. Qui inquietante. Malato. Ospedaliero. Ma camuffato attraverso strisce di plastica attaccate alla spalliera, e pronto a diventare prato finto, spazio aperto per le scorribande del cane dittatoriale. Con due schiavetti in divisa pronti a registrarne ogni minimo guaito.

Quarta perversione: dittatore e schiavo. Master and slave. Attenzione, declinare l’ovvio dell’idea è la parte pericolosa di ogni spettacolo. Qui andava costruita un’identità psicologica per l’animale diversa da quella, già portata all’attenzione del pubblico, di Eva Braun, protagonista di un altro capitolo del polittico “Innamorate dello spavento”. La drammaturgia si gioca principalmente sul conflitto fra la cagna e la donna, dove l’una finisce per diventare l’altra in un rovesciamento di parti che ha connotati umani, fra gelosie, psicodrammi e risate a denti in fuori del padrone. La cagna posseduta; la Braun che, per il piacere del capo, gli urina addosso, di fatto sottomettendolo, e che fa da contrappunto al sacrificio dell’animale; piacere mortifero ultimo del padrone nell’avvelenare la bestia, come Pasolini in Salò: la masturbazione di fronte al mondo che muore per propria mano. Queste immagini scorrono in rapida sequenza nel racconto.

Quinto: non uccidere! Fantastica, nella parabola psicologica dell’animale, dopo aver posseduto (perchè animale del capo) ed essere stata posseduta, è l’esperienza della maternità. Questa parte è, per corposità di conflitto con la distruzione circostante, un momento figurativo altissimo. In questo punto la Fracassi arriva al massimo della densità interpretativa. Dona a questo sogno di batuffoli lanuginosi una corporeità, un’ intensità, che ovviamente porta lo spettatore allo schianto con di lì a seguire scena di morte. Non la gravidanza, ma la cura della vita: questi in quaranta secondi che valgono lo spettacolo. Mentre fuori, nel gelido freddo, una locomotiva percorre binari ricoperti da una neve di plastica e cadono le trincee (in questo Martinelli, onestamente,  dimostra di aver vinto la sfida in generale).

Sesta perversione: ascesa e declino dello città di Mahagonny. Assistiamo al percorso sui due rami della parabola. Sul tema risulta fondamentale il lavoro sulle luci di Claudio De Pace e di Fabio Cinicola al suono. Sono loro a segnare il punto di flesso, il momento in cui la curva si inverte. Il passaggio da un mondo e un sistema di emozioni, l’ascesa, all’altro, il declino. Per la cronaca questo ruolo è fondamentale perchè proprio prima di quel flesso, la drammaturgia cede, si fa insistita e ripetitiva (e la regia un po’ asseconda). E un momento in cui non arriva tutta a segno e i giochi ambientali salvano il ritmo. Annotiamo, per le luci, la parte più scontata dell’epifania dei bombardamenti. Didascalica.

Settima: raccontiamo cosa abbiamo visto. Mettiamo fine alla perversione dell’attesa. La vicenda è quella del cane di Hitler, Blondi. Zelighianamente innamorata del padrone. In scena appare con due militari (Lorenzo Demaria e Daniele Molino) deputati in pratica a soddisfarne i bisogni e a registrarne voci e sussulti. In un continuo conflitto amoroso con Eva Braun, la cagna vive ascesa e declino della dittatura, fino a morire di cianuro nel freddo baratro della fine, dopo essere stata costretta a procreare sotto gli occhi della rivale.

blondi fracassi 2Ottavo peccato: la parola. La drammaturgia è vincente in più punti, e nei punti di debolezza è sorretta dalla solita grande Federica Fracassi, che colora di umanità il bestiale, la cui unica vera incorporazione non è nella camminata a quattro zampe ma nell’impossibilità del pollice opponibile, con le mani fasciate a contenere il dito degli uomini. Il testo a volte si dilunga, sgorbaneggia, che per chi conosce l’autore siamo sicuri sia un verbo con una sua coloritura specifica. Per chi non lo conosce, invece, Blondi è comunque un’opportunità di confronto con un ossessivo creativo della parola psicologica, che resta al di qua de limitare con il poetico, riteniamo per volontà. A volte se ne vorrebbe ancora, a volte non più.

Nona perversione: la fantasia. La scena più bella quella in cui un treno sfreccia in sala, e quella in cui si vede una svastica rotante girare in fondo alla sala illuminata da dietro durante una farsesca esibizione di forza di un regime allo sbando, o quella in cui una cagna allatta cuccioli che guaiscono, o ulula al freddo siderale della notte tedesca, e le trincee di una guerra che fa prigioniera sempre l’umanità inconsapevole. Ma forse questo in sala non c’era o ce lo ha fatto vedere Martinelli. Blondi è una delle sue migliori regie degli ultimi anni: meglio le partite secche fuori casa da 90 minuti che quelle da 180′ (andata – ritorno e supplementari) fra le mura amiche.

Decimo peccato: il sassolino. Insomma diciamocelo: Teatro i è andato a vincere al Piccolo-Maracanà… giocando all’italiana, tenaci, ma in più tratti dando anche spettacolo vero. E zac!